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Gaetano Filangieri e la ricerca della felicità di Zenone di Elea [Aprile 2022]

Vita ed opere di Gaetano Filangieri: Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

LA SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE

DI

GAETANO FILANGIERI

PRECEDUTA DA UN DISCORSO

DI PASQUALE VILLARI

VOLUME TERZO

FIRENZE
SUCCESSORI LE MONNIER
1876


Parte Prima — Delle leggi che riguardano l'educazione Capo I
Introduzione

II
De' vantaggi e della necessità di una pubblica educazione
III
Dell'università di questa pubblica educazione

IV
Della possibilità di questa intrapresa
V
Ripartizione del popolo
VI
Differenze generali tra l'educazione delle due classi principali...
VII
Vedute generali sull'educazione della prima classe
VIII
Stabilimenti relativi all'ammissione e ripartizione de' fanciulli
IX
Generali regolamenti sulla educazione fisica della prima classe
X
Generali regolamenti sull'educazione morale della prima classe
XI
Generali regolamenti sull'educazione scientifica di questa prima classe
XII
Particolari istruzioni per gli allievi delle varie classi secondarie
Capo XIII
Della ripartizione delle ore 
XIV
Durata dell'educazione di questa prima classe
XV
Delle solennità che accompagnar dovrebbero...
XVI
Mezzi da supplire alle spese che richiede questo piano di popolare...
XVII
Dell'educazione della seconda classe E prima d'ogni altro de'...
XVIII
Della creazione e ripartizione de' Collegi per gli allievi...
XIX
Del luogo da preferirsi per la fondazione di questi Collegi
XX
Della magistratura d'educazione per questa seconda classe
XXI
Dell'ammissione de' fanciulli di questa seconda classe
XXII
Generali regolamenti suU'educazione fisica della seconda classe
XXIII
Generali regolamenti sull'educazione morale della seconda classe
XXIV
Generali principii co' quali regolar si deve...
XXV
Sistema d'educazione scientifica pel Collegio de' magistrati e de' guerrieri
XXVI
Del Collegio di Marina


XXVII
Del Collegio de' Negozianti
XXVIII
Del Collegio de'Medici
XXIX
Del Collegio de' Chirurghi
XXX
Del Collegio de' Farmaceuti
XXXI
De' Collegi delle Belle Arti

XXXII
Del Collegio de' Sacerdoti

XXXIII
Della pubblica emancipazione degli allievi di questa seconda
XXXIV
Appendice al proposto Piano di pubblica educazione
Parte Seconda
 Delle leggi che riguardano i costumi XXXV - Scopo di questa
XXXVI
Della possibilità di giungere all'indicato scopo
XXXVII
Oella passione unica originaria dell'uomo e degli effetti...
XXXVIII
Delle circostanze fisiche, morali e politiche che concorrono a formare...
XXXIX
Del nesso delle antecedenti idee, e dell'esame...
XL
Come dalle passioni dominanti de' popoli proceda...
XLI
Proseguimento dell'istesso soggetto — Delle passioni conducenti
XLII
Dell'amor della patria e della sua necessaria dipendenza dalla...
XLIII
Appendice all'antecedente Capo — Su gli effetti della...

XLIV
De' mezzi che la legislazione deve impiegare...
XLV
Proseguimento dell'istesso soggetto
XLVI
Obbiezioni
XLVII
Delle vere cause, per le quali le ricchezze sono divenute...
XLVIIl
Dell'assenza di queste cause in un popolo, nel quale il sistema...
Parte Terza
Delle leggi che riguardano l'educazione
Capo XLIX Dell'influenza...
L
De' soccorsi che l'istruzione pubblica verrebbe a ricevere...
LI
De' soccorsi che l'istruzione pubblica dovrebbe ricevere...
LII
Delle Accademie scientifiche
Capo LIII
Della libertà della Stampa
LIV
Dei premli scientifici
LV
Delle Belle Arti
LVI
Della sorte e degli effetti della pubblica istruzione in un popolo...
Delle leggi che rigaardauo la Religione
 I - VII
Vedute generali su' mali che il legislatore dee nella religione evitare Del Politeismo
Caratteri della nuova religione che si dovrebbe all'antica sostituireNote giustificative de' fattiParere presentato al Re sulla proposizione di un affitto sessennale del Tavoliere di PugliaEstratto dell'opera di G Playfair diretto al marchese D. T.NOTE

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LIBRO QUA RTO - PARTE PRIMA

DELLE LEGGI CHE RIGUARDANO L’EDUCAZIONE

CAPO I

Introduzione

In ignoto spazio percorre un viaggiatore ardito. Boschi orribili, maremme perigliose, antri spaventevoli, cespugli impenetrabili, strade anguste, tra loro intrigate e senza tracce, si offrono in ogni passo a' suoi sguardi intimoriti. L'astro istesso del giorno, oscurato da dense nebbie, rare volte somministra un’incerta e momentanea guida, che diviene anche inutile per gli ostacoli del suolo. A misura che s’innoltra, si moltiplicano gli ostacoli, il dubbio dell’inaccessibilità si fortifica, e s’indebolisce la speranza di sormontarli. Un silenzio spaventevole non viene interrotto che da' sibili de' serpenti, da' ruggiti delle fiere e dall’inutili grida dell’atterrito peregrino. Pochi scheletri sparsi nel vasto spazio sono le sole vestigia umane che incontra nel lungo cammino, e sono i tristi monumenti della sorte di coloro che l’han preceduto. La Natura, vaga e ridente altrove, pare che abbia in quello spazio impiegate tutte le sue forze per mostrare i suoi prodigi nella sua istessa deformità. L’eccesso dello spavento raddoppia le forze del viaggiatore, e la sua costanza viene finalmente premiata. Un nuovo cielo, una nuova terra si presenta tutto ad un tratto a' suoi occhi. Un vasto piano sparso di piante e di fiori, irrigato da placidi fiumi e diviso da strade amene e frequentate, forma il contrasto più delizioso tra lo spazio percorso e quello ch'egli deve percorrere. L’ultimo passo è già dato, il peregrino è già su i limiti del nuovo suolo, e nel mentre che il suo corpo cerca in un breve riposo il ristoro delle sue forze, il suo cuore penetrato da' teneri sentimenti della riconoscenza, benedice la tutelare Divinità che l’ha protetto nel periglioso cammino.

Ecco i due opposti stati, ne' quali si è ritrovato e si ritrova il mio spirito. Scrivendo il libro delle criminali leggi, io non ho avuto che orrori innanzi agli occhi, che ostacoli da superare creduti finora insuperabili, ch’errori da contrastare, pregiudizi da urtare, interessi privati da ledere, mostri antichi e fiere spaventevoli da combattere. L’esperienza, quest'astro della ragione, invece di guidarmi, non faceva che aumentare la mia incertezza, mostrandomi l'imperfezione delle antiche e moderne legislazioni, e l’inutilità degli sforzi che si son fatti in tutt'i tempi per correggere e perfezionare questa parte, la più antica e la più viziosa de' civili codici. Se consigliava gli antichi scrittori, in compenso d’un picciolo numero di verità, rare volte applicabili allo stato presente delle cose, io trovava un immenso numero di errori. Se consigliava i moderni, io trovava un minor numero di errori, ma anche un più picciolo numero di verità; e negli uni e negli altri l’impossibilità riconosciuta di perfezionare questa parte della legislazione.

La Giurisprudenza romana, composta da' vari frammenti delle leggi d'un Regno eroico, di una Repubblica aristocratica, di una Democrazia mista e di un dispotismo ora simulato, ora feroce, ora dolce, cd ora superstizioso e fanatico, m’immergeva in un laberinto, nel quale in ogni passo io vedeva il rischio di perdermi. La giurisprudenza posteriore e quella particolarmente de' nostri tempi, qual altro caos presentava a' miei occhi, quanti altri ostacoli opponeva essa alla scoverta dell’ignorata verità l'II solo impegno d’osservare ciò che si era pensato, scritto e stabilito ne' vari tempi, nei diversi stati della società e ne' governi diversi, non avrebbe dovuto forse bastare a scoraggiarmi da un’intrapresa, nella quale gl’istessi soccorsi divenivano ostacoli e le guide che mi si offerivano non servivano ad altro che a facilitare il mio smarrimento?

Se a' dubbi dell’intelletto noi uniamo quelli del cuore, che s’immagini quale doveva essere il mio stato nel vedermi sempre in mezzo a due estremi ugualmente perniciosi, I pericoli dell'innocenza, ed I mali dell'impunità. Costretto a serbare quella linea ch'è ugualmente lontana da questi due estremi, qual timore doveva accompagnare ogni mio passo, quante misure da prendere prima di darlo!

L’interesse personale istesso non doveva forse unirsi alla congiura di tutti questi ostacoli? La sorte di tanti infelici che hanno avuto il coraggio di combattere le classi più potenti della società, e gl'interessi de' corpi, non doveva forse annunciarmi i rischi, a' quali io mi esponeva imitandoli?

Finalmente il bisogno di osservar sempre gli uomini dall’aspetto del delitto e della malvagità, non doveva forse accrescere il mio scoraggiamento coll’esagerarmi di continuo la trista e perniciosa idea dell’inutilità degli sforzi per migliorarli.

Ecco la fedele dipintura dello stato, nel quale si è ritrovato il mio spirito, durante il tempo che mi sono occupato delle criminali leggi. Qual differenza con quello, nel quale oggi si ritrova!

Una serie d’idee consolanti e piacevoli si presentano alla mia ragione. Il loro oggetto non è di punire il delitto e di atterrire il malvagio, ma di premiare la virtù e d’incoraggiare l'eroe.

La prima parte di questo libro mi obbliga ad osservar l’uomo in quell’età, nella quale non ha ancora avuto il tempo di corrompersi.

La seconda mi obbliga ad osservarlo in quell’età, nella quale, preparato dall’educazione ed abbandonato all'immediata dipendenza delle leggi, dev’esser condotto alla virtù per la strada istessa delle passioni. La terza finalmente mi obbliga ad osservar l’uomo in quello stato d’istruzione ch'è necessario per conoscere i suoi veri interessi, per distinguere i vantaggi reali dagli apparenti, per esser libero da quegli errori che ci fan prendere i prestigi della virtù per la virtù vera, i prestigi del male pel vero male, e i prestigi della felicità per la felicità reale.

L’esperienza, molto lontano dall’indebolire le mie speranze, non fa che renderle più vive cogli esempi che mi offre in tutte l'epoche de' tempi, e presso le varie società. Essa è quella che mi fa vedere in Sparta il candidato, (1)ch’escluso dal consiglio de' Trecento gode che nella sua patria si sian trovati trecento uomini più degni di lui; il fanciullo che spira sotto i colpi di probazione che riceve sull'ara di Diana, senza dare il minimo segno di risentimento o di dolore; (2)l’Efebo che nelle giovanili pugne, dalla legge prescritte, muore piuttosto che dichiararsi vinto; (3) La vedova che ringrazia i Numi che il suo sposo sia morto difendendo la patria; e le madri di coloro che perirono nella battaglia di Leuctre, congratularsi a vicenda, nel mentre che le altre vedevano piangendo il ritorno de' loro figli vivi, ma vinti. (4)

Passando dall’educazione a' costumi, l’esperienza è quella che mi fa vedere in Roma i costumi riparare e supplire per tanto tempo a' vizi ed a' difetti delle leggi, della costituzione e del culto istesso. Essa è quella che mi mostra l'eccesso della patria potestà da una parte, e la moderazione, colla quale se ne faceva uso, dall'altra; la libertà del divorzio, e la perpetuità de' Coniugi per più secoli; tanta crudeltà nelle leggi penali, e tanto rispetto per la vita de' cittadini; tanti disordini, e sì poche rivoluzioni, tanti principii d’oppressione nel sistema del governo, e tanti istrumenti di libertà nelle virtù degl’individui; tanta ambizione nel Senato, e tanta moderazione nei Senatori; tanto odio nella plebe, e tanta dolcezza ne' suoi risentimenti; tanto orrore per la Monarchia, e tanta confidenza nella virtù dell’onnipotente Dittatore. L’esperienza è quella che mi mostra il trionfo de' costumi sulla superstizione istessa. Essa è quella che mi fa vedere in mezzo agli Dei abbominevoli della pagana Mitologia, tra gli altari del delitto e delle passioni, il vizio disceso invano dal soggiorno eterno e vigorosamente respinto da' costumi. Essa è quella che mi fa vedere applaudita la virtù di Lucrezia, nel mentre che si celebravano le dissolutezze di Giove, l'impudica Venere adorata dalla casta Vestale; l’intrepido Romano sacrificare alla Paura ed invocare il Dio che aveva mutilato il padre, nel mentre che moriva senza risentirsi sotto i colpi del suo; in poche parole, la santa voce de' costumi, più forte di quella degli Dei, conservare la virtù sulla terra, nel mentre che pareva che relegasse ne' cieli il delitto coi delinquenti.

L’esperienza istessa, al contrario, è quella che mi mostra l'impotenza delle leggi senza i costumi. (5)Essa è quella che mi fa vedere, come in una società corrotta i rimedii, che si oppongono alla corruzione del popolo, divengono essi medesimi una sorgente di corruzione. Essa è quella che mi fa vedere, come la Censura, destinata a conservare i costumi, diviene in un paese corrotto un’inquisizione detestabile, un flagello spaventevole, un istrumento delle oppressioni, delle vendette, degli attentati di coloro che apertamente attaccano la sicurezza de' cittadini; come, invece di reprimere la depravazione de' costumi, essa la sostiene e la fomenta, ponendo ignominiosi tributi sulla corruzione pubblica, sulla prostituzione, su i delitti istessi; come invece di reprimere la bassezza e la viltà, essa riempie la città di delatori e di spie, d’anime vili e di mercenari infami che proteggono il vizio che li paga, e perseguitano la virtù che li disprezza. Essa è quella che mi fa vedere, come la religione istessa la più santa diviene in un paese corrotto una sorgente feconda di mali e di delitti. Essa è quella che mi fa vedere il tempio e l’ara del Dio della giustizia divenire il mercato, dové l'empio va a comprare l'espiazione delle sue colpe colle offerte di una porzione delle sostanze che ha rapite al pupillo ed alla vedova, e sostituire con questo mezzo la tranquillità dell’innocenza a' rimorsi del delitto.

Passando finalmente da' costumi all’istruzione pubblica, l’esperienza è quella che mi fa vedere nelle moderne società europee l’istruzione e i lumi diminuire i tristi effetti della corruzione, ed innalzare il solo argine che oggi si oppone ai progressi del dispotismo e della tirannide.

Che ne sarebbe di noi, se in mezzo alla depravazione dei nostri costumi, a' vizi della nostra educazione, ed all’imperfezione delle nostre leggi; se in mezzo ad un milione e quattrocentomila uomini sempre armati e sempre pronti a difendere gli attentati de' padroni dell’Europa, i liberi scritti de' filosofi non inculcassero i luminosi principii della morale, non combattessero il vizio, non facessero arrossire il tiranno? Che ne sarebbe di noi, se l’opinione pubblica, da essi maneggiata e diretta, non covrisse d’infamia il Monarca che ordina una legge ingiusta, il Ministro che la propone, ed il Magistrato che la fa eseguire? Che ne sarebbe di noi, se i colpi arbitrari dell'autorità onnipotente, appena scagliati, non incontrassero mille penne ardite che li manifestano a tutt'i popoli insieme coll’ignominia de' loro autori? Che ne sarebbe di noi, se le virtù de' nostri Principi non trovassero de' panegiristi eloquenti, e i loro vizi degli accusatori arditi? Che ne sarebbe di noi, se nelle nostre Monarchie la voce della libertà non si facesse mai sentire al popolo, e non gli richiamasse la memoria de' suoi preziosi ed inalienabili dritti? Che ne sarebbe finalmente di noi, se i nostri Monarchi istruiti da tanti luminosi scritti non avessero imparato a conoscere che i loro interessi sono combinati con quelli de' loro popoli, che la loro forza dipende dalla pubblica prosperità, e che il loro trono è sempre vacillante, la loro corona sempre precaria, il loro impero sempre debole e sempre esposto, finché non è sostenuto dalla felicità e dall'amore di coloro che debbono difenderlo?

Ecco come l'esperienza de' vari tempi e delle varie società viene in mio soccorso per animare le mie speranze.

La ragione non fa che confermarle. Essa mi dice: se l’educazione in Sparta; se i costumi senza l’educazione in Roma; se nelle moderne Monarchie l’istruzione pubblica senza l’educazione e senza i costumi hanno avuto tanto potere, quale sarebbe il loro vigore, quali sarebbero i loro effetti, quando queste tre forze venissero insieme combinate e dirette da una savia legislazione?

Se il fiero Licurgo col soccorso dell'educazione potè formare un popolo di guerrieri fanatici, insuperabili nella destrezza, nella forza e nel coraggio, per qual motivo un legislatore più umano e più saggio non potrebbe egli formare coll'istesso mezzo un popolo di cittadini guerrieri, virtuosi e ragionevoli?'Se l’educazione in Sparta ha potuto ispirare alle donne istesse una grandezza di animo ed una forza che ci sorprende, per qual motivo non si potrebbe sperare d’inspirar loro coll’istesso mezzo de' sentimenti nobili e generosi, propri a renderle più utili e più preziose alla Patria, più care ai loro sposi, e più rispettabili ai loro figli? Se un’educazione, che combatteva la natura, ebbe tanta forza, perché non dovrebbe averne altrettanto quella che la secondasse e la soccorresse?

Se tra le domestiche discordie e le guerre straniere; se tra i perpetui contrasti dell'ambizione e della libertà, del Patriziato e della plebe, del Senato e de' tribuni; se sotto una costituzione sempre incostante, ed un governo sempre alterato, tra una religione senza morale, ed un culto che poteva corromperla, allignò la virtù tra' Romani; perché non potrebbe essa germogliare nel seno della pace e della tranquillità, in governi già rassodati e stabili, accanto ad una religione che perfeziona la morale e soccorre il magistrato e la legge?

Se la penna del politico, del moralista, dell’istorico e del poeta, perseguitata dal Governo, spiata dal Magistrato, privata di libertà dalla legge, calunniata dal fanatico e dal potente, ha, malgrado tutti questi ostacoli, prodotti i più grandi effetti nelle moderne società dell’Europa, che non dovremmo noi sperarne, quando il Governo l’incoraggiasse, il Magistrato la proteggesse, e la legge, senza privarla di libertà, la facesse concorrere a' suoi disegni?

Se i progressi delle cognizioni e de' lumi ci han data, per così dire, la forza di dominare la natura e di farla servire ai nostri disegni; se la mano potente dell'uomo dirige il fulmine, soggioga i venti, impone leggi alle acque, dà a' vegetabili ed agli animali nuove qualità individue, crea, per così dire, negli uni e negli altri nuove spezie secondarie, forma ed opera nuovi fluidi, e sale e si sostiene e viaggia colle ali dell’arte sugli immensi spazi dell’etere; se il progresso, io dico, delle cognizioni e de' lumi ci ha dato tanto impero sul mondo fisico, per qual motivo non potremmo noi sperare di acquistarne uno sul mondo morale? Quando una saggia legislazione dirigesse il corso dello spirito umano, quando distraendolo dalle vane speculazioni lo richiamasse interamente agli oggetti che interessano la prosperità de' popoli e la sorte degli Stati, quest'acquisto non diverrebbe forse facile, e la perpetuità del benessere di un popolo e della sua virtù non lascerebbe forse d’esser creduta un problema irrisolubile?

Ecco gli oggetti del mio esame in questo libro, ed ecco i motivi che me lo fanno intraprendere con fiducia e coraggio. Io non ho che a rivolgermi allo spazio che ho percorso, per ricrearmi sulla veduta di quello che son per percorrere. L’educazione richiamerà le prime nostre cure. Dev'ella esser pubblica? Può ella esserlo nelle grandi nazioni? Tutte le classi della società potrebbero esserne a parte? Quale dovrebbe essere il suo scopo? Quali i suoi mezzi? Quale sarebbe il piano che potrebbe corrispondere a questo vasto disegno? Vediamolo.


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CAPO II

De’ vantaggi e della necessità di una pubblica educazione

Per formare un uomo, io preferisco la domestica educazione; per formare un popolo, io preferisco la pubblica. L’allievo del magistrato, della legge non sarà mai un Emilio, ma senza l’educazione del magistrato e della legge vi sarà forse un Emilio, vi sarà una città, ma non vi saran cittadini.

Se nelle domestiche mura un’educazione perfetta è un lavoro raro e difficile; se suppone il concorso favorevole della natura, dell’arte e delle circostanze; se un uomo dotato di tutte le virtù, de' più rari talenti, d’un carattere dolce e tollerante, di una indefessa costanza, della più profonda cognizione dell'uomo e dello sviluppo dello spirito umano, in tutti i momenti del giorno unicamente occupato ad osservare e dirigere il suo allievo, senza mostrargli né d’osservarlo, né di dirigerlo; ciò non ostante, per riuscire nella sua educazione, ha bisogno della favorevole disposizione della natura del fanciullo e del moral carattere de' parenti, degli aderenti e dei domestici istessi; se un solo uomo malvagio o stupido che si avvicinasse per un solo momento al fanciullo, potrebbe distruggere il lavoro di più anni; se non ci dovrebbe essere, per così dire, un solo avvenimento nel lungo corso di questa educazione, che non fosse o preparato od opportunamente impiegato per qualche oggetto dal saggio educatore; se i fatti piuttosto che i detti, l’esempio piuttosto che i precetti, l’esperienza e non le regole istituir dovrebbero il fanciullo; se l’arte e la condotta dell'educatore esser dovrebbe così nascosta all’allievo, che questi dovrebbe crederlo il suo compagno, il suo confidente, il suo amico, il suo collaboratore piuttosto che il suo maestro ed il suo ispettore; se la curiosità dovrebbe guidarlo all'istruzione, la libertà al lavoro, ed il piacere all'occupazione; se tutto quello ch'è necessario a conservar l’ordine e ad accelerare il progresso degli allievi nell’educazione pubblica, sarebbe un vizio imperdonabile nell’educazione privata; se l’oriuolo che regolar dee tutte le azioni nella prima, dovrebbe esser proscritto nella seconda; se l’uniformità necessaria nell’una dovrebbe esser diligentemente evitata nell'altra; se l’emulazione che dev'esser adoperata in quella, come istrumento di perfezione, dovrebbe essere in questa evitata come principio di vanità e d’invidia; se in poche parole tutte queste circostanze si richiedono per ottenere una perfetta educazione, e se appena è sperabile d’incontrarle nell’educazione d’un solo, come sarebbe mai possibile di combinarle nella pubblica?

Ma rivolgiamo ora la medaglia, ed osserviamone il rovescio. Che ci sarebbe mai da sperare dall’educazione, se questa fosse interamente abbandonata alle cure private? Quanti pochi sono gl’individui in una società, anche la più numerosa, che sarebbero nelle circostanze di procurare una buona educazione a' loro figli? Tra questi pochi individui, quanto anche più picciolo sarebbe il numero di coloro che unirebbero il potere alla volontà; e tra questi ultimi, quanto anche più infinitamente picciolo sarebbe il numero di coloro che, potendo e volendo, riuscirebbero in questa difficile intrapresa?

L’ignoranza e la miseria nel basso popolo; la perdita dei parenti e l’abbandono dei genitori negli orfani e negli esposti; l’assiduità e l’importanza delle occupazioni in quella classe di cittadini che vive col frutto della sua industria o coll'impiego de' suoi talenti; le dissipazioni de' piaceri ne' ricchi; le distrazioni della vanità e dell’ambizione ne' nobili; l’esercizio delle cariche e de' pubblici impieghi ne' magistrati e nei potenti; i pregiudizi e gli errori quasi universalmente adottati, e che sono diametralmente contrari a' veri principi! dell’educazione; l’effetto istesso dell’amore male inteso e della debolezza così frequente ne' genitori; la cura eccessiva della fisica conservazione de' loro figli, e la timida sollecitudine di soccorrerli, anche quando il bisogno non lo esige, che dà ai fanciulli una certa pusillanimità, ed una certa debolezza d’animo che distrugge il coraggio e la confidenza nelle proprie forze; la poca considerazione e i pochi vantaggi che procurano le noiose e difficili funzioni di educatore, e la singolarità e profondità de' talenti, delle cognizioni, delle virtù e del moral carattere che richiederebbe quest’ufficio; la corruzione finalmente de' costumi che le buone leggi dovrebbero distruggere e riparare, ma che infelicemente si ritrova oggi introdotta in tutte le classi, in tutti gli ordini della società, non ci mostrano forse evidentemente, quanto poco vi sia da sperare, e quanto da temere dall’educazione privata?

Se all’evidenza di queste riflessioni, che ci mostrano l’impotenza dell’educazione privata, noi uniamo quelle che ci fan vedere i vantaggi della pubblica, noi non stenteremo a persuaderci della sua necessità, malgrado l’inevitabili imperfezioni che l’accompagnano.

Cominciando dagli educatori, il loro numero dovendo esser meno esteso, ed il Governo potendo dare a queste cariche tutta quella considerazione che meritano; potendone formare un ordine di magistratura tra le più rispettabili dello Stato; potendo loro offrire delle grandi speranze, non stenterebbe molto a trovare uomini degni di esercitare funzioni così rispettate. Scelti dal Governo e diretti dalla legge, essi sarebbero superiori a tutti que’ pregiudizi, un solo de' quali basterebbe a rovesciare il più perfetto piano di educazione, e diriger potrebbero i figli della patria a seconda dei gran disegni del suo legislatore.

L’educazione essendo quasi interamente fondata sull’imitazione, il legislatore non avrebbe da far altro che ben dirigere i modelli per formare le copie. Queste non sarebbero, è vero, tutte ugualmente simili; molte rimarrebbero inferiori all’originale, alcune forse lo supererebbero; ma la maggior parte avrebbe almeno alcuni tratti di somiglianza, e questi tratti formerebbero appunto il carattere nazionale.

I fanciulli e i giovani, non altrimenti che gli adulti e i vecchi, son regolati dall'opinione. Non è tanto l'evidenza della verità, quanto l’opinione che si ha della persona che la profferisce, che può produrre i più grandi effetti. Che il guerriero illustre, coverto di ferite e circondato dalle corone de' suoi trionfi, predichi il coraggio e le virtù guerriere; che il magistrato invecchiato nella toga e nel foro insegni la giustizia, ed inculchi il rispetto per le leggi; che il cittadino più benemerito della patria inspiri l’amore per la madre comune; quali effetti non produrranno le loro istruzioni, chi potrà dubitare della loro superiorità su quelle di un mercenario pedagogo?

Il più efficace de mezzi, dice un profondo politico dell’antichità, Per conservare le costituzioni de' Governi ferme e stabili, è di educarvi la gioventù a tenore della costituzione. (6) Questo grande oggetto si potrebbe forse ottenere senza una pubblica educazione? Chi più del Sovrano può avere quest’interesse? chi più di lui può averne i mezzi? chi più del legislatore conoscerne l’importanza ed il piano per riuscirvi?

L’uomo nasce nell’ignoranza, ma non negli errori. Questi sono tutti acquisiti. L’infanzia, essendo l’età della curiosità e della imperfezione della ragione, è ordinariamente l’epoca di questo fatale acquisto. Se le orecchie de' fanciulli si rendono inaccessibili all'errore, la verità troverà lo spazio libero e vi penetrerà senza stento. Un’educazione regolata dal magistrato e dalla legge sarebbe la sola che ottener potrebbe questo fine sul popolo, e questa educazione regolata dal magistrato e dalla legge non potrebbe essere che la pubblica.

In qualunque Governo, presso qualunque popolo, l’opinione pubblica è ciò che vi è di più forte nello Stato; la sua influenza, così nel bene, come nel male, è massima, perché è superiore così all’azione, come alla resistenza della pubblica autorità, e per conseguenza è di una somma importanza che venga rettificata, diretta e corretta. Tra' vari mezzi che il legislatore deve impiegare per riuscirvi, quale potrà esser più efficace di quello, del quale si parla?

Una trista esperienza ci ha fatto più volte vedere l’ingresso de' lumi, accompagnato in una nazione da interni torbidi e da sanguinosi contrasti. Gl'inimici del sapere, superficiali e parziali osservatori dell'istoria, si sono serviti di questi fatti, come di tanti altri per calunniarlo. Ma un imparziale e profondo osservatore ne deve attribuire a tutt’altro la causa. Quando una parte della nazione s’illumina, nel mentre che si lascia l’altra languire negli errori, il contrasto delle verità cogli errori ne dee produrre uno tra coloro che sono a parte delle une, e coloro che sono a parte degli altri. In questo contrasto la tranquillità interna vien turbata, il sangue si sparge, l’errore acquista il vigore che gli dà lo spirito di partito, e la verità gli ostacoli che le produce la taccia di sediziosa ed inquieta. Qual preservativo contro questi mali? Bisogna cercare di distruggere gli errori nel volgo, nel mentre che si cerca d’introdurre e di promuovere i lumi nell’altra porzione della società. Ma come riuscirvi senza una pubblica educazione?

Tra la serie delle passioni che agitano il cuore dell’uomo, ve ne sono alcune che hanno un rapporto così stretto colla virtù, che se ne possono dire le madri. Il cuore della gioventù è aperto a tutte le passioni. La prima, che se ne impadronisce, è quella che suole ordinariamente conservare per tutta la vita il suo impero sulle altre. Or la passione dominante è la sola che può produrre i grandi effetti. L’interesse della società sarebbe che le passioni dominanti de' suoi individui fossero soltanto quelle che sono le più efficaci a rendergli utili allo Stato e veri cittadini. Non si può dubitare che dall’educazione dipende in gran parte questa scelta. Nell'educazione pubblica il legislatore potrebbe dunque trovare il mezzo più efficace per rendere più comuni quelle passioni ch'egli crede le più utili e le più conducenti.

A misura che i vincoli che uniscono i cittadini tra loro si moltiplicano, il corpo sociale acquista maggior vigore; e meno esposta è la sua libertà. La tirannia, dice il grand’uomo che poc’anzi ho citato, (7)non può introdursi né conservarsi, che seminando tra i cittadini la divisione, madre della debolezza. Gl'inimici della tirannide avvicinarono sempre gli uomini, e i tiranni li separarono, li divisero. Avviciniamo dunque gli uomini fin dall’infanzia. L’abito di convivere in un’età, nella quale le cause della discordia son poche, deboli e momentanee, fortificherà la sociale unione, ed avvezzerà i cittadini a considerarsi tutti come membri d’un istesso corpo, figli d’un’istessa madre, ed individui di una sola famiglia; la disuguaglianza delle condizioni e delle fortune perderà una gran parte dei suoi tristi effetti; e la voce potente della natura, che intima e ricorda agli uomini la loro uguaglianza, troverà le orecchie de' cittadini disposte e preparate ad ascoltarla. La mesta solitudine così perniciosa ne' fanciulli, perché suole imprimere un certo che di tristo e di feroce ne' loro caratteri, sarà sostituita dall'energia che ispira la società degli uguali. Abituandosi a conoscere il bisogno ch'essi hanno del concorso de' loro simili pei loro giuochi e pei loro piaceri si avvezzeranno anche a mettere la loro parte nella riconoscenza e nelle attenzioni; e queste continue permute de' buoni uffici non lasceranno di produrre nelle loro anime tenere l’amore della società, e la pratica cognizione della reciproca dipendenza del genere umano; essi si avvezzeranno a conoscere la necessità di sottoporre la loro volontà a quella degli altri, ad esser politi ed indulgenti, benefici e grati; ad abborrire l’ostinazione ei trasporti dell’ira, ed a circoscrivere ne' giusti confini il naturale istinto per la libertà.

Questi sono una parte de' motivi che ci debbono indurre a persuaderci de' vantaggi e della necessità della pubblica educazione. Lo sviluppo di questa importante teoria ce ne mostrerà degli altri.


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CAPO III

Dell'università di questa pubblica educazione

Presso gli antichi, dové vi era educazione pubblica, quest’era universale e comune. Minos, (8)Licurgo (9)e Platone, (10)pensarono uniformemente riguardo a quest'oggetto. Bastava non essere né straniero, né peregrino, né servo, per essere escluso dalla domestica educazione, per dover partecipare alla pubblica. I figli del soldato e deh duce, del sacerdote e del magistrato, dell’ultimo cittadino e del capo della nazione, erano ugualmente educati, nudriti e vestiti. Compito appena il sesto anno della vita, la patria chiedeva a' parenti il fanciullo, e questi l’abbandonavano alle cure della madre comune. (11)

Ma questo metodo ammirabile ne' popoli, de' quali si parla, potrebbe mai aver luogo nelle moderne nazioni dell’Europa? Qual differenza tra una Repubblica di poche migliaia di cittadini, ed una Monarchia di più milioni di sudditi; tra le mura di una piccola città, e i confini d’un vasto impero; tra un popolo unicamente occupato nelle armi, (12)ed una nazione contemporaneamente guerriera ed agricola, manifatturiera e commerciante; tra popoli ove la più perfetta uguaglianza de' beni si trovava rare volte alterata, (13)e popoli ove la maggior uguaglianza che si potrebbe sperare ed ottenere dalle buone leggi, sarebbe che non vi fosse l’eccesso dell’opulenza da una parte e l’eccesso della miseria dall’altra! (14)

Queste poche riflessioni basteranno, io spero, per mostrarci la differenza che vi dev'essere tra il sistema dell’educazione pubblica degli antichi, e quello dell’educazione pubblica de' moderni. L’uno e l’altro possono e debbono però rassomigliarsi in un solo articolo, e questo è quello dell'università. Se una sola classe di cittadini venisse esclusa dalla pubblica educazione, il mio piano sarebbe imperfetto e vizioso. Esso non estirperebbe il lievito della corruzione; perderebbe una gran parte de' vantaggi che noi abbiamo attribuiti all'educazione pubblica; lascerebbe nella società una porzione dei suoi individui privi di quei soccorsi che la legge offrirebbe agli altri, per condurli a' suoi disegni; renderebbe la legislazione tutta parziale ed iniqua, perché l’uguaglianza delle pene e de' premi diverrebbe allora un’ingiustizia manifesta.

Io lascio a colui che legge l’esame di queste ragioni, e passo rapidamente a mostrargli, come ne' grandi popoli e nelle moderne nazioni ottener si potrebbe questa necessaria universalità in un sistema di pubblica educazione.


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CAPO IV

Della possibilità di questa intrapresa

Se un vasto edificio si dovesse innalzare, dové tutti i fanciulli dello Stato dovessero esser condotti; dové l’uomo, ch'è destinato a coltivar la terra, ricever dovesse l’istessa educazione di colui che deve un giorno amministrare il Governo; dové i figli dell’artefice e del guerriero, del colono e del magistrato, del plebeo e del patrizio, sotto il medesimo tetto riuniti, l’istessa istituzione dovessero avere; se l’educazione pubblica, io dico, per essere universale esigesse questa uniformità, questo sistema e questi mezzi; chi non conoscerebbe l’impossibilità di questa intrapresa, e la stranezza di colui che sedotto dall'esempio degli antichi, e senza riflettere alla diversità infinita delle circostanze, ardisse di proporla ai moderni legislatori, pe’ moderni popoli dell’Europa?

Ma l’educazione pubblica, per essere universale, non ha bisogno né di questa uniformità, né di questo sistema, né di questi mezzi. Essa richiede che tutti gl'individui della società possano partecipare all’educazione del magistrato e della legge, ma ciascheduno secondo le sue circostanze e la sua destinazione. Essa richiede che il colono sia istituito per esser cittadino e colono, e non per essere magistrato o duce. Essa richiede che l’artigiano possa ricevere nella sua infanzia quell’istituzione che è atta ad allontanarlo dal vizio, a condurlo alla virtù, all’amore della patria, al rispetto delle leggi, ed a facilitargli i progressi nella sua arte; e non già quella che si richiede per dirigere la patria, ed amministrare il Governo. L’educazione pubblica finalmente, per esser universale, richiede che tutte le classi, tutti gli ordini dello Stato vi abbiano parte; ma non richiede che tutti questi ordini, tutte queste classi vi abbiano la parte istessa. In poche parole, essa dev’essere universale, ma non uniforme; pubblica, ma non comune.

Sotto questo aspetto considerata, l’universalità della pubblica educazione, i dubbi contro la possibilità di questa intrapresa nelle grandi nazioni e nei moderni popoli cominciano già a dileguarsi; ed io spero di dissiparli interamente coll’esposizione del piano che ho pensato.

Se l’educazione pubblica, per essere universale, non dev’essere uniforme, vediamo prima d’ogni altro la natura e la condizione delle classi, nelle quali dovrebbe essere, riguardo a quest'oggetto, ripartito il popolo, o le necessarie differenze che richieder dovrebbe la loro rispettiva educazione.


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CAPO V

Ripartizione del popolo

Io divido da principio in due classi il popolo. Nella prima comprendo tutti coloro che servono o potrebbero servire la società colle loro braccia; nella seconda coloro che la servono o potrebbero servirla coi loro talenti. Suddivido quindi ciascheduna di queste due classi principali nelle varie classi secondarie che a ciascheduna di esse appartengono. Senza né numerarle, né tutte indicarle, niuno può ingannarsi nel vedere quali appartengono all'una e quali all’altra.

Niuno, per esempio, s’ingannerà nell’attribuire alla prima, ch'è la più numerosa, le diverse classi secondarie che si compongono da coloro che si destinano all’agricoltura, a' mestieri, alle arti tutte meccaniche, ecc., e d’attribuire alla seconda, ch’è la meno numerosa, quelle secondarie classi che si compongono di coloro che si destinano alfe arti liberali, al commerciò, a servir l’altare, a riparare ai mali fisici dell’uomo, ad istruirlo, a condurre gli eserciti, a guidar le squadre, ad amministrare il Governo, a diffondere i lumi, ecc.

Dalla semplice esposizione di questa ripartizione del popolo si vede chiaramente che, quantunque le varie classi secondarie, nelle quali si suddivide ciascheduna di queste due classi generali, debbano richiedere alcune differenze nelle loro rispettive istituzioni, nulla di meno queste differenze non possono mai essere né così numerose, né così considerabili, come debbono necessariamente esser quelle che riguardano le stesse due classi principali, alle quali esse appartengono. Per procedere, dunque, con quell'ordine che facilita la scoverta della verità a chi scrive, e ne facilita l’intelligenza a chi legge, cominciamo dall'osservare le differenze che debbono passare tra l'educazione delle due classi principali, nelle quali si è ripartito il popolo, e riserbiamoci ad osservare posteriormente quelle che debbono esservi nell'educazione delle rispettive classi secondarie, nelle quali ciascheduna delle due principali si suddivide. (15)


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CAPO VI

Differenze generali ira l’educazione delle due classi principali, nelle quali si è diviso il popolo

La prima di queste differenze dipende dall'immensa distanza che vi è tra il numero degl'individui che compongono La prima di queste due classi, e quello degl’individui che compongono la seconda. Se le case pubbliche di educazione potrebbero appena aver luogo per la seconda classe, come potrebbero mai adoprarsi per la prima? Bisognerebbe fondare delle città per collegi, bisognerebbe opprimere il popolo con tasse esorbitanti, o esaurire per la costruzione sola degli edifici quelle somme che potrebbero assicurare per sempre in un piano più eseguibile le spese dell’educazione stessa. Noi riserberemo dunque le case pubbliche di educazione per la seconda classe, e ricorreremo ad un altro mezzo per la prima. Ecco la prima differenza che procede dal numero. Le altre dipendono dalla destinazione.

L’agricoltore, il fabbro, l’artigiano, ecc., destinati a servir la società colle loro braccia, non han bisogno che d’una facile e breve istruzione, per acquistare quelle cognizioni che son necessarie per regolare la loro civile condotta, e per accelerare i loro progressi nella loro arte, le quali abusivamente dir si possono scientifiche; ma potrebbe dirsi lo stesso degli uomini destinati a servire la società co' loro talenti? Qual differenza tra' l tempo che si richiede per l’istruzione degli uni, e quello che si richiede per l’istruzione degli altri?

Se ne' primi la forza e la robustezza del corpo è assolutamente necessaria per lo loro destinazione, e negli ultimi non è che utile; la parte fisica dell'educazione non dee forse in quelli prevalere tanto sulla parte scientifica, quanto deve in questi la parte scientifica prevalere sulla parte fisica?

Nella parte morale istessa dell'educazione, la diversità della destinazione di queste due classi non dee forse produrre alcune essenziali differenze? Se gli uomini destinati a servire la società co' loro talenti sono ordinariamente disposti a dispregiare coloro che son destinati a servirla colle loro braccia; se la vana alterigia e l’orgoglio insano è ordinariamente il vizio de' primi, come la bassezza e la viltà è ordinariamente il vizio degli ultimi; e se la natura istessa di queste due destinazioni diverse somministra l’adito a questi due opposti vizi, chi non vede che il bisogno di prevenirli dee produrre una gran differenza nella parte morale della respettiva loro educazione? I mezzi che ricordano agli uomini la loro naturale uguaglianza, e che ci annunziano la reciproca dipendenza del genere umano, non dovranno forse essere tanto adoperati nella morale educazione degli uni, quanto dovrebbero essere cogli altri adoperati quelli che, mostrando loro l’originaria dignità della specie, elevar potrebbero gli animi, ed inspirar loro quella nobile fierezza ch'è incompatibile colla depressione e colla viltà?

Queste sono le generali differenze che debbono necessariamente essere tra l’educazione delle due classi principali, nelle quali si è ripartito il popolo. Per poco che si osservino, si vedrà che ciascheduna di queste differenze ne porta seco molte altre, che, senza impegnarci qui ad indicarle, si manifesteranno collo sviluppo istesso di questa importante teoria. Sospendiamo dunque per poco la curiosità di chi legge, e passiamo ad esporre il sistema di educazione, che converrebbe alla prima delle due classi principali, nelle quali si è diviso il popolo. Esaminiamo prima ciò che riguarda la classe intera, e quindi ciò che appartiene alle classi secondarie, nelle quali si suddivide.


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CAPO VII

Vedute generali sull'educazione della prima classe

Proporre la fondazione delle case pubbliche di educazione per gl'individui di questa prima classe, sarebbe lo stesso che rinunziare alla speranza di vedere eseguito questo piano di pubblica educazione. Le spese degli edifici richiederebbero, come si è detto, tesori immensi, assorbirebbero quelle somme che la paterna mano del padre della patria destinar potrebbe all’educazione di questa parte la più numerosa de' suoi figli. Al contrario, se si proponesse di lasciare nelle domestiche mura, e sotto l’immediata' vigilanza de' padri, i fanciulli che appartengono a questa prima classe, che ci sarebbe mai da sperare dal nostro piano di educazione? A che potrebbe questo ridursi? Convocare al più in ciascheduna comunità, in alcune ore del giorno questi fanciulli, per ispirar loro quei principii di morale patriottica, che l’esempio domestico nel rimanente della giornata insegnerebbe loro a conculcare; edificare debolmente con una mano quello che verrebbe subito violentemente distrutto coll’altra; abbandonare la cura di fecondare i semi della virtù alle mani della corruzione; rinunziare interamente alla speranza di dare, col soccorso dell’educazione, alla nazione un carattere, ed al popolo una passione che modificar lo possa, a seconda de' gran disegni del suo legislatore: ecco ciò che si otterrebbe da questo ridicolo e puerile piano di popolare educazione. Per ovviare a questi due opposti mali, il primo de' quali renderebbe ineseguibile l’intrapresa dell’educazione pubblica di questa prima classe, e l’ultimo la renderebbe inutile, io propongo il mezzo che ho pensato.

In ciascheduna comunità il Magistrato supremo, incaricato della pubblica educazione della provincia, alla quale quella comunità appartiene, sceglier dovrebbe tra i più probi cittadini di quella comunità un numero di custodi proporzionato alla sua popolazione Questa popolare magistratura dovrebbe esser ornata di tutte quelle distinzioni, e di quegli emolumenti che potrebbero renderla non solo desiderabile, ma convertirla in un istrumento di premio, per la probità e le virtù degl'individui della classe, della quale si parla. La legge che può con piccoli mezzi ottenere i più grandi effetti, accompagnar dovrebbe questa scelta colle cerimonie le più imponenti, atte ad aumentare l’importanza della carica, ed a richiamarle quel rispetto che richiede.

A ciascheduno di questi custodi dovrebbe essere affidato un dato numero di fanciulli, e questo numero non dovrebbe oltrepassare quello di 15. Cura di ciaschedun custode esser dovrebbe di vegliare su’ fanciulli a lui affidati, e di dirigerli, nudrirli e vestirli, a seconda delle istruzioni che gli verrebbero comunicate. Siccome una delle parli essenziali di questa direzione sarebbe, come da qui a poco si osserverà, d’iniziare e di istruire i fanciulli a lui affidali nel mestiere, al quale verrebbero destinati; così questi dovrebbero essere scelti dalle varie professioni che sono stabilite, o che converrebbe stabilire nella comunità, e da quella che occupa, od occupar deve in quel distretto, il maggior numero de' suoi individui, sceglier si dovrebbe il maggior numero di custodi. Questi custodi dovrebbero essere istruiti sui loro doveri, ed osservali per la religiosa osservanza di essi dal magistrato incaricato dell’educazione di quella comunità, sotto l’immediata dipendenza del Magistrato supremo d’educazione della provincia, alla quale quella comunità appartiene.

Il Collegio dunque della magistratura di educazione, per questa prima classe, esser dovrebbe composto dai magistrati supremi delle provincie, dai magistrati inferiori delle comunità e dai custodi. (16)

Il piano di educazione, che noi esporremo, ci annuncierà le rispettive funzioni e i particolari doveri e le prerogative di ciascheduna di queste magistrature. Questo piano di educazione dovrebbe essere stabilito dalla legge. Niuno degli esecutori dovrebbe avere il dritto di alterarlo. Noi lo divideremo in tre parti. La prima riguarderà la parte fisica, la seconda la parte morale, la terza la parte istruttiva o scientifica. Prima di esporlo, io prego colui che legge di ricordarsi di ciò che si è premesso. L’educazione pubblica non può mai, riguardo all’individuo, esser così perfetta come potrebbe essere un’educazione privala. Ma se questa può formare appena 'qualche individuo, quella sola può istituire un popolo. Costretti dunque a rinunziare in questo piano di pubblica educazione all'idea d’una perfezione assoluta, impegnamoci a corrispondere a quella d’una perfezione relativa; e se non ci è permesso di formare con questo mezzo l’uomo, cerchiamo, se ci riesce, di formare il cittadino. Ricordiamoci che nelle mura di Sparta, così celebrata per la sua educazione, non vi era forse un sol uomo; ma non vi era forse un solo Spartano che non fosse cittadino. Eroe nella concione, nel foro e nel campo, egli era un tiranno all’aspetto dell'Ilota. Egli era nel tempo istesso un prodigio nella città, ed un mostro nella natura. (17) Senza permetterci l’istesso eccesso nel male, potremo noi conseguire l’istessa perfezione nel bene? Vediamolo.

Per procedere con quell’ordine che conviene, cominciamo dall’esaminare, come la legge regolar dovrebbe l’ammissione e la ripartizione de' fanciulli, per le varie classi secondarie, nelle quali questa prima classe è suddivisa, e preveniamo con questo mezzo alcune obbiezioni che ci si potrebbero fare.


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CAPO V III

Stabilimenti relativi all'ammissione e ripartizione de' fanciulli di questa prima classe

Se la perpetuità delle classi e l’ereditaria successione delle professioni deturpano agli occhi del savio la troppo venerata legislazione degli Egiziani antichi; (18) Se gl’istorici più imparziali ed i viaggiatori più degni di fede ci assicurano delle triste conseguenze che produce quest'istessa istituzione presso alcuni popoli dell'India, ove la divisione e la perpetuità delle Caste si trova da immemorabile tempo introdotta e religiosamente conservata; (19)Se la ragione sola, senza il soccorso dell’esperienza, basterebbe a mostrarci, come con questo metodo i sociali vincoli s’indeboliscono, la società si divide in tante società separate d’interessi e di mire, i talenti si perdono, la virtù vien privata dell’energia della speranza, e la necessaria imita sociale si divide e si distrugge; se queste sono, io dico, le funeste conseguenze di questo assurdo sistema, noi ci guarderemmo bene dal favorire una divisione così perniciosa col nostro piano di pubblica educazione.

Per allontanarci quanto più si può da questo male, noi regoleremo nel seguente modo l’ammissione e la ripartizione de' fanciulli di questa prima classe.

In ciascheduna comunità ciaschedun padre di famiglia avrà il dritto di presentare al magistrato, incaricato della pubblica educazione di quella comunità, il suo figlio, subito che avrà terminato il quinto anno della sua età. Siccome tutte le spese pel mantenimento e per l'educazione de' fanciulli di questa prima classe anderanno a conto del Governo, non ci vuol molto a vedere che il numero de' padri che rinunzieranno a questo vantaggio sarà molto ristretto. La sicurezza di avere un figlio educato ed istruito, ed il vantaggio di non dover pensare alla sua sussistenza, sono due sproni bastantemente forti per togliere dalle domestiche mura, ed invitare alla educazione del magistrato e della legge tutt'i fanciulli di questa classe, senza costringere la paterna libertà. Inimica della violenza, la legge dee sempre che può invitare gli uomini a concorrere a' suoi disegni e non forzarli. Il suo impero è sempre più forte e più augusto, quando l’esercita sulla volontà di chi agisce, e non sull’azione.

Noi eccettueremo da questa regola i figli de' mendicanti. Il magistrato non deve in costoro ricercare il consenso dei padri, per toglierli da mani cosi pericolose e condurli all’educazione della legge. Egli eserciterà un egual dritto sugli esposti, sugli orfani e su’ figli di coloro che han perduto l’uso libero della ragione. È giusto che un fanciullo che ignora, o che ha perduto il suo padre, o che non può da lui ricevere la sua educazione, trovi nella madre comune un compenso a questa perdita. Ricevuto il fanciullo, il magistrato registrerà il suo nome, il suo cognome ed il giorno, nel quale è stato presentato, e consegnerà la copia di questo registro al padre o al tutore. Ma chi determinerà la prima sua destinazione?

Si è detto, che questa prima classe principale, non altrimenti che la seconda, è suddivisa in varie classi secondarie. Si è detto, che dalle varie professioni che si trovano introdotte o che converrebbe introdurre in quella comunità, si dovevano scegliere i custodi; e che il maggior numero de' custodi doveva esser preso da quella professione che occupa o che occupar dovrebbe in quella comunità il maggior numero d’individui. Si è detto, che a ciascheduno di questi custodi doveva esser affidato un dato numero di fanciulli, e che questo numero non dee superare quello di 15. Si è detto finalmente, che uno de' doveri del custode era d’iniziare ed istruire i fanciulli a lui affidati nel mestiere ch'egli professa. Dalla destinazione del custode, dipenderà dunque la prima destinazione del fanciullo. Esaminiamo dunque da chi dovrebbe farsi la destinazione del custode; vediamo se dovrebbe farsi dal magistrato o dal padre, o se dipender dovrebbe nel tempo istesso dall'uno e dall’altro.

Lasciare interamente al padre un illimitato arbitrio su questa destinazione, potrebbe produrre due gravi disordini. Il primo sarebbe di rendere inutili tutte le misure prese dal Magistrato supremo di educazione della provincia, nella scelta de' custodi delle varie comunità in quella provincia comprese, Se in una comunità, dové vi è bisogno di molti agricoltori e di pochi artigiani, egli ha scelti, proporzionatamente alla sua popolazione ed a' suoi interessi, cento custodi agricoltori e dieci custodi artigiani, potrebbe avvenire che la più gran parte de' padri si dichiarasse per gli ultimi, ed in questo caso bisognerebbe moltiplicare il numero de' custodi artigiani e diminuire quello de' custodi agricoltori.

L’altro disordine anche più forte del primo dipenderebbe dalla vanità de' padri e da' falsi dati, su’ quali sogliono essi calcolare gl’interessi de' loro figli. Le arti, che richieggono un maggior numero d’individui, sono le più necessarie alla sussistenza del popolo; ma sono nel tempo istesso quelle che richiamano su chi l’esercita minor considerazione. Sia che questo dipenda dalla moltiplicità istessa che, dividendo in un maggior numero la considerazione che si ha per l’arte, rende più piccola la frazione che ne appartiene all’artigiano; sia che queste arti sono ordinariamente quelle che s’imparano con maggior facilità e con minor tempo, o l’una o l’altra che ne sia la causa, non si può dubitare che la considerazione, che l’esercizio di queste arti procura all’individuo, sia minore di quella che gli procura l’esercizio di un’arte meno necessaria e meno numerosa. L’arte più preziosa allo Stato è l’agricoltura; ma l’artigiano meno rispettato è l’agricoltore.

Spesso avviene che nelle arti meno necessarie l'uomo impiega a più caro prezzo le sue braccia, che non le impiega nelle più necessarie. Un padre, senza prevedere che, moltiplicandosi più del bisogno gli artigiani di quell’arte, non solo questo vantaggio di maggior lucro si perderebbe da tutti colla concorrenza; ma che una parte di questi artigiani sarebbe anche condannata all’indigenza: un padre, io dico, senza estendere fino a questi riguardi le sue mire, troverebbe e nella vanità e nell'interesse due forti sproni, per dare nella scelta la preferenza alle arti meno necessarie. In questo caso le più necessarie languirebbero, e con esse languirebbe la società e lo Stato.

Ecco i disordini che nascerebbero dall'illimitato arbitrio de' padri. Quelli che produrrebbe l’illimitato arbitrio del magistrato, non sarebbero neppure indifferenti. Un padre, che si trova stabilito in un’arte, trova spesso un grand'interesse ad iniziare il suo figlio nella sua arte istessa. Il vantaggio solo di poter lasciare al suo figlio i materiali e gl’istrumenti della sua arte e quello di poterlo istruire de' segreti economici di quell’arte, che una lunga esperienza gli ha rivelati, basterebbero per determinarlo a questa destinazione. Quando questa dipendesse dall’illimitato arbitrio del magistrato, potrebbe spesso avvenire che il figlio di un ricco artigiano fosse destinato all’agricoltura; ed il figlio di un agricoltore, che ha propri fondi da coltivare, fosse destinato ad un’arte meccanica; ed in questa ipotesi l’uno e l’altro rimarrebbero privi d’una gran parte de' vantaggi della paterna eredità. Da questo primo disordine ne nascerebbe un altro. Molti padri, per non esporsi a questo rischio, rinuncierebbero al vantaggio della pubblica educazione; e la legge, malgrado i suoi generosi inviti, delusa nelle sue speranze, vedrebbe una parte considerabile degl’individui di questa prima classe esclusa dalla sua educazione.

Dopo il più profondo e maturo esame, io non ho trovato che un mezzo per evitare i disordini che nell'uno o nell’altro caso accompagnerebbero questa prima destinazione: limitare l’arbitrio del magistrato e del padre, e dare all’uno ed all’altro una parte nella scelta. Il padre aver dovrebbe il solo dritto di pretendere, che il suo figlio fosse iniziato nell'istessa sua professione. Il magistrato dovrebbe aver quello d’indicare il custode, o dell’istessa professione del padre, quando questi volesse far uso del suo dritto, o di quella professione che vuole, quando il padre rinunziar volesse a questo dritto. '

Siccome l'elezione de' custodi dipenderebbe dal Magistrato supremo della provincia, e non dal magistrato particolare della comunità; siccome il loro numero e la loro condizione sarebbe regolata dalla popolazione e dagli economici interessi della comunità istessa; siccome finalmente il numero de' fanciulli, che assegnar si potrebbero a ciaschedun custode, sarebbe fissato dalla legge: così tanto nell’uno, quanto nell’altro caso, l’arbitrio del magistrato particolare della comunità nella destinazione del custode verrebbe limitato da queste anteriori disposizioni del Magistrato supremo e dalla legge. Il suo arbitrio si restringerebbe a scegliere tra que’ custodi che non avrebbero ancora l'intero numero di fanciulli dalla legge fissato. (20)

Ma, si dirà, tra le arti meccaniche istesse ve ne sono alcune che appena richieggono un solo artefice, per provvedere a' bisogni di una bastantemente numerosa comunità; bisognerebbe dunque o escludere le istituzioni per queste tali arti, o impiegare un custode per un solo allievo, o moltiplicare inutilmente gl’individui di quest’arte: tre mali ugualmente perniciosi, de' quali, secondo questo piano, non resterebbe al legislatore che la scelta. .

Questa obbiezione avrebbe luogo, se fosse di assoluta necessità nel mio piano, che tutti gl’individui d’una comunità fossero educati in quell’istessa comunità. Ma se il nostro piano di educazione dev'essere uniforme per tutte le parti dello Stato, qual inconveniente s’incontrerebbe nello stabilire in tutta la provincia quel dato numero di custodi per queste arti, che sarebbe proporzionato al numero degli individui che converrebbe in quest’arte istituire; e che i fanciulli, che vi si destinano, andassero in quel tale luogo della provincia, ove uno de' custodi per quest’arte è stabilito, a ricevere, sotto la proiezione delle istesse leggi, l’istessa educazione che riceverebbe in qualunque parte dello Stato? Quest'istesso rimedio adoprar si dovrebbe in tutti quei casi, ne' quali un padre, volendo esercitare il suo dritto nella destinazione del figlio, trovasse nella sua comunità già pieno il numero de' fanciulli affidati a' custodi dell’arte, ch’egli esercita e nella quale vuole che il suo figlio sia iniziato. In questo caso il magistrato della comunità ne darà parte al Magistrato supremo della provincia, il quale, avendo un registro esatto di tutta la ripartizione de' fanciulli della sua provincia, destinerà il fanciullo a quel custode di quell'istessa arte che non ha ancora sotto la sua direzione l’intero numero de' fanciulli dalla legge fissato.

Regolata in questo modo la prima destinazione de' fanciulli, ristretto ne' giusti limiti l’arbitrio del padre e quello del magistrato, prevenute le prime obbiezioni che ci si potevano fare, è giusto di prevenirne un’altra che più interessa. Come combinare, si dirà, questo metodo di ripartizione colla libertà che si dee dare al talento? Un fanciullo destinato ad un’arte sarà inferiore a quell’arte, un altro le sarà superiore, un altro annunzierà un genio dichiarato per un’arte tutta diversa da quella, alla quale si trova destinato, un altro manifesterà le più rare disposizioni per servire la società co' suoi talenti: tutti questi fanciulli potrebbero esser un giorno preziosi allo Stato in una destinazione più analoga a' loro talenti, e gli saran sicuramente di peso in quella, nella quale, senza lor colpa, si ritrovano. Nell'età di cinque anni né il magistrato, né il padre scorger potevano queste disposizioni nel fanciullo. Nel progresso della sua adolescenza si sono manifestate. Chi le seconderà?

Ma chi le seconda oggi, potrei io rispondere? Quanti agricoltori, quanti artigiani sarebbero forse nati per amministrare il Governo; e quanti magistrati sarebbero forse nati per coltivar la terra o maneggiar la scure? Questo male, conseguenza necessaria dello stato istesso sociale, non sarebbe forse diminuito piuttosto che aumentato nel nostro piano di pubblica educazione? Ancorché noi non proponessimo rimedio alcuno diretto a questo male, non verrebbe egli indebolito dall'educazione morale e scientifica che deve aver luogo per tutti gl’individui di questa prima classe? Nello stato presente delle cose, il figlio dell’agricoltore e dell’artefice nato colle disposizioni per divenire sommo scrittore o magistrato illustre, troverebbe egli nella paterna educazione que’ soccorsi per secondarle, che troverebbe in quella che noi qui proponiamo Troverebbe egli in un padre ignorante ed in una madre imbecille le lezioni di un magistrato illuminato, le quali nel tempo istesso che l’istruiranno ne' suoi doveri, introdurranno nel suo cuore le grandi passioni, e gl’ispireranno quella nobile fierezza ch'è così difficile a combinarsi coll’abbiezione del suo stato? Maneggiando la zappa o la scure sotto agli occhi del padre, in preda dell’ignoranza e degli errori, circondato da viziosi e da vili, testimonio dell’indigenza o dell’avidità, troverebbe egli chi fecondi il suo spirito e chi lo disponga alla virtù, come lo troverà nell’educazione dal magistrato e dalla legge? All’età di 18 anni il figlio dell’agricoltoree dell’artefice, iniziato nell’artedi suo padre, ed educato a seconda del nostro piano di pubblica educazione, non avrà forse meno errori e meno pregiudizi, più dignità e più energia, un’istruzione, può darsi, meno estesa, ma sicuramente più ragionevole e più utile che non hanno oggi una gran parte de' giovani, non dico di questa prima classe, ma della seconda istessa? Noi potremmo dunque con ragione rispondere a questa obbiezione, coll’addurre le prove dedotte dalla diminuzione del male. Ma non ci contentiamo di questo piccolo trionfo. L’emulo che abbiam superato è troppo debole per rendercene gloriosi. Dopo aver mostrato che gli ostacoli, che si oppongono alla libertà de' talenti, sono più forti nello stato presente delle cose, che non lo sarebbero nel nostro piano di pubblica educazione; vediamo come quelli, che vi resterebbero, potrebbero anche essere diminuiti ed indeboliti. Il mezzo che ho pensato è il seguente.

Una delle cure del magistrato particolare di ciascheduna comunità esser dovrebbe di osservare nel corso dell'educazione, se tra' fanciulli per le varie classi secondarie ripartiti, ve ne sieno alcuni che sembrino negati a quell'arte, alla quale sono stati destinati; e se ve ne siano degli altri che manifestino le più sicure disposizioni per riuscire, o in un’altra arte, o per risplendere nella classe di coloro che si destinano per servire la società co' loro talenti. Se la prima destinazione del fanciullo è dipesa dal padre, il magistrato non darà alcun passo prima di aver persuaso il padre sulla necessità di dare un’altra destinazione al fanciullo e di aver ottenuto il suo consenso. Se non è dipesa dal padre, o se questi ha prestato il suo consenso, il magistrato della comunità sarà nell’obbligo d’avvertire il Magistrato supremo della provincia del risultato della sue osservazioni. Siccome il Magistrato supremo della provincia sarà nell'obbligo di visitare almeno due volte in ogni anno le varie comunità nella sua provincia comprese, così nel tempo della visita egli esaminerà le osservazioni del magistrato della comunità, e, trovandole giuste, procederà al cangiamento delle destinazioni. Il passaggio da un’arte meccanica ad un’altra non troverebbe difficoltà alcuna; ma quello dall'educazione della prima classe all'educazione della seconda ne incontrerebbe una fortissima: le spese del mantenimento.

Nel nostro piano le spese per l’educazione della prima classe anderanno, come si è detto, a conto del Governo; ma quelle per l’educazione della seconda saranno a carico degl’individui che ne profittano. Il figlio di un agricoltore povero che mostra le più rare disposizioni per servire la Patria, non colle sue braccia, ma coi suoi talenti, dové troverà egli i mezzi per supplire a queste spese? Per ovviare a questo male, noi proponiamo la fondazione di una cassa detta d’educazione, nella quale ciascheduna provincia avrà una egual porzione, pel mantenimento di un dato numero di fanciulli della prima classe, nell’educazione della seconda. Questo numero, dovendo esser limitato, sarà cura del Magistrato supremo di scegliere tra i fanciulli della prima classe quelli che offrono maggiori speranze. Cogli avanzi delle pubbliche rendite, che noi all’educazione del popolo destineremo, formar si dovrebbe la proposta cassa, ed allorché si parlerà de' mezzi, co' quali provveder si dovrebbe alle spese di questo vasto piano di pubblica educazione, si conoscerà la possibilità di questa intrapresa.

Finalmente per non lasciar cosa alcuna indecisa in questo piano, al quale cercherò di dare tutta quell'evidenza che richiede l’importanza e la complicazione degli oggetti, debbo avvertire che, siccome tra le tante arti e mestieri, delle quali la società ha bisogno, ve ne sono alcune che non richieggono, per così dire, alcuna istruzione, e che ciaschedun uomo che ha un certo vigore nelle sue membra, ed un certo esercizio delle proprie forze, può esercitarle dopo pochi giorni di esercizio, come l’esercita colui che vi è da molti anni occupato, così noi non daremo de' custodi per queste arti e per questi mestieri, né vi destineremo alcun fanciullo; giacché ciascheduno può darvisi sempre che voglia, dopo essere dalla pubblica educazione emancipato. Egli avrà allora il vantaggio d’aver seco il capitale d'un’altr’arte che non potrebbe apprendere con altrettanta facilità. Questi tali mestieri saranno anche il ricovero di tutti coloro, che son male riusciti in quelli, a' quali sono stati da principio destinati ed istruiti; essi saranno, per così dire, esercitati dal rifiuto delle altre arti. Tale sarebbe, per esempio, quello de' vetturali, tale quello de' domestici, e tali in poche parole sarebbero tanti altri mestieri di questa natura che ogni uomo può in ogni tempo intraprendere, purché non abbia interamente perduto l’uso della sua ragione o il vigore delle sue forze.

Dopo aver regolata la destinazione e la ripartizione dei fanciulli in questa prima classe, procediamo all’esposizione delle nostre idee sulla parte fisica della loro educazione.


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CAPO IX

Generali regolamenti sulla educazione fisica della prima classe

L’uomo ha perfezionato e perfeziona tutto. Le mani, la ragione e l’istinto per la società, han trasmesso nella più bella opera della natura una parte considerabile del potere di questo sommo artefice. Ciò che vegeta, e ciò che vive; ciò che la superficie della terra ci nasconde, e ciò ch'è al disopra di essa, ci annunciano ugualmente il potere dell’emulo della natura e del perfezionatore delle sue opere. Potente su tutto ciò che se gli avvicina e lo circonda, quest’essere prodigioso sarà forse debole ed impotente soltanto su di se medesimo? Non potrebbe egli migliorare la sua specie come ha migliorate quelle de' bruti?

L’istoria distrugge questo dubbio, che lo stato presente delle cose pare che c'inspiri. Bisogna rinunciare ad ogni istorica fede per dubitare che il fisico dell'uomo ha presso alcuni popoli ricevuta quella migliorazione, dalla quale noi siamo molto lontani. Il Cretese, lo Spartano ed il Romano non sembrerebbe forse oggi un uomo d’una specie diversa dalla nostra? In mezzo ad un milione e quattrocentomila mercenari armati, quale è tra noi il guerriero che regger potrebbe agli esercizi della Greca falange e della legione di Roma? Chi tra questi potrebbe soltanto sopportare il peso delle loro armi; chi potrebbe resistere alle loro lunghe marcie? Basta leggere nell'ottavo dialogo Delle leggi di Platone la descrizione dei ginnastici esercizi ch'egli propone, per conoscere fin dové si estendesse questa differenza, e come questa era interamente dovuta alle cure del legislatore. (21)Tra gli altri mali che noi dobbiamo alla scoverta della polvere, noi le dobbiamo ancor quello dell'indifferenza de' legislatori riguardo al fisico degli uomini. Quando l'idea della guerra eccitava quella di una lotta, nella quale gli uomini erano impiegati come esseri intelligenti e non come macchine; quando così nel mare, come sulla terra i corpi opposti si mescolavano, si urtavano, insanguinavano sul tempo istesso le loro spade e le loro mani; quando il soldato vedeva, sentiva e toccava colui, al quale dava, o dal quale riceveva la morte; quando le armi che si adoperavano non escludevano la destrezza e la forza, ma la esigevano, la secondavano, ma non ne tenevan luogo: allora, siccome la robustezza, il vigore e la destrezza degli individui aveva la più gran parte nell'esito delle guerre, così la perfezione fisica de' corpi diveniva il principale istrumento della sicurezza o dell’ambizione de' popoli, e per conseguenza il principale oggetto delle cure de' loro legislatori.

Ma oggi, che così nelle schiere, come nelle squadre, si è data alle macchine l'energia degli uomini, ed agli uomini si son date le qualità delle macchine; oggi che i veri soldati, i veri guerrieri sono il fucile ed il cannone, e i campi e gli eserciti non son altro che i pascoli e gli alimenti di queste metalliche fiere; oggi che il soldato muore senza sapere chi l’uccide; sfugge, insegue, o attacca esseri che non sente, non tocca e non vede; riceve ugualmente la morte dal più debole, come dal più forte di lui; oggi, io dico, che le belliche cose han cambiato d’aspetto, i legislatori han rivolte alla perfezione delle armi quelle cure che una volta erano interamente dirette alla perfezione dell'uomo.

La rivista, che si faceva allora de' corpi, è stata sostituita da quella delle armi; (22)e contento che queste sieno in buono stato, il moderno ispettore, ben diverso dall’antico, non gitta neppure un’occhiata sulla validezza e sul vigore del braccio che deve impugnarle.

Non è vero dunque che la specie umana sia la sola, sulla quale l’uomo esercitar non possa il suo potere; non è vero che non si possa migliorare il suo fisico, come migliorar si potrebbe il suo morale. Correggiamo l’educazione, correggiamo i costumi, correggiamo le leggi, ed il corpo del cittadino migliorerà insieme col suo spirito; e se con questo mezzo il popolo non potrà oggi avere tra le schiere e nel campo tutta quella superiorità che avrebbe avuta in altri tempi, ne avrà una molto più preziosa nella pace: egli sarà meno povero e più felice.

Per corrispondere a quest’oggetto, l’educazione fisica di questa prima classe, il legislatore, io credo, dovrebbe sul seguente piano dirigerla.

Articolo I
Del nutrimento

Io comincio dal nudrimento. La quantità e la qualità dei cibi, avendo una grande influenza sul fisico e sul morale deiuomo, avendone anche una grandissima sullo sviluppo intellettuale de' fanciulli, il legislatore non dee trascurare di regolare questa parte della loro fisica educazione. L" educazione pubblica gli offre il sicuro mezzo da riuscirvi, e questo è anche un altro gran vantaggio di questa istituzione.

La scelta della qualità e della quantità de' cibi, dipendendo molto dal clima e dalla natura di ciaschedun paese, io non potrei, riguardo a questo oggetto, venire a' dettagli senza dimenticarmi dell'universalità del mio argomento. Lascio a' medici che hanno le giuste nozioni della loro arte, senza averne i pregiudizi, la cura di supplire in ciaschedun paese alla necessaria imperfezione di questa parte del mio piano. Accenno soltanto alcuni principii più generali, che mi paiono i più suscettibili d’una universale applicazione; e dico prima d’ogni altro, che i fanciulli, avendo una più celere digestione ed una più frequente indigenza di nudrimento, non si potrebbero loro negare delle frequenti refezioni, senza opporsi al volere della natura ch'evidentemente ce ne annuncia il bisogno. Il pane dovrebbe loro darsi in qualunque momento del giorno verrebbe da essi richiesto. Un fanciullo, dice Locke, (23)che si contenta di questo ristoro, mostra che il suo bisogno era reale e non immaginario. Il serbatoio del pane, dice l’Autore celebre dell'Emilio, (24) ch'è sempre esposto e sempre aperto pe’ fanciulli della campagna, non produce in essi quelle indigestioni, alle quali sono così esposti i fanciulli della città e delle più nobili condizioni, l’appetito de' quali trattenuto da' pregiudizi de' genitori si satolla disordinatamente sempre che l’occasione se ne presenta all'affamato fanciullo. Oltre l’illimitato ristoro del pane, oltre il pranzo e la cena, due altre refezioni dovrebbero essere assegnate a' fanciulli, e queste dovrebbero raggirarsi a' frutti della stagione e del paese, ed al pane. Il pranzo dovrebbe esser composto di una, ed in qualche giorno di due vivande e de' frutti della stagione; ed una zuppa di pane ben disseccato basterebbe per la cena.

I cibi, che formar dovrebbero il pranzo, dovrebbero essere l'erbe, i legumi, i latticini, le paste, i pesci e la carne. Quest'ultimo cibo non si dovrebbe loro dare tutti i giorni, per non avvezzarli ad un bisogno che nell'età matura non potranno forse così frequentemente soddisfare, e tra le varie carni converrebbe preferir sempre quelle, le fibre delle quali sono più forti. Meno delicate delle altre, esse fortificano lo stomaco colla maggior triturazione che richieggono. Alcuni credono che sarebbe utile di non avvezzare i fanciulli all'uso della carne. L’eloquente tratto di Plutarco in difesa del cibo pittagorico non ha forse contribuito poco ad accrescere il numero de' partigiani de' Lotofagi. (25) Uomini per altro sensati e dotti medici credono, che il moderato uso di questo cibo possa non poco contribuire alla robustezza de' corpi, particolarmente ne' fanciulli. Questa opinione non è nuova, giacche noi troviamo che Licurgo, avendo distolti dall'uso delle carni gli adulti, l’aveva permesso e prescritto a' fanciulli. (26)

L’uniformità de' cibi dovrebbe essere evitata per due ragioni, che mi paiono evidenti. La prima sarebbe per non avvezzare ad un solo nudrimento lo stomaco dell'uomo, il quale sarebbe subito in disordine, quando venisse quel tale cibo a mancargli. Una delle grandi cure dell’educazione dev’essere di diminuire e non di moltiplicare i bisogni. Or l’uniformità dei cibi si opporrebbe a questo riconosciuto principio. La seconda ragione poi è dedotta da un’osservazione medica, anche comunemente approvata. Si è osservato che la varietà delle cose semplici fa un miglior chilo, che la continuità di un medesimo alimento, per buono ch'egli sia; poiché gli alcali e gli acidi, dominando più o meno ne' diversi cibi, i succhi di una altra specie si combinano col residuo, col sedimento dell’anteriore cibo, che si ritrova nello stomaco; trasportano unicamente con essi questi residui negli intestini, e lo sgravano dai cattivi lieviti delle precedenti digestioni. Si e osservato anche che gli uomini, i quali si nudriscono ordinariamente d'un solo cibo, sono più esposti alle malattie umorali di coloro che variano; e si è attribuito quest’effetto alla mancanza della suddetta combinazione.

Proponendo la varietà de' cibi semplici ne' diversi giorni, io mi guarderei bene dal consigliare le vivande composte. Oltre che queste sarebbero mal adoperate per la classe della quale si parla, sono anche perniciose alla salute. Le salse, le vivande troppo condite, l’uso dello spezierie dovrebbero essere proscritte da questi pranzi di educazione. I liquori e tutto ciò che mette in grande agitazione il sangue, dovrebbero soggiacere all'istessa regola. Il solo vino, distribuito con ragionevole economia, potrebbe esserne eccettuato. Un dotto medico, degno della celebrità che si è acquistata, (27)ha dimostrato la salutare influenza di questa bevanda su’ fanciulli, malgrado la contraria prevenzione che vi era e che poggiata veniva sulla veneranda opinione di Platone, (28)di Locke (29)e di Rousseau. (30)

Riguardo all'acqua, secondar si dovrebbe l’imperiosa voce della natura, in qualunque occasione ed in qualunque tempo venisse a richiederla. Il contrario pregiudizio è stato combattuto fino all’evidenza, ed io fido troppo su ’lumi del secolo, per credermi dispensato dal provare le verità già provate.

Articolo II
Del sonno

Il miglior cordiale, dice Locke, che la natura ha preparato all’uomo, è il sonno. (31)Noi vi troviamo in fatti la riparazione delle nostre forze, il ristoro delle nostre fìsiche e morali facoltà, ed una dolce tregua alle cure che pur troppo accompagnano la veglia de' sociali esseri della nostra specie: necessario al vecchio, al giovane ed al fanciullo, non esige però l’istesso tempo in tutte l’età della vita. I vecchi, nei quali la diminuzione delle forze è compensata dall'inerzia di quest’età, hanno bisogno di una minor quantità di questo ristoro che i giovani, ne' quali il vigore delle forze è accompagnato da un proporzionato moto; ed i giovani ne richiedono a vicenda una quantità minore de' fanciulli, poiché negli ultimi la debolezza combinata colla massima mobilità richiede un più lungo ristoro alle loro forze meno estese e più esercitate.

L’infanzia è dunque l’età della vita ch'esige un più lungo sonno; la natura ce lo mostra evidentemente, e noi dobbiamo secondarla. Il legislatore assegnerà dieci ore al sonno di ciaschedun fanciullo di questa prima classe, nel momento del suo ingresso, e questo tempo si diminuirà in proporzione che cresce la sua età, in maniera che sarà ristretto a sette ore nell'ultimo anno della sua educazione.

La notte sola sarà serbata a questo ristoro, ed il legislatore proibirà in questa classe il sonno pomeridiano in qualunque stagione. La destinazione di questi fanciulli richiede questa disposizione, come il contrario stabilimento vi si opporrebbe.

Altri motivi con questo combinati debbono indurlo a fissare di buon mattino l’ora di destarsi. Alle cinque dopo la mezzanotte nell’inverno ed alle quattro nell’estate si dovrebbe abbandonare il letto. L’aere mattutino è il più atto a dare un certo vigore alla macchina, quando questa ha ricevuto un sufficiente riposo. La maggiore elasticità che dà alla fibra, reca anche un gran bene all’organo della vista. Il giorno diviene più lungo, quando non se ne impiega parte alcuna per il sonno. I fanciulli avvezzi ad andare di buon’ora a letto la sera, avranno un ostacolo di più da sormontare, allorché saranno adulti, per impiegare questo tempo nelle dissipazioni de' pericolosi piaceri; e si avrà finalmente con questo metodo il vantaggio di abituarli a quel tenore di vita, ch'è il più analogo alla natura della loro destinazione. Si proibirà per altro al custode d’impiegare i forti strepitI e gli spaventi, per risvegliare gli allievi a lui affidati. Niuno ignora le ragioni,di questa proibizione. (32)

La durezza non sarà una qualità esclusiva de' letti. Noi non vi ricercheremo altro requisito, fuori di quello di un moderato caldo, (33)e di un’estrema nettezza. Una ruvida manta formava tutto il letto de' fanciulli Spartani; (34)e noi sappiamo ch'essi divenivano vigorosi e forti. Locke attribuisce all'uso de' letti troppo morbidi una quantità di malattie, alle quali l’eccesso istesso della durezza non esporrebbe mai l’uomo. (35) Sarebbe anche un errore essenziale l’avvezzare i fanciulli di questa classe a que’ comodi ed a que’ bisogni che forse, divenuti adulti, non potranno più soddisfare. Il passaggio di una vita più austera ad una più comoda è facile; ma l’opposto non si compra che colla perdita o della salute o della felicità.

Articolo III
Del vestimento e della nettezza

La pelle, unica veste, della quale la natura ha provveduto l'uomo, potrebbe bastargli, quando fosse indurita alle impressioni dell’aere, ed avvezza a disprezzare le sue alterazioni. L’esempio di molli popoli e la risposta celebre dello Scila Anacarsi ci mostrano la possibilità di ottenere nel resto del corpo quello che noi ottenuto abbiamo nel volto. Io non pretendo di restituire gli uomini al primiero stato di nudità; Io non pretendo di privarli de' comodi e de' piaceri che il progresso della società e delle arti loro somministra. Io vorrei soltanto che l’uomo, profittando de' soccorsi dell’arte, non rinunciasse a quelli della natura, in maniera che, quando i primi venissero a mancargli, gli ultimi non gli fossero inutili.

Per qual motivo dovremmo noi avvezzare i fanciulli, quelli particolarmente di questa classe, ad aver sempre sotto i loro piedi la pelle di un bue? Avvezzandogli a servirsi della loro propria, li priveremo noi per questo del comodo di andare calzati, allorché saranno adulti? Ma facendo loro portar le scarpe, quando queste venissero loro a mancare, troverebbero essi le piante de' piedi incallite a segno da poter reggere ad un lungo cammino?

I piedi dunque de' fanciulli di questa prima classe saran nudi. Un lungo e largo calzone di tela garantirà le loro cosce e le loro gambe, il resto del corpo sarà coverto da una camicia ruvida, ma spesso cangiata, e da una larga veste di lana o di cotone, che, terminando alla cintura, potrà incrocicchiarsi per davanti, senza aver bisogno di legamento alcuno. Essi potranno così nel verno, come nella state, spogliarsi di questa veste sempre che loro aggrada, e dovranno abbandonarla tutte le volte che il custode l’ordinerà loro, a seconda delle istruzioni che gli saran date. Il loro capo sarà garantito da' raggi del sole e dalle pioggie da una berretta di cuoio; e per ovviare al lungo tempo che richiederebbe la cura de' capelli, noi stabiliremo di tagliarli a misura che crescono, senza per altro trascurare la nettezza del capo, che dovrebbe essere in ciaschedun giorno diligentemente ripulito. Il volto, le mani e i piedi dovrebbero, almeno una volta al giorno, esser lavati nell’acqua fredda, alla presenza del custode, ed il resto del corpo si laverebbe ne' giorni destinati all istruzione del nuotare. Il custode avvezzerà i fanciulli istessi a spazzare il luogo della loro abitazione, ed a conservarvi tutta quella nettezza che si richiede. Si servirà del ministero de' più grandi tra essi per soccorrere i più piccoli, e li disporrà in questo modo a divenire buoni padri di famiglia.

Le cure per la nettezza, così de' corpi come dell'abitazione, non saranno mai bastantemente inculcate. La loro influenza non si restringe solo al fisico dell'uomo; ma si estende anche sul morale; e l’esperienza solamente basta per mostrarcene l’importanza.

Articolo IV
Degli esercizii

Il movimento ed il desiderio di muoversi costituiscono una gran parte dell’esistenza fisica de' fanciulli. Questo è un dono che l'Autore della Natura concede loro in quell'età di incremento, nella quale le fibre e le tuniche de' vasi han bisogno d’un urto maggiore per essere allungate ed estese, e favorire in questo modo lo sviluppo universale della macchina. La circolazione inoltre non sarà mai così felice ne' fanciulli, imperfette saranno le digestioni e le separazioni, mal preparato sarà il chilo, tutte le volte che questo necessario movimento verrà impedito o trattenuto. Ministra della sanità e della vita, la Natura ce ne indica i mezzi, e l'uomo orgoglioso o stupido disprezza o non intende le sue lezioni e sostituisce agl’insegnamenti dell’istinto gli errori della ragione. Che un vizio così comune sia da noi lontano. Ascoltiamo i precetti del grande artefice, secondiamo i suoi disegni, calchiamo le sue tracce, concorriamo a' suoi fini co' suoi mezzi, e serviamoci degl'istessi suoi istrumenti per perfezionare la sua opera.

Tutti gli esercizii atti a fortificare il corpo saranno non solo tollerati, ma prescritti dalla legge. Nelle ore destinate a quest’oggetto, i fanciulli di questa classe saranno a vicenda invitati a correre, a saltare, a salire sugli alberi, a far delle lotte, ad elevare de' pesi, a scagliarli, a trasportarli, (36)a sperimentare, misurare ed usare in vari modi le loro forze, ad accrescere il vigore e l'agilità delle loro membra, e a dare ai loro corpi quell'energia e quella robustezza che si perde nel languore e nell'inazione.

Per dare a questi esercizii i vantaggi di un’utile emulazione e di un maggior brio, d’un certo spirito di società e di una occulta, ma necessaria direzione, il legislatore stabilirà che nelle ore a questi esercizii destinate tutti i fanciulli della Comunità siano da' respettivi loro custodi nell'istesso luogo condotti, ed insieme mescolati senza distinzione alcuna.

Il magistrato della Comunità presederà a questi esercizii, ed in suo luogo il più antico de' custodi. Alcuni piccioli premii, tutti in distintivi di onore consistenti, di tempo in tempo assegnati a chi supererà gli altri in alcuni di questi esercizii, daranno al magistrato il mezzo da promuovere quegli esercizii ch’egli crede più utili, senza togliere a' fanciulli la libertà di divertirsi a loro talento; ed ecciteranno nel tempo istesso la passion della gloria in questi nascenti cuori non ancora soggiogati dalle vili passioni. (37)

Néla pioggia, né la neve, né il gelo, né i venti, né il gran caldo, né il gran freddo priveranno i fanciulli de' piaceri e de' vantaggi di esercizii così utili. In questi giorni, più che negli altri, questi diverranno più profittevoli; perché agli altri vantaggi uniranno quelli di avvezzare i fanciulli all'intemperie delle stagioni, ed a tutte le alterazioni dell'aere. Sarà cura di ciaschedun custode di farli bene asciugare, allorché saran di ritorno nelle respettive loro case; e questo sarà il solo caso, nel quale si permetterà a' fanciulli di avvicinarsi al fuoco. Fuori di questo Caso essi ne saran sempre lontani.

Non vi è cosa che renda l’uomo più delicato, più molle, più pesante, più infingardo, men atto a resistere al freddo, che rilasci tanto la fibra, che la privi di quel tuono che l’è necessario per la sua azione, che faciliti i reumi, ed altri mali, quanto il poco moderato usò del fuoco. La natura ci ha provveduti di un mezzo per liberarci da' tormenti del freddo, e questo è il moto. Noi siamo in fatti più disposti al movimento nel verno, e più inclinati al riposo nella state. Ne’ fanciulli, in quelli più d’ogni altro di questa classe, è facile il provvedere a questo bisogno con questo mezzo.

Ritornando agli esercizii che formano l’oggetto di questo articolo, io credo di non doversi omettere il nuotare. Il noto detto de' Latini e de' Greci ci fa vedere quanto comune fosse la cognizione di quest'arte e quanto ne fosse ignominiosa l’ignoranza. (38)In tutte quelle Comunità, nelle quali la vicinanza del mare o de' fiumi permette questo esercizio, non si dovrebbe trascurare una volta almeno la settimana. Così nella state come nel verno, (39) si dovrebbe ne' giorni stabiliti apprendere o esercitare quest'arte colla sola differenza che non si dovrebbe mai dar principio a quest’istruzione che nella state. Il fanciullo verrebbe in questo modo per gradi avvezzato a reggere a' progressi del freddo, e preparato a disprezzare il gelido freddo dell'acqua nel verno.

La robustezza che quest'esercizio darebbe a' corpi sarebbe superiore a qualunque espettazione; giacche noi sappiamo che col solo uso de' bagni freddi si è dato agli uomini più gracili il vigor de' più forti. (40)A questo beneficio si unirebbe quello d’istruire i fanciulli in un’arte, l’ignoranza della quale è costata e costa ogni giorno la vita a tanti uomini e vi si unirebbe anche quello di conservare la nettezza de' corpi, così utile alla sanità del corpo ed alla energia dell'animo.

A quest’esercizio che si dovrebbe almeno una volta la settimana ripetere, noi ne aggiugneremo un altro che non dovrebbe essere meno frequente. Il profondo autore dell'Emilio (41) mi suggerisce quest'idea ch'egli istesso ha forse attinta dalle opere immortali del più grande Osservatore della Natura, e del più eloquente scrittore della Francia. (42)Egli consiglia pe’ fanciulli i giuochi notturni. Quest'avvertimento, dice egli, è più importante di quel che apparisce. La notte spaventa naturalmente gli uomini e qualche volta gli animali. La ragione, le cognizioni, lo spirito, il coraggio liberano pochi uomini da questo tributo. Si attribuisce quest'effetto a' conti delle balie e si erra; vi è una causa naturale; questa è l’istessa di quella che rende i sordi diffidenti, ed il popolo superstizioso: l’ignoranza delle cose che ci circondano, e di ciò che avviene intorno a noi. Avvezzi a scovrire da lungi gli oggetti e di prevedere anticipatamente le loro impressioni, quando più non si vede, né si può vedere ciò che ci circonda, l’immaginazione dell'uomo si accende, gli fa vedere mille esseri, mille movimenti, mille accidenti che possono nuocergli e da' quali è impossibile il garantirsi. Per quanta prevenzione egli abbia di esser sicuro nel luogo dové si ritrova, egli non ne sarà mai così certo, come se lo vedesse.

Egli ha dunque sempre un motivo da temere che non avrebbe avuto nel giorno. Al menomo romore, del quale non può vedere la causa, l’amore della sua conservazione l’obbliga a porsi nello stato di difesa, di vigilanza, e per conseguenza nello stato di spavento e di timore. Se egli non sente alcun romore, egli non è perciò sicuro, poiché sa che senza strepito può anche esser sorpreso. Per rassicurarsi contro questo silenzio, bisogna ch’egli supponga le cose tali quali erano prima, tali quali esse sono, ch'egli vegga ciò che non può vedere. Costretto a porre in moto la sua immaginazione, egli lascia subito d’esserne il padrone, e ciò ch'egli fa per rassicurarsi, non serve che a maggiormente spaventarlo. I motivi di sicurezza sono nella ragione e quelli di spavento e di timore sono nell’istinto, molto di quella più forte.

A questa ragione se ne unisce un’altra. Allorché per circostanze particolari noi non possiamo avere idee giuste delle distanze, ed allorché noi non possiamo giudicare degli oggetti che per la grandezza dell’angolo, o piuttosto dell’immagine ch'essi formano ne' nostri occhi; noi dobbiamo allora necessariamente ingannarci sulla grandezza reale di questi oggetti. Ognuno che ha viaggiato di notte, ha sperimentato che un arboscello che era a lui vicino, gli è sembrato un grand'arbore che fosse da lui lontano; ed a vicenda ha preso un grand'arbore da lui lontano per un arboscello a lui vicino. Se le tenebre o altre circostanze non gli permettevano neppure di distinguere gli oggetti per le loro forme, egli si sarà ingannato non solo sulla grandezza, ma anche sulla natura dell'oggetto. Egli avrà presa una mosca, che passava rapidamente in qualche pollice di distanza da' suoi occhi, per un uccello da lui molto discosto, ed un irco vicino per un. bue lontano. Lo smarrito marinaro inglese, nell’isola disabitata del mare del Sud, che per l’inedia di due giorni e per le piaghe che si eran formate nel suo corpo, non poteva più né gridare, né camminare a due piedi, comparve di notte un mostro due volte più grande di un elefante a' bravi guerrieri che Cook aveva spediti in cerca di lui; (43)e noi sappiamo quanti errori simili sono stati dalle due accennate cause prodotti, e quanti mali son derivati da questi errori.

Le due cause del male ritrovate c’indicano il rimedio. L’abito distrugge l’immaginazione, e la frequenza d’errare previene l'errore. Per quel che riguarda l'immaginazione, noi sappiamo che i soli oggetti nuovi la risvegliano, e che sopra quelli che frequentemente si veggono, non agisce più l'immaginazione, ma la memoria. Per quel che riguarda gli errori della veduta, noi sappiamo anche che la frequenza di commetterli c’insegna a preservarcene. Quante volte bisogna che il fanciullo s’inganni sulla posizione e sul numero degli oggetti, prima d’imparare a vederli nella loro vera posizione e nel loro vero numero! Tutte le immagini non si formano forse al rovescio nella retina de' nostri occhi; ciaschedun oggetto semplice non si vede forse da noi duplicato; non ci è forse bisogno di una lunga serie di errori, prima che noi col soccorso della verità del tatto impariamo a correggere gli errori della vista, e ci avvezziamo a veder dritti e semplici gli oggetti che noi veggiamo in fatti al rovescio e doppi! Quante volte bisogna che un fanciullo stenda invano il suo braccio per prendere un corpo ch'è molto più lontano da lui, che non è la lunghezza del suo braccio, prima che impari a conoscere la distanza, alla quale questo può giugnere! Quante volte il pescatore deve invano lanciare il suo colpo contro i pesci che sono nell'acqua, prima d’imparare a conoscere la grandezza dell'angolo che fa il raggio uscendo da un mezzo più denso in uno meno denso! Della maniera istessa un uomo che si è molte volte ingannato nella notte sulla grandezza degli oggetti, imparerà a non prestar fede a' suoi sensi nelle tenebre, e dopo molti errori apprenderà a più non errare.

Per garantire dunque i fanciulli da' timori che le tenebre ispirano e dagli errori visuali ch'. esse cagionano, bisogna avvezzarli alle tenebre. Bisogna distruggere l’immaginazione coll’abito, e l’errore coll’esperienza. Ecco il motivo, pel quale, seguendo i consigli del grand'uomo che ho citato, io propongo l’esercizio de' notturni divertimenti pe’ fanciulli di questa classe, una volta almeno in ciascheduna settimana. La sera della vigilia della festa dovrebbe esser destinata a quest’oggetto. Il custode condur dovrebbe i fanciulli a lui affidati, ora in un luogo ed ora in un altro, e dovrebbe loro permettere tutti quegl'innocenti trastulli che suggerirebbero le circostanze del luogo e del tempo. I vantaggi che avrebbero nella notte gli uomini in questa maniera allevati sopra gli altri, sono troppo evidenti per credermi nell'obbligo di farne la enumerazione. Quest'oggetto sembrerà anche più importante, se si rifletterà alle varie destinazioni degl'individui di questa classe, così nella pace, come nella guerra. Rammentiamoci che Licurgo prescrisse l’esercizio delle tenebre pe’ fanciulli, (44)e proibì l’uso delle fiaccole agli adulti. (45)

Io passo rapidamente ad un altro oggetto che non potrei trascurare, senza rendere imperfetto questo piano di fisica educazione.

Articolo V
Dell’innesto del vaiuolo

Questo male che deforma, mutila o uccide la metà della specie; che quando risparmia la morte, lascia spesso in tutto il corso della vita le vestigie funeste del suo passaggio; che si annuncia con segni equivoci e. si comunica anche prima di manifestarsi: questo male, io dico, diviene anche più funesto, quando l’unione di molti fanciulli ne facilita l'espansione ed il contagio. Fortunatamente per gli uomini, la vanità e l’interesse d’un popolo che fa della bellezza un oggetto d’industria e di commercio, hanno opposto a questo male un rimedio che non solo lo priva del suo micidiale potere, ma ne rende meno arbitraria l’espansione: l’innesto è questo fortunato rimedio. Lasciamo a' fanatici ed agli imbecilli i mal fondati dubbii; lasciam loro i più assurdi argomenti contro una pratica che ha dato la vita a più milioni di uomini, ed a più milioni d’uomini ha conservato il vigor delle membra, la salute e la beltà. Opponiamo a' dubbii dell’ignoranza o dell’interesse l’imperiosa voce dell'esperienza; e tra tante scoverte che per lo più non han servito ad altro che ad estendere l’impero della morte, non rinunziamo a quelle sole che fortunatamente han prodotto l’effetto opposto.

Per profittarne, il legislatore fondar dovrebbe uno spedale d’inoculazione in ciascheduna provincia, dové ciaschedun fanciullo di questa classe, che non abbia avuto il vaiuolo prima della sua ammissione, dovrebbe esser condotto subito che il medico della Comunità lo creda disposto a ricevere l’innesto. (46) Questa esser dovrebbe l’unica preservativa cura, che adoprar si dovrebbe su’ fanciulli nel proposto modo allevati. La pratica degli esposti regolamenti, relativi a' cibi, al sonno, alle vesti ed agli esercizii, sarebbe da se sola più efficace a garantirli dalle malattie, alle quali essi sono esposti, che non lo sarebbero tutti i rimedii che l’arte medica ha sognati, e l’uso de' quali, invece di prevenirli, spesso li richiama e li promuove. (47)

Ecco ciò che ho pensato sull’educazione fisica di questa prima classe. Coloro che conoscono l’influenza del presente sull'avvenire, e i rapporti necessarii dell'infanzia coll'età susseguenti, vedranno quali sarebbero gli effetti di queste istituzioni sull’intero popolo, quali sulle seguenti generazioni, quali nella pace e quali nella guerra.


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CAPO X

Generali regolamenti sull’educazione morale della prima classe

Prima di venire alla ricerca de' mezzi, determiniamo con precisione il fine che ci proponiamo di conseguire. Diamo il maggior lume che si può allo scopo, e rendiamo con questo modo il cammino meno tortuoso e più sicuro.

Qual è, o per meglio dire, quale esser dee l’oggetto della parte morale dell’educazione di questa prima classe? Ecco ciò che conviene prima d’ogni altro fissare.

L’uomo nasce. La sua anima è nuda, come il suo corpo. Egli non ha né idee né desiderii. Il primo istante della sua vita lo trova inviluppato in una indifferenza, anche pe’ suoi proprii bisogni. Un sentimento cieco, molto inferiore a quello de' bruti, è il primo regolatore de' suoi movimenti. Le facoltà di sentire, Ripensare e di volere sono in lui; ma le cause dello sviluppo di queste facoltà sono fuori di lui. Queste facoltà, queste potenze non sono uguali in tutti gli uomini; ma sono in tutti gli uomini. Fin dall'aurora de' loro giorni esse formano una parte della loro essenza. Il selvaggio può averle in un’estensione anche maggiore dell’uomo civile; ma il difetto delle cause esterne che si richiederebbero per svilupparle, fa che queste restino, per così dire, senza azione e senza moto nel primo, nel mentre che il concorso delle cause che si combinano per svilupparle nel secondo, le pongono in tutta la loro attività. Newton non sarebbe forse stato altro che il più bravo cacciatore, se fosse nato tra gl'Irocchesi, ed il più bravo cacciatore tra gl'Irocchesi sarebbe forse stato un Newton, se si fosse trovato nelle sue circostanze.

La disuguaglianza tra un uomo ed un altro dipende meno dall’intrinseca ed originaria diversità dell'altitudine delle loro facoltà di sentire, di pensare e di volere, che dalla diversità delle cause che si combinano per svilupparle. Queste cause sono le circostanze, nelle quali si ritrova l’uomo; e tra queste circostanze, quelle che dipendono dall’educazione, siccome sono le prime, così sono anche quelle che hanno la più gran parte in questo sviluppo. L’oggetto dunque dell'educazione morale in generale, è di somministrare un concorso di circostanze il più atto a sviluppare queste facoltà, a seconda della destinazione dell'individuo e degl'interessi della società, della quale è membro.

La destinazione degl'individui di questa prima classe è di servire la società colle braccia. Gl’interessi della società sono di trovare in essi tanti cittadini laboriosi ed industriosi in tempo di pace, e tanti difensori intrepidi in tempo di guerra; buoni coniugi e migliori padri; istruiti de' loro doveri, come de' loro dritti; dominati da quelle passioni che alla virtù conducono; penetrati dal rispetto per le leggi, e dall’idea della propria dignità.

L’oggetto dunque della parte morale dell’educazione degl'individui di questa prima classe è di somministrare un concorso di circostanze il più atto a sviluppare le loro facoltà, a seconda di questa destinazione e di questi sociali interessi.

Fissato l’oggetto, veniamo alla ricerca de' mezzi.

Articolo I
Delle istruzioni e de' discorsi morali

Un principio bene inteso dell'autore dell'Emilio, ma che sarebbe inapplicabile ad un piano di pubblica educazione, è quello che fa dipendere l'istruzione dal fatto e la regola dall’esperienza. L’educazione d'un sol uomo, noi l’abbiam detto, è ben diversa dall’educazione d’un popolo; l’educatore privato d’un fanciullo, sempre accanto al suo allievo, può a suo talento preparare gli avvenimenti, (48)può profittare di quelli che il caso presenta, può, in poche parole, eseguire il metodo dell'autore celebre dell'Emilio; purché ne abbia i lumi, le cognizioni e la costanza. Ma L’educatore pubblico, ancorché ornato di tutti questi requisiti, potrebbe mai sperare di riuscivi?

Nel nostro piano noi non potremmo affidare questa cura a' custodi, perché noi non possiamo ricercare in essi i lumi che sarebbero necessarii a quest’oggetto. Noi non potremmo molto meno ottenerlo dal magistrato particolare della Comunità, ch'è il comune educatore; poiché, malgrado le cognizioni, le virtù e la costanza che noi supponiamo in lui, nulladimeno l’estensione delle sue cure su tutti i fanciulli della Comunità gli renderebbe sicuramente impossibile ciò che appena è praticabile nell’educazione d'un solo. Noi siamo dunque costretti a rinunciare a questo metodo che diviene chimerico ed impraticabile, subito che dalla privata educazione estender si voglia alla" pubblica. Contentiamoci di ottenere quello che si può, e non discreditiamo il nostro piano colle idee d’una impossibile perfezione.

Se per l'ignoranza de' padri e la superstizione delle madri, i pregiudizii, gli errori, le false massime di morale e di religione, l'erronee idee del bene e del male si comunicano e si trasmettono a' loro figli; se l'impero dell'errore e del vizio si estende e si sostiene col soccorso delle perniciose lezioni che si ricevono nell’infanzia, più che con ogni altro mezzo; perché non potremmo noi fondare ed estendere l’opposto impero della verità e della virtù col soccorso di lezioni e d’istruzioni a quelle opposte?

Perché a questi errori, a questi pregiudizii, a questi falsi principii di morale, de' quali si carica la memoria de' fanciulli, non potremmo noi sostituire i più semplici principii della giustizia, della beneficenza e delle virtù sociali?

Perché invece delle false massime di religione che noi sentiamo con orrore proferire da questi nascenti proseliti dell'errore, divenuti superstiziosi prima di esser credenti, non potremmo noi sentire ripetere dalle loro labbra innocenti i luminosi principii della morale di quella religione istessa che vuole la misericordia piuttosto che il sacrificio? (49) Perché a quelle idee di bassezza e di viltà che impiccioliscono e degradano il loro cuore, non potremmo noi sostituire quello che potrebbero nobilitarlo ed ingrandirlo? Perché invece di dire al fanciullo ch'egli è Un verme della terra, non gli si potrà dire: tu sei il Re della Natura, finché ne rispetti le leggi, e ne sarai il mostro più odioso subito che diverrai vile e malvagio?

Perché invece di que’ discorsi, di quelle azioni, di quegli esempii, di que’ detti, e di que’ fatti che aprono il cuore de' fanciulli alle passioni perniciose e vili, non potremmo noi servirci de' discorsi, delle azioni, degli esempii, de' detti e de' fatti, per disporli alle passioni generose ed utili?

Io lo ripeto: l’uomo nasce nell’ignoranza e non negli errori. Quando egli è nello stato d’apprendere un errore, egli è anche nello stato di imparare una verità. Ma siccome non tutti gli errori sono alla portata de' fanciulli, così non lo sono tutte le verità. Bisogna cominciare dalle più semplici, e per gradi passare alle più complicale. Col metodo opposto si danno de' nomi invece delle idee, e la bocca proferirà una verità, nel mentre che l’intelletto concepisce forse un errore. Ecco ciò che si dee più d’ogni altro evitare nella difficile istruzione de' fanciulli. A chi sarà dunque affidata questa importante cura nel nostro piano? Chi sarà il morale istruttore de' fanciulli di questa prima classe? In qual modo, in qual tempo, con quale ordine sarà regolato questo primo mezzo della loro morale educazione?

Il morale istruttore sarà il magistrato istesso d'educazione della Comunità. Questa sarà la più importante e la più nobile delle sue funzioni. La sua dignità, il lustro della sua carica, il rispetto che questa procurar dovrebbe alla persona che ne sarebbe investita, la venerazione che si dovrebbe dai custodi ispirare a' fanciulli per questo capo comune, i requisiti che ornar dovrebbero l’uomo, al quale questa cura verrebbe affidata; tutte queste circostanze, io dico, darebbero una efficacia maggiore alle sue istruzioni, unendo all’evidenza 'delle verità le prevenzioni dell’opinione. (50)

Il tempo dell’istruzione esser dovrebbe il mattino, quando l’anima, non ancora dissipata dalle distrazioni del giorno, aver potrebbe tutto quel raccoglimento, ch'è necessario per renderla attenta alle verità che dee sentire.

La durata dell’istruzione non dovrebbe superare la metà di un’ora, per non indebolirne la forza colla noia, e per non esigere da' fanciulli un raccoglimento più lungo di quello, del quale essi sono suscettibili.

L’età, nella quale il fanciullo dovrebbe essere ammesso all’istruzione, dovrebbe esser quella de' sette in otto anni.

Ho detto di sette in otto anni, poiché jl divario di pochi mesi sarebbe necessario per una ragione, che io non debbo trascurare. Siccome l’ingresso di ciaschedun fanciullo nella educazione dipender dovrebbe, come si è detto, (51) dal giorno nel quale egli compirebbe il quinto anno della sua età, da noi stabilito per lasciarlo, quanto meno si può, esposto all’infezione degli errori e de' pregiudizii de' padri; così per ottenere che un sufficiente numero di fanciulli si ritrovi in ogni anno nel caso d’intraprendere contemporaneamente il corso delle morali istruzioni, noi dobbiamo necessariamente trascurare questa picciola differenza nella loro età, la quale non produrrebbe per altro alcuno inconveniente. In ciaschedun anno dunque, tutti i fanciulli che si troveranno tra i sette e gli otto anni della loro età, saranno ammessi al corso delle istruzioni.

Se mi si domanderà, perché cominciare così presto una istruzione che potrebbe darsi in un’età più matura? Io domanderò dal canto mio: cominciandosi più tardi, quali sarebbero i principii direttori delle azioni di questi fanciulli? Lasciandoli più lungo tempo nell'ignoranza di questi principii, non potremmo noi esporgli al rischio di formarsene da loro medesimi degli arbitrari, de' falsi e de' perniciosi?

Se nell’età di sette anni noi vediamo la maggior parte de' fanciulli già molto inoltrati nella strada dell’errore, perché non potremmo noi nell’istessa età introdurli in quella della verità? Questa non si rende forse molto più luminosa e facile di quella, quando la guida è saggia ed esperta?

Qui non si tratta d’insegnare una scienza, ma d’inculcare de' doveri; qui non si tratta di definire, ma di prescrivere. La grande arte dell’istruttore deve appunto in questo raggirarsi. Egli dee sopprimere tutto ciò che si risente della scienza; egli non deve occuparsi che della verità, che n’è o, almeno, che dovrebbe esserne lo scopo ed il risultato. Fortunatamente i principii direttori delle umane azioni sono così luminosi, così semplici, così suscettibili d’evidenza, che non vi è che la prevenzione dell’errore, o il linguaggio scientifico che possano oscurarli. Che l’istruttore abbia dunque innanzi agli occhi l’età e la destinazione di coloro che debbono ascoltarlo; ch’egli ricorra a tutti que’ mezzi che possono interessare i fanciulli, a' quali parla, per render loro più chiare le sue istruzioni, e nel tempo istesso meno noiose e più permanenti; che profitti, quanto più può, degli avvenimenti, de' quali i suoi uditori sono stati i soggetti o i testimoni; che, in poche parole, ricorra a tutti que’ mezzi che la ragione, il buon senso, l’esperienza e la cognizione dello stato dello spirito umano nell’età, della quale si parla, gli suggeriranno, e non tema di rendere inutili le sue istruzioni.

Noi distingueremo le istruzioni da' discorsi morali. Le prime non dovranno durare che un anno, gli altri dovranno continuarsi per tutto il tempo che dura l’educazione istessa. Le prime avranno un ordine dal legislatore stabilito, gli altri saranno ad arbitrio del magistrato, purché corrispondano agli oggetti dalla legge indicati. Le prime si replicheranno collo istesso ordine in ogni anno, affinché i fanciulli che vi sono posteriormente ammessi, ne sieno a parte, e gli altri non saranno sottoposti all’istessa legge, perché non sono sottoposti all’istess’ordine. Vediamo dunque l'ordine che il legislatore dovrebbe fissare per le istruzioni, e gli oggetti che dovrebbe indicare discorsi.

Non fare agli altri ciò che non vuoi che si faccia a te. Ecco il primo canone di morale, lo sviluppo e l’applicazione del quale dovrebbe essere lo scopo della prima serie d’istruzioni.

Procura di fare agli altri tutto quel bene che puoi. Ecco il secondo canone che dovrebbe essere l'argomento della seconda serie d’istruzioni.

A questi due canoni, lo sviluppo de' quali contiene tutti i principii della giustizia e della virtù umana, dovrebbero seguire gli altri due, che riguardano la giustizia e la virtù civile.

Osserva le leggi, venera i decreti della pubblica autorità, difendila dall’estero inimico, garantiscila dal proditore interno, dal sedizioso e dal rubello. Ecco il terzo canone che riguardala giustizia civile, e che dovrebbe essere il soggetto della terza serie d’istruzioni.

Procura alla patria tutti que’ vantaggi che puoi: oltre quello che le leggi ti prescrivono, fa quello che l'amore per lei ti suggerisce: a fronte de' suoi interessi fa che si tacciano i tuoi. Ecco il quarto canone che riguarda la virtù civile, e che dovrebbe essere lo scopo della quarta serie delle morali istruzioni.

Così nello sviluppo di questo, come in quello del precedente canone, il magistrato avrà innanzi agli occhi la natura del Governo nel quale vive, e le conseguenze che dipendono dall'applicazione di questi canoni alla sua constituzione. Un oggetto di tanta importanza non sarà mai bastantemente inculcato dal saggio legislatore.

Queste quattro serie d’istruzioni dovrebbero tutte esser comprese nell’annuale corso di morale, che si dovrebbe in ciaschedun anno ed in un dato giorno intraprendere e terminare. Affinché le verità che vi s’insegnano restino maggiormente scolpite nella memoria de' fanciulli, si potrà stabilire, che quelli che han già terminato l’intero corso, lo ricomincino nel prossimo anno, nel mentre che i fanciulli che vengono immediatamente dopo di loro, vi sono per la prima volta ammessi. In questo modo ciaschedun fanciullo verrebbe a compire due volte questo breve, semplice, ma compiuto corso di morali istruzioni. Nel secondo anno si esigerà però da essi qualche cosa di più, che nel primo. Terminata l’istruzione, il magistrato farà loro delle domande relative all’istruzione del giorno, dirigendole ora all’uno ed ora all’altro di essi. Queste domande conterranno de' dubbii da risolvere, o de' fatti da giudicare a seconda degl’inculcati principii. Quest’esercizio, che dovrebbe occupare l’altra metà dell’ora che succede alla prima metà impiegata all’istruzione istessa, procurerebbe contemporaneamente ire gran vantaggi. Il primo sarebbe d’obbligare i fanciulli all’attenzione colf esporli a darne la pruova. Il secondo sarebbe d’avvezzarli ad applicare i generali principii a' particolari avvenimenti, e di sgombrare dalla loro mente tutti que’ dubbii che potrebbero loro presentarsi. Il terzo vantaggio finalmente sarebbe quello di facilitare a' fanciulli, che per la prima volta intervengono al corso delle istruzioni, l’intelligenza de' principii e delle verità che s’insegnano, colla discussione che se ne farebbe da quelli che per la seconda volta le sentono. Il magistrato dopo che avrà fatta la domanda, se non ne troverà opportuna la risposta, mostrerà l'errore, e si dirigerà ad un altro fanciullo, e così di mano in mano, finché si ritrovi la verità. Se il tempo è per terminare, e la questione non è ancora risoluta, il magistrato farà una breve esposizione del principio, dal quale pender dee la soluzione del dubbio o del giudizio proposto, e risolverà colla maggior chiarezza la questione. I fanciulli che avran date pruove di poca attenzione, saranno dal magistrato puniti a seconda de' regolamenti, che da qui a poco verranno indicati.

Terminato che avranno il secondo corso delle morali istruzioni, i fanciulli saranno ammessi a' morali discorsi, che a quelle succeder debbono. L’oratore sarà il magistrato istesso. Tutti i fanciulli della Comunità, che terminato avranno il ripetuto corso delle istruzioni, vi assisteranno, come si è detto, fino al tempo che durerà la loro educazione. Essi avranno anche il diritto d'assistervi dopo che saranno dalla pubblica educazione emancipati. Il tempo che si destinerà a quest'oggetto, sarà quello che immediatamente succede all’ora delle istruzioni. La sua durata sarà di mezz’ora. Gli oggetti, che verranno dalla legge prescritti, saranno i seguenti.

Il primo tra questi sarà di far sentire ciò che si è insegnato, di far passare nel cuore le verità che nelle istruzioni si sono comunicate all’intelletto. Di far loro sentire cosa è virtù, quali sono le delizie che l’accompagnano, quali sono quelle che la seguono. Di far loro sentire, cosa è patria, cosa è cittadino; quali sono i beneficii che ha loro somministrati; quale è la riconoscenza che da essi le si deeNon è inutile il ripetere, che in questi discorsi, non altrimenti che nelle morali istruzioni, la natura della costituzione del Governo dovrà costantemente richiamare le vedute del magistrato.

L'altro oggetto, non meno interessante di questi discorsi, sarà quello d’insinuare le verità opposte agli errori della pubblica opinione, e di prepararne in questo modo la correzione.

L’altro sarà d’ispirare loro il sentimento della propria dignità, di renderli stimabili a' loro occhi, di far loro conoscere quale è la vera grandezza, quale la vera gloria, in che consiste, dové si ritrova, e come ciascheduno può. parteciparvi, purché partecipi al vero merito, cioè alla virtù. Per inculcare vigorosamente queste verità il saggio educatore andrà in cerca di que’ fatti, che le confirmano e che han tanto potere sull’intelletto e sul cuore. Opera dell'educazione deve essere, come si è detto, il prevenire in essi quel pernicioso avvilimento, al quale la natura della loro destinazione pare che li esponga. Quest’oggetto sembrerà altrettanto più interessante, allorché si rifletta che per rendersi stimabile bisogna stimarsi, e che l’uomo degradato ed avvilito a' suoi occhi è incapace così delle grandi virtù, come delle grandi passioni.

L’amore del travaglio formerà un altro oggetto di questi morali discorsi. Le tristi dipinture de' funesti effetti dell’ozio e della noia, e gli energici confronti de' vantaggi e de' piaceri, che vanno uniti all’occupazione ed al travaglio, combinati coll’abito dell’occupazione, che il sistema istesso dell’educazione farà acquistare, contribuiranno non poco a conseguire l’importante oggetto.

Finalmente, se cento cause concorrono a rendere preziosa per la società intera la frequenza e la moltiplicità de' coniugi; se la conservazione de' costumi lo richiederebbe più d’ogni altro; e se l’idea d’un termine e d’uno scopo virtuoso a' bisogni, che tormentano l'età che alla pubertà succede, è più atta ad impedirne i disordini che non lo è qualunque altro mezzo; non vi vuol molto a vedere che uno de' più importanti oggetti di questi morali discorsi sarà di rendere caro e desiderabile questo stato agli allievi, che son già vicini ad esser dalla pubblica educazione emancipati, (52)e di mostrar loro i diritti e i doveri, che sono uniti a' dolci nomi di sposo e di padre. I mali compagni d'un celibato vizioso, la mesta indifferenza di questo stato, l’agitazioni che l’accompagnano nella gioventù, la noia che lo segue nella vecchiezza, ecc., saran dipinti co' colori più vivi; e la bella immagine di due sposi virtuosi circondati da' teneri frutti de' loro innocenti amori, sarà presentata a' loro occhi con tutto lo splendore della verità, e con tutta l’energia della passione.

Facendo loro considerare il matrimonio come la più dolce di tutte le società, si mostrerà anche loro come il più inviolabile ed il più santo di tutti i contratti. Si enumereranno con forza e con energia tutte le ragioni, che rendono un nodo sì sacro rispettabile a tutti gli uomini, e che coprir debbono di odio e di maledizioni chiunque ardisce di contaminarne la purezza. Alcuni principii fondamentali della coniugale e della paterna condotta faranno anche parte di questi discorsi. Si applicherà a questo stato il principio generale, che regola l’uso di qualunque autorità. Si farà loro vedere, che l'autorità di chi governa deve essere adoprata in vantaggio di chi è governato, e che allora soltanto diviene un bene anche per chi governa.

Gli effetti di questi discorsi saranno tanto meno dubbii, quanto meno impedite saran le nozze da' vizi delle leggi economiche; e la sicurezza di trovare nel magistrato e nella legge l'educazione e la sussistenza de' figli fino al tempo, nel quale essi saranno nello stato da dirigersi da se medesimi, e da provvedere a' loro bisogni, darà anche un nuovo ed efficacissimo urto alla scelta di questo stato, che è sempre il più felice, quando non è regolato che dall’amore, non è accompagnato dall'indigenza, non è né preceduto né seguito dalla corruzione.

Questi saranno gli oggetti che la legge dovrebbe prescrivere a' morali discorsi.

All'istruzioni ed ai discorsi dovrebbe corrispondere l'esempio.

Articolo II
Dell'esempio

I greci filosofi chiamarono l’uomo zwon mimhtikotaton, animale d’imitazione. (53)

Fra tutte le specie degli animali, in fatti, gli uomini son quelli che per la loro attitudine meccanica e per una perfezione maggiore della loro sensibilità più s’imitano tra di loro. Questa è una specie di bisogno che si manifesta fin dall’infanzia, e dal quale l’educazione deve raccorre quel vantaggio, al quale la Natura pare che l’abbia destinato. Così il magistrato come i custodi sono i modelli, che la legge offrirebbe a’ fanciulli di questa classe; in questo piano di pubblica educazione. Così l’uno come gli altri dovrebbero dunque concorrere al grande oggetto cogli esempi continuati di giustizia e umanità, di dolcezza, di compiacenza, d’amore pel travaglio, di zelo per lo bene, di gratitudine per la patria, e di rispetto per le sue leggi. La preferenza de' fanciulli dovrebbe ricordare loro l’importanza del ministero, al quale sono destinati, e dovrebbe ispirare alle loro azioni que’ riguardi, che richiede la forza dell'esempio e l’efficacia dell'imitazione.

Si dovrebbe per quest'oggetto stabilire un’istruzione particolare pe’ custodi, che dal magistrato particolare d’educazione della Comunità dovrebbe esser loro comunicata prima di ammetterli all’importante ministero, e che dovrebbe esser loro di continuo rammentata, almeno due volte al mese, a seconda della norma che verrebbe dal legislatore indicata. (54)Noi supponiamo il magistrato già a fondo istruito de' suoi doveri, e di quelli di coloro che dipendono immediatamente da lui.

Egli avrà la diligenza di non correggere mai un custode alla presenza de' fanciulli. Se alcuno di essi si mostrerà indegno o incapace del ministero che gli è stato affidato, egli ne darà parte al Magistrato supremo d’educazione della provincia, nella quale è compresa la Comunità, e ne aspetterà gli ordini. Se si dovrà procedere a cangiamento, questo si farà con tutta quella diligenza che richieggono le circostanze. Se le mancanze del custode sono note a' fanciulli, la sua esclusione sarà anche ad essi nota; ma se le ignorano, ignoreranno anche la pena. Si farà loro credere che il custode abbia volontariamente abdicata la carica, che non poteva più esercitare per qualche giusto ed onorevole motivo.

Il magistrato della Comunità non trascurerà diligenza alcuna per ispirare la condotta di ciaschedun custode, e per dirigerla in tutte le circostanze, nelle quali essi avran bisogno de' suoi lumi.

Uno de' principali oggetti dell'istruzioni, che si daranno a' custodi, sarà di regolarli sul modo, col quale risponder dovranno alle domande che potran far loro i fanciulli, riguardo a' varii oggetti che richiameranno la loro curiosità. Siccome uno de' maggiori vantaggi di questo piano di pubblica educazione sarebbe quello di allontanare gli errori, per lasciare libero il campo alle verità; e siccome noi non supponiamo i custodi bastantemente istruiti per poter dare delle nozioni vere e giuste a' fanciulli su tutto quello che potrebbe risvegliare la loro curiosità, cosi noi crediamo che si debba preferire il partito del silenzio al rischio di erronee ed inadeguate risposte.

Tutte le volte dunque che da un fanciullo sarà fatta una interrogazione al custode, superiore alla sua intelligenza, egli lo consiglierà di dirigersi al magistrato, ch'è l’immediato ed unico istruttore; e gli confesserà di non esser bastantemente istruito per illuminarlo su quell’oggetto. Questo metodo produrrebbe due gran vantaggi nel tempo istesso. Preverrebbe l’involontario contagio de' pregiudizi! e degli errori; e dando a' fanciulli il vantaggioso esempio del rispetto, che aver si dee per la verità, gli avvezzerebbe a vergognarsi meno dell’ignoranza che dell’errore.

Io non ho voluto trascurare quest’avertimento, ch'è più importante di quel che apparisce.

Passiamo ora ad un altro mezzo, che la morale educazione impiegar dovrebbe per conseguire il suo fine, ed esponiamoci intrepidi alle derisioni dell'ignorante, ed alle censure dello stolto e del fanatico.

Articolo III
Letture da proporsi pe’ fanciulli di questa classe

Io propongo la lettura de' romanzi pe’ fanciulli, che son giunti all’età che si richiede, secondo l’ordine da noi esposto, per assistere a' morali discorsi. (55)

Ma quali debbono essere questi romanzi? quali i soggetti su’ quali formar si dovrebbero? quale il tempo che destinar si dovrebbe a questa lettura?

Ogni condizione può avere i suoi eroi, può avere i suoi mostri. Presso tutte le nazioni, in tutte l’età, in tutti i Governi, se ne trovano in tutte le classi dello Stato. I cenci dell’ultimo cittadino, e la toga del primo magistrato nascondono spesso le più grandi virtù e i vizi più vili. L’occhio del filosofo penetra a traverso di questo velo, nel mentre che il volgare non vi vede che cenci e toga.

Su questi fatti, che l’istorie di tutti i tempi ci manifestano, formar si dovrebbero i romanzi, de' quali io parlo. L’eroe esser dovrebbe della classe, della quale son coloro, ai quali ne vien destinata la lettura. L’agricoltore dunque, il pastore, il marinaro, il fabbro, il semplice soldato o il duce che ha cominciato dall’esserlo, e che ha condotto l’aratro prima di condurre la legione, somministrar dovrebbero il soggetto e l’eroe de' romanzi che pe’ fanciulli di questa classe io propongo. L’arte dello scrittore esser dovrebbe di mettere nel maggior aspetto quelle virtù così civili come guerriere, che sono più alla portata degl’individui di questa classe; di dipingere co' colori più neri que’ vizi, a' quali sono più esposti; di fecondare que’ semi dell'amor della patria o della gloria, che si van gittando in tanti modi nel cuore de' nostri allievi, e d’ispirare quell’elevazione di animo, ch’è altrettanto più gloriosa, quanto meno si combina colla ricchezza delle fortune, e coll’originaria dignità della condizione.

Io vorrei che il soggetto de' romanzi fosse per lo più un fatto vero, e non interamente immaginato, e vorrei che l’autore ne assicurasse colui che legge. È incredibile quanto questa prevenzione ne renderebbe più efficace la lettura.

Le moltiplicità e l’eccellenza delle opere, che son comparse in questo genere presso tutte le nazioni, ed in tutte le lingue dell’Europa, renderebbe molto facile la collezione di questi romanzi d’educazione, che io propongo. Gli effetti e i vantaggi che ne produrrebbe la lettura, sono noti a chiunque conosce la forza de' sentimenti, e l’influenza che questi aver possono sulla formazione del carattere, e sullo sviluppo delle passioni.

Oltre i romanzi, bisognerebbe in ogni anno fare una collezione di tutti quegli avvenimenti che potrebbero all’istesso fine condurre, e pubblicarla colle stampe per uso de' nostri allievi. Bisognerebbe tenere di continuo aperta sotto i loro occhi l’istoria della virtù, gli annali della quale se sono in alcuni tempi molto ristretti, non sono fortunatamente mai interrotti; purché non si restringano ad una sola città e ad un solo popolo, ma abbraccino la comune patria, e la specie intera, alla quale apparteniamo.

Il tempo, che destinar si dovrebbe a queste letture, dovrebbe esser quello della sera. Nell’antecedente Capo (56)noi abbiamo detto, che le dieci ore assegnate al sonno del fanciullo nel momento della sua ammissione si debbono diminuire in proporzione che cresce la sua età, in maniera che saran ristrette a sette ore nell'ultimo anno della sua educazione. Per ottenere questa progressiva diminuzione di sonno, senza alterare l’ora della sveglia, che dovrebbe esser l’istessa per tutte l’età, bisognerebbe regolar l’ora, nella quale i fanciulli delle diverse età dovrebbero andare a letto. Or per dare a quelli della proposta età una piacevole occupazione, che li distolga dal sonno, senza esporli alla noia, che dev'esser diligentemente evitata io qualunque piano di buona educazione, le proposte letture potrebbero essere le più efficaci, purché fossero libere (57)ed arbitrarie, ciò che sarebbe un altro vantaggio di questa salutare istituzione. Finalmente a tutti questi vantaggi se ne aggiugnerebbe un altro. S’inspirerebbe il gusto della lettura agl’individui di questa classe, e si darebbe con questo mezzo il maggior soccorso a' progressi della popolare istruzione.

Articolo IV
De’  premii

Due passioni, l’una picciola, l’altra grande; l’una perniciosa, l’altra utile; l’una incompatibile colla grandezza dell’animo, e l’altra a questa costantemente associata, procedono entrambe dall'istessa origine. La vanità e l’amor della gloria sono queste due passioni, ed il desiderio di distinguersi n’è la madre comune. Questo desiderio di distinguersi, indizio ed effetto della sociabilità, questo desiderio che si manifesta nel barbaro e nel civile, nello stolto e nel saggio, nell’empio e nell’eroe; questo desiderio che si annuncia fin dall’adolescenza, e che accompagna l’uomo fino alla tomba; questo desiderio, io dico, produce l’una o l’altra passione, a seconda ch'è male o bene maneggiato e diretto. Egli diviene vanità negli uni, amor della gloria negli altri; egli indora il cocchio del ricco, e fa balenare la spada del guerriero; egli immerge Poppea nel bagno di latte, ed il pugnale nel seno di Lucrezia; egli fa manifestare a Creso i suoi tesori, e fa bruciare a Scevola la sua mano.

Riserbandoci per la seconda parte di questo libro il generale esame dell’uso e della direzione, che il legislatore dee dare a questo desiderio; contentiamoci qui d’osservarlo per quella parte soltanto, che interessa il nostro piano di pubblica educazione, e vediamo come l’uso de' premii nel tempo istesso che dee promuovere i progressi de' fanciulli, può contemporaneamente preparare lo sviluppo dell’indicato desiderio della distinzione, in maniera che l’amor della gloria e non la vanità ne sia l'effetto.

Per poco che si rifletta su questo importante oggetto, si vedrà che da due cause dee dipendere il conseguimento di questo doppio fine: dalla natura de' premii, e dalla loro destinazione.

Ogni distinzione è un premio; ma non ogni premio è una distinzione. Nell'educazione privata i premii non possono nò secondare, nò dirigere il desiderio della distinzione; perché nell'educazione privata mancano i soggetti del paragone; ed il fanciullo isolato non ha da chi distinguersi. I suoi premii debbono esser tutti reali, poiché quelli d’opinione non possono aver luogo, se non quando vi è su di chi conquistare l’opinione, Nell’educazione pubblica al contrario, i premii che sono sulla sola distinzione fondati, quando vengono ben maneggiati, possono essere i più desiderati, perché il desiderio della distinzione viene potentemente fomentato dalla moltiplicità e dalla prossimità de' soggetti, da' quali distinguersi.

Il celebre maresciallo De Villars ripeteva spesso, ch'egli non aveva provato che due specie di piaceri vivi nella sua vita, quello d'un premio nel collegio, e d'una vittoria nella guerra.

Il desiderio della distinzione determinerà dunque la natura de' premii nel nostro piano; e siccome questa potrebbe aver luogo tanto ne' premii reali, quanto in quelli d’opinione, così noi non adopreremo che gli ultimi per avvezzare il fanciullo a non desiderare alcuna cosa più della gloria. Noi vogliamo, per esempio, ornare la sua fronte di una corona d'allori; ma non vogliamo concedergli una veste più bella di quella degli altri, che potrebbe risvegliare la sua vanità; né una vivanda più delicata, che potrebbe disporlo alla ghiottoneria; né una dispensa dalle comuni occupazioni, che potrebbe rendere onorevole a' suoi occhi l'ozio ed il riposo.

Alcun premio non avrà dunque luogo nel nostro piano di pubblica educazione, se non è sulla sola opinione fondato. Cura del legislatore sarà d’immaginare questi premii definitivi del merito, e di determinarne il relativo valore, proporzionandoli al relativo pregio de' meriti, a' quali vengono destinati. La corona della vittoria, e quella della pace; quella che si dava nel circo, e quella che si dava nel campo; quella che ornava la fronte dell’atleta, e quella che poggiava sul capo del duce vittorioso, non avevano presso il Greco ed il Romano differenza alcuna nel loro reale valore, ma ne avevano una grandissima nell'opinione. Il merito, al quale venivano destinate, ne determinava l’importanza, ed il grado di distinzione che indicavano, n’era l'unico valore. Che il legislatore determini dunque i vari meriti, a' quali i vari premii verranno assegnati; che dia il primo luogo ed il primo premio a quelle azioni generose, che manifestano la grandezza dell’animo o la nobiltà di pensare; che scorrendo quindi sui varii oggetti delle tre parti, nelle quali si è diviso il nostro sistema d'educazione, fissi per ciaschedun oggetto un premio pel fanciullo che si è in quello distinto, e che dia al premio ed all’oggetto quel luogo, ch'è proporzionato alla sua importanza; che ne stabilisca per coloro che si son distinti ne' varii esercizii, che riguardano la parte fisica dell’educazione; che ne stabilisca per coloro che han dato pruove d’ardire e di coraggio; per coloro che han liberato qualche compagno da qualche grave rischio; per coloro che han mostrata maggiore attenzione e perspicacia maggiore nelle varie specie d’istruzioni; per coloro che avran fatti più rapidi progressi nell’arte, alla quale sono stati destinati; ma che vi aggiunga sempre la condizione, purché non ne abbiano per altri motivi perduto il diritto; che due volte per ciaschedun anno prefigga la ripartizione di questi premii, affinché la soverchia frequenza non ne diminuisca il valore, o la soverchia rarità non ne indebolisca la speranza; che per dirigerne la ripartizione ordini al magistrato di ciascheduna Comunità d’avere un registro esatto degli oggetti, ne' quali ciaschedun fanciullo si è distinto, e de' motivi che possono privarlo del merito che con altro mezzo si è acquistato; che finalmente, giunto il tempo della ripartizione, ne regoli nel seguente modo il giudizio.

Tutti i fanciulli della Comunità saran convocati. Tutti coloro che avran terminato il corso delle morali istruzioni, avran parte al giudizio. Per prevenire l’invidia e i suoi funesti effetti, io non ho trovato mezzo più efficace, che di far premiare ed onorare il merito da coloro istessi che potrebbero invidiarlo. L’uomo che onora e premia il merito, si associa alla gloria che questo procura, e questo sentimento basta per prevenire in lui l’invidia. Io attribuisco in gran parte a questa causa il picciolo vigore, che ha l’invidia nei Governi liberi.

Dopo che il magistrato avrà dunque proferito un breve discorso sulla rigida imparzialità della giustizia, ed avrà esortati questi giovani giudici ad osservarne i doveri, comincerà dal proporre loro i nomi di que’ fanciulli, che si son distinti, durante il corso degli ultimi sei mesi, con azioni generose e nobili. Egli manifesterà loro il merito di ciascheduna di queste azioni, e le presenterà sotto quell’aspetto che crederà il più opportuno, per mostrarne il relativo valore. Su questa esposizione i fanciulli regoleranno il loro giudizio; diranno l’azione che merita di esser coronata, e decideranno anche del relativo merito delle altre. I suffragi saran pubblici, e la pluralità deciderà, sempre che il magistrato non troverà ingiusto il giudizio. In questo caso egli manifesterà loro l’errore, e correggerà il giudizio.

Da questo primo giudizio si passerà al secondo, che riguarderà il premio che sarà dal legislatore fissato per lo merito più grande, dopo quello che riguarda la generosa azione; e coll’istesso ordine si procederà fino al giudizio dell’ultimo premio, all'oggetto meno importante assegnato. Fatta la ripartizione de' premii, si aspetterà un giorno della prossima festa per eseguirla. Una marcia imponente condurrà nel tempio i fanciulli. Colui che ha meritata la prima corona, precederà in questa pompa solenne seguito da coloro che si son distinti nell’oggetto, ma non con merito uguale. Ciaschedun di questi lo seguirà nell'ordine, che il relativo merito delle loro azioni richiede. Quindi verrà colui, che ha ricevuto il secondo premio, seguito anche da' suoi meritevoli competitori; e si procederà coll’istesso ordine fino all’ultimo, che 'sarà colui che ha ricevuto l’ultimo premio. Se alcuno tra quelli che si son distinti per qualche generosa azione, ha meritato anche un premio per un altro oggetto, egli sarà ornato dell'altro premio; ma non abbandonerà il posto, che il grado del merito della sua generosa azione gli ha procurato. L’ultimo luogo, tra quelli che si son distinti con questo mezzo, dev'esser considerato come più degno del primo tra coloro, che in qualunque altro oggetto si sono distinti. Noi daremo con questo mezzo le vere idee del merito e de' suoi gradi.

I fanciulli, che non han meritata alcuna distinzione, chiuderan la marcia.

L’ingresso nel tempio sarà libero per tutti, e i padri dei fanciulli vi saranno particolarmente invitati.

Giunti nel tempio, il magistrato annunzierà i meriti di ciascheduno, e i premii che sono stati ad essi destinati. Egli loderà la giustizia de' giudici, e farà un breve discorso sulla stima e la gloria che accompagna il vero merito.

In vece di dirigere umilianti invettive contro coloro, che non han meritata alcuna distinzione, egli l’incoraggirà a rendersene degni. Tutto ciò che può indebolire o distruggere l’energia dell’animo ed innasprire il carattere de' fanciulli, sarà diligentemente proscritto da questo piano di pubblica educazione.

La cerimonia sarà terminata da un inno opportuno all’oggetto, e i fanciulli premiati conserveranno per l’intero giorno i segni distintivi del loro merito.

I vantaggi che questa istituzione produrrebbe, sono evidenti. Noi ispireremmo una nobile emulazione ne' fanciulli, senza esporci a' rischi che sogliono accompagnarla. Il merito sarebbe premiato, e l’invidia prevenuta. La generosità delF animo verrebbe introdotta in una classe, che ne pare la meno suscettibile. La forza, la destrezza, il coraggio, l’istruzione sarebbero incoraggite. L’idea della propria dignità verrebbe fortificata ed ingrandita. Il desiderio della distinzione verrebbe convertito nel nobile amore della gloria, e non nella perniciosa vanità. L'amore della giustizia verrebbe ispirato ne' giudizii, e la vera idea del merito e dei suoi diversi gradi, comunicata coll’istesso mezzo. In poche parole, una copiosa serie di circostanze le più favorevoli al desiderato sviluppo delle facoltà morali de' fanciulli di questa classe, verrebbe da questa sola istituzione somministrata e disposta. Ma che diremo noi de' gastiglii?

Articolo V
De’ gastighi

legislatore non dee formare un codice penale pe’ fanciulli. Egli non deve fino a questo segno diffidare della probità e de' lumi del magistrato educatore, egli non deve neppure fino a questo segno circoscrivere la sua autorità. I motivi che potrebbero indurlo ad abusarne, sono così deboli e così pochi; i requisiti che si richieggono in colui che l’esercita, sono così alieni dall’ammettere una diffidenza tanto irragionevole; i casi che renderebbero inapplicabili o perniciosi i particolari, regolamenti di questo codice, sarebbero così frequenti, che io credo che il miglior partito sia quello di stabilire alcuni generali regolamenti relativi a quest’oggetto, e di lasciare alla prudenza del magistrato la cura di secondare nell’applicazione le mire del legislatore, senza discendere a que’ dettagli che potrebbero imbarazzarlo non solo, ma anche divenire spesso inutili e perniciosi.

La parte più numerosa di questi regolamenti dovrebbe essere negativa piuttosto che positiva. Il legislatore dovrebbe riguardo a quest’oggetto dire piuttosto quello che non si dee fare, che indicare con soverchia precisione quello che far si dovrebbe.

Egli dovrebbe prima di ogni altro proscrivere interamente l’uso della sferza e del bastone. Néil magistrato né i custodi aver dovrebbero il dritto di battere un fanciullo, in qualunque modo e per qualunque motivo. Egli non dee permettere che i mezzi destinati a risvegliare l’idea della propria dignità vengano combinati con quelli che avviliscono e degradano; che quelli che tendono a fortificare il corpo e spirito,‘siano con quelli combinati che nuocciono all’uno ed all'altro; e che i mezzi che son destinati a formare Il cittadino, siano mescolati con quelli che formano il servo e lo schiavo. L'esperienza ci fa vedere, che i fanciulli avvezzi a provare e temere il bastone ed il flagello, perdono per lo più e la sanità del corpo, e quella sensibilità naturale, madre feconda di tante virtù sociali. Essi divengono vili, feroci, ippocriti, simulati, malevoli, vendicativi e crudeli; essi cominciano fin dall’infanzia a sentire quel secreto piacere di far provare agli altri que’ mali, a' quali sono stati essi medesimi sottoposti.

L’altro regolamento prevenir dovrebbe l’abuso delle pene ignominiose. Nella società de' fanciulli, non altrimenti che in quella degli adulti, la soverchia frequenza di questa specie di pene, ed il soverchio numero di coloro, a' quali vien data, neindeboliscono il vigore e la forza. Nell’una e nell’altra società queste pene sulla sola opinione fondate si debbono con economia adoprare; nell’una e nell’altra società non si debbono adoprare che' contro que’ delitti o quelle mancanze, che di loro natura sono dall’opinione istessa condannate alla ignominia o alla vergogna. I principii che prevenir debbono l’abuso di queste pene, sono comuni per l’una e per l’altra società, ed io li ho bastantemente sviluppati nell’antecedente libro, (58)per potermi qui credere nell'obbligo di ripeterli.

Il legislatore dunque, secondando l’evidenza di questi principii, proibirà al magistrato educatore l’abuso di questa specie digastighi, e gliene indicherà l’uso moderato ed utile. Gli mostrerà ’il male, che vi sarebbe ad avvezzare i fanciulli a vedere con minor dispiacere la diminuzione o la perdita dell’opinion de' loro simili; gli farà vedere come questo male indebolir potrebbe l’amor della gloria e l’idea della propria dignità, che si è cercato con tanti mezzi il’ispirare e favorire; gli farà vedere come dar potrebbe una graduazione ai diversi gastighi di questa specie, per proporzionarli a' diversi gradi di mancanza con questa specie di pene punibili; gli mostrerà, finalmente, come regolar ne dovrebbe la pubblicità, e come prevenire un gran male che potrebbe da questa dipendere. Se un fanciullo commetterà un’ignominiosa mancanza, e se questa non è palese che a' fanciulli che con dui convivono sotto la direzione dell’istesso custode, sarà cura di questi di raccomandare a' fanciulli il segreto e di mostrar loro l’importanza d’occultare agli altri fanciulli il delitto del loro compagno. La sua pena, in questo caso, sarà severa, ma non sarà pubblica. Essa non sarà nota che a' fanciulli che sotto l’istesso tetto convivono. Ma se la mancanza è ignominiosa e pubblica, il gastigo sarà allora ignominioso e pubblico, ed il magistrato non trascurerà di dare a quest’esecuzione tutto quell’apparato, che la natura del delitto e la importanza di mostrarne l’orrore richieggono. Ma in questo caso il fanciullo delinquente pubblicamente infamato non sarà forse un fanciullo perduto? Il sentimento della propria viltà e della perdita della comune opinione non impedirà forse in lui l’azione di tutte quelle cause, che potrebbero correggerlo e migliorarlo?

Per prevenire questo male noi proponiamo un rimedio, che ci pare il più efficace. Il magistrato, dopo l’esecuzione della ignominiosa pena, terrà un energico discorso sulle conseguenze del delitto e i mali che l'accompagnano. Quindi, rivolgendosi al fanciullo delinquente, gli dirà: il dritto che tu avevi all’amore ed alla stima de' tuoi compagni, si è da te perduto; ma da te dipende di riacquistarlo. La generosità di un’azione può distruggere l’ignominia di un’altra; una luminosa correzione può riparare i mali d’una vergognosa corruzione. Quando tu avrai rimeritata la nostra stima ed il nostro amore, con una cerimonia ugualmente pubblica ti sarà restituito e manifestato questo prezioso dritto; ed io, che sono per legge il vostro padre comune, sarò il garante delle promessa che ti fo in nome de' miei figli e de' tuoi fratelli. Sarà quindi cura del magistrato di adempire a questa promessa, e di dare all’indicata' cerimonia tutta quella tenerezza ed efficacia, della quale è suscettibile. Io lascio a colui che legge, la riflessione del duplicato vantaggio che produrrebbero e la pena ed il perdono. Passiamo agli altri generali regolamenti relativi a quest’oggetto.

Per render più importante a' fanciulli la persona del custode, e più rispettati i suoi ordini, bisognerebbe lasciar anche a questi il dritto di punirli con alcune specie di gastighi. Tale sarebbe, per esempio, la privazione di qualche cibo o di qualche divertimento, purché non oltrepassasse la durata di un giorno; giacche i gastighi più severi, o per la loro natura, o per la loro durata, dovrebbero soltanto essere nel potere del magistrato educatore.

Tanto il magistrato quanto il custode, così nel correggere come nel punire, serbar dovrebbero quella freddezza che dipende dalla ragione, e mai abbandonarsi a quel calore ed a que’ trasporti, che indicano la passione e ne derivano. Il legislatore dovrebbe rigorosamente inculcare questo principio la violazione del quale potrebbe in molti casi render non solo inutile, ma anche perniciosa la correzione ed il gastigo.

Per inspirare a' fanciulli il maggiore rispetto per la verità, ed il maggior orrore per la menzogna, il legislatore non permetterà mai che questa resti impunita, ed insinuerà al magistrato ed a' custodi una diminuzione nel gastigo, tutte le volte che una sincera confessione sarà succeduta alla mancanza.

La calunnia sarà severamente punita, come lo sarà qualunque altra azione, che indichi perversità di cuore, bassezza e viltà. Si userà ài contrario un’opportuna indulgenza, riguardo a quelle mancanze che dipendono dalla vivacità, che si dee piuttosto desiderare che temere in quell’età.

La parzialità e l’ingiustizia sarà colla maggior diligenza evitata, così nel correggere come nel punire. Chiunque ha profondamente osservato il corso dello spirito umano, conoscerà quale alterazione può produrre nel moral carattere di un fanciullo la coscienza d’una ingiustizia e di un torto ricevuto da colui, al quale la sua educazione è affidata. Nell’educazione pubblica questo male deve anche essere più diligentemente evitato; perché più frequenti sono le occasioni d’incorrervi, e più funeste ne' sono le conseguenze. Se il magistrato o il custode si avvedranno d’avere involontariamente commessa un’ingiustizia contro un fanciullo, essi dovranno subito ripararla, e non dovran manifestare ripugnanza alcuna nel confessare il loro errore. Sarà cura del magistrato educatore di invigilare sull’imparzialità e sulla giustizia de' custodi, e di obbligarli ad osservare il proposto regolamento tutte le volte che o volontariamente o involontariamente avran mancato a' doveri che ne dipendono.

Questi sono i generali regolamenti, co' quali il legislatore diriger dovrebbe l’uso de' gastighi. Il rapporto che questi avrebbero con tutto il sistema della morale educazione è evidente. Vediamo ora quello che aver vi dovrebbero i generali regolamenti, che la religione riguardano.

Articolo VI
Della, religione

Se io non scrivessi per tutti i paesi, per tutti i popoli, per tutti i tempi; se l’universale ed il perenne non fossero

l’oggetto di questa scienza; o pure se uno fosse il tempio, una l’ara ed uno il nume; se comune fosse il culto, uniformi i dogmi e la fede uniforme presso tutti i popoli ed in tutti i tempi; io non lascerei sicuramente d’entrare su quest’oggetto in que’ dettagli che ora sono nell'obbligo d’evitare, ed in vece di limitarmi a pochi principii suscettibili d’una più universale applicazione, io esporrei minutamente tutti quelli che diriger dovrebbero questa parte della morale educazione. Dopo questa prevenzione colui che legge non mi accuserà, io spero, d’aver supposta una poca importanza a questo grande oggetto, per la brevità colla quale verrà trattato, e per l’apparente superficialità colla quale parrà osservato. Veniamo dunque all’esposizione de' pochi regolamenti, che possono essere suscettibili d’un uso più universale.

Senza né ammettere, né contrastare il noto principio dell’Autore dell’Emilio sull’età, nella quale converrebbe cominciare a dar le prime idee di religione all’allievo, è fuor di dubbio che il suo sistema non potrebbe aver luogo in qualunque piano di pubblica educazione. Le ragioni di questa impossibile applicazione mi sembrano così evidenti, che inutile sarebbe lo esporle.

L’età che io destinerei alle religiose istruzioni, esser dovrebbe quell'istessa che nel nostro piano vien destinata alle istruzioni morali. In ciascheduna domenica dovrebbero quelle a queste esser sostituite; e l’istruttore esser dovrebbe il magistrato istesso. Se mi si opporrà che questa cura dovrebbe esser affidata a' ministri dell'altare piuttosto che al magistrato educatore, io risponderò che siccome niuna religione proibisce a' padri d’istruire ne' suoi dogmi i figli, molto meno potrà proibirlo al magistrato, che dalla pubblica Autorità viene scelto per farne le veci; dirò che non si deve mai inutilmente moltiplicare il numero degl’istruttori; dirò che il magistrato si dee supporre più istruito nell’arte di istruire i fanciulli, di quello che lo può essere un uomo che a tutt’altro oggetto ha rivolte le sue cure; dirò finalmente, che finché non si combinino perfettamente gl’interessi del sacerdozio con quelli della società e dell’impero, è sempre pericoloso il metterlo a parte della pubblica educazione.

Se non si vogliano fare de' fanciulli tanti idolatri, o almeno tanti antropomorfiti, il magistrato non risparmierà alcuno de' mezzi atti a comunicar loro la più semplice e la più augusta idea della Divinità, allontanando dalle sue espressioni tutto ciò che potrebbe associarla alle materiali immagini, alle quali l’uomo è pur troppo inclinato a rapportarla.

Non vi sforzate, egli dirà loro, di concepire la natura dell’Essere che voi dovete adorare. Contentatevi di sapere che niente di ciò, che vedete, che toccate, che conoscete o che potete conoscere, ha luogo nella sua natura. Autore di tutto ciò ch’esiste, una distanza incomprensibile ed infinita separa l’opera dall’artefice. Il principio ed il fine non hanno alcun rapporto con lui, perché egli è stato sempre, e sarà. Puro Spirito, egli non ha altro rapporto colla materia, fuori di quello d’averla creata e di conservarla. In questa parte dell’universo, che noi abitiamo, l’uomo è quello che ha da lui ricevuto un più copioso numero di doni. Egli è quello che dee per conseguenza manifestargli una riconoscenza maggiore. La venerazione e l’amore pel Supremo Essere comprende una parte de' doveri, che da questa riconoscenza dipendono. Il corrispondere alla destinazione ch’egli ci ha data, ne comprende l’altra. La prima serie di questi doveri sarà l’oggetto di queste religiose istruzioni, eia seconda sarà l’oggetto delle istruzioni morali.

Ecco un piccolo saggio del modo, col quale il magistrato dovrebbe comunicare l’idea della Divinità a' fanciulli, e procedere a quelle che riguardano i doveri che ne dipendono. Io ho voluto piuttosto indicare l’ordine de' pensieri, che lo sviluppo che si dee loro dare. Sarà cura del magistrato d’illustrarli e di metterli alla portata de' fanciulli di quell’età, che noi destinata abbiamo a questa istruzione. (59)

Senza impegnarci ad esaminare come il magistrato proceder dovrebbe nella manifestazione de' particolari principii della patria religione e del pubblico culto, ciò che sarebbe impossibile, attesa l’immensa varietà delle religioni e de' culti, noi ci restringiamo ad ispirargli il maggior zelo, nel prevenire il fanatismo e le false massime di morale, che dalle false idee religiose proceder potrebbero, e che in questa classe più che nell’altra sarebbero perniciose; poiché destinata a servire la società colle braccia, essa non può partecipare a quelle istruzioni ed a quei lumi, che potrebbero nell’altra distruggere queste prime impressioni e questi primi errori.

La pratica del culto corrisponderà all’idea che il magistrato ne ha data. Poche preghiere, semplici é brevi, ma piene de' luminosi principii della morale universale, che sono propriamente quelli della nostra divina Religione, saranno alla presenza de' custodi dagli allievi recitate, nel principio del giorno e nel suo termine. La maggior compostezza e la più religiosa dignità accompagneranno questo breve e giornaliero esercizio di religioso culto.

Ecco tutto ciò che l’universalità del mio argomento mi permetteva di dire sull’articolo della religione. Io lascio al particolare legislatore di ciaschedun popolo la cura di supplire alla necessaria imperfezione di questa ultima parte del mio sistema di morale educazione; e lascio a colui che legge, la riflessione degli effetti che produr dovrebbe la copiosa serie delle circostanze, che l’intero sistema offrirebbe allo sviluppo delle facoltà morali de' fanciulli di questa classe.


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CAPO XI

Generali regolamenti sull’educazione scientifica di questa prima classe

Io sarò così breve in questa terza parte del mio piano di popolare educazione, come sono stato diffuso nelle altre due. L’oggetto ch'essa riguarda, basta per indicarci la poca estensione, di cui è suscettibile nella classe, della quale io parlo.

L’istruzioni comuni per i fanciulli di questa classe si riducono ad ottenere, che sappian leggere e scrivere nel proprio idioma, che abbian quella cognizione dell’aritmetica che si richiede per la loro destinazione, che sian istruiti ne' militari esercizii ed in quella parte delle patrie leggi ch'è necessaria a regolare le loro azioni, a garantirli dalle frodi, ad allontanarli da' delitti.

In ciascheduna Comunità vi sarà un istruttore per li primi tre oggetti, ve ne sarà uno per lo quarto, ed il magistrato si riserberà per se l’ultimo.

I fanciulli, che non sono ancora giunti all’età che si richiede per esser ammessi alle morali istruzioni, (60)impiegheranno l’ora a quell’oggetto destinata, nell’imparare a leggere ed a scrivere; (61)e quando l’ora delle morali istruzioni è terminata, nel mentre che il magistrato proferisce il morale discorso agli allievi della terza ripartizione, cioè a quelli che han terminato il biennale corso delle morali istruzioni, la metà dell’ora a quest’oggetto destinata sarà così da' fanciulli della prima, come da quelli della seconda ripartizione, impiegata nell’istruzione aritmetica. (62)

I militari esercizii non s’insegneranno che agli allievi che han terminati i due anni, che richiede il replicato corso delle morali istruzioni; e l’ora che sarà a quest’oggetto destinata, sarà quell'istessa che viene da' fanciulli della seconda ripartizione impiegata nelle morali istruzioni. Questi esercizii si proseguiranno fino al termine dell’educazione. Essi saran diretti dalla soda tattica, e non da quell’arte teatrale, alla quale si è pur troppo dato questo nome. Poche evoluzioni, ma semplici e celeri, lunghe marcie ordinate e veloci, scariche più celeri che simmetriche ed armoniche, faranno i principali oggetti di questi esercizii. (63)Difensore nato della patria, ogni cittadino verrebbe in questo modo istruito nell'arte che oggi fa con tanta rovina il mestiere esclusivo d’un immenso numero di mercenarii oziosi; ed il nostro piano di correzione contro questo pernicioso abuso (64)riceverebbe da questa istituzione un nuovo appoggio ed una facilità maggiore.

L’ultima istruzione finalmente comune a tutti gli allievi di questa classe sarà quella che riguarda quella parte delle patrie leggi, che in uno Stato bene ordinato dovrebbe essere comune a tutti i suoi individui. Quando il Codice delle leggi fosse, quale dev’essere, e non quale è; quando foggiato fosse sul sistema da noi ideato in quest’opera, un breve corso di lezioni basterebbe per rendere ciaschedun uomo istruito in quella parte di queste leggi, che regolar deve la condotta dell’individuo. Si dovrebbe per quest’oggetto ordinare un estratto del Codice che contenesse quella porzione del dritto, che a questo fine corrisponde. Quest’estratto dovrebbe essere in quarantotto lezioni ripartito, in maniera che con una lezione per ogni Domenica compir si potesse, in un solo anno, l’intero corso. Questo si dovrebbe in ogni anno replicare, e non vi dovrebbero essere ammessi che quegli allievi che si ritrovano tra il penultimo e l’ultimo anno della loro educazione. In questo modo ciaschedun cittadino, prima di essere dalla pubblica Educazione emancipato, verrebbe istruito sull’intero corso di queste lezioni.

È chiaro che in tutte quelle forme di Governi, ne' quali la classe, di cui si parla, avrebbe parte all’esercizio della sovranità, quest’importante istruzione dovrebbe esser seguita da quella anche più di essa importante, de' generali principii dell’ordine sociale, e di tutte quelle particolari nozioni che la parte, ch'essi dovrebbero un giorno avere all’esercizio della sovranità, renderebbe così per essi, come per la società intera, d’un’assoluta necessità. Per questa ragione appunto, l’epoca della precedente istruzione dovrebbe esser anticipata d’un anno in questi Governi, per lasciare nell’ultimo anno il suo luogo a quest’ultima specie d’istruzione, l’importanza della quale, l’esattezza e le vedute colle quali converrebbe che fosse agli allievi comunicata, richiederebbero la precisa direzione della legge, per non lasciare su di essa arbitrio alcuno al magistrato istruttore.

Il tempo che noi destineremo a questi oggetti, sarà da qui a poco indicato nel Capo della ripartizione delle ore.

A queste istruzioni, che debbono esser comuni per tutti gl’individui di questa classe, si uniranno quelle che riguardano gli allievi delle diverse classi secondarie, nelle quali questa prima classe è suddivisa.

Ma quali sono queste istruzioni, e quale il modo che tener si dee per comunicarle? Ecco l’oggetto del seguente Capo.


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CAPO XII

Particolari istruzioni per gli allievi delle varie classi secondarie, nelle quali questa prima classe si è suddivisa

Nel Capo, nel quale si è parlato della ripartizione e della destinazione de' fanciulli nelle varie classi secondarie, nelle quali questa prima classe principale si suddivide, si è lasciata a ciaschedun custode la cura d’istruire nel mestiere ch’egli professa i fanciulli alla sua custodia affidati.

Ma siccome l’agricoltura non meno che le arti e gli oggetti tutti de' meccanici lavori degli uomini possono essere suscettibili di correzione e di perfezione; siccome il metodo applicabile in un paese non lo è forse in un altro; siccome i requisiti, che noi ricerchiamo ne' custodi, non ci permettono di supporre in lui il talento e le cognizioni che quest'oggetto richiederebbe; siccome finalmente sarebbe utile non solo, ma necessario, che i pregiudizii così nell’agricoltura, come nelle arti si distruggessero, le utili novità, che giornalmente si scoprono, si adottassero, i lumi economici si diffondessero; così mi sono io fatto un dovere di andare in cerca d’un mezzo, che corrisponder potesse ad un fine così importante. Dopo varie riflessioni, io ho creduto non potersi ritrovare che nell’istituzione d’una società economica, i membri della quale diffusi per tutte le provincie dello Stato si comunicassero a vicenda le loro riflessioni sulle correzioni e le perfezioni che dar si potrebbero a' diversi oggetti, che ne' paesi da essi abitati occupano gl’individui delle varie classi secondarie, delle quali parliamo; e che quando le loro idee approvate venissero dalla società istessa, fosse un dovere di ciaschedun custode di adottare nel mestiere che professa il nuovo metodo che gli verrebbe prescritto. Queste pratiche istruzioni, nel tempo istesso che favorirebbero la perfezione dell'agricoltura e delle arti, istruirebbero i fanciulli nelle nuove scoverte che vi si fanno, e li avvezzerebbero a non dare tanto peso a' vecchi usi, che hanno ordinariamente tanto impero sull’opinione del popolo.

È inutile il dire che ne' paesi agricoli l’agricoltura richiamar dovrebbe le prime cure di questa società. Nella terza parte di questo quarto Libro, allorché noi parleremo delle leggi che riguardano la pubblica istruzione, noi parleremo a lungo dell’istituzione di questa società economica, ed indicheremo le leggi, colle quali dovrebbe essere stabilita e diretta. Ci basti qui d’aver osservata l’influenza, che questa società aver dovrebbe in questo piano di popolare educazione.

Due istruzioni inutili o superflue agli allievi di alcune di queste secondarie classi sarebbero necessarie a quelli di molte altre. Queste sono l’istruzione della geometria pratica e del disegno. Niuno ignora quanto la più gran parte delle arti si risenta dell’ignoranza, nella quale sono coloro che l’esercitano, così dell’una, come dell’altro. Niuno ignora i continui errori, ne' quali da essi s’incorre per quest’ignoranza, la perdita del tempo che questa produce, la moltiplicità de' modelli che sono obbligati a fare per un istesso lavoro, e l’imperfezione delle loro opere, derivata dall’istessa causa. Noi crediamo dunque utile non solo, ma necessario di stabilire in ciascheduna Comunità queste due istruzioni, alle quali però non interverranno se non gli allievi di quelle secondarie classi, alle quali sono esse necessarie. L’ora a quest’oggetto destinata sarà quella che succede a' morali discorsi, in maniera che gli allievi, che saran giunti all’età che si richiede per esser ammessi a questi discorsi, e che appartengono a quelle secondarie classi, per le quali queste particolari istruzioni verranno fissate, anderanno per un intero anno, un’ora più tardi degli altri, all’esercizio del mestiere che professano. L’una e l’altra istruzione, necessaria fino ad un certo punto, dovrebbero venir limitate dalla destinazione di questi allievi. Tutto ciò, che è inutile o superfluo, dev’esser escluso in un piano di pubblica educazione, nel quale ciaschedun momento è sì prezioso che non potrebbe esser impiegato in un oggetto indifferente, senza esser tolto ad un oggetto essenziale, e nei quale bisogna sempre proporzionare i fini coi mezzi, che vi sono per conseguirli. Per lo primo di questi motivi si dovrebbero stringere ad un’ora e ad un anno solo la durata di questa doppia istruzione; e pel secondo, affin di risparmiar la spesa d’un particolare istruttore, si dovrebbe incaricare sì dell’una, come dell’altra istruzione, la persona istessa che verrebbe impiegata nelle prime tre comuni istruzioni, delle quali si è nell’antecedente Capo parlato. La diversità delle ore, nelle quali avrebbero luogo le diverse sue lezioni, la piccola loro durata (65)e la facilità di trovare nell’istessa persona le nozioni necessarie a questi diversi oggetti, ci permettono questa economica speculazione.

Osservando la natura delle diverse professioni, nelle quali i fanciulli di questa prima classe debbono esser ripartiti, ognuno potrà facilmente vedere, che tra queste ve ne sono molte che occupar non possono l’uomo in tutte le stagioni dell’anno; ve ne sono delle altre che hanno questa eccezione in alcuni climi soltanto; ve ne sono delle altre che le hanno in molti giorni; ve ne sono finalmente delle altre che possono ammettere il contemporaneo esercizio di un altro mestiere, di un’altra occupazione. Gli estrattori della seta, per esempio, non possono occuparsi in questo mestiere che in un dato tempo dell’anno; in alcuni climi l’agricoltore resta interamente ozioso nel verno; ne' cattivi tempi il pescatore resta sulla spiaggia senza poter esercitare il suo mestiere; il pastore, allorché pasce il suo gregge; il marinaro, allorché è nel porto, allorché naviga col soccorso de' venti, allorché sulle rade aspetta il termine di que’ giorni, che la custodia della pubblica sanità prescrive, potrebbe occuparsi in un’altra arte compatibile colla sua situazione, la quale nel tempo istesso che l’allontanerebbe dall’ozio, moltiplicherebbe i mezzi della sua sussistenza. (66)

Tutti i fanciulli dunque, che verranno destinati ne' varii mestieri di questa natura, saranno anche istruiti in un’altra arte con quello combinabile, ed impiegheranno in questa istruzione quel tempo che sarebbe per essi perduto, se venissero unicamente istruiti nel mestiere, al quale vengono destinati. Sarà cura del magistrato di scegliere l’arte la più combinabile con quella, alla quale dee servire di supplemento; e sarà cura del custode di condurre i fanciulli a lui affidati da quell’artefice, che professa quella tale arte, in tutti que’ tempi dell’anno, ne' quali essi non potrebbero nel proprio mestiere occuparsi. I progressi dell’industria nazionale, un abito maggiore all’occupazione, un maggiore allontanamento dall’ozio, una più facile, meno precaria e più comoda sussistenza, preparata dalla moltiplicazione de' mezzi onde procurarla, sarebbero i salutari effetti di questa istituzione, la quale, nel tempo istesso che produrrebbe tutti questi vantaggi, non altererebbe in minima parte l’ordine generale di questo piano di popolare educazione. Il seguente Capo basterà a persuadercene.


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CAPO XIII

Della ripartizione delle ore

Per dare una maggior chiarezza ed una precisione maggiore a questo piano di popolare educazione, io credo necessario d’indicare la ripartizione delle ore. Io preferisco il rischio d’annoiare chi legge, a quello di lasciarlo indeciso sulla possibilità di eseguire quanto si è proposto. Senza indicare l’ora, nella quale si dovrebbero gli allievi destare dal sonno, la quale dee variare come variano le stagioni e i climi, io comincio questa ripartizione delle ore dal momento della sveglia. La prima ora sarà destinata a Vestirsi, alle lavande da noi proposte, alla preghiera della quale si è parlato, al rassettamento dell’abitazione e de' letti, ed alla prima refezione.

Scorsa la prima ora, ciaschedun custode condurrà gli allievi a lui affidati nel pubblico Ginnasio. Ivi si faranno le tre ripartizioni da noi proposte.

Gli allievi della prima ripartizione saran condotti nel luogo, ove s’insegna a leggere ed a scrivere; quelli della seconda saran condotti in quello destinato alle morali istruzioni; e quelli della terza saran condotti nel luogo destinato a' militari esercizii. Queste tre diverse istruzioni occuperanno la seconda ora.

Terminata questa seconda ora, i fanciulli della seconda ripartizione, che hanno assistito alle morali istruzioni, si uniranno a' fanciulli della prima ripartizione per ricevere le aritmetiche lezioni; e quelli della terza ripartizione onderanno ad ascoltare il discorso morale, che dal magistrato sarà proferito secondo il piano da noi proposto. Una mezz’ora sarà a questi oggetti impiegata.

Scorsa questa prima metà della terza ora, i fanciulli si riordineranno di nuovo sotto i loro respettivi custodi, e saran da essi condotti all’esercizio delle diverse professioni, alle quali sono destinati, o a quelle che debbono a queste servire di supplemento, quando la natura della loro destinazione e le circostanze nell’antecedente Capo indicate richieggono.

Coloro che a quelle secondarie classi appartengono, per le quali le particolari istruzioni della geometria pratica e del disegno sono state stabilite, vi anderanno, come si è detto, un’ora più tardi, durante l’anno a quest’oggetto destinato.

La seconda metà della terza ora, e le altre tre ore che a questa succedono, saranno all’esercizio della propria professione impiegate.

Il pranzo comincerà colla settima ora, ed il breve riposo che dee succedergli terminerà con essa. (67)

Nell’ottava ora si riprenderà l’esercizio del mestiere che si professa, e si continuerà fino al termine della nona.

Nel principio della decima ora si darà la seconda refezione, e si condurranno gli allievi nel campo destinato a' comuni esercizii diretti a rallegrare i loro spiriti ed a fortificare i loro corpi. Questi si continueranno fino al termine della duodecima ora.

Cominciando la decimaterza ora, gli allievi si riordineranno sotto i loro custodi, e saranno da essi condotti nelle loro respettive abitazioni. Quest’ora sarà anche impiegata ad arbitrio de' fanciulli a' loro innocenti piaceri.

La decimaquarta ora sarà impiegata nella cena e nella proposta preghiera. Così da questa, come da quella del mattino, i fanciulli della prima ripartizione, che non sono ancora iniziati alle religiose istruzioni, saranno esclusi; poiché noi non vogliamo che le labbra si avvezzino a proferire ciò che il cuore non sente, e l'intelletto non concepisce. Un rigoroso silenzio sarà ad essi imposto durante questo tempo. Spettatori e non partecipi del religioso culto, la privazione istessa ispirerà loro il desiderio di avervi parte, e l’imponente rispetto, col quale si eserciterà da' loro compagni, renderà sempre più augusto e più venerando a' loro occhi l’ignoto Essere, al quale vien diretto.

Terminata la preghiera, i fanciulli della prima e della seconda ripartizione anderanno a dormire, e quelli della terza potranno, volendo, occuparsi nelle proposte letture fino all’ora decimottava.

Nella vigilia però della festa quest’ordine sarà alterato per dar luogo a' notturni esercizii, de' quali si è mostrato il fine e i vantaggi nella parte fisica dell’educazione. Questi esercizii occuperanno la decimaquinta ora, e siccome nel giorno di festa la sveglia sarà ritardata d’un’ora, così la stabilita durata del sonno non riceverà alcuna alterazione.

Questa è la ripartizione delle ore ne' giorni di lavoro, in quelli poi di festa è la seguente. Così in questi, come in quelli, la prima ora sarà della maniera istessa impiegata.

Nella seconda ora i fanciulli saran condotti al Tempio per assistere alle cerimonie del pubblico culto.

Terminate le cerimonie, nella terza ora gli allievi della seconda ripartizione, che debbono assistere alle religiose istruzioni, saran condotti dal magistrato nel luogo a quest’oggetto destinato; ed in questo tempo quelli della prima e della terza ripartizione potranno, a loro talento, occuparsi nel campo a' loro ginnastici esercizii consacrato.

Nella quarta ora gli allievi della seconda ripartizione si uniranno agli altri, nel mentre che quelli, che sono giunti all’età da noi stabilita per l’istruzione delle patrie leggi, anderanno ad ascoltare le lezioni del magistrato a quest’oggetto dirette. (68)

Terminata la quarta ora, tutti gli allievi si riuniranno di nuovo, e saran da' custodi condotti nel luogo destinato alla istruzione di nuotare. Quest’esercizio occuperà la quinta ora ed una parte della sesta.

Nel fine della sesta ora tutti gli allievi si ritroveranno nelle respettive loro abitazioni, e nel principio della settima ora comincerà il pranzo.

Dall’ottava fino all'intera decimaseconda ora, essi saranno ne' pubblici e comuni esercizii occupati e divertiti.

Nella decimaterza ora si ritireranno di nuovo nelle loro case, e da questo momento il solito ordine degli altri giorni si riprenderà senza varietà alcuna.

Fissata la ripartizione delle ore, vediamo ora quale dovrebbe essere in questa classe la durata dell’educazione, e quale il suo termine.


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CAPO XIV

Durata dell’educazione di questa prima classe, e suo termine

Tredici anni durar dovrebbe l’educazione de' fanciulli di questa prima classe, e col decimottavo anno della loro vita dovrebbe terminare. Una più breve o più lunga durata, un più o meno prolungato termine, sarebbero ugualmente esposti avarii inconvenienti, che io mi astengo d’enumerare, perché richiederebbero un lungo esame.

Gli allievi dunque di questa classe, giunti al decimottavo anno della loro vita, non dovrebbero aspettar altro che il giorno destinato alle solennità, che accompagnar dovrebbero la pubblica emancipazione, per ritornare nel paterno tetto, ed uscire dall’educazione del magistrato e della legge.

Or siccome questa pubblica emancipazione, tale quale noi l’abbiamo immaginata, e quale sarà nel seguente Capo esposta, non potrebbe farsi che in un dato tempo dalla legge fissato; e siccome tutti gli allievi, che nell’istesso anno terminerebbero il corso della loro educazione, non lo terminerebbero nell’istesso mese e nell’istesso giorno; così, per rendere questa differenza quanto più piccola sia possibile, si dovrebbe stabilire che questo giorno alla pubblica emancipazione destinato ricorresse due volte in ciaschedun anno, e che l’uno dovesse essere dall’altro separato dall'interstizio di sei mesi.

In questo modo tutti gli allievi, che ne' sei mesi che se parano l’una emancipazione dall’altra, sarebbero giunti al termine della loro educazione, o a' quali non mancherebbero che pochi giorni per giugnervi, dovrebbero essere ammessi all’emancipazione; la differenza sarebbe piccola, e l’emancipazione potrebbe essere accompagnata da quelle solennità, e regolata nel modo che io credo necessario per coronar l’opera d’un’educazione di questa natura.


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CAPO XV

Delle solennità che accompagnar dovrebbero la pubblica emancipazione,
e del modo col quale dovrebbe essere dalla legge regolata e diretta

Vi sono alcune epoche nella vita umana, che sono fatte per non essere giammai dimenticate. Tale sarebbe quella dell’emancipazione, della quale qui parliamo. Il cangiamento che questa produce nello stato dell’uomo è così grande, che l’età la più lunga non basterebbe a distruggerne la memoria, non solo dell’atto istesso col quale si ottiene, ma delle circostanze tutte che l’hanno preceduta ed accompagnala. Cerchiamo dunque di dare a quest’atto ed a queste circostanze la maggiore efficacia possibile; cerchiamo di renderne preziosa la rimembranza; cerchiamo di dirigerlo in modo, che l’impressione ne sia profonda, e l’influenza durevole per tutta la vita.

Uno degli errori del nostro secolo e de' nostri contemporanei è di adoprare la ragione troppo denudata, come se l’uomo non fosse che spirito. Trascurando la lingua de' segni, che parla all'immaginazione, si è trascurato il più energico de' linguaggi.

Sembra che noi dimenticato abbiamo ciò che gli antichi conobbero; pare che ignoriamo che l’impressione della parola è per lo più debole, che si parla al cuore per mezzo degli occhi molto meglio che per mezzo delle orecchie, e che l’oratore ha ordinariamente detto più, quando ha meno parlato.

Licurgo vuol persuadere gli Spartani in favore della rigidezza della sua disciplina: fa combattere due cani, l’uno avvezzo alla caccia e l’altro all’ozio domestico. Temistocle rifugiato presso Admete suo mortale inimico prende il figlio tra le braccia, si pone sull'ara in mezzo agli Dei domestici, e gli rammenta in questo modo i dritti e i doveri dell’ospitalità. Per inasprire il popolo contro i Tarquinii, Bruto gli presenta il cadavere della violata Lucrezia; e per vendicare la morte di Cesare, l’oratore fa condurre nel Foro, coverto dall’insanguinata veste, il corpo dell’estinto Dittatore. Nelle congiure il capo conduceva i soci in una caverna o ne' sotterranei di un edificio; immolava una vittima, ne riponeva il sangue in una coppa; i congiurati vi bagnavan le armi, e ne beevano; e quindi, dopo una brieve concione, si proferiva il terribile giuramento. Simili mezzi sono ignoti alla moderna eloquenza. Stretti ragionatori, noi diam tutto all’argomento e niente all’azione. Con questo metodo noi possiam convincere, ma non eccitare; possiam produrre la certezza, ma non gl’impulsi; possiam frenare, ma non muovere.

Teniamo l’opposto metodo; imitiamo gli antichi; uniamo i ragionamenti alle azioni, i detti a' segni, le parole allo spettacolo; diamo agli atti civili le imponenti cerimonie degli atti religiosi; profittiamo dell’influenza che le solennità e i riti han sempre avuto sugli uomini; serviamoci della doppia strada delle orecchie e degli occhi per penetrare nell'intelletto e nel cuore, ed in questo modo noi persuaderemo nel tempo istesso e faremo agire.

Convinto di questa verità, la quale se ha luogo riguardo a tutti gli uomini, lo ha maggiormente riguardo a' giovani, l’immaginazione de' quali molto più viva è anche più feconda e più vigorosa ne' suoi effetti, ho creduto di dover regolare nel seguente modo la pubblica emancipazione.

Tutti gli allievi delle varie Comunità nell’istessa provincia comprese, che saran giunti all’età dalla legge fissata come il termine della pubblica educazione, si condurranno, nella vigilia del giorno alla pubblica emancipazione destinato, in quel luogo della provincia, ove il Magistrato supremo d’educazione risiede. Rispettabile per la sua età, per la sua carica, e pei meriti che si richieggono per ottenerla, (69) questo Magistrato supremo sarà in quel giorno l’interprete della patria e l’organo de' suoi sentimenti.

Una marcia maestosa ed imponente condurrà gli allievi nel Tempio. Questo sarà per tutti aperto; ma gli allievi vi avranno un luogo distinto. Un alto trono sarà la sede del magistrato, e la dignità della sua carica sarà indicata dalle insegne della sua magistratura. Sopra un trono più alto sarà collocato il codice delle leggi. L’ara sarà ornata dagli emblemi delle virtù civili, e la cerimonia' comincerà coll’inno della riconoscenza e delle promesse, Quest’inno, concepito dal filosofo, sarà cantato dal sacerdote, e gli allievi ne faranno il coro. Lo stile ne sarà semplice e sublime, l’idioma volgare, e la musica, molto diversa dalla moderna, sarà regolata sui principii degli antichi, che meglio di noi la combinavano colle vedute della legge e co' sociali interessi. (70)

Terminato l’inno, un araldo intimerà in nome della legge il silenzio e l’attenzione, ed il magistrato comincerà allora il seguente discorso: (71)

Figli della patria, allievi del magistrato e della legge, ascoltate le ultime lezioni di un uomo che ha vegliato per tredici anni sulla vostra infanzia, e per altrettanto tempo ha preseduto alla vostra educazione.

L’ignoranza e gli errori erano l’eredità che i vostri padri vi avevano preparata. Il contagio della bassezza e de' vizii era il pericolo che sovrastava alla, vostra adolescenza. La depressione o il delitto sarebbero state le appendici dell’età matura. Servi vili o violatori delle leggi, l’ignominia o la pena avrebbero seguite le vostre azioni. Il cavallo ed il buecompagni delle vostre fatiche, non meno ragionevoli di voi, ma di voi più forti, sarebbero stati più preziosi di voi per la società e per lo Stato. Indifferenti alla patria, e la patria indifferente per voi, voi non avreste avuto di cittadini che il nome, come non avreste avuto di uomini che le sembianze. Consci della vostra viltà, voi lo sareste divenuti agli occhi degli altri; privi della stima di voi medesimi, voi non avreste potuto né meritare né ottenere quella degli altri uomini; voi non avreste potuto evitare il dispregio che colla violenza, gli oltraggi che col delitto. La protezione delle leggi avrebbe forse potuto garantirvi dagli attentati della forza; ma chi avrebbe potuto difendervi dagli insulti dell’opinione?

Una sola educazione, simile a quella che voi avete ricevuta, poteva liberarvi da tutti questi mali. Essa sola poteva sostituire l’istruzione all’ignoranza, le verità agli errori. Essa sola poteva, nella condizione nella quale siete nati, liberarvi dal contagio della bassezza o de' vizii. Essa sola poteva elevare i vostri animi e renderli degni della virtù. Essa sola poteva riempiere i vostri cuori delle grandi ed utili passioni, per renderli inaccessibili alle vili e perniciose. Essa sola poteva ispirarvi l’idea della propria dignità, e prepararvi la stima degli altri, col rendervi prima stimabili a voi medesimi. Essa sola poteva, in poche parole, rendervi degni di appartenere ad una città, e di meritare il nome di cittadini.

Voi dovete alla patria tutti questi beneficii. Chi di voi sarà l’ingrato? Che dovete voi fare per non esserlo?

Siate felici: cercate la felicità; ma non v’ingannate nella scelta de' mezzi che ve la debbono procurare. Questa è la riconoscenza che la patria esige da vol. Voi sarete felici e grati, se cercherete la felicità nella coscienza dell’innocenza, e nella privazione de' rimorsi. Voi sarete felici e grati, se cercherete la felicità nell’occupazione e non nell’ozio, nella temperanza e non nella crapola, nella frugalità e non nell’ingordigia. Voi sarete felici e grati, se cercherete la felicità nelle braccia di una sposa virtuosa e non di una meretrice infame, nel seno della famiglia e non ne' postribuli, ne' piaceri dell’innocenza e non ne' trasporti della voluttà. Voi sarete felici e grati, se sarete circondati da' frutti de' vostri innocenti amori, e non da' testimoni de' vostri delitti; se l’altrui letto sarà da voi rispettato, come sarà custodito il vostro dall’amore e dall’onestà; se adempirete a' doveri d’uomo e di cittadino, non pel timore delle pene, ma animati dall’amore del giusto e dal rispetto delle leggi. Voi sarete felici e grati, se cercherete la vostra sussistenza nel frutto de' vostri sudori e della industria, e non nelle frodi dell’interesse, ne' raggiri dell’avidità; se preferirete d’inchinare il vostro capo verso il terreno che coltivate, piuttosto che innanzi al ricco ed al potente che vuol comprare le vostre bassezze e pagare la vostra viltà; se profittando de' mezzi, che la natura e l’educazione vi han dato per provvedere da voi stessi alla vostra sussistenza, voi non vi ridurrete nello stato di doverla dagli altri ripetere; se, in poche parole, simili ad una divinità che la solitudine nasconde, e che non apparisce che nel suo tempio, il vostro destino sarà d’essere utili agli uomini, e di niente loro domandare. Voi sarete felici e grati, se la vostra condizione limiterà i vostri desiderii; se i vostri desiderii corrisponderanno co' vostri doveri; se imparerete a perdere ciò che vi può esser tolto; a rinunciare ciò che la virtù vi nega; a possedere ciò che vi appartiene; e ad opporre in questo modo la stabilità del godimento alla fragilità de' beni. Voi sarete felici e grati, se cercherete la vostra felicità nella stima del savio, e non nell’opinione dello stolto; se la cercherete nelle grandi e permanenti distinzioni, e non nelle picciole ed effimere; se la cercherete nella gloria della virtù, e non nella vanità del vizio. Voi sarete finalmente felici e grati, se amerete e difenderete la patria e le leggi che promuovono e proteggono la vostra felicità.

Se la sua salute vi obbliga a perire per essa, voi non lascerete d’esser felici nel momento istesso che precede ed accompagna questo sacrificio. Dominati dalle passioni virtuose e grandi, liberi da tante opinioni erronee, voi lo sarete anche da quella che dà tanto prezzo alla vita. Terminandola sì utilmente,. sì gloriosamente, voi non crederete di finire, ma di cominciare. Voi avete già imparato a conoscere ed a sentire che la morte, ch'è il termine della vita del vile e del malvagio, è il principio di quella del virtuoso e dell’eroe.

Figli della patria, ecco ciò che la vostra madre esige da voi. Essa vi ha preparata la strada che vi dee condurre alla felicità, essa ve ne ha somministrati i mezzi. Se voi ne profitterete, i suoi beneficii saran compensati, le sue cure saran pagate. Avvicinatevi dunque al trono, dové son collocati i decreti e l’espressioni della sua volontà; poggiate la vostra mano sul Codice delle sue leggi; ed in quest’atto solenne fate che il vostro cuore ratifichi la promessa, che le vostre labbra proferiranno, di non vivere che per lei.

Qui il magistrato sospenderà il suo discorso; discenderà dal suo trono per passare su quello, ove è riposto il Codice delle leggi; e, tenendo il venerando libro tra le mani, intuonerà il cantico, a questa cerimonia allusivo, che sarà da' musici proseguito. Intanto gli allievi, l’un dopo l’altro,saliranno sul trono, e, poggiando la loro mano sul Codice, proferiranno l'indicata promessa.

Terminato il cantico, il magistrato ritornerà sul suo trono, e manifesterà l’emancipazione, conchiudendo nel seguente modo il suo discorso:

Cittadini, fidata alle vostre promesse, la legge vi chiama con questo nome, ed io, colla sua autorità, ve ne conferisco i diritti. I tredici anni, che avete passati sotto la nostra educazione, non han servito ad altro che per disporvi a meritarli. Dipende oggi da voi di mostrare d’esserne degni. Sotto l’immediata vigilanza de' pubblici educatori, voi non avete potuto darci che speranze. La posteriore vostra condotta può solo rassicurarci. Lontani da' nostri occhi, abbandonati alla sola direzione della legge, voi dovete fare le nostre veci su di voi medesimi. Voi dovete essere il magistrato ed il custode; voi dovete esaminarvi, spiarvi, dirigervi; voi dovete su di voi medesimi ereditare il nostro ministero e le sue cure.

Finito così il discorso, il magistrato discenderà di nuovo dal trono, ed a piedi dell’altare, nel mentre che i musici canteranno l’inno della concordia, il magistrato e gli allievi si daranno a vicenda gli amplessi della pace. Questo sarà il termine delle solennità e de' riti che accompagneranno la pubblica emancipazione. Gli allievi usciti dal Tempio verran condotti nel luogo destinato alla pubblica mensa, nella quale presederà il magistrato istesso. Al pranzo succederanno i militari esercizii, dopo de' quali ciaschedun allievo sarà inscritto nel libro de' difensori della patria, e sarà congedato. (72)


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CAPO XVI

Mezzi da supplire alle spese che richiede questo piano di popolare educazione

Preveniamo la più forte obbiezione che si potrebbe fare al proposto piano. Togliamo, quanto si può, agli uomini inimici del bene i pretesti da calunniarlo. Fortifichiamo le speranze del saggio, ed indeboliamo le opposizioni dello stolto e dell’iniquo.

Un Governo spende in un oggetto tesori immensi; quasi tutte le sue rendite sono a quest’oggetto impiegate; i vantaggi che ne raccoglie non sono che apparenti; i mali che produce sono reali, numerosi, mortali. Una fatale miseria nel popolo; un immenso voto nella popolazione; una considerabile perdita di braccia nella agricoltura, nelle arti e nel commercio; un ostacolo alla correzione de' costumi; un sostegno ed un fenomeno vigoroso alla loro depravazione; un potente appoggio dell’oppressione e della servitù, ed un argine pernicioso innalzato contro la civile libertà, non sono che una parte de' mali i più sensibili e i più immediati, che si comprano co' tesori immensi a quest’oggetto impiegati. Quelli che sono meno sensibili e meno immediati, e che per brevità io tralascio, non sono né meno copiosi, né meno spaventevoli.

Una diversa destinazione che si desse a questi tesori; un uso diverso che si facesse di questa parte la più considerabile delle pubbliche rendite, potrebbe produrre i seguenti beni. Ilfisico ed il morale del popolo migliorato; una gran parte de' mali che sovrastano all’uno ed all’altro nella più bella età dell’uomo, prevenuti; l’agilità, la forza, il coraggio, aumentati; l’ignoranza e gli errori dissipati; le più utili verità insegnate e diffuse; il contagio della bassezza e dei vizii impedito in quell’età, nella quale è più pernicioso e più frequente; l’idea della propria dignità e le grandi passioni ispirate in quella classe, che per la sua destinazione ne è'la più aliena; la perfezione dell’agricoltura e delle arti favorita dalle pratiche istruzioni ricevute nell’infanzia e nella prima gioventù; le utili scoverte a queste relative, introdotte con quest’istesso mezzo; l’abbonimento all’ozio ispirato coll’abito dell’occupazione;,i mezzi, onde provvedere alla sussistenza individua, moltiplicati; l’industria nazionale aumentata; l’arte di difendere la patria e la cognizione di quella parte delle sue leggi, che regolar debbono la condotta dell’individuo, rese comuni a tutti i suoi cittadini; in poche parole, i vantaggi che avevano gli antichi popoli sui moderni, combinati con quelli che i moderni han sugli antichi; l’energia de' piccioli Stati comunicata alle grandi nazioni; la virtù della Repubblica introdotta nella Monarchia: ecco i beni che ottener si potrebbero con un miglior uso de' tesori, de' quali si è parlato.

Principi dell'Europa, se volete liberare i vostri sudditi da tanti mali, e colmarli di tanti beni, abolite le truppe perpetue, (73)ed educate il popolo. I tre quarti delle vostre rendite che voi impiegate per pagare tanti mercenari oziosi, basterebbero forse abbondantemente per supplire alle spese del proposto piano di popolare educazione. Ilpopolo le pagherebbe volentieri, quando queste fossero destinate a sollevarlo e non ad opprimerlo; a nobilitarlo e non a deprimerlo; a nudrire, istituire ed educare i suoi figli, e non a comprarli come schiavi. La prestazione di tutte queste contribuzioni, invece di diminuir le nozze col celibato e co' vizi di tante migliaia di esseri, e la popolazione colla miseria che il loro mantenimento ed il loro ozio cagiona negli altri, favorirebbe e le une e l’altra, e colla migliorazione del fisico e del morale del popolo, sì necessaria alla conservazione, come alla moltiplicazione degli uomini, e co' soccorsi che somministrerebbe alla condizione de' padri, liberandoli da una gran parte delle spese che richiede il nudrimento de' figli, e dalle cure della loro istruzione e della loro educazione. L’agricoltura, le arti ed il commercio, invece di languire sotto la privazione di tante migliaia di braccia oziose, riceverebbero un nuovo soccorso dall’accrescimento della forza, dell’attività, della istruzione e dell’industria del popolo. I costumi, invece di corrompersi in mezzo a' vizi d’una soldatesca oziosa e celibe, riconoscerebbero il loro principale appoggio in una educazione di questa natura. L’autorità priva di una forza permanente e sempre pronta a difendere e sostenere i suoi abusi, rimarrebbe allora nei limiti dalla costituzione fissati, e si vedrebbe costretta a rispettare la civile libertà. Il dispotismo, questo corpo trasparente e fragile, a traverso del quale si veggono le forze che lo circondano, sparirebbe allora dall’Europa, ed abbandonerebbe i suoi spazi alla moderata e vigorosa Monarchia cosi propizia alla sicurezza del popolo, come a quella del Monarca. La patria avrebbe de' cittadini in tempo di pace, e de' guerrieri robusti, coraggiosi ed addestrati in tempo di guerra. Invece di quegli spettri annichiliti dall’ozio, da' vizi e dalla fame, invece di quegli schiavi stipendiati che compongono oggi le nostre armate, essa opporrebbe allora all’inimico uomini avvezzi alla fatica, all’intemperie delle stagioni, agli esercizii che accrescono il vigore e l’agilità delle membra, animati da passioni virtuose e grandi, e meglio di quelli istruiti ne' militari esercizi!. Difensore nato della patria, ogni cittadino sarebbe a parte di questo sacro dovere. Le leve forzose non sarebbero allora i funesti esordii della guerra; la violenza non accompagnerebbe la tromba che chiama i cittadini alla difesa della patria, ed il suo suono non sarebbe seguito dal pianto e dal delitto. Finalmente la nazione intera, armata per la sua difesa, darebbe a' piccioli Stati maggior forza per difendersi, che non avrebbero per attaccarli i più vasti Imperi; e le due o tre potenze avide ed ambiziose dell’Europa si vedrebbero allora costrette a rinunciare al disegno che han bastantemente manifestato, di dividerseli come una eredità loro trasmessa dalla preponderanza della forza, e dal disprezzo di tutti i dritti e di tutti i doveri.

Ecco i vantaggi che dipenderebbero da questo salutare cangiamento nella destinazione della parte più considerabile delle pubbliche rendite. L’educazione della seconda classe, regolata anche dal magistrato e dalla legge, non avrebbe bisogno degl’istessi mezzi per eseguirsi. Questa, come si è detto, a differenza dell’altra, non dovrebbe sostenersi a spese dello Stato, ma degl’individui. Il seguente Capo ne mostrerà le ragioni ed i vantaggi..

(N. B.) Non voglio trascurare d’avvertire, che presso quelle nazioni, ove il proposto mezzo non basterebbe a provvedere a tutte le spese di questo piano di popolare educazione, il Governo potrebbe trovare, onde supplire allo sbilancio, varii altri mezzi, tutti egualmente utili ed efficaci, e tutti da questo legislativo sistema ugualmente dipendenti. La vendita de' demanii che, come si è mostrato nel Libro li di quest'opera, sono così perniciosi all'agricoltura ed all'industria; una giusta e ragionevole diminuzione delle rendite del sacerdozio, che nascerebbe dal sistema istesso che noi proporremo nel seguente Libro, nel quale gl’interessi dell'altare e quelli del trono, quelli del sacerdozio e quelli dello Stato verranno, come io spero, luminosamente conciliati; la soppressione di tante casse di misericordia, che si trovano stabilite in molte nazioni, che promuovono l’ozio, invece di soccorrere l'indigenza, e che diventerebbero anche più superflue, quando le leggi impedissero la miseria, invece di produrla; finalmente r accrescimento del pubblico erario che dipenderebbe dal sistema delle contribuzioni da noi proposto nel Libro II di quest’opera, col quale il popolo pagando molto meno, il Principe esigerebbe molto di più; tutti questi mezzi, io dico, uniti al principale, del quale si è parlato, renderebbero questo piano eseguibile in qualunque popolo e presso qualunque Stato.


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CAPO XVII

Dell'educazione della seconda classe. E prima d’ogni altro, demotivi
pe’ quali questa dev’essere sostenuta a spese degl’individui che ne partecipano

La seconda classe, nella quale si è da noi diviso l’intero popolo, comprende, come si è detto, (74) tutti coloro che si destinano a servire la società co' loro talenti. La gran differenza che vi è nella destinazione di queste due classi; ne deve produrre una grandissima nel sistema economico della loro pubblica educazione. La prima, come si è veduto, dev’essere sostenuta a spese dello Stato; la seconda dev'esserlo a spese degl’individui che ne partecipano. Le principali ragioni di questa differenza sono quelle che saranno le meno prevedute da chi legge. Io mi fo un dovere di svilupparle.

Non è indifferente all’ordine sociale, che il deposito delle cognizioni e de' lumi sia nella classe ricca o nella classe povera dello Stato. Il potere avendo un naturale pendio verso le ricchezze, e l’interesse sociale richiedendo che le cognizioni e i lumi sieno col potere combinate, non vi vuol molto a vedere ch'è d’una somma importanza che il deposito delle cognizioni sia piuttosto nella classe de' ricchi, che in quella de' poveri.

Più, se uno mi domandasse, quale è il paese che più abbonda in errori; io gli risponderei ch'è quello, ove costa meno l’avviarsi nella carriera delle lettere. L’uomo che ha minori errori è il vero dotto; ma la gran sede degli errori non è in colui che non sa, ma in colui che sa male. Questi li comunica a quello, e col suo mezzo più che con ogni altro, la ignoranza si unisce agli errori. Or il paese che più abbonda in falsi dotti, e che ha un minor numero di veri dotti, è quello nel quale il numero di coloro che si avviano per le lettere è maggiore; giacché il numero degli uomini che son fatti per saper bene e profondamente è sempre picciolo, e diviene anche più picciolo, quando l’opinione pubblica,soggiogata dalla moltiplicità de' semidotti, non concede che ad essi i suoi suffragi, e guarda con indifferenza il grand'uomo che ha il delitto d’essere troppo agli altri superiore.

II paese più culto, a creder mio, sarebbe quello, ove vi fossero meno errori e più verità diffuse nel volgo, e meno semidotti tra gli scienziati. Per ottener questo fine bisogna render meno facile la carriera delle lettere; bisogna dunque renderla più dispendiosa. L’Inghilterra è una prova di questa verità: in niun paese dell'Europa costa tanto l’acquisto delle cognizioni; in niun paese bisogna esser così ricco per divenir dotto, ed in niun paese vi sono più veri dotti, meno semidotti tra gli scienziati, e meno errori e più verità sparse nella moltitudine.

Una terza riflessione viene in soccorso delle altre due che si son premesse. È interesse della società, che le utili verità e i risultati delle meditazioni e delle fatiche de' dotti si diffondano ed espandano nella moltitudine colla maggiore rapidità; ed è un effetto della società istessa che il ricco dia più facilmente la legge al povero, che il povero al ricco. Il corso dunque delle verità sarà più veloce, e l’espansione degli utili risultati dell’umano sapere sarà più rapida, quando i lumi partiranno dal gabinetto del ricco piuttosto che dal tugurio del povero.

Finalmente il ricco, o che si dia o non si dia alle scienze o alle belle arti, appartiene sempre alla classe sterile della società: non è così del povero. Il figlio del colono, che abbandona la zappa per correre nelle Università e nelle Accademie, priva la classe produttiva d’un individuo per aggiugnerlo alla classe sterile, la quale è utile che sia la meno numerosa che sia possibile. Lo Stato perde un colono per acquistare per lo più un infelice architetto, un pessimo pittore o un pernicioso semidotto; e non farebbe né quella perdita né questo acquisto, quando bisognasse essere in un certo stato di ricchezza per darsi alle belle arti o alle scienze.

Una obbiezione mi si potrebbe fare, ma noi l’abbiam già prevenuta. Se un grand’ingegno, che potrebbe risplendere nelle scienze o nelle belle arti, ha la disgrazia di nascer povero, dovrà per questo la società esser privata del frutto dei suoi talenti?

Per ovviare a questo male, noi abbiam proposto nell'ottavo Capo di questo libro lo stabilimento di un fondo, che dalla cassa d’educazione si dovrebbe a quest’uso riserbare; e questo fondo sarebbe, come si è detto, destinato a provvedere al mantenimento di quegli allievi della prima classe, che il Magistrato supremo d’educazione giudicherebbe degni di passare nell'educazione della seconda classe, atteso il decisivo talento che mostrato avrebbero per le scienze o per alcuna delle belle arti.

Con quest’ordine di cose i grandi ingegni, ancorché nati nella miseria, non rimarrebbero esclusi dalla destinazione che la natura ha loro assegnata; la classe produttiva non perderebbe un individuo, se non quando questi divenir potrebbe prezioso alla società intera; il corso delle verità sarebbe più veloce e l’espansione degli utili risultati dell'umano sapere, più rapida; il numero de' semidotti sarebbe minore, e per conseguenza maggiore quello de' veri dotti; una delle sorgenti feconde dell’errore sarebbe ristretta, e le cognizioni e i lumi, correndo appresso le ricchezze, raggiugnerebbero il potere ch'è sempre con quelle combinato.

Ecco le ragioni meno apparenti, sulle quali è fondata la stabilita differenza tra il sistema economico dell'educazione delle due classi, nelle quali si è diviso l’intero popolo; quelle poi che nascono dalla cosa istessa, si possono da ognuno indovinare. Le due principali tra queste sono il vantaggio di liberare il pubblico da un peso che l’interesse pubblico istesso richiede, come si è veduto, che si porti da coloro che ne profittano; e d’ottenere, senza escludere niuna condizione dal diritto di poter partecipare all’educazione di questa seconda classe, che il numero ne sia giusto e moderato. Con questo metodo, dunque, chiunque sarebbe bastantemente ricco per poter contribuire alle spese che richiederebbe l’educazione d’un individuo nella seconda classe, avrebbe il diritto di destinarvelo; e questo solo basterebbe per ovviare nel tempo istesso alla soverchia moltiplicazione di questa classe, e per lasciare nella nazione tutta quell’energia e quell’attività che produce la speranza di migliorare la propria condizione e quella dei figli.


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CAPO XVIII

Della creazione e ripartizione de' Collegi per gli allievi della seconda classe

L’immensa distanza che vi sarebbe tra il numero degli allievi della prima classe e quelli della seconda, ci permette, come altrove si è detto, (75)di proporre per questa «lasse la creazione delle case pubbliche d’educazione, che l’altra esclude.

Questa seconda classe, non altrimenti che la prima, si suddivide in varie classi secondarie. Se ottener si potesse che tutti gli allievi della seconda classe fossero sotto il medesimo tetto riuniti; se un solo edificio contener potesse tutte le classi secondarie, nelle quali è suddivisa; non vi è dubbio che la vigilanza dell'amministrazione, concentrata in un solo punto, potrebbe più facilmente conservarvi l’ordine e l’energia, la perdita della quale è stata sempre la causa della rovina delle più utili e più gloriose istituzioni. Ma facilitiamo la esecuzione di questo piano col facilitare i mezzi; non spaventiamo i Governi coll'intimazione delle spese che richiederebbe la costruzione d’un edificio di questa natura. Contentiamoci di averne accennali i vantaggi per quelle nazioni, presso le quali la loro picciolezza e l’esistenza di qualche pubblico edificio a questo uso proporzionato potrebbe renderne facile l’intrapresa; e proponiamo per le altre il partito migliore che vi sarebbe da prendere per ovviare a quest'ostacolo, senza alterare l’ordine e l’efficacia del nostro piano.

Se poche sono le nazioni, le quali abbiano un edificio che contener potrebbe tutti gli allievi di questa seconda classe, non vene è alcuna che non ne abbia di quelli che contener potrebbero una o più delle classi secondarie, nelle quali viene essa suddivisa. La riforma de' Regolari che si è fatta e che si fa tuttavia nella maggior parte de' paesi cattolici, ne lascerebbea' Governi anche la scelta. Quando si trattasse d’unire sotto il medesimo tetto due o più classi secondarie (unione che risparmierebbe sempre una parte delle spese del loro mantenimento, oltre gli altri vantaggi che produrrebbe), quando, io dico, si trattasse di ordinare quest’unione, bisognerebbe combinare quelle classi, che hanno principii d’istituzioni più comuni tra loro. Nelle belle arti, per esempio, il collegio de' pittori dovrebbe unirsi con quello degli scultori o degl'incisori. Quello degli architetti civili potrebbe anche unirsi con quello degli architetti militari; il collegio de' medici, quello de' chirurgi e quello de' farmaceuti potrebbero anche essere tra loro uniti.

Adottando il sistema militare degli antichi, noi adotteremo ancora il loro sistema civile. Il magistrato ed il duce, colui che si avvia per la toga e colui che si destina per le armi, colui che deve difendere la patria e colui che deve amministrare il governo, riceveranno la istituzione medesima. Il magistrato potrà divenir guerriero, ed il guerriero magistrato, quando la legislazione, ricevendo quella semplicità e quella perfezione ch'è l’oggetto de' nostri sforzi in quest'opera, comunicherà alla macchina politica dell’amministrazione quell’ordine, quell’armonia e quella semplicità che regna nelle sue leggi. (76)

Noi non proporremo neppure un collegio distinto per coloro che si vorranno interamente consecrare alla coltura delle scienze. Gli allievi del collegio de' magistrati e de' guerrieri che, alieni dalle pubbliche cariche, preferiranno di servire la società col promuovere il progresso delle umane cognizioni e colla diffusione de' lumi, emancipati che saranno dalla pubblica educazione, potranno proseguire nell’ozio scientifico la carriera de' loro studii e troveranno anche un soccorso somministrato loro dalla legge nelle pubbliche Università a quest'oggetto istituite, e delle quali noi diffusamente parleremo nella terza parte di questo Libro, quando si tratterà particolarmente della pubblica istruzione.

Un altro collegio distinto vi sarà per coloro che si destinano al commercio. Ve ne sarà un altro pe’ ministri dell'altare; un altro per coloro che alla musica si destinano. Finalmente ne' paesi ove l’interesse pubblico esige che vi sia una marina militare, vi sarà anche un collegio distinto per coloro che si avviano a dirigerla e comandarla.

Io ripeto a colui che legge, la preghiera che più volte gli ho data nel corso di quest’opera, cioè di non giudicare le mie idee prima di vederne l'intero sviluppo. Io non posso tutto dire in una volta. Spesso conviene lasciarlo in mezzo a molti dubbii, per toglierglieli quando l’ordine lo permette.


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CAPO XIX

Del luogo da preferirsi per la fondazione di questi Collegi

La capitale, ch'è ordinariamente la sede delle scienze e delle belle arti, deve anche esser la sede dell’istruzione di questa classe. La maggior facilità che vi è di trovare in essa più eccellenti maestri; il concorso continuo de' gran talenti che da tutte le parti dello Stato vi pervengono; la presenza del Governo, eia vigilanza e l’energia maggiore che questa ispira a' magistrati, a' quali quest’oggetto il più importante della pubblica amministrazione verrebbe affidato; finalmente il maggior numero di edificii a quest'uso adattabili che vi si trovano, sono i motivi che c'inducono a preferire la capitale alle provincie. Ne’ vasti Imperi questa regola potrebbe però avere un’eccezione. In questi le capitali più cospicue de' regni e delle proviucie più estese che li compongono, dovrebbero anche esse divenir la sede dell'educazione di questa seconda classe, e dividere colla capitale dell'Impero i suoi allievi che sarebbe forse impossibile di tutti riunirli nella metropoli. In questo caso, nella capitale del regno o della provincia a quest’oggetto prescelta, si dovrebbe eseguire tutto ciò che verrà da noi proposto per la metropoli di qualunque Stato, senza differenza alcuna.

Cura del legislatore sarà di preferire tra gli edificii a quest'uso adattabili quelli che sono ne' luoghi più rimoti della città, a quelli che sono ne' più clamorosi; quelli ove l’aere è più puro e dové la ventilazione è maggiore, a quelli che non hanno gl’istessi vantaggi; quelli che sono ne' borghi della città, a quelli che sono tra le sue mura.

Se egli non potrà riunire sotto il medesimo tetto quei collegi che hanno molti principii d’istituzione comuni tra loro, procurerà almeno che sian più vicini che sarà possibile. L’esposizione del piano d’educazione ne manifesterà i motivi.


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CAPO XX

Della magistratura d’educazione per questa seconda classe

La magistratura d’educazione della seconda classe, non altrimenti che quella della prima, sarà composta da tre ordini di magistrati. I loro nomi saran gl’istessi, quantunque diverse in parte ne saranno le funzioni. Vi sarà dunque un magistrato supremo d’educazione, vi sarà un magistrato inferiore per ciaschedun collegio, vi saranno i custodi. L’esposizione del piano indicherà le loro respettive funzioni, e l’importanza di esse ci annuncierà la dignità respetliva di queste magistrature, e i requisiti che accompagnar dovrebbero le persone che ne sarebbero investite.

Gli affari economici saranno amministrati dagli uffiziali del magistrato particolare di ciaschedun collegio, il quale dovrà darne conto al magistrato supremo. Il numero delle persone destinate a servire sarà proporzionato al numero degli allievi in ciaschedun collegio, e queste saranno sotto l’immediata dipendenza del particolare magistrato di quel collegio.


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CAPO XXI

Dell'ammissione de' fanciulli di questa seconda classe, e della loro destinazione

L’età de' cinque anni sarà quella dell’ammissione, così in questa classe, come nell’altra. La sola differenza sarà circa il tempo. In ogni anno, in un dato tempo, sarà aperto l’ingresso nell’educazione di questa seconda classe, nel mentre che quello della prima lo è in tutt’i tempi dell’anno. L’ordine della progressiva istruzione di questa seconda classe richiede questa contemporanea ammissione, che si poteva e conveniva trascurare nell'altra. In ogni nuovo anno dunque, tutt’i fanciulli che nel prefisso tempo si troveranno d’aver già compito il quinto anno della loro età, potranno essere ammessi all’educazione di questa seconda classe. Essa durerà un anno di più dell’altra. La parte scientifica dell’educazione di questa seconda classe esige questo inevitabile prolungamento.

La destinazione dipenderà interamente dall’arbitrio del padre. Siccome le spese dell'educazione sono a suo carico, la scelta della destinazione deve anche essere a suo arbitrio; tanto più perché le spese dell’educazione non saranno eguali in tutti i collegi. Egli sarà,forse bastantemente ricco per mantenere il suo figlio nel collegio de' pittori, per esempio, e non lo sarà per mantenerlo in quello de' magistrati e de' guerrieri. Egli vorrà fare del suo figlio un pittore piuttosto che uno scultore, e la legge non deve privarlo di questa libertà. Se nel progresso dell’istruzione il fanciullo manifesterà de' talenti per tutt’altro che per quell’oggetto, al quale è stato destinato, sarà cura del magistrato educatore di quel collegio di avvertirne il padre, affinché col suo consenso possa il suo r figlio ricevere una destinazione più analoga a' suoi talenti e più atta a corrispondere alle speranze del padre, ed a compensare le cure del magistrato e della legge.

Data un’idea di questi preliminari stabilimenti, veniamo ora all’esposizione del piano di educazione di questa seconda classe. Per conservare l’istesso ordine che si è tenuto nell’altro, noi cominceremo dall’esporrei generali regolamenti sull’educazione fisica, morale e scientifica, che debbono esser comuni per tutti gli allievi di questa seconda classe, e passeremo quindi a proporre quelli che riguardano ciascheduna delle classi secondarie, nelle quali vien essa suddivisa.


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CAPO XXII

Generali regolamenti sull’educazione fisica della seconda classe

La chiarezza, colla quale si sono da noi sviluppati i principii e i generali regolamenti dell'educazione fìsica della prima classe, ci dispensa dal ripeterli tutte le volte che sono a quella di questa seconda classe applicabili. Noi non esamineremo qui che le differenze, ed eviteremo in questo modo le inutili ripetizioni e la noia che queste recano a chi legge.

Articolo I
Del nudrimento

Seguendo l’istesso ordine che si è tenuto nell’accennato Capo, e cominciando dall’articolo del nudrimento, io non trovo differenza alcuna da prescriversi né riguardo alla qualità de' cibi, né riguardo al numero delle refezioni.

Io non ne troverei neppure alcuna circa il numero delle vivande che compor dovrebbero il pranzo, se, restringendole ad una sola e qualche volta soltanto a due, questa salutare parsimonia non potesse parere eccessiva a' padri de' fanciulli di questa classe, ed alienarli da un’educazione che, senza violare la paterna libertà, noi vorremmo rendere quanto più comune ed universale fosse possibile. Noi fisseremo dunque a due l’ordinario numero delle vivande del pranzo, e ne' giorni di festa vi aggiugneremo la terza, come aggiugneremo la seconda alla cena. L’eccesso del numero sarà però compensato dal difetto della quantità, poiché se noi conceder dovremmo un più copioso nudrimento all’una delle due classi, noi ci determineremmo in favore della prima piuttosto che della seconda, attesa la natura e gli effetti delle respettive loro destinazioni.

Articolo II
Del sonno

La differenza della destinazione di queste due classi non deve produrne che una picciolissima riguardo a quest'articolo della loro fisica educazione. Noi abbiamo escluso, nell’educazione della prima classe, il sonno pomeridiano, come quello che non era compatibile colla natura della sua destinazione. Per l’istessa ragione noi rammetteremo in questa, quando la stagione allungando i giorni abbrevia le notti, ed aumenta col calore delle ore pomeridiane i mali che producono in questo tempo del giorno le occupazioni dello spirito. Senza permetterci dunque la minima alterazione riguardo alla durata del sonno, ed al modo col quale noi proporzionata l’abbiamo alle varie età de' fanciulli, noi ci limiteremo a questa picciola differenza che riguarda il tempo che si deve a questo ristoro impiegare, e daremo, nella stagione del caldo, alle ore pomeridiane quel sonno che si toglierà dalle ore notturne, le quali saranno da' fanciulli di questa classe con minor rischio e con maggior vantaggio impiegate nelle varie occupazioni relative alla loro età ed alla loro destinazione.

Articolo III
Del vestimento e della nettezza

In questo articolo e nel seguente noi vedremo più che in ogni altro influire la differenza della destinazione di queste due classi su questa parte fisica della loro educazione. La nudità de' piedi, che noi abbiam prescritta nella prima classe, non avrà luogo nella seconda. Noi non vogliamo prevenire l’amore e la vanità de' padri contro un piano d’educazione di questa natura. Noi siamo disposti a rinunziare a qualche picciolo vantaggio, quando questo produr potrebbe nell’opinione pubblica il discredito dell’intero piano.

Ifanciulli di questa classe saran calzati. Essi avranno un vestimento per l’estate ed un altro per l’inverno. Questo sarà sino a' dodici anni più fino e più elegante, ma di una forma simile a quello de' fanciulli della prima classe. Sino all’istessa età i loro capelli saran rasi; ma da' dodici anni in poi si faran crescere i loro capelli, ed il loro vestimento seguirà la foggia del nazionale. Si avrà cura d’evitare l’angustia di queste vesti e i perniciosi ligamenti. La nettezza del capo e quella dell'abitazione sarà scrupolosamente mantenuta dalla diligenza de' servitori e dalla vigilanza dei custodi. Quella dell’intero corpo si conserverà colle lavande, per le quali si adotteranno gl’istessi regolamenti che si sono per la prima classe proposti.

Articolo IV
Degli esercizii

Necessarii all’una classe come all’altra, gli esercizii del corpo non possono differire che nel modo. Quelli che noi proposti abbiamo per la prima classe, non sono tutti adattabili alla seconda; ed in questa classe istessa,della quale noi parliamo, quelli che sono da preferirsi per una, o per una porzione delle classi secondarie nelle quali vien suddivisa, non lo sono per tutte le altre. Gli esercizii, per esempio, che accrescendo il vigore e la forza de' muscoli delle braccia e delle mani li privano di quella mobilità e di quell’agilità che alcune delle belle arti richieggono, debbono esser proibiti agli allievi di que’ collegi, ove queste si professano. Quelli che incallendo le mani diminuir possono la finezza del tatto, debbono esser proscritti da quel collegio, ove la perfezione di questo senso è di un’assoluta necessità per la riuscita de' suoi allievi. Quelli finalmente che cagionano una eccessiva dissipazione degli spiriti animali, non sono i più opportuni per quelle classi che han bisogno d’un maggior raccoglimento per gli studii che professano.

Senza dunque indicare le diverse specie d’esercizii che converrebbero alle diverse classi secondarie, che questa seconda classe principale compongono, noi ci contentiamo d’aver qui richiamata l’attenzione del legislatore su quel che si deve evitare nella scelta di questi esercizii. Ristretti in questo Capo a' soli regolamenti che sono suscettibili d’una comune applicazione, per tutti gli allievi di questa seconda classe, noi non possiamo permetterci i più particolari dettagli. Quello soltanto che potrebbe essere d’un generale uso, e che per questa ragione appunto non deve essere qui trascurato, è ciò che in quest'istesso articolo dell'educazione fisica della prima classe si è da noi proposto sui notturni esercizii e sull'arte di nuotare. La differenza della destinazione di questa classe non ha alcuna influenza su questi due oggetti ugualmente interessanti della parte fisica dell’educazione. Essi saranno prescritti nell’educazione della seconda classe, come lo sono stati in quelli della prima, ed il metodo proposto nell’una potrà senza alcuno inconveniente esser adottato nell’altra, con quelle poche modificazioni soltanto che la diversità delle circostanze potrà richiedere. Io prego colui che legge, di richiamare alla sua memoria i principi! da noi sviluppati nel Capo IX, sull’educazione fisica della prima classe; giacché io non ho fatto qui che indicare le differenze nell'applicazione di questi principii, rimettendomi in tutto il resto a ciò che si è nel citato Capo stabilito ed inculcato.

Per l'istesso motivo io mi rimetto a ciò che si è detto sull'innesto del vaiuolo, che dovrebbe precedere l’ammissione de' fanciulli della prima classe. L’istesse ragioni ch'esigono questa precauzione nella prima, l’esigono nella seconda classe; e la sola differenza sarà che in questa la cura potrà farsi nella casa paterna, nel mentre che per l'altra si è per quest'oggetto proposta la fondazione di un ospedale d’inoculazione in ciascheduna provincia dello Stato. (77)


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CAPO XXIII

Generali regolamenti sull’educazione morale della seconda classe

L’istesso amore della brevità che ci ha determinati a non esaminare che le differenze tra ciò che si era detto sull'educazione fisica della prima classe, e ciò che dir si doveva sull’educazione fisica della seconda, c’induce qui a serbare l’istesso metodo in quel che riguarda la parte morale dell’educazione.

Se il generale oggetto dell'educazione morale, come si è detto, (78) altro non è che di somministrare un concorso di circostanze il più atto a sviluppare le morali facoltà dell’uomo, a seconda della destinazione dell’individuo, e degl’interessi della società della quale è membro, vediamo tra le indicate circostanze, che noi per questo fine somministrate abbiamo agli allievi della prima classe, quali sono quelle che con ugual vantaggio possono essere uniformemente adoprate per gli allievi della seconda, e quali quelle che debbono esser modificate ed adattate alla diversità della loro destinazione.

Articolo I
Delle istruzioni e de' discorsi morali

Ciò che da noi si è detto sulle morali istruzioni è interamente adattabile così alla prima, come alla seconda classe.

Una è la morale, comuni ne sono i principii. I doveri possono variare, come variano le circostanze nelle quali si ritrovano gli uomini; ma i principii, da' quali questi doveri dipendono, sono universali e comuni. Fondati su ciò che la natura e la società esige da noi, essi sono comuni al ricco ed al povero, al nobile ed al plebeo, al magistrato ed al sacerdote, al semplice contadino ed al capo della nazione. Il padre nella sua famiglia, il monarca nella Monarchia, il senatore nella Repubblica, la Monarchia e la Repubblica nel mondo intero debbono avere i medesimi principi! di condotta. Semplici come la verità, essi sono alla portata di tutti i talenti, e colui che si ricorda ciò che su queste morali istruzioni si è da noi proposto per gli allievi della prima classe, conoscerà benissimo che non vi è qui cosa alcuna da cangiare, così riguardo alla loro natura, come riguardo all’ordine, al tempo ed all’età che noi destinata abbiamo a queste importanti istruzioni. Il magistrato particolare di ciaschedun collegio, che sarà il morale istruttore degli allievi della seconda classe nel collegio a lui affidato, altro non dovrà fare che regolare le applicazioni degli stabiliti principii sulle circostanze della particolare destinazione de' suoi allievi.

Non possiamo dir l’istesso de discorsi morali. Lo scopo di questi discorsi, come si è veduto, è piuttosto di formare il moral carattere degli allievi che d’istruirli. Questo fine richiede alcune differenze in alcuni de' mezzi, e queste differenze dipendono dalla diversità della destinazione di queste due classi. Passando sotto silenzio tutto ciò che vi dev'esser di comune nella norma che il legislatore dee dare a questi discorsi, così nell’educazione della prima, come in quella della seconda classe, ristringiamoci ad esaminare le indicate differenze. La prima è fondata su ciò che nel principio istesso di questo Libro si è da noi detto sui due opposti vizii, a' quali la natura della destinazione di queste due classi espone i suoi individui: la viltà e l’orgoglio. Coloro che son destinati a servire la società colle loro braccia, sono cosi esposti al primo, come sono esposti al secondo coloro che vengono destinati a servirla co' loro talenti. (79)Per impedire il contagio del primo negli allievi della prima classe, oltre gli altri mezzi dipendenti dall’intero sistema della loro educazione, noi abbiamo avuto anche ricorso a questi morali discorsi. Si è detto che uno de' più importanti oggetti che il legislatore prefìgger doveva a questi discorsi, era di elevare gli animi degli allievi di quella classe e d’ispirar loro l’idea della propria dignità, col dimostrare i riguardi che son dovuti alla virtù, e la considerazione che questa ha sempre procurato e procurar deve all’uomo in qualunque condizione egli si trovi. Noi abbiam voluto che l’eroe contadino fosse loro dipinto cogl’istessi colori del duce e del magistrato eroe; noi abbiam voluto che la strada dell'immortalità e della gloria si fosse loro mostrata accessibile così all'ultimo cittadino, come al capo della nazione.

Questi sentimenti, queste speranze che con maggior facilità si possono agli allievi della seconda classe ispirare, debbono però essere uniti a quelli che possono prevenire in essi il secondo vizio, al quale la loro destinazione li espone. Uno de' principali oggetti dunque de' morali discorsi, destinati per gli allievi di questa seconda classe, sarà l’energica esposizione de' principii dell’umana uguaglianza, del rispetto che si deve all'uomo, dell'ingiustizia di quello che si cerca nella sola condizione, dell’insania, dell’orgoglio e della picciolezza della vanità. Il potere disgiunto dalla virtù, le dignità disgiunte dal merito, saranno loro mostrate, come le vere cause dell’orgogliosa alterigia; e la moderazione, come il vero indizio della grandezza dell’animo e della superiorità de' talenti. La reciproca dipendenza degli uomini; lo scambievole bisogno che hanno gli uni degli altri; la riconoscenza ch'esigono le fatiche e i sudori delle laboriose classi dello Stato; la mostruosa ingratitudine d’aggravare il peso dell’oscurità della condizione e della povertà delle fortune cogl'insulti dell’opinione, concorreranno in questi discorsi a conseguire il desiderato fine.

Passiamo all’altra differenza. Vi è una virtù che dipende da un sentimento che si scorge in tutti gli uomini, allorché la loro immaginazione comincia ad agire; ma che in alcuni rimane oppresso, in altri acquista maggior vigore, in altri meno; e che in coloro appunto, ne' quali la virtù che ne dipende diviene più desiderabile, perché più utile, il sentimento che la produce ha bisogno di maggior soccorso. La virtù, della quale io parlo, è l’umanità, ed il sentimento che la produce è la compassione. Per divenir compassionevole un fanciullo, bisogna ch’egli sappia che ci sono degli esseri simili alui che soffrono ciò ch’egli ha sofferto, che sentono i dolori ch'egli ha intesi, o ch’egli sa di poter sentire; bisogna finalmente che la sua immaginazione sia attiva a segno, da potergli presentare e comporre queste dolorose immagini, allorché vede soffrire, e da trasportarlo, per così dire, fuori di se medesimo per identificarlo coll'essere che soffre. Ecco perché i bruti non sono compassionevoli; ecco perché non lo sono né i fanciulli nella prima infanzia, né gli stupidi; ed ecco finalmente perché sovente lo sono sì poco i ricchi, i grandi e i re. I bruti, i fanciulli nella prima età, e gli stupidi sono affatto privi di compassione, perché negli uni manca la facoltà d’immaginare, e negli altri non è ancora sviluppata. I ricchi, i grandi e i re sono ordinariamente poco compassionevoli, perché ordinariamente non han provati molti mali e non credono di poterli provare. Quelle condizioni dunque, nelle quali sarebbe più desiderabile l'umanità, perché più utile e più operosa, sono quelle, nelle quali questa virtù è ordinariamente più debole e meno estesa, perché più debole e meno esteso è ordinariamente il sentimento che la produce. Tali sono quelle che compongono la classe, della quale parliamo. Composta dalla parte ricca della nazione, essa abbraccia quelle condizioni appunto, nelle quali l'umanità è più da desiderarsi, ed il sentimento che la produce, ha infelicemente bisogno di maggior soccorso. L’educazione dee dunque in questa classe riparare al male della condizione; l'educazione dee soccorrere il sentimento della compassione per favorire la virtù dell’umanità. Or i discorsi, de' quali parliamo, potrebbero più d’ogni altro contribuire a questo fine. Se si riflette all’età, nella quale gli allievi vi sono ammessi, ed alla loro continuazione fino al termine dell’educazione istessa, (80) si vedrà che i discorsi a quest’oggetto relativi troverebbero l’immaginazione degli allievi in quello stato d’attività che è necessario per il sentimento, del quale si parla.

Se si riflette inoltre alla frequenza delle occasioni, delle quali il magistrato educatore profittar potrebbe per destare questo sentimento ne' suoi discorsi; e se si riflette alla facilità ed opportunità che vi sarebbe di mostrare non solo, ma di far sentire in questo modo la possibilità, in cui ogni uomo è d’incorrere in que’ mali che sembrano da lui più lontani, e da evitare non solo che gli allievi di questa classe veggano troppo da lontano e dall'alto della loro situazione le pene, le disgrazie, i travagli, a' quali sono più da vicino esposti quelli dell’altra classe; ma d’ottenere per l’opposto, ch'essi veggano manifestamente la possibilità di provarli, e sentano, per così dire, sotto i loro piedi la debolezza delle pareti di quella voragine che tutti questi mali racchiude, e la facilità colla quale possono, in ogni istante, da mille avvenimenti non preveduti né prevedibili esservi immersi; se si riflette finalmente all'energia ed all'evidenza, della quale sono suscettibili queste verità, ed all'interesse che il magistrato potrebbe dare a questa parte de' suoi discorsi, coll'uso de' fatti a quest’oggetto relativi; si conoscerà l’efficacia di questo mezzo pel proposto fine, e si conoscerà il bisogno che v’era d’aggiugnere quest’oggetto a' morali discorsi di questa seconda classe. Noi l’abbiam trascurato in quelli della prima classe, perché negl’individui che quella compongono, l’umanità, meno utile, è nel tempo istesso più frequente e più estesa; poiché la natura istessa della loro condizione somministra loro pur troppo gli alimenti del sentimento che la produce.

Non ignara mali, miseris succurrere disco. Ecco la ragione della seconda differenza.

Eccettuate queste due differenze, in tutto il resto la norma che il legislatore somministrar deve a' morali discorsi di questa seconda classe non differirà da quella che si è proposta pe’ morali discorsi della prima.

Iltempo, la durata, l’età nella quale gli allievi di questa seconda classe vi debbono essere ammessi, sarà l’istessa; e siccome nella prima classe il magistrato municipale di educazione di ciascheduna Comunità è stato incaricato di questa cura, così nella seconda questa importante funzione, non altrimenti di quella che riguarda le morali istruzioni, si apparterrà al particolare magistrato di ciaschedun Collegio. Oltre tanti altri motivi, il rapporto che tanto le istruzioni, quanto i discorsi aver debbono, così nell’una, come nell’altra classe, colla natura del Governo, rendono più che necessaria riguardo a questi oggetti l'opera del magistrato. Depositario della legge e responsabile della sua osservanza, chi più di lui potrebbe conoscere i suoi disegni e corrispondere a' suoi fini?

Articolo II
Dell'esempio

In quest'articolo noi possiamo interamente adottare ciò che su quest’oggetto si è detto nell’educazione della prima classe. Noi vi dobbiamo soltanto due cose aggiungere, la prima delle quali era inutile, e la seconda impraticabile nel piano d’educazione della prima classe;. ma che non sono né l’uno né l'altro in quello della seconda.

Se si riflette alla condizione degli allievi che la prima classe compongono, si troverà che non vi è, né può esservi tra loro quella disuguaglianza che si dee necessariamente incontrare, e che si dee tanto desiderare negli allievi della seconda. Niun nobile vorrà sicuramente porre il suo figlio nelF educazione della prima classe; ma molti plebei porranno sicuramente i loro in quella della seconda, purché avranno di che mantenerveli.

In questa il figlio del ricco plebeo e quello del nobile dovranno dunque insieme convivere, allorché verranno nel medesimo collegio da' loro respettivi padri collocati. Uno de' vantaggi più considerabili di questo piano di pubblica educazione sarebbe appunto, come si è già osservato, (81)di stringere ed invigorire, col consorzio della gioventù, i sociali vincoli che l'inevitabile disuguaglianza delle condizioni pur troppo tende a rilasciare ed indebolire. Nelle aristocrazie medesime questo consorzio che, a primo aspetto, sembrar potrebbe improprio alla natura del suo governo, si troverà esser l’opposto, allorché si riflette che uno de' principii più luminosi che regolar deve il rapporto delle leggi colla natura di questo governo, è giusto quello che prescrive la scelta di tutti i mezzi, atti ad impedire l’odio nella plebe e l’alterigia negli ottimati, ed a temperare la somma distanza politica colla somma prossimità sociale. Roma e Venezia ci han pur troppo mostrati gli opposti effetti dell’ignoranza e della cognizione di questo principio, nella sì breve durata dell’aristocrazia della prima, e nella sì lunga durata di quella della seconda.

Per profittare dunque di questo consorzio sì utile in qualunque forma di Governo, di questa promiscuità de' diversi ordini e delle diverse condizioni, che non si potrebbe nel nostro piano ottenere nell'educazione della prima classe, ma che sì opportunamente si otterrebbe in quella della seconda, il legislatore dovrebbe in questa prescrivere ciò che sarebbe inutile d’inculcare nell'altra. Bisognerebbe dunque stabilire che il magistrato suprèmo d’educazione di questa classe, che il magistrato particolare di ciaschedun collegio, che i custodi che più da vicino e più di continuo cogli allievi conviverebbero, che i domestici istessi concorressero al gran disegno della legge nell’avvicinare i diversi ordini e le condizioni diverse dello Stato. Essi dovrebbero concorrervi col loro esempio, colla loro condotta, co' loro fatti; essi dovrebbero concorrervi coll’adoprar la derisione più efficace della pena, tutte volte che insorgerebbe tra gli allievi qualche disputa di superiorità o d’inferiorità. Dovrebbero concorrervi colla più perfetta uguaglianza di cure e di riguardi, e col prevenire in questo modo ogni idea di preferenza e di distinzione, ogni remoto sospetto di parzialità. Essi dovrebbero, in poche parole, concorrervi, coll’alimentare in tutti i modi e con tutti i mezzi quella desiderata unione e concordia tra' diversi ordini e le diverse condizioni, che sarebbe il principale scopo della legge in questa preziosa promiscuità.

L'altra cosa, che deve in quest’articolo aggiugnersi, è quella che le maniere riguarda.

Le maniere e ciò che comunemente civiltà del tratto si chiama, formar dovendo un oggetto dell’educazione degli uomini destinati a figurare nella società, noi non dobbiamo trascurarle nel piano d’educazione di questa seconda classe. Persuasi che queste debbono dall'esempio piuttosto che dai precetti e dalle regole dipendere, noi ne affideremo la cura a' custodi, come quelli che dovendo essere più vicini a' fanciulli, potrebbero più facilmente correggere i loro difetti, e loro somministrare i modelli, su’ quali dovrebbero essi formarsi. Per questo motivo, uno de' principali requisiti di ciaschedun custode di questa seconda classe esser dovrebbe questa civiltà di tratto, che col suo esempio e con qualche opportuna correzione si dovrebbe agli allievi a lui affidati comunicare, allontanandoli così dalla rozzezza, come dall’affettazione più di quella ristucchevole e molesta.

Quella semplicità, quella naturalezza nelle maniere che suppone o l’innocenza della prima età, o l’ultimo grado di perfezione nell’arte di conversare, sarà inculcata a' custodi per ispirarla agli allievi. Provveduti di quest'ornamento, essi saranno meno imbarazzati nella società e più amati.

Articolo III
Letture da proporsi per gli allievi di questa classe

Noi profitteremo di questo mezzo per favorire lo sviluppo del moral carattere degli allievi di questa seconda classe, come profittato ne abbiamo per quelli della prima. Il tempo e l’età a quest’oggetto destinati saran gl’istessi; la differenza sarà soltanto nella lettura istessa. I romanzi che noi proposti abbiamo per gli allievi della prima classe, non debbono essere gl’istessi di quelli che noi proponiamo per gli allievi della seconda. Come in quelli, così in questi l’eroe dev’essere della classe, alla quale gli allievi appartengono.

A’ romanzi si debbono in questa classe unire le tragedie, che sarebbero state superiori alla condizione de' primi, e che potrebbero anche concorrere al fine del poc’anzi indicato oggetto de' morali discorsi.

Vi si debbono anche unire le vite degli uomini illustri che noi abbiamo trascurate nella prima classe, sì perché il numero di quelle che potrebbero interessare la loro condizione è picciolissimo, come anche perché la cognizione dell’uomo, che sarebbe uno de' principali motivi di questa lettura, non è così necessaria agli allievi della prima classe, come lo sarebbe a quelli della seconda. Per quest’istesso motivo le Vite di Plutarco non dovrebbero esser trascurate, anzi dovrebbero a tutte le altre preferirsi per le ragioni dà Montaigne accennate, e sì eloquentemente sviluppate dall’Autore celebre dell’Emilio. (82) Noi otterremmo due altri vantaggi da questa lettura. Quando questa venisse disposta in modo, che s’intraprendesse dagli allievi di questa classe, dopo che terminata avrebbero l’istorica istituzione, che verrà da noi assegnata nella seconda epoca della scientifica educazione, essa potrebbe molto giovare a conservarne la rimembranza, e potrebbe nel tempo istesso riparare al difetto comune di qualunque istoria, ed inevitabile ne' suoi elementi. Impegnata a presentarci il corso de' grandi avvenimenti, essa ci mostra più le azioni che gli uomini; essa non ci presenta questi che nel Foro, nel Senato, nella Concione, nel Tempio o nel Campo; essa non ci fa vedere l’uomo pubblico che coverto dall’elmo, dalla tiara, dalla porpora o dalla toga; essa non lo seguita nella sua casa, nel suo gabinetto, nella sua famiglia, in mezzo a' suoi amici; essa ce lo presenta sempre in certi momenti, ne' quali è già vestito per mostrarsi al pubblico, ed allora essa ci dipinge ordinariamente più la veste che la persona. Non avviene l’istesso nelle Vite. In queste si osserva l’uomo e l’eroe. Padre, sposo, amico, magistrato o duce, egli viene presentato in tutti i suoi rapporti, e per tutti i suoi aspetti. Egli viene seguito così sulla scena, come fuori di essa.

Ecco i motivi ed i vantaggi di questa lettura.

Finalmente tra le letture da proporsi nella parte morale dell’educazione di questa seconda classe, non si dee trascurare quella de' contemporanei avvenimenti che la virtù interessano, e che noi abbiamo anche proposta per la prima classe. La sola differenza che vi sarà, riguarderà la scelta che si dee fare di questi avvenimenti; giacché, siccome sceglier si dovrebbero per gli allievi della prima classe quelli che hanno colla loro condizione rapporto, così per gli allievi di questa la scelta dovrebbe esser dal medesimo principio d’opportunità regolata. In generale, l’uomo profitta sempre più di quell'esempio ch'è più nel caso di seguire, e di quella virtù dalla quale si crede meno lontano.

Io termino con quest’articolo il Capo dell’educazione morale della seconda classe; poiché non ho cosa alcuna d’aggiugnere, da cangiare o modificare in quelli che riguardano i premii, le pene e la religione. I regolamenti a questi oggetti relativi, da noi esposti nell’educazione della prima classe, sono interamente adattabili alla seconda; (83)ed io abborrisco troppo le ripetizioni per potermele permettere in questa parte della mia opera, alla quale sono stato costretto di dare un’estensione molto maggiore di quella che avrei desiderato.


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CAPO XXIV

Generali principi], co quali regolar si deve il sistema dell’educazione scientifica della seconda classe

Eccoci pervenuti alla parte più difficile e più complicata dell’educazione di questa seconda classe.

Un laberinto d’idee, di pensieri, di opinioni diverse; un immenso numero di pregiudizii stabiliti dall’ignoranza, e rassodati dal tempo; un’opposizione continua tra coloro istessi che li combattono; l’impossibilità di adattare all’educazione pubblica ciò che d’alcuni si è saggiamente pensato per l’educazione privata; gli ostacoli che da tutte le parti si presentano ad ogni intrapresa di riforma relativa a quest’importante oggetto, sono le cause che rendono così difficile e così intrigata questa materia. Dopo lunghe e profonde meditazioni ho cercato una guida nella Natura, e sul suo infallibile piano ho determinato di stabilire il mio. Consigliamo dunque questa maestra antica. Osserviamo l’ordine ch'essa serba nel progressivo sviluppo delle facoltà intellettuali dell’uomo, e con quello regoliamo l’ordine progressivo delle nostre istruzioni. Esaminiamo il tempo ch'essa v’impiega, e su questa, misura ripartiamo il nostro. Adattiamo le nostre istruzioni non alla forza, ma alladebolezza de' fanciulli. Guardiamoci dal cominciare da dové si dee finire, dal correre quando si deve andare lentamente, e dall’esporci a far crollare l’edificio, per averlo voluto inalzare e perfezionare troppo presto.

La percezione o sia l’impressione che si fa nell’animo, all’occasione di un oggetto che agisce su de' sensi, è la prima operazione dell'intelletto. Senza di essa gli oggetti agirebbero inutilmente sopra i nostri sensi, esanima non ne acquisterebbe cognizione alcuna. La facoltà, dunque, di percepire è la prima che si manifesta nell'uomo. Questo è il primo principio delle umane cognizioni; questa sarà dunque la prima facoltà, della quale noi faremo uso; questa sarà la prima che noi adopreremo per secondare il gran piano della natura nell’istruzione de' nostri allievi.

La seconda facoltà, (84) che si manifesta nell’uomo, è quella di conservare, di riprodurre e di riconoscere le idee per mezzo delle percezioni acquistate, e questa facoltà è la memoria. Essa si annunzia insieme colla prima, ma non si sviluppa contemporaneamente. Il volerla adoprare nel tempo istesso che si annuncia, sarebbe l’istesso che impedirne lo sviluppo: bisogna aspettare che sia nel suo vigore per profittarne. Quanti abusi, quanti errori, quanti vizii nell’istruzione dipendono dall’ignoranza di questo principio!

L’immaginazione è la terza facoltà che si manifesta nell’uomo. Egli compone e combina le idee degli esseri reali, o sia le immagini e le rappresentazioni di questi esseri, per mezzo delle percezioni acquistate, e col mezzo della memoria ritenute. Egli le avvicina, le accozza e le combina, e se le rappresenta come in un composto, le di cui parti sono state dalla memoria riprodotte, e dalle percezioni per la prima volta acquistate. Questa terza facoltà si annuncia anche presto; ma ha bisogno di più tempo per svilupparsi, perché richiede e il grand’uso della prima e lo sviluppo della seconda. Senza un gran numero di percezioni le idee, delle quali si parla, e che per mezzo di esse si acquistano, non sarebbero bastantemente numerose e bastantemente rinnovata e ripetute, per potere tra queste scegliere quelle che sono tra loro combinabili; e senza lo sviluppo della facoltà della memoria, la moltiplicità delle percezioni rimarrebbe inutile a quest’uso, poiché non vi sarebbe la facilità di riprodurre le idee col loro mezzo acquistate. Ecco perché i Greci chiamarono le Muse figlie della memoria. (85)La facoltà dunque dell’immaginazione sarà nel nostro piano d’istruzione adoprata con quell’ordine istesso, col quale la natura ne ha regolato lo sviluppo.

La quarta facoltà, che si manifesta nell’uomo, è quella di ragionare. Essa si annuncia anche presto, ma è l’ultima a svilupparsi. Non confondiamo l’annuncio delle facoltà intellettuali dell’uomo col loro sviluppo. Il primo è sollecito e quasi contemporaneo, ma l’ultimo è lento e progressivo. Quello della facoltà di ragionare è l’ultimo, perché le operazioni di questa facoltà sono più difficili e più complicate. Esse si raggirano a combinare e comporre non già le idee degli esseri reali, ciò che sarebbe l’opera dell’immaginazione; ma le idee di già generalizzate coll’astrazione, cioè quelle delle qualità, delle proprietà de' rapporti, ecc., di questi esseri che non hanno cosa alcuna di reale, e non sono altro che nostri modi di vedere o di pensare, e pure astrazioni, cioè sottrazioni della realità. In poche parole, gli oggetti delle idee che sono i soggetti delle operazioni di questa facoltà, ben diversi da' reali esseri, non sono altro che concetti metafisici, che noi ci siam formati, togliendo, per così dire, da questi esseri tutto ciò che vi è di reale, e separando gli effetti delle nostre riflessioni sugli esseri, dagli esseri istessi che le hanno eccitate.

Ecco perché Platone, per indicare la differenza tra l’uomo e Dio, disse: il Creatore realizza tutto ciò che concepisce; le sue concezioni generano l'esistenza. L'Essere creato, al contrario, non concepisce che togliendo dalla realità, ed il niente è la produzione delle sue idee.(86)

Quello che ho detto delle operazioni della facoltà di ragionare, basta, io spero, per vedere che questa facoltà sia l’ultima a svilupparsi, e per conseguenza l’ultima che noi adopreremo nel nostro piano d’istruzione.

Premessi questi principii, veniamo ora alla loro applicazione. Vediamo l’influenza che debbono avere sul particolare sistema d’istruzione di ciascheduna delle classi secondarie, nelle quali questa seconda classe si è suddivisa. La diversità delle particolari loro destinazioni m’impedisce d’impegnarmi ad una generale applicazione, la quale non potrebbe eseguirsi senza permettersi un gran numero di distinzioni e di eccezioni, ~ che interromperebbero in ogni istante lo sviluppo delle mie idee, e priverebbero il mio piano di quell’evidenza, della quale mi pare suscettibile. Cominciamo dunque dall’esporre, con questa guida innanzi agli occhi, il sistema di scientifica educazione che dovrebbe stabilirsi per quella classe secondaria, la destinazione della quale ha un rapporto più immediato e diretto col benessere della società. Procedendo coll’istesso ordine, tutte le volte che le parti del sistema d’istruzione di un’altra classe verranno a combinarsi con quelle del sistema che deve aver luogo in questa prima classe, senza permetterci delle inutili ripetizioni noi non dovremo far altro che indicare l’uniformità, e rimetterci a ciò che si è detto e sviluppato.


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CAPO XXV

Sistema d’educazione scientifica pel Collegio de' magistrati e de' guerrieri.

Semplice ed infallibile Natura, quanto più osservo il tuo piano, tanto più abborrisco quello degli uomini; quanto più cerco di seguire il tuo, tanto più son costretto ad allontanarmi da loro. Imitando così il tuo piano, come il tuo esempio, io non combatterò l’errore che manifestando la verità. La censura, la satira e la derisione che accompagneranno la pubblicazione di queste mie idee, saran compensate dal bene che recherò a coloro che mi riuscirà di rimettere sulle tue tracce. La sicurezza di non ingannarmi seguendole mi renderà superiore alle trame dell’interesse, a' sarcasmi dell’ignoranza ed alle calunnie dell'invidia. Io abbandonerò all'esperienza la difesa delle mie idee, ed al tempo il premio o la pena de' miei lavori: la durata o l’obblìo.

I quattordici anni che noi destinati abbiamo alla pubblica educazione di questa seconda classe, non sembreran pochi per conseguire quello che noi ci proponiamo in questo vasto piano di scientifica educazione, quando si vedrà l’uso che si può fare di questo tempo così prezioso, quando la ripartizione non ne sarà regolata né dalla vanità né dal pregiudizio, ma dalla ragione sull'ineffabile piano della natura.

Il terreno che noi dobbiamo coltivare è fecondo. Egli ci offre in ciascheduna stagione i prodotti proprii di quel tempo. Le raccolte saranno ubertose, se la semina sarà regolata coll’istesso ordine, col quale la natura ha disposta la sua progressiva fecondità. Ma la fecondità disparirà, la semina sarà perduta, il terreno diverrà col tempo anche sterile, se l’agricoltore s’ostinerà a contrariare la natura, ed a seminare e raccogliere in una stagione i frutti di un’altra. Applichiamo alla coltura dello spirito questo principio fondamentale della coltura del suolo. Seminiamo in ciascheduna stagione i semi proprii di quel tempo. Non trascuriamo alcuno di quei germi che vanno in quel tempo fecondati; ma non vi mescoliamo quelli di un’altra stagione. Impieghiamo la nostra attività e la nostra industria non nel violentare la natura, ma Del profittare di tutte le sue disposizioni. Se la facoltà di percepire è, come si è detto, la prima che si sviluppa nell’uomo, vediamo l’uso che si può e si deve fare di questa facoltà Profittiamone quanto si può, e senza trascurare alcuna di quelle istruzioni che sono con essa compatibili, e che convengono agli allievi del collegio, del quale parliamo; guardiamoci attentamente dal mescolarvi quelle che suppongono lo sviluppo delle altre facoltà, le quali, essendo opportune e necessarie in un altro tempo, sarebbero inopportune e perniciose in questo. Regolandoci in questo modo, le raccolte saranno ubertose, e molto lontano dall’esporci ad isterilire il terreno, noi conserveremo ed accresceremo anche la sua naturale fecondità.

Per corrispondere a questo piano, ch'è quello della natura e che infelicemente è per l’appunto l’opposto di quello che ognun di noi ha seguito, ne' primi quattro anni che all’ammissione succedono (87)noi non adopreremo che la facoltà di percepire, nel nostro sistema d’istruzione.

Articolo I
Delle istruzioni del primo Anno

Il primo anno sarà impiegato ad imparare a leggere ed a scrivere, e all’istruzione di quella lingua straniera vivente, ch'è la più necessaria a sapersi nella nazione, dové questo piano d’educazione verrà stabilito. L’istruzione di questa lingua dovrebbe però soltanto dall’esercizio dipendere; e per. questo fine noi ne affideremo la cura al custode de' fanciulli di questa prima età. Essi dovrebbero impararla coll'istesso mezzo, col quale s’impara' la propria, cioè col solo uso e non co' principii e le regole che convengono in un’età più matura.

Articolo II
Delle istruzioni del secondo anno

Nel secondo anno si proseguiranno l’istruzioni del primo, e vi si aggiugnerà l’istruzione di quella prima parte dell’aritmetica, che si limita alla sola enumerazione; vi si aggiugnerà il disegno, ed un importantissimo esercizio, tanto piacevole, quanto istruttivo, del quale da qui a poco parlerò.

Se la facoltà di percepire altro non è che la facoltà di acquistare le idee colle impressioni occasionate nell’animo dagli oggetti per mezzo de' sensi, la grand’arte dell’educazione nel far uso di questa facoltà si raggirerà dunque nel procurare la maggior nettezza di queste idee, ed il maggior numero. L’istruzione del disegno, quando è ben diretta, può favorire moltissimo il primo di questi due fini. L’impegno d’imitare gli oggetti, che si presentano a' suoi occhi, avvezzerà il fanciullo ad osservare le piccole differenze che li distinguono, ed egli prenderà, senza avvedersene, l’abito di formare idee nette e distinte delle cose.

La naturale inclinazione, che hanno generalmente i fanciulli per questa occupazione, la renderà anche più utile pel piacere che vi è unito. Noi vi troveremo un mezzo per allontanare i nostri allievi, così in questa come nelle seguenti età, dall’ozio e dalla noia, tanto perniciosi; per ispirar loro il gusto delle belle arti così utile; e per cominciare fin dal principio dell'educazione a preparare jn essi l’idea del vero e del bello, tanto necessaria, ed alla quale noi dirigeremo una gran parte delle nostre istituzioni. È per questa ragione appunto, che fin dal secondo anno dell'educazione noi vogliamo che l’abitazione degli allievi di questo collegio sia ornata delle più belle stampe ch’esistano, delle migliori opere de' pittori e degli scultori, affinché profittando dell’inclinazione che hanno i fanciulli per tutto ciò ch'è figura, immagine o rappresentazione, servir ci potessimo di questa disposizione per avvezzare i loro occhi al bello, il quale non esiste se non che combinato col vero. Nel progresso di questo piano noi conosceremo maggiormente i vantaggi di questi preliminari stabilimenti.

Noi conosceremo ugualmente quelli di un’altra specie d’istruzione, che ugualmente opportuna per l’età, della quale si parla, potrà non solo coll'uso della medesima facoltà aifi istesso fine ammirabilmente concorrere; ma potrà nel tempo istesso, fin da quest’anno, cominciare a porre i nostri allievi in guardia contro una delle sorgenti più feconde degli errori: io parlo dell'imperfezione de' sensi.

Noi sappiamo che i sensi che sono gl’istrumenti delle nostre idee, lo sono anche de' nostri errori. Noi sappiamo, per esempio, che gli occhi c'ingannano e sulla grandezza e sulla figura degli oggetti. Noi sappiamo che i medesimi oggetti posti in diverse distanze, e veduti sotto differenti angoli, cambiano all’infinito di grandezza apparente. Noi sappiamo che la lontananza ci altera e nasconde la loro figura, e che una gran parte de' loro tratti sfuggono alla veduta dell’occhio

che non è soccorso dall’arte. Noi sappiamo che gli occhi c'ingannano riguardo al movimento, facendoci credere alcuni corpi in quieterei mentre che si muovono, ed alcuni in moto, nel mentre che sono in quiete. Noi sappiamo che. c’ingannano circa le distanze, facendoci sovente credere gli oggetti che sono a diverse distanze collocati, come da noi equidistanti. Noi sappiamo finalmente che, oltre questi ed altri errori prodotti dall’imperfezione di questo senso, ve ne sono molti altri che dagli altri sensi, da chi più e da chi meno, dipendono; e che il tatto istesso, ch’è il meno imperfetto di tutti i sensi, e che ne corregge molti errori,ne produce egli medesimo degli altri che il profondo Malebranche ha sì luminosamente rilevati.

Or questi errori, una gran parte almeno di essi, si potrebbero far conoscere a' nostri allievi colla maggior facilità, senza né ragionamenti né principi! scientifici, ma con esperienze tutte semplici e tutte all’età ed all’uso della facoltà, della quale si parla, adattate.

Con quest'istruzione, che a primo aspetto può sembrare indifferente, ma che per molti riguardi è importantissima, noi non solo otterremmo il gran vantaggio di prevenire fin da questa età i fanciulli contro gli errori de' sensi; ma li troveremmo molto più disposti a concepire e credere le verità a questi errori contrarie. Nel progresso della scientifica istituzione, e quando l’ordine progressivo delle posteriori istruzioni lo richiederà, noi stenteremo, per esempio, meno a persuaderli, che non è il sole quello che gira intorno alla terra, ma che la terra è quella che gira intorno al sole; che quest’astro è tante volte più grande del pianeta che abitiamo; che le stelle che essi veggono sì picciole e come da noi ugualmente lontane, sono d’una grandezza immensa e ad un’immensa differenza di distanze; che l’occhio non vede le cose; ch’egli non vede che la luce, la quale gli presenta le apparenze delle cose per mezzo di diverse combinazioni di raggi diversamente coloriti; che gli oggetti che noi crediamo di vedere fuori di noi, non li vediamo che in noi; che i suoni, i colori, gli odori, i sapori non appartengono agli oggetti esterni, ma a noi, che sono in noi e non in quelli, che non sono qualità realmente esistenti ne' corpi, ma pure sensazioni in noi eccitate, ecc. Noi non stenteremo finalmente a persuaderli di quella gran verità, che tanti errori e tante dispute previene, e che c'insegna che i sensi ci sono stati dati per soddisfare a' nostri bisogni, e non alla nostra curiosità; per farci conoscere il rapporto che gli esseri esteriori hanno col nostro, e non per farci conoscere questi esseri in essi medesimi; ch'essi debbono servire all’intelletto, e non dominarlo; e che c’ingannano tutte le volte che vogliamo da essi ottenere più di quello che sono stati destinati a somministrarci. In poche parole, noi vedremo fruttificare questa facile e preliminare istruzione in tutto il corso della scientifica educazione. La semplicità, colla quale dovrebbe esser comunicata, ci dispensa dal destinare un maestro per quest’oggetto. Il custode de' fanciulli di quest’età basterebbe per corrispondervi, purché gli s’indicasse il modo, col quale, senza neppur mostrare di voler loro dare un’istruzione, potrebbe istruirli. L’esperienze atte a questo fine sono varie, ed alla maggior parte note, onde mi dispenso dal descriverle. Quello solo che non debbo trascurare d’avvertire si è, che ogni spiegazione scientifica dovrebbe esser rigorosamente vietata in questa specie d’istruzione. In ogni sperimento il custode si limiterà ad attribuirne la causa all’imperfezione de' sensi, ed alle questioni che potrebbero fargli i fanciulli; egli risponderà che non sono ancora bastantemente istruiti per poter concepire ciò che nel progresso del tempo e dell’istituzione verrà loro più opportunamente manifestato. Il motivo di questa disposizione dipende si evidentemente da' miei principii, che sarebbe superfluo d’indicarlo. Passiamo alle istruzioni del terzo anno.

Articolo III
Delle istruzioni del terzo anno

Nel terzo anno si restringerà il tempo a' precedenti esercizii, e si profitterà dell’altro per iniziare i fanciulli ad una nuova serie d’istruzióni, che l’istessa facoltà adoprando e l’istesso mezzo del piacere mettendo in uso, ottener possono il secondo de' due proposti fini, qual è quello di moltiplicare il numero delle loro idee, e d’ingrandire ed estendere le loro vedute. Questa nuova serie d’istruzioni, alle quali non faremo in questo terzo anno che iniziare i nostri allievi, sono quelle che riguardano la naturale istoria.

Ricordiamoci che per gli allievi del collegio, del quale parliamo, questo studio dee considerarsi come istrumento e non come oggetto principale del sapere; e profittiamo del consiglio che l’immortale Buffon dà a coloro, i quali vi si debbono iniziare. Questo è altrettanto più opportuno per noi, quanto è più combinabile col piano che abbiam determinato di seguire in questo sistema di scientifica educazione.

Supposta l'esistenza d’un edificio, dové a forza di tempo, di cure e di spese, si sia ottenuto di riunire e collocare con un certo ordine gl'individui ben conservati di quasi tutte le specie d’animali, di piante e di minerali, e formata si sia una collezione ben ripartita di quasi tutte le opere della natura; supposta l'esistenza di quest'edificio che dovrebbe da per tutto formare il più bello ed il più utile ornamento della capitale, ed il più glorioso oggetto della magnificenza del Sovrano; il miglior metodo per iniziarsi allo studio della natura sarebbe, secondo l'opinione dell’Autore che si è citato, (88)di cominciare dal vedere e rivedere spesso queste mostre di tutto ciò che popola l’universo, questi modelli riuniti di tutto ciò che si trova sparso con profusione sulla terra. Niuna lettura dovrebbe accompagnare le prime visite in questo luogo, niuna istruzione dovrebbe precederle; bisogna aspettare che l’occhio cominci a familiarizzarsi con questo caos, e cogli oggetti che lo compongono; bisogna vedere per molto tempo inutilmente, per disporsi a vedere utilmente. Se l'uomo che si vuole iniziare a questo studio è già maturo, se le sue facoltà intellettuali sono già interamente sviluppate, egli non ha bisogno d’alcuna guida in questi primi passi che dà in questa carriera.

Le sue ripetute osservazioni sui medesimi oggetti, la familiarità che acquisterà con essi, formeranno insensibilmente alcune impressioni durevoli, le quali ben presto legandosi nel suo spirito con rapporti fissi ed invariabili lo eleveranno a vedute più generali, le quali lo condurranno a formarsi da se medesimo alcune divisioni, a conoscere alcune generali differenze, alcune generali somiglianze, ed a combinare per certi rapporti comuni molti oggetti diversi. Il bisogno duna guida, d’una direzione per l’uomo già maturo, non comincia che da questo momento.

Non si può però dir l'istesso del fanciullo. Nel primo la curiosità è combinata colf assiduità e colla tolleranza che dà desiderio di sapere; nel secondo non vi è che curiosità. I fanciulli si stancano facilmente delle cose che han già vedute; essi le riveggono con indifferenza, e per lo più la loro attenzione non vien richiamata che dalla novità. Per condurli a quel punto ove l’uomo maturo va da se medesimo, essi han bisogno d’una direzione, d’una guida. Essi debbono essere incoraggiati con tutto ciò che la scienza somministra di più allettante. Bisogna fare loro osservare le cose le più singolari, ma senza darne loro una spiegazione precisa. Il mistero che nell’età matura ispira il disgusto, in questa eccita la curiosità. Per far loro rivedere sovente e con attenzione i medesimi oggetti, bisogna presentarli loro sotto diversi aspetti e con circostanze diverse. Bisogna di continuo risvegliare e dirigere la loro curiosità, e bisogna indicar loro ciò che l'uomo maturo può da se medesimo discovrire e conoscere.

I primi sei mesi di questo terzo anno non saranno dunque destinati che a condurre i fanciulli a questo punto. Essi anderanno in tutt'i giorni ad osservare le opere della natura in questo vasto edificio; ed il maestro a quest’oggetto destinato, sotto l’apparenza di soddisfare la loro curiosità, la dirigerà col proposto metodo al fine che ci siam proposti.

Impiegata in questo modo la prima metà del terzo anno, condotti i fanciulli a quel punto ove noi gli abbiamo lasciati, a quel punto, nel quale essi, familiarizzati cogli oggetti e regolati da una saggia guida, cominciano a vedere in questo aggregato immenso di naturali produzioni alcune più generali differenze, alcune più generali somiglianze, e cominciano già a formarsi un certo ordine di divisione; allora le loro istruzioni cominceranno a prendere una regolarità maggiore; allora, per così dire, si comincerà ad innalzare per la prima volta il velo, che. fino a quel tempo aveva nascosta la scienza.

Le prime istruzioni riguarderanno il metodo ch'essi debbono adoperare per riconoscere le diverse produzioni della natura; e questo metodo sarà quello da Buffon immaginato. (89) Io lascio al lettore istruito e non prevenuto il giudicare dei motivi di questa preferenza.

Fedeli al nostro piano, adoprando la sola facoltà di percepire in questa epoca della scientifica educazione, noi non permetteremo che queste istruzioni sieno separate dall'immediata osservazione degli oggetti, a' quali appartengono. L’istruttore mostrando loro le differenze e le somiglianze che passano tra le varie produzioni della natura in quel luogo raccolte, comunicherà loro le prime idee di classi, di generi, di specie, dagli uomini immaginate per distinguerle. Queste preliminari istruzioni impiegheranno l'altra metà del terzo anno.

Articolo IV
Delle istruzioni del quarto anno

Nel quarto anno si proseguiranno queste istruzioni con osservazioni più distinte e più dettagliate, e si manifesterà agli allievi il semplicissimo metodo di denominazione dall’istesso Buffon immaginato, e così bene adattato a quello della sua ripartizione e classificazione. Per non abusare della loro memoria, per non adoprare prima del tempo questa seconda facoltà, per ottenere che le impressioni vi si facciano da loro medesime e non per una straniera e perniciosa violenza, si avrà ricorso ad un esercizio, il quale, nel tempo istesso che favorirà moltissimo i loro progressi nella scienza, recherà molti altri vantaggi, ugualmente preziosi e tutti combinati col gran principio dell'attività, del piacere. (90)

Si consegnerà a ciaschedun fanciullo una copia del catalogo del gabinetto, nella quale vi sarà una descrizione ristretta, ma esatta delle varie produzioni della natura ivi raccolte, e nell’istesso ordine che vi si trovano ripartite. Si condurranno in ciaschedun giorno, nelle ore al passeggio destinate, i fanciulli di quest’età nelle vicine campagne che offrono più materiali alla ricerca delle naturali produzioni; e si stabilirà un premio da distribuirsi in ogni sei mesi a quei fanciulli che avranno ritrovato un maggior numero di specie diverse di queste naturali produzioni, e che riscontrandole con quelle nel proposto catalogo descritte, ne avranno indicato la classe, i generi, la specie ed il nome. Niun fanciullo verrà costretto ad occuparsi di questa ricerca; ma la sola emulazione ed il solo piacere dee determinarvelo. Questa libertà aumenterà il piacere dell'occupazione, e l’occupazione combinata col divertimento ne preverrà la noia e le sue perniciose appendici. L’istruzione della scienza sarà unita all’uso ed alla pratica di essa; le idee s’imprimeranno da loro medesime nella memoria, senza ricorrere all’uso di questa facoltà prima del tempo. La nettezza delle idee, che, come si è detto, è uno de' due fini che l’educazione si dee proporre nell'uso di questa prima facoltà, sarà molto favorita dall’obbligo che avranno i fanciulli di ben osservare gli oggetti per distin' guerli, riconoscerli e classificarli. Con questo metodo in fine, nel mentre che coll’istruzione della scienza si moltiplicheranno le idee, col pratico esercizio di essa si renderanno più chiare e più nette.

Agl'istessi due fini corrisponderanno le altre due specie d’istruzioni che noi somministreremo agli allievi in questo quarto anno della loro scientifica educazione. Sin da quest’anno, due volte in ciascuna settimana, si comincerà un corso di chimiche esperienze, che sarà continuato fino al tempo, nel quale si potrà cominciare a far uso della quarta facoltà.

Chiunque è appena iniziato nella scienza della natura, conoscerà l’importanza di questi esperimenti, la moltiplicità e la chiarezza delle idee che procurano, e l'interesse che i fanciulli prenderebbero in una così piacevole istruzione. I motivi, pe’ quali noi vogliamo che vengano continuati fino al tempo, nel quale si potrà cominciare a far uso della quarta facoltà, saranno a suo luogo indicati.

Per fare tutto quell’uso che si può della facoltà di percepire, per dare agli allievi tutte quelle istruzioni che sono con questa compatibili, e risparmiare quanto si può il tempo, che ne' seguenti anni può con maggior profitto essere impiegato a quelle istruzioni che richieggono il combinato uso delle altre facoltà, noi daremo in quest’anno le prime cosmologiche cognizioni a' nostri allievi. Noi gl’istruiremo di quel movimento che col solo uso de' sensi ben diretto si può insegnare, di quel movimento che produce la notte e il giorno, il ricorso delle stagioni, la diversità de' climi, il corso de' pianeti, i varii ecclissi, e le fasi del satellite che illumina la notte.

Le mattutine e le notturne (91) osservazioni del cielo saranno i mezzi che noi adopreremo per comunicare queste istruzioni. L’uso della sfera armillare sarà proscritto, per evitare le illusioni che questa cagionar potrebbe nell'animo de' fanciulli. Noi adopreremo piuttosto quella macchina che deve a Copernico la sua prima origine, e che oggi è stata tanto perfezionata, e nella quale questo movimento viene molto sensibilmente indicato. Questa macchina non servirà però che di soccorso alle osservazioni che si faranno direttamente sul cielo. L’abito dell'osservazioni che noi abbiamo fatto con tanti mezzi acquistare a' nostri allievi, e le istruzioni che abbiamo loro procurate sugli errori de' sensi, renderanno più profittevole questo metodo d’istruzione e ne assicureranno gli effetti. Essi si troveranno nella fine di questo quarto anno provveduti di quelle preliminari nozioni che sono necessarie a premettersi allo studio d’una scienza, la quale, richiedendo l’uso della seconda facoltà, cioè della memoria, non verrà in questo piano assegnata che nel quinto anno della loro scientifica educazione.

Articolo V
Delle istruzioni del quinto, sesto e settimo anno

Eccoci pervenuti alla seconda epoca della nostra scientifica educazione, a quell'epoca, nella quale la facoltà della memoria già bastantemente sviluppata ci offre l'adito ad una nuova serie d’istruzioni, che l’uso di essa richieggono, e che non avremmo potuto prima di questo tempo intraprendere senza allontanarci dal piano della natura, ed esporci al quasi inevitabile rischio di perdere, non solo inutilmente un tempo così prezioso; ma d’impedire per sempre finterò sviluppo di quella facoltà, così necessaria all'umano sapere. Finora questa facoltà ha operato liberamente da se medesima; noi non abbiamo direttamente impiegata la sua opera; noi non abbiamo cosa alcuna esatta col suo mezzo da' fanciulli. Da questo momento le cose cominceranno a cambiare d’aspetto; ma noi non lasceremo per questo di guardarci bene dal confondere l’uso di questa facoltà coll’abuso; noi ci guarderemo più d’ogni altro dall’incorrere in quel pregiudizio così pernicioso,come frequente, che fa a molti considerar la memoria comò una macchinale ruote della quale divengono altrettanto più facili, quanto sono state più usate, e le di cui molle acquistano maggior vigore, a misura che vengono con maggior forza e con minore intermissione compresse. L’esperienza ci fa vedere il contrario: essa non ci offre alcun esempio d’una memoria che col solo soccorso di un violento esercizio abbia guadagnata molta forza e molta estensione; essa ci offre al contrario molti esempli di coloro che con questo mezzo hanno indebolita questa facoltà.

Mitridate che parlava ventidue lingue; Giro che proferì I nomi di trentamila soldati che componevano il suo esercito; Cineo, l’ambasciatore de' Parli, che dopo due giorni del suo arrivo a Roma chiamò ciaschedun Senatore per nome; Lucio

Scipione in Roma, e Temistocle in Atene, che parlando al popolo proferirono i nomi di coloro che gli ascoltavano, non riconobbero sicuramente questi prodigi dall'abito di ripetere ad verbum le lezioni deìoro maestri.

Questo assurdo metodo che imprime nella memoria vocaboli e nomi, invece d’idee, che riduce il sapere de' fanciulli ad effimeri sforzi, che produce l'abito d'apprendere e d’obbliare coll’istessa celerità, e che favorisce tanto la vanità de' fanciulli, quanto nuoce al progresso delle loro cognizioni; quest’assurdo metodo, conseguenza dell’esposto pregiudizio, non avrà sicuramente luogo in questo piano. Senza ricorrere a ciò che Platone, Aristotile, Cicerone, Quintiliano e Seneca e tanti altri han pensato sui mezzi d’aumentare e conservare il vigore di questa facoltà, noi ci restringeremo a tre soli principii, cioè: 1° di non abusare giammai di questa facoltà, impegnandola in sforzi inutili; 2°di facilitare il legame tra le idee, in maniera che la riproduzione dell'una risvegli immediatamente l’altra; 3° di rinfrescar sovente le tracce delle idee che, senza questo soccorso, potrebbero cancellarsi.

Questi tre principii regoleranno Fuso che noi faremo della memoria. Noi ne vedremo l’applicazione fin da questo quinto anno, nel quale cominceremo a far uso di questa seconda facoltà.

Premessi questi principii, riprendiamo ora il filo delle nostre idee, e vediamo quali tra le precedenti istruzioni dovrebbero esser continuate, quali modificate e quali dalle nuove sostituite.

Tutto lo studio della naturale istoria sarà ristretto all’esperienze chimiche che si daranno ne' due giorni della settimana, destinati al divertimento ed al piacere; a quel libero e piacevole esercizio, da noi proposto sulla ricerca delle naturali produzioni, nelle diurne e campestri passeggiate; ed alle visite del gabinetto che verran ristrette agl’istessi due indicati giorni, e nelle quali le istruzioni relative all’istoria della natura costante verran combinate con quelle della natura che Bacone chiamò mostruosa, cioè con quelle che riguardano non le sue costanti operazioni, ma i suoi prodigi, la cognizione dei quali, oltre all'estensione che darà alle idee dei nostri allievi, servirà moltissimo a prevenirli contro la temerità di alcune generali proposizioni: ut axiomatum corrigatur iniquitas. Il disegno sarà continuato, ma il tempo a questa occupazione destinato verrà molto diminuito. Quelle poche cosmologiche nozioni che noi abbiamo nel precedente anno fissate, verranno nel principio del quinto anno applicate all'uso della geografia.

Le prime istruzioni su questa scienza riguarderanno l’uso di quei cerchi dagli uomini immaginati, e la ripartizione generale del globo. Le prime idee di continente, d’isola, di penisola, d’istmo, di stretto, di golfo, ec, verranno comunicate. Il corso delle catene de' monti, dei principali fiumi, eia situazione, comunicazione ed interruzione de' mari, in poche parole, la generale idea dello stato del globo sarà il principale oggetto di queste preliminari istruzioni. Fino a questo tempo non si adoprerà che il globo, e sin che la descrizione più minuta delle varie regioni della terra non rende inevitabile l’uso delle carte piane, saranno queste diligentemente evitate, come quelle che facilmente imbarazzano i fanciulli e fan loro smarrire la vera idea della loro posizione. Questa riflessione ci deve indurre a proporre il frequente ricorso al globo sferico, anche quando gli allievi saran giunti nello stato di dover far uso delle carte piane. Questa precauzione influirà moltissimo sulla chiarezza delle loro geografiche idee.

Per secondare gli stabiliti principii, per facilitare il legame delle idee e favorirne con questo mezzo la memoria, noi faremo andare costantemente unito lo studio della storia a quello della geografia, noi li faremo camminare a passi uguali.

Il principio di questo quinto anno che sarà impiegato nelle preliminari nozioni della geografia, sarà anche impiegato nelle preliminari nozioni dell’istoria. La ripartizione de' tempi, le distinzioni dell’epoche, ed una rapida scorsa su’ tempi che a quelli, nei quali la profana istoria comincia, precedono, formeranno gli oggetti di queste preliminari istruzioni.

Compite queste preliminari istruzioni, che così allo studio della geografia, come a quello della istoria si debbono premettere, queste due scienze si uniranno per mai più separarsi. L’istessa scuola, l'istesso maestro, l’istruzione istessa abbraccierà l’una e l’altra.

La geografia antica accompagnerà l’istoria antica, la geografia moderna accompagnerà la moderna istoria, la descrizione geografica accompagnerà sempre la narrazione istorica. Essa indicherà sul globo o sulla carta (quando il bisogno lo richiede) la regione, il clima, la situazione di quei popoli, dei quali si parla; i paesi da essi conquistati o perduti, quelli che sono stati i teatri delle loro guerre, o l’oggetto del loro commercio, delle loro emigrazioni; delle loro colonie.

Non si darà mai una sola descrizione geografica che non appartenga alla narrazione istorica. Ciaschedun allievo sarà obbligato a dar conto dell'una e dell'altra, tutte le volte che dall’istruttore verrà chiamato a questo esperimento della sua memoria e della sua attenzione. La sua negligenza verrà punita nel modo da noi indicato nell'articolo generale de' gastighi.

Ma quale sarà il piano, col quale si regolerà in quest’età lo studio dell’istoria, dal quale, come si è veduto, dee dipendere quello della scienza che noi le abbiamo associata?

Riflettendo su quello che comunemente si pratica, io vi trovo due inconvenienti fortissimi, che sono entrambi sorgenti fecondissime di errori e di pregiudizii. Il primo riguarda l’ordine dell'istoria, il secondo riguarda la storia istessa.

Si è dato il nome d’Istoria universale ad una collezione d’istorie particolari, collocate l’una dopo dell’altra. Si è prima descritta interamente l’istoria di un popolo, e quindi si è passato all’istoria di un altro popolo, il quale, se non ha avuta una contemporanea origine col primo, ha avuta con quello una contemporanea esistenza. Si è, per esempio, cominciata l’istoria di Roma, dopo che si è terminata quella della Grecia. Che ne deriva da ciò? Si è prolungato lo studio dell’istoria colle ripetizioni di tanti avvenimenti che questo metodo rende indispensabili. Si è prodotto un altro male molto peggiore. Le date, come tutte le idee numeriche, essendo le più soggette alla dimenticanza, non han potuto impedire l'imbarazzo e gli errori che i fanciulli incontrano in questo metodo.

Avvezzi a sentire ed a leggere la storia Greca prima della Romana, si forma insensibilmente in essi un’illusione sulla relativa esistenza di questi popoli, in maniera che, se si domanda ad un fanciullo con questo metodo istruito, chi ha vissuto prima, Alessandro o Romolo, egli non esisterà un momento a rispondervi: Alessandro. Che s’inventino delle tavole e degli alberi cronologici, come si vuole; queste non serviranno che nel momento che si osservano. La sola tavola, il solo albero, la sola cronologia utile e stabile, è quella che è fondata sull’ordine e sul nesso della istoriche idee. Che ognuno esamini se medesimo, e mi giudichi.

L’altro inconveniente che, come si è detto, non riguarda l’ordine dell’istoria, ma l’istoria istessa, non è meno del primo fecondo in errori. Questo dipende dall'imperfezione delle lingue e dall'abuso che si è fatto di alcune voci, che non è in potere dell'istorico, o di colui che l’istoria insegna, di correggere; ma che sarebbe in potere dell'uno e dell'altro di prevenire gli errori che ne dipendono.

Noi diamo, per esempio, l’istesso nome al capo di poche famiglie che godevano di quasi tutta la naturale indipendenza, ed a quello di un immenso popolo che è giunto all'ultimo grado della servitù civile. Noi chiamiamo re Cecrope, re Romolo, e noi chiamiamo coll'istesso nome i capi delle moderne Monarchie dell'Europa. (92)

Che ne deriva da ciò? L’uniformità del nome produce l’uniformità dell’idea; ed il fanciullo, valutando ciò che non conosce da quel che conosce, acquista di Romolo e del suo regno l’idea che ha del proprio re e della sua nazione. Qual fonte inesausto di errori è mai questo l'I nomi di Popolo, di Senato, di Patrizi, di Plebe e tanti altri, sono dell’istessa natura. L'età, lo studio, le posteriori letture non bastano sovente per distruggere queste prime impressioni ricevute nell’infanzia. Gli errori di tanti dotti, da questa causa prodotti, ne sono una pruova.

A questi due vizii principali e comuni dell'istorica istituzione se ne aggiungono degli altri, i quali, non essendo né così perniciosi né così universali, mi astengo dall’indicarli.

Mi contento soltanto di prevenirli nel piano che, per non estendermi più di quel che conviene, non farò qui che accennare.

L’istoria comincia colla favola, e le verità che questa nasconde, quando anche fossero discoverte, non sarebbero alla portata de' fanciulli, non sarebbero neppure a quella della più gran parte dei loro maestri. Noi non dobbiamo aspirare che a ciò ch'è eseguibile, e ciò ch'è eseguibile esclude sovente ciò ch'è perfetto. Privare i fanciulli della cognizione della parte favolosa dell'istoria sarebbe l’istesso che privarli di una quantità di cognizioni che sono necessarie per l'intelligenza d’infinite cose. Richiamare sopra i suoi favolosi racconti la loro credenza sarebbe l’istesso che riempierli di errori. Prevenire l'uno e l'altro male è il partito che dee prendere il saggio istruttore; egli vi riuscirà, se con chiari e replicati avvertimenti indicherà loro l’incertezza di quei fatti, l’oscurità di quei tempi, le alterazioni delle volgari tradizioni, della vanità dei popoli e della parzialità dei patrii istorici. Egli vi riuscirà se, senza fare della critica uno studio separato e diviso, ne manifesterà le regole coll’applicazione che ne farà a' casi che le richieggono. Egli vi riuscirà, se tutte le volte che s’incontrerà cogli speciosi nomi di Re, di Popolo, di Senato,di Plebe, ecc., adattati all’infanzia delle nascenti società, indicherà loro le vere idee che questi nomi debbono loro eccitare. Egli vi riuscirà, se li persuaderà di non valutare mai lo stato di quei tempi con quello dei tempi posteriori; quello delle origini e dei principii delle società con quello delle società già perfezionate.

Formando questi elementi istorici, adattati all'età per la quale noi ne destiniamo l'uso, l'autore non avrà innanzi agli occhi un solo popolo, una sola regione; ma il tempo, del quale parla, e l'universo. I suoi sguardi si estenderanno sopra tutti i popoli, e le sue narrazioni non saran regolate che dall’ordine dei tempi, e dell’importanza dei contemporanei avvenimenti. Con saggia economia eviterà i due estremi, nei quali incorrono la più gran parte degli elementi d’istoria che noi abbiamo. Egli non priverà gli elementi della loro proprietà caratteristica, col dir troppo; egli non li priverà dell’utile che noi ci proponiamo di conseguirne, col dir troppo poco.

Finalmente invece di riempiere i suoi scritti di quelle noiose moralità, delle quali si son fatto un dovere alcuni moderni istorici,' egli imiterà gli antichi nell'arte di farle nascere col dipingere il vizio e la virtù coi colori che loro convengono.

Questa è in breve l’idea del piano, sul quale io vorrei che fosse in quest’età regolato lo studio dell’istoria. I vantaggi che ne dipenderebbero, mi paiono evidenti. L’unione della geografia coll'istoria favorirebbe il nesso delle idee, e spargerebbe un gran lume sull'una e l’altra istruzione. La rimembranza de' luoghi risveglierebbe la memoria degli avvenimenti, de' quali sono stati i teatri, e la rimembranza degli avvenimenti risveglierebbe quella de' luoghi. La nozione dell’antica e moderna geografia sarebbe senza alcuno stento comunicata a' fanciulli, e senza fare di questa scienza uno studio separato e diviso, la cognizione ne sarebbe più luminosa, più durevole. Gli avvertimenti che accompagnerebbero l’istruzione della parte favolosa dell'istoria, e l’uso di alcuni nomi che debbono eccitare diverse idee nei diversi tempi, e nei diversi periodi delle società, impedirebbero un prodigioso numero di pregiudizii e di errori, dai quali, come si è veduto, è così difficile di liberarsi. La continua applicazione delle regole della buona critica, senza manifestare l’arte o la scienza, senza farne uno studio separato ed una teoria distinta, ne otterrebbe tutti quegli effetti che sono destinate a produrre, ma che 'si smarriscono, allorché si separano dal soggetto al quale appartengono. L’ordine dell'istoria regolato da quello dei tempi; l’esposizione dei contemporanei avvenimenti che riguardano tutti i popoli, preferita a quella che riguarda un solo popolo per volta, farebbe difendere la rimembranza delle cronologiche nozioni, non dal vacillante ed effimero appoggio delle date, ma dall'ordine e dal nesso delle istoriche idee; preverrebbe l’intrigo e gli errori che dipendono dall’antico metodo; estenderebbe le vedute dei fanciulli col presentar loro un prospetto più grande, e favorirebbe i loro progressi nella scienza che noi abbiamo all’istoria associata. Finalmente il giusto mezzo serbato tra' due indicati estremi darebbe a questo studio quell'estensione che conviene in questa età, e l’arte di ben dipingere il vizio e la virtù metterebbe il cuore a parte de' lumi che si procurano all’intelletto. Ecco ì vantaggi che si potrebbero conseguire dal proposto metodo.

Io non debbo però lasciare di avvertire, che questa istoria che si dovrebbe e si potrebbe senza molto stento formare per uso degli allievi nell’età, della quale io parlo, è ben diversa da quella che io vorrei che divenisse l’oggetto delle profonde meditazioni degli uomini di questa classe, terminato che avessero l'intero corso della loro scientifica educazione. Ma io son costretto a tacermi su questo oggetto, non solo perché non sarebbe questo il luogo da parlarne, non solo perché l’istoria che io desidero non esiste, né alcuna di quelle che finora si sono o immaginate o eseguite ha con essa rapporto alcuno; ma perché l’idea n’è così ardita, il piano n’è così vasto, che sarebbe sicuramente accusata d’impossibile esecuzione. Io ho concepito il disegno di questa istoria e ne ho preparati alcuni materiali. Verrà forse un tempo, nel quale mi occuperò di questo vasto ed ignoto oggetto, e mi riserbo di manifestarne allora Videa e l'esecuzione nel tempo istesso.

Dopo questa breve digressione, ritorniamo ora alle istruzioni adattate all’età, della quale parliamo, ed alla facoltà, della quale in quest'età dobbiamo far uso.

I tre anni che noi destinati abbiamo alle indicate istruzioni, verranno contemporaneamente impiegati nello studio di una lingua, la quale dopo aver formato per tanto tempo l’oggetto, per così dire, unico della scientifica educazione della gioventù, per un abuso che si risente ugualmente del vizioso pendìo degli uomini per gliestremi, viene interamente trascurata in una gran parte dell'Europa, e particolarmente nella nazione che si crede nel dritto di dar la legge al sapere, come lo dà da gran tempo alle opinioni ed alla moda.

Per una conseguenza di questo abuso la lingua di Tullio, di Livio, di Plinio e di Tacito, si è smarrita in una gran parte dell’Europa,insieme con quell’augusta robustezza, della quale ci offre tanti luminosi modelli.

Noi non ci faremo dunque sedurre dalle apparenti ragioni, addotte da molti scrittori contro lo studio di questa lingua; ma noi non ci faremo neppure regolare dall’esempio nel prescrivere il metodo che si dee tenere per insegnarla.

Prima dell’età, della quale si parla, cioè di quella ch'è compresa tra' nove e i dodici anni della vita, o sia tra ’l principio del quinto fino al termine del settimo dell'educazione, lo studio di questa lingua sarebbe stato contrario al piano che ci siam proposti di seguire; poiché prima di questo tempo la facoltà della memoria, così necessaria a questo studio, non doveva esser da noi adoprata, perché non ancora giunta a quel grado di sviluppo che si richiede per poterla senza rischio adoprare. La prima differenza dunque tra ciò che si è praticato e si pratica tuttavia, e ciò che da noi si propone, riguarda l’età che a questo studio si dee destinare. (93)

La seconda riguarda il modo, col quale si deve intraprendere e proseguire. Il cominciare da dové ordinariamente questo studio si comincia, è l’istesso che cominciare da dové si deve finire, e da dové si deve finire dopo molto tempo che si è cominciato. Un laberinto di definizioni, di regole e di eccezioni; una interminabile esposizione di principii, tutti relativi alla parte più metafisica della lingua; un caos di precetti, dei quali i fanciulli ripetono le parole, senza concepirne lo spirito, e che li lasciano nella perfetta ignoranza della lingua, dopo che han terminato di apprenderne la scienza; ecco l’assurdo metodo, al quale noi tutti abbiamo dovuto soggiacere, ecco il modo, col quale l’errore ha perpetuata l’ignoranza, ha fatto abborrire il sapere, ha isteriliti gl'ingegni più fecondi, ha ispirato a' fanciulli un odio implacabile alla applicazione ed allo studio, e gli ha privati di quella felicità che la natura pare che abbia riserbata per questo solo periodo della vita. (94)

Io mi guarderei bene dall’imitare un metodo che ha prodotto e produce tuttavia tanti mali. I miei principii, il piano che mi son proposto di seguire, la trista esperienza che sono stato costretto a farne su di me medesimo, e quella degli uomini che coi loro scritti han mostrato la vasta cognizione che avevano di questa lingua, tutto m’induce a consigliare un nuovo metodo dall'antico interamente diverso.

Tutte le nostre preliminari istruzioni si ridurranno alla declinazione e coniugazione de' nomi e dei verbi, ed a quelle poche regole ed osservazioni grammaticali che sono le più semplici, le più frequenti nell’uso, e le più indispensabili a conoscersi per l’intelligenza della lingua. Secondo l’opinione di un celebre latinista italiano(,)(95)tre soli mesi potrebbero bastare a queste preliminari istruzioni. Noi vi destineremo i primi tre del quinto anno. La lettura e la spiegazione degli antichi scrittori, e l’arte di rilevare e di mostrare ai giovanetti le loro bellezze, dovrebbe essere il solo mezzo, col quale in tutto il rimanente dei tre anni che all'uso della seconda facoltà abbiamo destinati, si dovrebbe proseguire lo studio di questa lingua. Tutti coloro, che vi han fatto i maggiori progressi, confessano di doverli a questo esercizio. (96)

Un solo principio basta per regolare la scelta che si deefare de' libri che si debbono per questo uso adoprare. Senza l’idea delle cose rappresentate, i segni che le rappresentano sono niente.

In ogni lingua le parole sono i segni delle idee, ma con questa differenza, che nella lingua vivente l’idee degli oggetti che si percepiscono, si legano immediatamente colle parole che si sentono pronunziare, e nello studio di una lingua morta questo legame non si fa immediatamente coll’idea, ma colla parola del nativo linguaggio che l'esprime. Nell'una le parole sono i segni delle idee, nell'altra sono i segni dei segni delle idee, ciocché suppone una doppia contenzione di spirito. Che ne sarà, se a questo si aggiugne l’ignoranza o la poca chiarezza dell'idea istessa?

Bisogna dunque scegliere tra le opere degli antichi scrittori quelle che parlano delle cose, delle quali i fanciulli, secondo il nostro piano istituiti, possono nell’età, della quale parliamo, e nei tre diversi anni che quest’età compongono, avere idee chiare o con facilità acquistarle. Nell'ultimo di questi tre anni s’insegneranno loro i principali principii della latina e volgare prosodia, e si addestreranno all’intelligenza dei poeti dell'una e dell’altra lingua. Si osserverà nella scelta di questi poeti l'esposto principio. (97)

Finalmente siccome la facoltà della memoria non è uguale in tutti gli uomini, così non è uguale la loro attitudine alle lingue. Quelli tra gli allievi di questo collegio, che mostreranno un talento più deciso per questo studio, verranno istruiti anche nella greca lingua, ed in questa istruzione, che si darà loro in questo periodo istesso della scientifica educazione, si osserverà l’istesso metodo che per la latina si è proposto.

Noi ci riserberemo di parlare della vera grammatica e dello studio che se ne deve fare, nella quarta epoca dell’educazione, quando si farà uso della quarta facoltà. Questa parte della filosofia, questa sublime metafisica delle lingue, richiede lo sviluppo di questa ultima facoltà, ed il previo uso delle altre per potersi con profitto studiare e conoscere. Quando si vedrà ciò che io intendo sotto questo nome, si converrà, io spero, di questa verità.

Adoprata in questo modo la seconda facoltà dell’intelletto, passiamo ora all’uso che si dovrebbe fare della terza. Vediamo come si potrebbe profittare dell'immaginazione; vediamo come si dovrebbe negli allievi del collegio, del quale parliamo, adoprare, coltivare e dirigere questa facoltà, alla quale noi preparati abbiamo, senza avvedercene, tanti materiali.

Articolo VI
Delle istruzioni dell'ottavo anno

Questo ottavo anno dell'educazione, che è il decimoterzo della vita, sarà interamente impiegato nell'uso della terza facoltà, la quale pare che nella maggior parte degli uomini sia in questa età giunta a quel grado di sviluppo, che si richiede per poterla senza rischio adoprare. Le vaste e moltiplici idee della natura e delle sue produzioni, della sua fecondità, de' suoi prodigii e delle sue forze, acquistate e colle istruzioni della naturale istoria, e colle chimiche esperienze, e colle cosmologiche osservazioni; la cognizione di ciò che di più importante è avvenuto sulla terra ne' varii tempi, presso i diversi popoli e ne' diversi stati della società, dallo studio dell'istoria somministrata, e la cognizione anche più feconda dei prodigii che l’amor della patria e della gloria ha prodotti tra gli uomini, comunicata nella parte morale dell'educazione coi discorsi e colle letture a quest'oggetto destinate; l’idea del bello, ispirata e colla continua ispezione della natura, e col disegno e coll’abito di vedere le più belle produzioni di quest’arte, e colle letture dei migliori scrittori che si son proposte, compongono il prodigioso numero di materiali che noi preparati abbiamo all'immaginazione dei nostri allievi, prima di permetterci d’adoprarla. Bisognava aspettare che essa acquistato avesse quella forza che si richiede per impiegarla, senza distruggerla; bisognava dar loro delle idee; bisognava aspettare che la memoria fosse nello stato di ritenerle, prima di obbligarli a comporle; bisognava, in poche parole, fare quello che si è fatto, ed aspettare quanto si è aspettato, per profittare di questa facoltà, per adoprarla e dirigerla. Giunti ornai a questo punto, vediamo dunque in che dee raggirarsi questo uso e questa direzione.

Vi è un tempo, nel quale lo spirito umano fornito di un certo numero bastantemente considerabile d’idee, comincia a sentire il bisogno di produrle. Questo tempo è appunto quello, nel quale la facoltà dell'immaginazione ha acquistato un certo grado di attività e di vigore, che suppone l’intero suo sviluppo.

Ilprofittare di questo bisogno, di questa disposizione, è il miglior uso che noi possiam fare di questo tempo. Noi non dobbiamo far altro che secondare la natura per profittarne. Le istruzioni che nei precedenti anni noi abbiamo comunicate ai nostri allievi, somministrano, come si è detto, un sufficiente numero di materiali alle operazioni della loro immaginazione. Esse le hanno contemporaneamente preparato un altro vantaggio. La nettezza delle idee che noi abbiam costantemente cercato di combinare col gran numero di esse; l’abito dell'osservazione; lo spettacolo continuo delle più bello produzioni della natura e dell’arte, e tutti gli altri mezzi, coi quali noi abbiam cercato d’ispirar loro l’idea del vero bello, preverranno facilmente gli abusi e gli errori dell'immaginazione, senza diminuirne l’energia, la quale è sempre proporzionata alla libertà che le si lascia.

Quell'immenso numero di regole e di precetti, coi quali s’incatena, s’impicciolisce e si distrugge finalmente l’immaginazione dei giovanetti sotto l’apparenza di dirigerla, saranno dal nostro piano proscritte non solo come inutili, ma come perniciose. La natura che abbiam loro mostrata di continuo e nella sua realtà e nelle più belle imitazioni di essa, terrà il luogo dei precetti e delle regole. Gli scrittori che han letti, e che seguiteranno a leggere, dirigeranno l’elocuzione e formeranno il gusto. Il vero, il bello, il grande ed il sublime sarà nel loro spirito, nei loro occhi e nelle loro orecchie, e non nella loro memoria.

Il grande interesse è che essi si avvezzino a scrivere o nel verso o nella prosa ciò che immaginano, e si avvezzino ad immaginare, cioè a comporre e combinare quegli oggetti che sono tra loro componibili e combinabili; il grande interesse è che essi copiino ed abbelliscano la natura nelle loro produzioni, e non la deformino o la creino a capriccio; il grande interesse è ch'essi imparino ad imitare gli scrittori che si propongono loro per modelli, invece d’imparar le regole che si sono posteriormente foggiate su questi scrittori istessi; (98)e che, invece di cercare in questi il tropo o l’antitesi, essi vi cerchino quel maschio vigore dello spirito che scuopre da per tutto la via la più breve e la più sicura per giugnere al proposto fine, e che, penetrato dall’idea della grandezza e dignità della natura umana, disprezza tutti quegli artifici!, tutte quelle frodi, tutte quelle sottigliezze di uno spirito che vuol illudere, e di una immaginazione che vuol sedurre.

In poche parole, l'unico, il vero, il grande interesse è ch'essi discoprano l’arte, invece d’apprenderne le regole; ch'essi facciano ciò che si deve fare, invece d’imparare quel che gli altri han detto che si deve fare; ch'essi sentano ed adoprino le bellezze dell’arte, invece di conoscere i nomi, le definizioni e i precetti che le riguardano.

Ecco ciò che il saggio istruttore deve proporre in quest’età, della quale parliamo. Egli vi riuscirà, se saprà scegliere i soggetti, sui quali l’immaginazione degli allievi può con maggior vantaggio esercitare le sue operazioni; se saprà loro rammentare i materiali che debbono a quell’uso adoprare; se saprà loro indicare i luoghi dei migliori scrittori che opportuni al proposto soggetto possono loro servire di modello; saprà loro rilevare le bellezze e i difetti dell’esecuzione; se, paragonandola colla natura, ne rileverà le somiglianze e le differenze, in che l’abbiano imitata o abbellita, ed in che l’abbian violata o deformata; se, paragonandola coi modelli che ha loro proposti, sappia mostrare in che consista la differenza del merito; se finalmente sappia egli medesimo riparare agli errori ed alle imperfezioni dei loro lavori, e sostituire il bello ed il perfetto al deforme ed al mediocre.

Ecco come anderebbe adoprata e diretta questa terza facoltà. Tutto il nono anno della scientifica educazione sarà, per gli allievi del collegio, del quale parliamo,. a quest’oggetto impiegato. I sei altri anni che rimangono, basteranno essi a tutte le istruzioni che l’uso richieggono della quarta facoltà, e che io non potrei escludere dal mio piano, senza renderlo difettoso e mancante? Potremmo noi, in mezzo all’uso di questa nuova facoltà, conservare l’esercizio di quella, della quale veniamo di parlare? Vediamolo.

Articolo VII
Delle istruzioni degli ultimi sei anni

Le istruzioni che lo sviluppo della facoltà di ragionare richieggono, sono state con ragione da noi riserbate per quest’ultima epoca della scientifica educazione. Fedeli al piano che ci siam proposti, noi non potevamo prima di questo tempo permettercene l’intrapresa. Contentiamoci di non aver perduto neppure un istante di un tempo così prezioso; contentiamoci di averlo impiegato senza abusarne; contentiamoci di aver raccolto dall’uso'delle precedenti facoltà tutti quei vantaggi che somministrar ci potevano; contentiamoci di aver condotti i nostri allievi a quel punto, nel quale gli abbiamo lasciati, senza esporli né alla noia né al tormento. Lasciata la facoltà di ragionare in tutta quella libertà che richiedeva il suo più lento sviluppo,noi. la troveremo ora più atta a somministrarci quei soccorsi che l’uso precoce di essa non ci avrebbe permesso di ottenerne, e che non si possono sperare che da quel grado di forza e di vigore che noi le abbiam permesso di acquistare. La direzione che noi daremo alla sua forza, il modo col quale verrà impiegata, ne aumenterà l’effetto, così riguardo al numero come riguardo alla solidità delle istruzioni. La natura di queste istruzioni, l’ordine col quale si debbono comunicare, saranno i tre oggetti del nostro esame.

Quella scienza, la quale nel tempo istesso che avvezza l’uomo a ragionare con ordine ed esattezza, gli comunica una quantità di cognizioni necessarie o utili all'acquisto del resto del sapere, è quella, dalla quale noi cominceremo l’esercizio di questa quarta facoltà. La Geometria è questa scienza. Seguendo la distinzione di alcuni moderni che la dividono in Geometria elementare, trascendentale e sublime, noi non proponiamo che le due prime pei nostri allievi, cioè elementare, che non considera che le proprietà delle linee rette e circolari delle figure in queste linee comprese, e dei solidi da queste figure terminati, e la trascendentale, cioè quella parte della Geometria delle curve che non impiega i calcoli differenziale ed integrale, e che si limita o alla sintesi degli antichi o alla semplice applicazione dell'analisi ordinaria. La Geometria sublime, o sia quella dei nuovi calcoli, richiedendo un tempo molto più lungo di quello che noi assegnar possiamo alla scientifica educazione dei nostri allievi, potrà da coloro che vorranno estendere le loro cognizioni in questa scienza, apprendersi, terminata l’educazione delle Università, delle quali si parlerà nel decorso di questo Libro, e nelle quali s'insegneranno quelle sole parti del sapere che han dovuto omettersi in questo piano.

Nel primo dei due anni che verranno destinati a questa geometrica istituzione, s’insegnerà contemporaneamente l’Aritmetica e l’Algebra; quindi si continuerà questa coll'uso che se ne farà nella geometrica istituzione, ed il tempo alla sua particolare istruzione nel primo anno destinato, verrà nel secondo impiegato alla Tattica.

Lo studio e la pratica di questa ultima scienza sarà negli altri anni continuato nei soli festivi giorni, sino al terminedell'educazione. Quando gli allievi di questo collegio avranno imparata la teoria dell’arte balistica, essi verranno in alcuni di questi giorni esercitati nella pratica di quest’arte; ed una porzione degli allievi della prima classe che nei borghi della capitale viene educata, oltre i militari esercizii che, come si è detto, si dovrebbero a tutti gli allievi di quella classe insegnare, verrà anche istruita in quel meccanismo che il semplice artigliere deve sapere.

I giovani guerrieri che debbono imparare a comandare, e i giovani guerrieri che debbono imparare ad eseguire, verranno negl’istessi giorni e nell’istesso campo riuniti, per ricevere le respettive loro pratiche istruzioni. L’istesso mezzo si potrebbe adoperare per la pratica degli altri militari esercizii, così relativi al comando come all'esecuzione. (99)

Gli elementi delle scienze fisico-matematiche, accompagnati dalla sperimentale fisica, occuperanno il terzo e quarto anno. Le istruzioni della naturale istoria, quelle cosmologiche nozioni che noi abbiamo nell'ultimo anno della prima epoca comunicate per la via dei sensi ai nostri allievi, e le chimiche esperienze, che abbiamo per tanto tempo continuate, (100) han già preparato allo studio di questi due anni i più grandi soccorsi.

Le principali teorie dell’economia rurale, e le istruzioni delle pratiche che finora si. son credute le migliori per favorire la vegetazione delle piante, per accrescere la fecondità dei terreni, per adattare secondo la loro natura le diverse specie d’ingrassi che i tre regni della Natura ci offrono, per curare i bestiami, conservare le biade e prevenire le malattie, alle quali sono esposte, potrebbero anche trovare iù quest’anno il tempo e i lumi più opportuni per essere comunicate. Se il deposito di queste cognizioni resta inutile nelle mani di un misero economista, non lo sarebbe sicuramente in quelle de' ricchi possidenti, che in gran parte comporrebbero il collegio, del quale si parla.

I principii del dritto di natura e delle genti verranno insegnati nel quinto anno. Noi ci riserberemo anche in quest’anno l’istruzione di quella sublime metafisica delle lingue che noi con ragione chiamata abbiamo grammatica filosofica, (101)e della quale da qui a poco parleremo.

Nel sesto anno finalmente lo studio delle patrie leggi, accompagnato dai veri e luminosi principii dell’ordine pubblico e della prosperità sociale, coronerà il corso di questa scientifica educazione. (102)

Quando la legislazione fosse quale dovrebbe essere, quale noi ci prefiggiamo di rendere con quest'opera, e quale noi supponiamo che sia per ottenere da questo piano generale di educazione i maggiori effetti; allora le diverse parti di questa legislazione, le sue disposizioni sui varii oggetti che riguardano l’ordine pubblico e la prosperità sociale, offrirebbero al saggio istruttore i più copiosi materiali e le più opportune occasioni per manifestare ai suoi discepoli i luminosi principii di quella scienza, che han guidato il legislatore e che formano lo spirito delle sue leggi. La cognizione del vero stato della propria nazione, e di ciò che sotto questo nome si comprende; (103)quella dei suoi veri interessi e dei suoi rapporti, sarebbe la conseguenza di questa istruzione.

Ma se la legislazione fosse quale oggi è in quasi tutta l’Europa, se questo piano d’educazione precedesse la correzione delle leggi, allora l’istruttore dovrebbe dai vizii e dall’imperfezione della patria legislazione rilevare que’ principii che dovrebbero rendere un giorno i suoi allievi atti a contribuire al gran lavoro della sua correzione. Platone (104)loda più di ogni altro quella legge di Minos che proibiva ai giovani dì porre in dubbio la bontà delle leggi che venivano loro insegnate. Quando la legislazione fosse perfetta, questa legge potrebbe essere utile; ma quando è viziosa, non farebbe che perpetuare i mali.

Ecco la serie delle istruzioni che si dovrebbero in questa quarta epoca somministrare agli allievi del collegio, del quale parliamo, ed ecco l’ordine, col quale si dovrebbero disporre.

Non deve recar meraviglia, se noi non abbiamo formato della metafisica e della logica due istituzioni separate e distinte. La ragione ne è semplicissima. Noi non l’abbiam fatto della prima, perché considerando la metafisica dal suo vero aspetto, cioè come la scienza universale che contiene i principii di tutte le altre, noi ripartiremo questo studio negli altri studii; giacché, come si osserverà da qui a poco, noi vogliamo che l’istituzione d’ogni scienza sia accompagnata dalla metafisica di quella scienza.

Noi non abbiam neppure formato della logica uno studio separato e distinto, e poiché quella parte di questa scienza o arte (105) che insegna a disporre le idee nell'ordine il più naturale, a formarne la catena la più immediata, a scomporre quelle che sono troppo composte, ad osservarle da tutti i loro aspetti, e finalmente a presentarle agli altri sotto una forma che ne renda facile l’intelligenza; questa parte, io dico, della logica sarà associata alla geometrica istituzione, e l’istruttore di questa scienza non durerà fatica alcuna a far conoscere ai suoi discepoli le regole di un’arte, che in niuna parte dello scibile sono meglio osservate che in quella che egli insegna. L’altra parte poi della logica che col soccorso dell'astrazione, considerando separatamente le diverse idee che sono l’oggetto del pensiero, e le relazioni che lo spirito percepisce tra esse, giugne ad analizzare, in certa maniera, il pensiero che di sua natura è indivisibile, e col soccorso di quest’analisi riduce l’uso delle parole ad alcuni precetti universali ed invariabili, rileva fino le più picciole differenze delle idee; insegna a distinguere queste differenze coi segni più vantaggiosi; manifesta e corregge l'abuso che si fa di alcuni di questi segni; distrugge o previene gli errori che da quest’abuso dipendono; distingue quando e come si possono dare diversi sensi all’istessa voce; e quando e come si possono adoprare diverse voci per la medesima idea; discopre spesso, col soccorso di un profondo esame, la ragione di quella scelta, bizzarra in apparenza, che fa preferire un segno ad un altro, e non lascia finalmente a quel capriccio nazionale che si chiama uso, se non ciò che non può assolutamente togliergli. Quest'altra parte di questa scienza o arte, comunque chiamar la vogliamo, sarà associata a quella grammatica filosofica, della quale, come si è detto, si dovrebbero insegnare i principii nel penultimo anno di questa scientifica educazione.

La ragione ne è evidente. Qualunque sia la lingua di un popolo, qualunque i suoi vocaboli, qualunque il modo col quale gli sia piaciuto di modificarli, egli dovrà sempre con questi vocaboli dinotare percezioni, giudizii, ragionamenti. Egli avrà sempre bisogno di voci per esprimere gli oggetti delle sue idee, le loro modificazioni, i loro rapporti. Egli dovrà render sensibili i diversi aspetti, pei quali gli ha osservati. Egli avrà vocaboli che esprimono idee composte, e che come tali si possono definire; e ne avrà che esprimono idee semplici, e che come tali non si possono definire, e che si debbono in qualunque lingua considerare, come le radici filosofiche di quella tale lingua. Egli ne avrà per indicare gli esseri reali, e ne avrà per indicare gli astratti. Egli ne avrà per indicare le affezioni interne, e ne avrà per indicare le astrazioni di queste affezioni. Egli distinguerà coi primi gli esseri reali dagli effetti delle sue riflessioni su questi‘esseri; e distinguerà coi secondi le affezioni interne dagli effetti delle sue riflessioni su queste affezioni. Non potendo avere tanti nomi quanti sono gl’individui, egli dovrà sovente far uso delle voci determinative per restringere il significato troppo vago delle appellative e generali. Egli avrà voci per indicare classi, generi, specie, ecc., che le sue astrazioni sulle proprietà, qualità, ecc., dei reali esseri gli han fatto inventare per distinguerli. Egli avrà vocaboli, il senso incompleto dei quali esigerà un complemento. Egli adoprerà le sue voci nel loro senso proprio ed originario, ed in un senso figurato ed esteso. Se ha infatti molti progressi nella coltura, la sua lingua avrà molti sinonimi, non già di quelli che hanno assolutamente e rigorosamente il medesimo senso, ma di quelli che son destinati ad indicare le più picciole differenze di una medesima idea, e che allora soltanto è permesso d’impiegare ad arbitrio l’uno in vece dell’altro, quando non vi è bisogno d’indicare quella tal differenza. Qualunque sia la sua lingua, le sue proposizioni avranno sempre i loro soggetti, i loro attributi e quella parte ch'è destinata ad indicare resistenza o la non esistenza dell’attributo nel soggetto; esse saranno semplici o composte, principali o incidenti.

In poche parole, qualunque sia la lingua di un popolo, essa sarà sempre sottoposta alle leggi dell'analisi logica del pensiero; e queste leggi fondate sulla natura e sulla maniera di procedere dello spirito umano, sono, come quelle, invariabili, universali e perenni. Or questa metafisica delle lingue, questa grammatica universale, ai principii invariabili ed eterni della quale l’istruzione della grammatica particolare di ciascheduna lingua si dovrebbe' rapportare, che altro è, se non quella parte della logica che noi indicata abbiamo? Perché dunque separare due istruzioni che sono per la loro natura inseparabilmente unite? Perché raddoppiare il tempo, la noia e la difficoltà, per separare due studii che han tanto bisogno dello scambievole soccorso che si prestano? (106)

Illettore profondo che invece di seguire l’Autore, lo previene, non stenterà a prevedere che la grammatica filosofica concepita secondo l’idea che ne abbiam data, dovrebbe necessariamente contenere i semplici e luminosi principii dell'origine e della generazione delle nostre idee, ai quali alcuni illustri moderni vorrebbero, come si sa, che la metafisica si limitasse. Io lascio ai filosofi, che conoscono i rapporti, pei quali le scienze che si credono le più distanti tra loro si combinano e s’intrecciano, il giudicare dei vantaggi che produrrebbero le varie combinazioni di esse in questo piano proposte. Il servile elementista fatto piuttosto per deridere che per concepire simili idee.

Prevenute queste opposizioni che mi si potevano fare, ed esposta la natura e l’ordine progressivo delle istruzioni che si dovrebbero in questa quarta epoca somministrare, vediamo ora il modo, il metodo che si dovrebbe tenere nel comunicarle. Per adempiere a ciò che ho promesso, questo solo è quello che mi resta ad esaminare. Le poche idee a questo importante oggetto relative che mi sforzerò di esporre colla maggior possibile brevità, mi pare che bastar potrebbero per indicare il nuovo metodo, che si dovrebbe all'antico sostituire. Io prego colui che legge, di deporre le prevenzioni dell’uso, e di non ascoltare che la ragione.

I.In ogni scienza si comincia dal definire, e la prima definizione è quella della scienza istessa. Questa definizione molte volte non è esatta, giacché la cosa la più rara è una buona definizione, e quando è esatta,non basta da se sola ad esprimere la vera idea della scienza, se non per colui che l’ha interamente percorsa. Che ne deriva da ciò? Il giovane che non prende alcun interesse al sapere, ne impara a memoria le parole, poco curandosi di concepirne con chiarezza il senso; e colui che ha l’ambizione del sapere, o crederà di averne concepita l’idea, nel mentre ch’è molto lontano da essa, o, se ha bastante buon senso per conoscere di non concepirla, acquisterà una diffidenza dei suoi talenti e della loro attitudine per quella scienza, della quale non gli è neppur riuscito di concepirne la definizione che immagina essere la parte più facile di essa. Con questi infelici auspicii cominciata la carriera delle scienze, quale ne può mai essere il progresso? La ragione chiama in soccorso la memoria, e le operazioni di questa seconda facoltà, così felici in un tempo, nel quale essa è nel massimo suo vigore, illudono il maestro ed il discepolo, e nascondono la perdita che dall’uno e dall’altro si fa di un tempo così prezioso. Una materiale ed effimera cognizione. del gergo e delle parti componenti della scienza è il solo effetto di questa istituzione. Il giovane comparirà gran geometra nella scuola e nel circolo, e non conoscerà ancora cosa è geometria. Dopo pochi mesi che ha abbandonato questa scienza per passare ad un’altra, la memoria occupata da un nuovo gergo perde la rimembranza dell'antico, ed al geometra divenuto iuspubblicista o giureconsulto, non rimarrà altra impressione dell’antica sua scienza, se non quella del tempo che vi ha inutilmente impiegato.

Questi mali che lasciano i mediocri talenti nella più perniciosa ignoranza, qual’è quella che si nasconde sotto la superficie del sapere e che ritardano i progressi dei grandi talenti, i quali debbono impiegare a riparare a' vizii della istituzione quel tempo che potrebbero occupare nel dilatare i confini delle scienze istesse, questi mali, io dico, potrebbero esser da un diverso metodo d’istituzione riparati e prevenuti.

Per manifestare ciò che su questo primo passo dell'istituzione d’ogni scienza ho pensato, io scelgo la scienza geometrica, come quella che, seguendosi il mio piano, dovrebbe esser la prima, per la quale se ne dovrebbe far uso. Vediamo in qual modo io vorrei che se ne desse agli allievi l’idea, e si potrà così facilmente concepire quello che seguirsi potrebbe nelle altre scienze.

Molto lungi dal pretendere di conseguire questo fine col solo mezzo della definizione della scienza, questa definizione non dovrebbe essere, che l'appendice ed il risultato del luminoso esame che dovrebbe precederla. Che mi si permetta di dare un ristretto saggio di quest'esame, e di manifestarne in questo modo la natura e l’importanza. Supponiamo dunque che io fossi il maestro di questa scienza: ecco a che si raggirerebbe la prima e la più importante delle mie lezioni io comincerei dal mostrare ai miei discepoli, come lo studio che li conduce ai gradi più eminenti del sapere, è quell’istesso che manifesterà loro per la prima volta la picciolezza delle nostre forze e la debolezza dell'umano intelletto. Cercherei di far loro vedere che quantunque circondati da corpi, e corpi noi stessi, noi abbiam dovuto smembrare, per così dire, questi oggetti, per poterne avere qualche cognizione; noi abbiam dovuto separare nella nostra immaginazione le proprietà sensibili di questi corpi dai corpi istessi, ai quali appartengono; noi abbiam dovuto esaminare non solo queste diverse proprietà separatamente per conoscerle, ma abbiamo dovuto smembrare e scomporre queste proprietà istesse, già separate dalle altre; e finalmente abbiam dovuto supporre in queste proprietà istesse così astratte, separate e smembrate, un’ipotetica ed immaginaria esattezza, che non esiste che nelle nostre definizioni e non già nella natura; e che non ci permette di conoscerla che per approssimazione.

Per illustrare questa idea, io prenderei un corpo tra le mani, e mostrerei ai miei discepoli tutte le sue proprietà sensibili. Farei loro vedere, come noi facciamo poco a poco col nostro spirito la separazione e l’astrazione di queste differenti proprietà; come noi ci avvezziamo a considerarle separatamente dalle altre, e separate dai corpi ai quali appartengono. Farei loro quindi vedére nell'estensione figurata la sola parte delle proprietà dei corpi, della quale si occupa la Geometria; farei loro vedere come questa scienza si limila. ad osservare i corpi, come semplici porzioni dello spazio, penetrabili, divisibili e figurate. Farei loro concepire l'idea del corpo geometrico, il quale non è altro che una porzione dello spazio, terminata in tutti gli aspetti da limiti intellettuali. Farei loro da principio considerare, come in una veduta generale, questa porzione figurata dello spazio, o sia l’estensione di un corpo in tutte le tre sue dimensioni. Farei loro quindi vedere, come non basti considerare questa figurata estensione separatamente, ma che per determinare le sue proprietà si deve quest’istessa estensione scomporre. Che con astrazioni, anche più lontane dalla realità, si deve da principio considerare come limitata da una sola delle sue dimensioni, qual’è la lunghezza; quindi da due di queste dimensioni, quali sono la lunghezza e la larghezza; e finalmente da tutte le tre sue dimensioni, quali sono la lunghezza, la larghezza e la profondità; ed in questo modo farei loro vedere, come le proprietà dell’estensione considerata nelle linee, quelle dell’estensione considerata nelle superficie, e quelle dell’estensione considerata nei solidi, formano l’oggetto di questa scienza.

Finalmente farei loro vedere, come dopo avere scomposta l'estensione per osservarla in ciascheduna delle sue dimensioni, dopo aver formate astrazioni sopra altre astrazioni, l’uomo ha dovuto dare un altro passo, che più d’ogni altro indica la debolezza delle sue forze: ha dovuto supporre in queste linee, in queste superficie, in questi solidi, alcune determinate condizioni; ha dovuto supporle in uno stato di perfezione ipotetica che non s’incontra mai nella natura, che non esiste che nelle sue definizioni, che rende le verità geometriche verità di definizione o sia ipotetiche, come lo sono le definizioni dalle quali procedono, e le rende in fine tali che non ci conducono, né ci possono condurre alla cognizione dello stato reale di questa estensione nei soggetti fìsici, nei quali non s’adoprano che per approssimazione. I primi oggetti che si debbono presentare in quella parte della Geometria elementare, ch'è la prima ad insegnarsi, mi servirebbero per meglio illustrare questa verità. Mostrando loro le figure della linea retta, della superficie rettilinea e del cerchio, farei loro vedere che non esiste in natura né una linea perfettamente retta, né una superficie perfettamente rettilinea, né un cerchio perfetto, come non vi esistono né perfette curve, né superficie perfettamente curvilinee, né solidi da queste tali superficie perfettamente terminati; ma farei loro nel tempo istesso vedere che più. la figura circolare, per esempio, che s’incontrerà nella natura, si avvicinerà al cerchio perfetto, più le sue proprietà si approssimeranno a quelle ch'essi col soccorso di questa scienza discopriranno nel cerchio perfetto; e così, del resto, farei loro vedere, come vi si possano approssimare fino ad un grado sufficiente all'uso che se ne deve fare; e farei loro in fine vedere, come senza ricorrere a questa ipotetica perfezione noi non avremmo potuto mai giugnere a conoscere e dimostrare alcuna delle proprietà particolari di quella proprietà principale dei corpi che si chiama estensione.

Ecco un ristretto ed appena accennato saggio di quel distinto e luminoso esame che somministrar dovrebbe agli allievi la vera idea di questa scienza, e del quale la definizione che se ne dà, non dovrebbe esserne che l’appendice o, per meglio dire, il risultato. Questo che io ho detto sulla Geometria, basterà, io spero, per far conoscere quali sieno le mie idee su questo primo passo, che si deve dare nell’istituzione di qualunque scienza. I saggi istruttori che si sceglieranno per insegnare quelle che si sono in questo piano proposte, suppliranno a quell'applicazione che ne avrei fatta io stesso, se la natura del mio lavoro non me lo proibisse. Abbandonando ad essi questa cura, proseguiamo intanto l’esposizione dell’altre idee relative all’importante oggetto che ci occupa.

II. Vi sono in ogni scienza alcuni principii che non si possono né spiegare né contrastare, ma che si concepiscono per una specie d’istinto, al quale bisogna abbandonarsi senza resistenza. Il filosofo. non vede, né può vedere più chiaro del volgo in questi principii, che sono i punti, dai quali tutte le scienze debbono partire, perché sono fatti semplici e riconosciuti, al di sopra dei quali i mezzi per ascendere mancano ugualmente all’ignorante che al dotto, e che come tali non possono essere né spiegati né contrastati. La superiorità che ha il filosofo sul resto degli uomini, è allorché combina questi principii, allorché ne deduce conseguenze che divengono esse medesime principii di altre numerose serie di conseguenze, nel mentre che l’ignorante che possiede come lui le chiavi di questi tesori, ignora fin anche di possederle. Ma questa superiorità che ha il filosofo nell'uso che fa di questi principii, non l’ha, come si è detto, né può averla nell’intelligenza di essi. Egli deve contentarsi di concepirli, come li concepisce il resto degli uomini, e considerare le sottili e minute discussioni che li riguardano come perniciose, % perché altro non fanno che oscurare il principio, renderlo dubbio da evidente che era, e render per conseguenza tutto incerto per mancanza di un punto fisso, dal quale partire. Nelle scienze geometriche, per esempio, il saggio istitutore deve limitarsi a supporre l’astensione tale quale lutti gli uomini la concepiscono, senza curarsi delle obbiezioni e delle sottigliezze scolastiche.

L’esame di quella questione che riguarda il modo, col quale l’uomo giunge ad acquistare l’idea della contiguità delle parti, nella quale, come si sa, la nozione dell’estensione consiste, e la ricerca della natura o sia dell’essenza dell’estensione istessa, non farebbero che oscurare l’idea chiara che i suoi discepoli hanno dell’estensione, invece d’aggiugnervi quelle della sua essenza, e del modo col quale sono giunti ad acquistarla. La ragione ne é evidente. L’idea della contiguità delle parti dipende da una percezione composta, e questa percezione composta deve dipendere dalle percezioni semplici che ne sono gli elementi. Della maniera istessa, la estensione, consistendo nella contiguità delle parti, è un essere composto, i di cui elementi bisogna che sieno esseri semplici. Or siccome una percezione primitiva, unica ed elementare, non potrebbe avere per oggetto che un essere semplice; e siccome un essere semplice non potrebbe esser percepito che per una percezione semplice; così le percezioni semplici, elementi di quella percezione composta, dovrebbero aver per oggetti esseri semplici; e gli esseri semplici, elementi della estensione, dovrebbero esser gli oggetti di queste percezioni.. Per conoscere dunque il modo, col quale siam giunti ad acquistare l’idea dell'estensione, e per concepire la natura della estensione istessa, bisognerebbe non solo poter ascendere fino agli elementi delle percezioni e della estensione, bisognerebbe non solo poter concepire in qual modo un essere semplice possa agire sopra i nostri sensi, bisognerebbe non solo poter concepire in qual modo un numero finito o infinito di percezioni semplici possa produrre una percezione composta; ma bisognerebbe, ciò ch’è anche più impossibile, poter concepire in qual modo un essere composto possa esser formato da esseri semplici.

La sensazione dunque che ci fa conoscere l’estensione, e l’essenza dell’estensione istessa sono e saran sempre così incomprensibili per noi, come lo sono e lo saran sempre tutti i primi principii di tutte le cose. Ma quest’incomprensibilità della natura della causa e dell’essenza dell’effetto, non ci priva di quella chiarezza che in tutti gli uomini accompagna l’idea dell'estensione, se non quando noi vogliamo sforzarci a concepirne la sensazione che la produce, e l’essenza. La idea che tutti gli uomini hanno dell’estensione, è bastata, come si è poc’anzi veduto, per considerarla nei corpi semplicemente come figurata; è bastata per discovrire le tre sue dimensioni è bastata per formare le idee chiare di linee, di superficie e di solidi, che ne dipendono; è bastata per considerarla in ciascheduno di questi modi separatamente: in poche parole, l’idea che tutti gli uomini hanno dell 'estensione è bastata per far ritrovare la maniera, onde discovrire e per far discovrire effettivamente le proprietà secondarie che a questa proprietà primitiva ed incomprensibile appartengono; e quest’idea istessa deve bastare all'istruttore per farle concepire a' suoi allievi.

Io ho voluto scegliere quest’esempio per mostrare a chi legge l’uso che si è fatto di quest’importante precetto, nel saggio che si è dato del modo, col quale dar si dovrebbe agli allievi l’idea della geometrica scienza. Noi non abbiam cercato in fatti di mostrare in quello né l’origine né l’essenza dell’estensione. Noi ci siam limitati a mostrar loro il bisogno, che hanno avuto gli uomini di considerar l’estensione semplicemente come figurata, di considerarla, per dir così, come isolata, cioè come separata dai corpi ai quali appartiene, e dalle altre loro proprietà sensibili, e abbiamo mostrato le ulteriori astrazioni ed ipotesi che sono stati costretti a fare per giugnere a discovrire le proprietà particolari di questa proprietà generale dei corpi, che si chiama estensione. Noi abbiam loro manifestata la debolezza dell’uomo e non la sua insania. Noi abbiam loro mostrata la lentezza e la picciolezza de' suoi passi nella scoverta delle verità che sono alla sua portata di concepire, e non la sua arroganza nel cercare quelle che sono e saranno sempre inaccessibili alla sua intelligenza. Noi abbiam cercato in fine di prevenire l’oscurità, l’illusione, i dubbi e l’orgoglio, e non di promuovere e favorire tutti questi mali.

Del resto quel che si è detto riguardo all’estensione, ha luogo in tutti quei primi principii che han luogo in tutte le scienze. Tale, per esempio, è l’idea di quella tendenza reciproca, che hanno le parti della materia le une verso delle altre, cioè dell’attrazione o gravitazione universale; tale è quella dell’impenetrabilità, sorgente della mutua azione dei corpi; tali son quelle che riguardano le nostre osservazioni sul modo, col quale l’anima concepisce o viene affetta; tali sono nella morale e nella politica le idee delle affezioni primitive, comuni a tutti gli uomini; e tali sono tante altre idee a queste simili che son tutte nozioni chiarissime ed evidentissime per loro medesime; ma son tali che, se l’istruttore non le adopra nelle scienze, nelle quali servono di principio, in quel modo nel quale tutti gli uomini le concepiscono; se egli vuol immergersi nelle questioni metafisiche che le riguardano; se invece di limitarsi ad analizzare, quando il bisogno il richiede, la generazione di queste idee, coll’indicare la progressiva successione delle intellettuali operazioni dalle quali procedono, e vuol impegnarsi in vani sforzi per ridurre queste idee a nozioni meno comuni e più arcane; egli non farà che oscurarle e far loro perdere quell’evidenza ch'è necessaria per l’uso che se ne deve fare.

Abbandoniamo dunque le vane ricerche e le indissolubili questioni; abbandoniamole più di ogni altro nella mai bastantemente luminosa, istruzione della gioventù. Consideriamo i primi principii, dei quali parliamo, come i punti da' quali si deve partire, e non come gli ostacoli che si debbono superare. Persuadiamoci che il progresso del sapere non consiste nel far retrocedere questi punti, ma nell’oltrepassare i termini a' quali, da questi punti partendo, si è giunto. Consoliamoci colla piacevole idea che tutto ciò che è incomprensibile all’uomo, gli sarebbe inutile di concepire, ed invece di diminuire colle sottigliezze o coi sofismi il numero già troppo piccolo delle nostre cognizioni certe e chiare, cerchiamo coll’opposto metodo di facilitarne l’acquisto alla gioventù e di disporla a moltiplicarne il numero.

Il saggio istruttore vi potrà riuscire, se non confonderà mai il rigore esatto coll’immaginario. Il primo giova tanto all’intelligenza ed alla scoverta delle verità, quanto loro nuoce il secondo. Il primo è il rigore di Newton, ed il secondo è quello di Scoto.

III. Si è detto che in ogni scienza si comincia dal definire, e che la prima definizione era quella della scienza istessa. Noi abbiam indicate le nostre idee su questa prima definizione, esponiamo ora quelle che riguardano le altre definizioni.

In ogni scienza si definisce, ma spesso si definisce, allorché non si può definire, o allorché non si deve cominciare dal definire; e non si adopra ciò che si dovrebbe, nel primo caso, invece della definizione adoprare, e nel secondo alla definizione premettere. Primo male.

Spesso si pretende di ottener dalla definizione ciò che la definizione non può darci, e con questo errore si proscrivono le definizioni che dovrebbero essere preferite, e si preferiscono quelle che dovrebbero essere proscritte. Secondo male.

Spesso si pretende di ottenere colle definizioni in tutte le scienze ciò che non si può con esse ottenere, che in alcune scienze soltanto. Terzo male.

Spesso si rende la definizione viziosa per eccesso, e spesso si rende viziosa per difetto. Quarto male.,

Spesso finalmente si pecca per troppo definire, e spesso si pecca per definir poco. Quinto male.

Che deve fare il saggio istruttore? Tenersi ugualmente lontano da tutti questi mali. Lo sviluppo di queste poche riflessioni ne mostrerà l’importanza.

Si è detto, che spesso si definisce, allorché non si può definire, o allorché non si deve cominciare dal definire, e non si adopra ciò che si dovrebbe, nel primo caso, invece della definizione adoprare e nel secondo alla definizione premettere. Sviluppiamo questa prima riflessione.

Noi abbiam poc’anzi osservati i limiti che non si possono oltrepassare nell’uso di alcuni principii; noi vedremo qui quelli che non si possono oltrepassare nell'uso delle definizioni. Per definire, bisogna scomporre, bisogna enumerare le idee semplici che si comprendono in un’idea composta.

Le idee semplici sono dunque gli ultimi limiti delle definizioni, e gli ultimi elementi nei quali debbono risolversi. Le idee semplici non si possono dunque definire. Questa conseguenza non ha bisogno d’esame. Ma in qual modo si dovrà far conoscere e determinare il senso delle parole che l'espri7 mono? Qual è il mezzo che si dovrebbe in questi casi invece delle definizioni adoprare? Ecco ciò che ha bisogno d’esame.

Se tutte le idee semplici sono indefinibili, se tutte lo idee semplici sono anche astratte, non tutte le idee astratte e semplici sono della medesima natura. Alcune si acquistano immediatamente per mezzo dei sensi, tale, per esempio, è quella di un particolare colore, tale è quella del freddo e del caldo, ecc., e tali sono tante altre idee di questa natura che io chiamo astratte e semplici, ma dirette, perché direttamente da' sensi ci pervengono.

Altre non riconoscono da' sensi che la loro remota origine, ma si acquistano o, per meglio dire, si formano da noi per successive e combinate operazioni dell’intelletto; tale, per esempio, è l’idea che si esprime colla parola generale di sensazione; tale è quella dell’esistenza; tale è quella dell’essere, che è la più grande delle nostre astrazioni, perché è la più generale delle nostre idee; e tali sono tante altre idee di questa natura che io chiamo astratte e semplici, ma indirette, perché non ci pervengono direttamente da' sensi.

Altre finalmente riconoscono, come le seconde, da' sensi la loro remota origine; si formano come esse per successive e combinate operazioni dell'intelletto; ma si rendono quindi di nuovo in un certo modo sensibili, con mezzi dagli uomini immaginati. Tali sono, per esempio, in Geometria le idee della linea retta e della superficie piana,(107)che riconoscono ne' sensi la loro prima e remota origine, quale è la percezione degli oggetti corporei, che si son quindi formate con successive e combinate operazioni dell’intelletto, quali sono le astrazioni e le ipotesi geometriche, delle quali si è parlato, e si son rese quindi di nuovo in un certo modo sensibili, col mezzo immaginato dagli uomini, quale è la figura. Per distinguere questa terza specie d’idee semplici da quelle della prima e della seconda specie, io le chiamo idee astratte e semplici, ma indirette e figurate.

Per poco, dunque, che si rifletta sulla differenza di queste tre specie diverse d’idee semplici, si conoscerà che se esse sono ugualmente indefinibili, perché ugualmente semplici; non per questo il mezzo che si deve invece della definizione adoprare, per far conoscere il significato delle parole che l'esprimono, può esser l’istesso. Quello ch’è opportuno per le prime, non lo sarà per le seconde, e quello ch'è sufficiente per le seconde, non basterà per le ultime. Noi avremo dunque bisogno di tre mezzi diversi, ugualmente adattati alla diversa natura di queste tre specie d’idee.

Nella prima specie di queste idee, cioè nelle astraile e semplici, ma dirette, l’unico mezzo è quello che da Locke vien proposto: enunciare la parola ch’esprime l’idea, ed eccitare quindi la sensazione che l’è propria, per far conoscere in questo modo l'idea, della quale si è già imparato il nome.

Per fare, per esempio, conoscere l’idea che si esprime colla parola rosso, non vi è altro mezzo, che presentare agli occhi questo colore, dopo averne proferito il nome. Questo mezzo è così unico, che per colui che fosse privo di questo senso, non si potrà mai sperare di fargli attaccare un’idea chiara a questa parola. Si sa il fatto del cieco, che l’istesso Locke rapporta, il quale dopo aver tanto pensato e inteso leggere sul soggetto degli oggetti visibili paragonò lo scarlatto al suono di una trombetta.

Ma ognuno vede che questo mezzo unico efficace, allorché si tratta d’idee astratte e semplici, ma dirette, non potrebbe adoprarsi, allorché si tratta d’idee astratte e semplici, ma indirette. Ognuno vede che in queste bisogna adoprare un altro mezzo, per ottenere l’istesso fine. Ma quale è questo mezzo? Non ve ne è che uno: l’analisi della generazione di quella tale idea, o sia delle successive operazioni dell’intelletto, colle quali siam giunti a formarcela. Ecco quel mezzo singolare e sublime, che se fosse stato sempre conosciuto ed adoprato, la Filosofia non avrebbe per tanti secoli errato negli spazi delle chimere, e confuso non avrebbe la scienza delle parole con quella de' fatti. Questa verità si concepirà più chiaramente in un esempio che da qui a poco addurrò di una di queste analisi.

Quale sarà finalmente il mezzo che si dovrà adoprare per la terza specie d’idee astratte e semplici, ma indirette e figurate? Non ci vuol molto a prevederlo. Il secondo mezzo, combinato col primo: analizzare la generazione dell’idea, o sia la progressiva successione delle intellettuali operazioni, colle quali si è formata; e presentare quindi a' sensi la figura dagli uomini immaginata, colla quale si è resa di nuovo in un certo modo sensibile. Per far, per esempio, conoscere l'idea che in Geometria si esprime colla parola retta, si farà prima l’analisi delle intellettuali operazioni, colle quali si è giunto a formare le idee delle tre dimensioni della geometrica estensione; distinta in questo modo l’idea della lunghezza quella della larghezza è della profondità, si mostrerà la formazione dell’idea di linea, la quale è definibile, perché composta dalle due idee semplici & estensione e di dimensione; giacche la lunghezza è una dimensione dell'estensione. Premessa la generazione dell’idea di linea e la sua definizione, per procedere all’idea della linea retta, si presenterà a' sensi la figura che l’esprime, e si comunicherà in questo modo l’idea che la parola retta deve eccitare. (108)

Ma si dirà: si deve dunque proscrivere dagli elementi di Geometria la definizione che si dà della linea retta? A questa domanda io risponderei di no. Risponderei, che questa definizione e qualunque altra che sene potrà immaginare, non sarà mai atta a far conoscere l'idea che questa parola retta esprime, perché idea semplicissima e per conseguenza indefinibile; risponderei che la definizione che se ne dà, molto lontano da farla conoscere, ne suppone già la nozione primitiva nello spirito; (109)risponderei che per far conoscere l’idea astratta e semplice, ma indiretta e figurata che si esprime colla parola retta, non vi è altro mezzo, se non quello da me proposto per le idee di questa specie; risponderei finalmente che ciò malgrado non si deve proscrivere dagli elementi di geometria la definizione che se ne dà comunemente, e ciò per una particolare ragione che sarà da qui a poco manifestata, allorché s’illustrerà la seconda delle premesse riflessioni. (110)Noi siamo qui costretti a lasciar per poco sospesa la curiosità di chi legge, per non mancare all’ordine che ci siam proposti di tenere. Riprendiamo intanto il filo delle nostre idee, e non trascuriamo di portare in una materia così difficile, così complicata, ed infelicemente così ancora ignorata, tutta quella chiarezza della quale è suscettibile, e tutta quella precisione che coll’universalità delle nostre vedute è compatibile.

Si è detto che ogni idea semplice è indefinibile, si è detto che ogni idea semplice è astratta; ma non ogni idea astratta è semplice. L’idea, per esempio, di corpo è un’idea astratta, ed è nei tempo istesso composta dalle tre idee semplici d’impenetrabilità, d’estensione e di limiti da ogni aspetto, o sia di figura. L’idea del corpo geometrico è anche più astratta, ma è anche composta, come si è veduto, dalle due idee semplici d’estensione e di limiti da ogni aspetto, o sia di figura. Se si percorrono anzi le varie idee astratte che noi, riflettendo e generalizzando, ci siam formate, si troverà che la maggior parte di esse sono composte. La maggior parte delle idee astratte sono dunque definibili. Or tra queste idee astratte composte, e per conseguenza definibili, ve ne sono molte che per aver già subita una considerabile progressione d’intellettuali operazioni non potrebbero esser rese con chiarezza da qualunque definizione, se questa definizione non è preceduta da quell’analisi della loro generazione che nelle idee astratte, ma semplici ed indirette, dovrebbe, come si è veduto, essere adoperata invece della definizione; e che nelle idee astratte, ma composte e che hanno subito una considerabile progressione d’intellettuali operazioni, dovrebbe, come si vedrà, alla definizione premettersi. Ecco il secondo caso nell’esposta riflessione compreso.

Nel saggio che noi abbiam dato del modo, col quale si dovrebbe dare agli allievi l’idea della geometrica scienza, noi abbiam tenuto questo luminoso metodo, dal quale solo può procedere la chiarezza di simili nozioni. Ma infelicemente questo metodo o s’ignora, o non si adopra nelle scuole, e questa è una delle principali cause dell’oscurità e degli errori che pur troppo regnano nelle scienze, e dell’ignoranza nella quale noi tutti ci siam trovati, dopo che credevamo di averne terminato il corso.

Per far meglio conoscere questa verità io ricorro ad un esempio. Esaminiamo la definizione che si dà nelle scuole della sostanza. Vediamo qual è l’effetto che deve produrre in un uomo questa definizione, non preceduta dall’analisi della quale si parla; e vediamo, quindi, quale è l’effetto che produrrebbe il metodo da noi proposto.

La sostanza, dicono alcuni filosofi, è ciò che esiste da per sé. La sostanza, dicono altri, è ciò che esiste in sé. La prima di queste definizioni induce a credere che si parli della Divinità, o che la sostanza e la Divinità sieno la cosa istessa; giacché Iddio solo è quello che può esistere da per sé. La seconda, se non conduce all’istesso equivoco, non dà però alcuna idea distinta, poiché cosa mai può significare l'esistere in sé? Niuno l’indovinerebbe, se non si sapesse che tanto coloro che adoprano la prima, quanto coloro che adopranoda seconda definizione, pretendono d’esprimere con esse la differenza che passa tra sostanza ch’esiste indipendentemente dalla modificazione, e la modificazione che non può esistere senza la sostanza. Ma ammettiamo ciò che non è; supponiamo che questa differenza fosse evidentemente enunciata nelle due definizioni, e vediamo quale è la nozione della sostanza che, ciò malgrado, somministrar potrebbero al giovane, che non vorrebbe limitarsi ad apprenderne e ripeterne le sole parole. Vediamo quale sarebbe l’effetto dell’applicazione che farebbe di questa definizione la prima volta che troverebbe adoprata questa voce. Supponiamo ch’egli volesse farne l’applicazione alla definizione che quest’istessi filosofi danno della materia. La materia, dicono essi, è una sostanza estesa ed impenetrabile. Il giovane, sentendo parlare di sostanza, dirà: se la sostanza è quella che può esistere da per sé o in sé, cioè indipendentemente dalla modificazione, io potrò dunque fare astrazione di tutte le modificazioni l’una dopo dell’altra; io potrò immaginare che ciò che si chiama sostanza o soggetto di queste modificazioni, ne sia successivamente spogliato. Egli farà dunque prima l’astrazione dell’impenetrabilità e gli rimarrà l’estensione; egli farà quindi astrazione anche dell’estensione, ed allora cercherà di sapere cosa è la sostanza della materia. Egli consiglierà i libri e non vi troverà che la definizione della sostanza e della materia; egli consiglierà il maestro, ed il maestro, se è stato dell’istessa maniera istruito, e se vuol esser di buona fede, dovrà confessargli che, dopo questo esame, egli non saprebbe più trovare nella sostanza che un nome vano, vuoto di ogni senso. (111)

Ma è forse così? Questa sostanza è forse una parola priva d’ogni senso, e che come tale dovrebbe esser proscritta dal linguaggio delle scienze, non solo, ma anche da quello della società? Ma come mai poteva inventarsi una parola che non fosse destinata ad alcun uso, che non esprimesse alcuna idea, o per meglio dire che non fosse preceduta da un’idea che, avendo bisogno d’un segno particolare per essere espressa, ha fatto inventare questa parola? Perché invece di dedurre dal precedente esame, che la parola sostanza non contiene alcuna idea, non ne deduciamo piuttosto che la definizione che se ne dà, la fa smarrire, e che l’istesso effetto produrrebbe qualunque altra definizione, quando preceduta non venisse dall’analisi della generazione di quest’idea, o sia del modo col quale si è giunto a formarla? Adopriamo questo mezzo, premettiamo quest’analisi alla definizione, e vediamo la differenza dell’effetto.

Io veggo, per esempio, una quercia. Ne veggo quindi delle altre. Osservo ciò che vi è di comune in tutti questi oggetti, cioè le foglie d'un medesimo colore e d’una medesima natura; i frutti d’un medesimo colore e d’una medesima figura, ecc. Da questa riflessione io mi formo da principio l’idea generale di quercia, nella quale comincia già ad esservi una piccola astrazione; giacche io astraggo tutto ciò che vi era di particolare in ciascheduna di queste querce, e non mi occupo che di ciò che vi è tra esse di comune, per farne un essere ideale che non si può trovare fuori di me, perché nella natura non si trova una quercia generale, ma non si trova che la tale o la tal altra quercia particolare. Quale è dunque la causa che ha prodotta quest’idea generale di quercia? La riflessione che ho fatta su ciò che vi era di comune nelle diverse querce che si sono presentate a' miei sensi. Che contiene di privativo quest’idea? L’astrazione, o sia la sottrazione di ciò che vi è di particolare in ciascheduna quercia. Che contiene di positivo? La loro rassomiglianza, o sia le loro qualità comuni. Quale è dunque l'idea che si esprime colla parola quercia? La nozione di questa somiglianza, o sia di queste qualità comuni.

Dato questo primo passo negli spazii delle astrazioni, io do il secondo. Io comparo la quercia ad un pioppo, ad un olivo, ecc., e dalla rassomiglianza o sia dalle qualità comuni, che percepisco tra l’una e gli altri, cioè d’aver delle radici, d’aver un tronco, d’aver de' rami e delle foglie, ecc., mi formo l’idea più generale di albero. Quest’idea è più astratta della prima, perché l’astrazione o sia la sottrazione di ciò che vi è di particolare nella quercia, nel pioppo, nell’olivo, ecc., è molto più grande di quello ch’era nella prima idea generale di quercia, la sottrazione di ciò che vi è di particolare nelle diverse querce. L’idea dunque d’albero conterrà di privativo tutto ciò che vi è di particolare nei diversi alberi delle diverse specie, e non conterrà di positivo che la loro rassomiglianza, o sia le loro qualità comuni. La parola dunque d'albero esprime la nozione di questa seconda e più picciola somiglianza; o sia di queste comuni e più poche qualità.

Coll’istessa operazione dello spirito mi formerò l’idea di pianta, più astratta di quella d’albero, e l’idea di vegetabile, più astratta di quella di pianta. In ciascheduna di queste idee si conterrà sempre la rassomiglianza, o sia la concorrenza delle qualità comuni, percepita tra la quercia e gli oggetti, co' quali l’ho paragonata; ma questa somiglianza sarà sempre più picciola, ed il numero delle qualità comuni sarà sempre minore, a misura che l’astrazione sarà più grande, cioè a misura che l’idea sarà più generale; e le parole di pianta e di vegetabile esprimeranno le nozioni di queste somiglianze progressivamente più piccole, o sia di queste qualità comuni progressivamente più poche.

Prosieguo le mie riflessioni, e paragono la quercia con una pietra, con un marmo, con un animale, in una parola, con un corpo qualunque. Esamino ciò che vi è di comune tra questi oggetti, e mi avveggo che qualunque sia il corpo col quale la paragono, per quanto considerabile ed infinita sia la loro differenza, essa gli somiglierà sempre per tre qualità comuni che ha con tutti i corpi, cioè per essere, come qualunque altro corpo, impenetrabile, estesa e limitata per ogni aspetto, o sia figurata.

Con questa riflessione mi formo l’idea generale di corpo, più astratta di tutte le altre che ho prima formate, perché la sottrazione di ciò che vi è di particolare in ciaschedun corpo, è molto più immensa, e la somiglianza è ristretta alle tre indicate qualità. L’idea dunque di corpo conterrà di privativo tutto ciò che distingue un corpo da un altro, o sia tutte le qualità particolari de' corpi, e non conterrà di positivo che la loro generale somiglianza, o sia le tre indicate qualità comuni; e la parola corpo non esprimerà che la nozione di questa picciolissima, ma generale somiglianza, o sia di queste tre qualità comuni.

Non potendo più paragonare la quercia ad alcun altro corpo, col quale aver potesse una somiglianza minore, mi fermo a quest’astrazione, e ritorno al particolare oggetto, dal quale sono partito. Prendo una scure, recido la quercia, le fo subire tutti i cangiamenti che l’arte o la scienza possono operare in questo corpo; e veggo le varie qualità che le davano, dové più e dové meno, una particolare somiglianza coi diversi oggetti, coi quali l'ho comparata, sparire; ma rimaner sempre quelle, per le quali con tutti i corpi conservava costantemente una generale somiglianza. L’osservo ridotta in carbone, e la trovo impenetrabile, estesa, figurata. L’osservo ridotta in cenere, e la trovo impenetrabile, estesa e figurata. L’osservo ridotta in vapori, e colsoccorso dell'arte la trovo anche impenetrabile, estesa e figurata. Esercito quindi un simile impero sopra qualunque altro corpo, ed il risultalo delle mie operazioni è sempre l’istesso.

Rifletto su questo costante risultato, e l’effetto di questa riflessione è l'idea che mi formo dell'unione d’alcune qualità, senza l'esistenza della quale non posso concepire che vi sia esistenza corporea, che concepisco esistere subito che esiste un corpo, e che concepisco non potersi né separare, né distruggere, né disciorre per qualunque alterazione 0 cangiamento avvenga nel corpo. Cerco una parola ch’esprimer potesse l'idea di questa unione, e preferisco a tutte quelle che mi si presentano, quella di sostanza, come più corrispondente all’idea che mi son formata; giacché veggo quest’unione sussistere malgrado tutti i cangiamenti e tutte le alterazioni che possa un corpo subire; e per l’istessa ragione chiamo modi tutte le altre qualità, come quelle che concepisco appartenere all'attuale modo d. essere d’un corpo, giacché le veggo separarsi, disperdersi, alterarsi, 0 essere da altre sostituite, a seconda che il corpo riceve un diverso modo di essere, cioè una diversa modificazione.

Dopo aver formata quest'idea e dopo averle dato questo nome, n’estendo quindi l’uso a tutti gli esseri, nei quali trovo, 0 credo di trovare, una simile unione di qualità, che concepisco ugualmente consistente coll’essere, indissolubile, indistruttibile, inseparabile, senza l’annientamento totale dell’essere istesso, ed interamente indipendente dalla sua modificazione; e definisco la sostanza nel suo più generale aspetto: quella unione di qualità che concepisco sussistere nell'essere, indipendentemente dalla sua modificazione.

Io non voglio far l'apologia di questa definizione; io non voglio esaminare, se essa determina con maggior precisione l’idea che si deve attaccare alla parola sostanza; dico soltanto, che con questa definizione, preceduta dall’analisi che si è premessa, il giovane non sarebbe esposto a quegli errori, a' quali questa definizione medesima potrebbe condurlo, se non fosse preceduta da quest’analisi; dico soltanto che le due definizioni istesse, delle quali si è parlato, malgrado la loro oscurità ed imperfezione, non potrebbero neppure condurlo a quegli errori, quando fossero dall’istess’analisi precedute; dico soltanto che dopo queste definizioni medesime, ma precedute da quest’analisi, il giovane applicando l’idea della sostanza alla definizione della materia, ed ascoltando che la materia è una sostanza estesa ed impenetrabile, non avrebbe considerato l’estensione e l’impenetrabilità come due modificazioni di questa sostanza; che, invece di far astrazione dell’una e dell’altra, avrebbe considerata l’unione dell'estensione e dell’impenetrabilità, come appunto quella che costituisce, secondo il nostro modo di pensare, la sostanza della materia; ne avrebbe dedotto che, qualunque possa essere la modificazione che possa subire la materia, questa unione, o sia questa sostanza sussisterà sempre, cioè sussisterà, secondo il nostro modo di concepire, finché la materia non verrà annientata; ne avrebbe dedotto, che siccome la sostanza del corpo, o sia l’unione delle tre qualità, delle quali si è parlato, cioè dell’impenetrabilità e dell’estensione e dei limiti da ogni aspetto, o sia della figura, non potrebbe concepirsi né distrutta né separata per qualunque modificazione o cangiamento possa subire il corpo; così la sostanza della materia, o sia l’unione di due soltanto di queste qualità, cioè della estensione e dell’impenetrabilità, non può concepirsi né separabile né distruttibile per qualunque modificazione o cangiamento possa la materia subire, come in fatti noi non la troviamo né separata né distrutta, allorché osserviamo la materia convertita in corpo.

Dico finalmente che tanto colle antiche, quanto colla nuova definizione, precedute però da quest'analisi, il giovane non sarebbe esposto al rischio dal quale i filosofi istessi, che si credevano i più spregiudicati, non han saputo garantirsi, al rischio, io dico, di realizzare quest’astrazione, e di prendere la sostanza per una realità occulta dell’essere; ma conoscerebbe ch'essa altro non è che un concetto puramente metafisico, dipendente dal nostro modo di vedere e di concepire, e dalle riflessioni che noi abbiam fatte sui reali esseri che le hanno richiamate. Ecco quali sarebbero gli effetti di questa luminosa analisi, che nelle idee stesse astratte e composte e per conseguenza definibili si dovrebbe sovente alla definizione premettere.

Riassumiamo ciò che si è detto su questa prima riflessione, e determiniamone in poche parole il resultato.

In tutte le idee astratte, ma semplici, non si può e non si deve definire.

In tutte le idee astratte e semplici, ma dirette, bisogna adoprare il mezzo da Locke proposto: enunciare la parola che esprime l'idea, ed eccitare la sensazione che le è propria.

In tutte le idee astratte e semplici, ma indirette, bisogna invéce della definizione adoprare l’analisi della loro generazione.

In tutte le idee astratte e semplici, ma indirette e figurate, bisogna invece della definizione adoprare prima l'analisi della loro generazione, e presentare quindi a' sensi le figure dagli uomini immaginate, colle quali si sono di nuovo rese in un certo modo sensibili.

In tutte le idee astratte, composte e per conseguenza definibili, si deve adoprare la definizione; ma quando l’idea ha subito una considerabile progressione d’intellettuali operazioni, allora bisogna alla definizione premettere l’analisi della sua generazione, o sia delle progressive operazioni dell’intelletto, colle quali si è formata.

Passiamo alla seconda riflessione.

Si è detto, che spesso si pretende d’ottener dalla definizione ciò che la definizione non può darci, e con quest’errore si proscrivono le definizioni che. dovrebbero esser preferite, e si preferiscono quelle che dovrebbono esser proscritte. Illustriamo questa seconda riflessione.

Ogni regola ha le sue eccezioni. Vi sono dei casi, nei quali si dee definire, anche allorché non si può definire; ma in questi casi non si deve pretendere d’ottener dalla definizione ciò che noi avremmo il dritto di pretender da essa, allorché si trattasse di definire ciò che si può definire.

L’idea, per esempio, della linea retta è, come si è detto, un’idea semplicissima, (112) e per conseguenza indefinibile; ma ciò malgrado in Geometria si definisce la linea retta e si deve definire come La linea più breve, che si può tirare da un punto ad un altro; poiché per conoscere le proprietà di questa linea è necessario partire da un principio, e questo principio è la nozione che si dà nella definizione, della sua proprietà più semplice, e che si può, a primo aspetto, dallo spirito percepire.

Questa definizione è imperfetta, se si considera relativamente all’idea. Essa in fatti non ne racchiude la nozione primitiva; essa la suppone, come si è veduto, (113) e non la produce; essa esprime piuttosto una proprietà di questa linea, che la vera nozione di essa che si può col solo mezzo da noi proposto comunicare a chi non l’ha. Ma è perfettissima, se si considera relativamente all’uso al quale è destinata, e per lo quale si rende necessaria. (114)

In tutti quei casi dunque, nei quali vi è un principio così immediatamente ed evidentemente inerente all’idea indefinibile, che si può a primo aspetto dallo spirito percepire, purché si esprima; e ch’è necessario a premettersi per partire da quello all’intelligenza d’altri principii, che non sono dell’istessa natura; il merito della definizione che questo principio esprime, non deve valutarsi dal rapporto ch’essa ha coll’idea, relativamente alla quale deve necessariamente essere imperfetta; ma deve valutarsi dal rapporto ch’essa ha col principio che deve esprimere, in maniera che allora soltanto deve esser condannata, quando non esprime luminosamente il principio, del quale si parla. Se essa lo esprime luminosamente, l’istruttore filosofo non deve proscrivere la definizione, come imperfetta; deve riconoscere e tollerare la necessità dell’imperfezione, e non deve impegnarsi a sostituirgliene un’altra, la quale, per aspirare ad una perfezione impossibile, smarrirebbe probabilmente il particolare fine pel quale si adopra, e pel quale, malgrado l’impossibilità di definir perfettamente, si è dovuto e si deve a quella tale definizione ricorrere..

Passiamo alla terza riflessione.

Si è detto che spesso si pretende d’ottenere dalle definizioni in tutte le scienze, ciò che non si può da esse ottenere che in alcune scienze soltanto. Quest’errore che ne ha prodotti tanti tè il soggetto del breve esame che siegue.

Si sa la distinzione che si fa nelle scuole tra le definizioni di nomi e le definizioni di cose. Si sa che quando si tratta di definizioni di cose, si pretende che la definizione spieghi la natura della cosa definita. In quali casi questa pretensione è ragionevole, ed in quali è una sorgente fecondissima di errori? Vediamolo.

Quando il geometra dice: il cerchio è una figura, nella quale tutti i punti che si possono sulla circonferenza immaginare, sono ugualmente lontani dal centro; quando dice: il quadrato è una figura di quattro lati, gli angoli e i lati della quale sono uguali, ecc., egli non determina soltanto l’idea che si è formata del cerchio e del quadrato, e che intende d’esprimere con ciascheduna di queste parole; ma spiega nel tempo istesso la natura, o sia l’essenza di queste figure. Ma perché? Perché il cerchio ed il quadrato, ecc., considerati come figure, sono esseri interamente ipotetici che l’uomo ha creati, o per meglio dire ha immaginati ad arbitrio, e l’essenza dei quali è per conseguenza nell’idea istessa che se ne è formata.

Ilo detto considerati come figure; perché se si considerano come porzioni dello spazio, da queste figure terminate, l’essenza di questo spazio o sia di questa estensione, non può essere sicuramente spiegata nella definizione, perché, come si è poc’anzi provato, (115)questa essenza non può essere né dall’idiota, né dal geometra concepita. La figura che ha immaginata e che definisce, è l’essere ipotetico; ma l’estensione non lo è. Egli spiega l’essenza della prima definendola, perché, definendo il cerchio ed il quadrato, egli determina ciò che costituisce cerchio o quadrato una figura. Ma se si rivolge all’essere, ch'è astratto, ma non ipotetico, all’estensione, io dico, da queste figure terminata, egli riconoscerà l’impossibilità di concepirne, e per conseguenza di spiegarne con qualunque definizione l’essenza.

Subito che si esce dunque dalla ragione degli esseri interamente ipotetici, la definizione non può più spiegare la natura della cosa definita. Un breve esame sulla definizione del corpo basterà a convincersene. Quando il filosofo, dice: Il corpo è un essere esteso, impenetrabile e figurato, che altro fa, io domando, che enumerare le sensazioni le'più universali, e le più costanti che tutti gli esseri hanno in lui eccitate? Se egli determina con questa definizione l’idea che si è formata del corpo; se egli determina con esso ciò che costituisce il corpo relativamente a noi, ci dice per questo ciò che effettivamente costituisce il corpo istesso, o sia ch’è l’istesso, ci spiega egli quale è l’essenza del corpo?

L’impenetrabilità, l’estensione e la figura, che altro sono in realtà che relazioni percepite tra' corpi e noi? Con un senso di più, con un senso di meno, l’idea del corpo sarebbe divenuta più o meno composta, a misura che le relazioni percepite sarebbero state più o meno numerose. Ma l’essenza del corpo avrebbe per questo variato?

Quando noi diciamo: il corpo è un essere esteso, impenetrabile e figurato, noi non diciamo dunque ciò ch’è il corpo in se stesso, ma ciò ch'è il corpo relativamente a noi. Or chi potrebbe mai dire che il conoscere la relazione che passa tra una cosa ed un’altra sia l’istesso che conoscere la natura, o sia l’essenza della cosa istessa? In tutte le scienze, dunque, nelle quali non si tratta d’idee che hanno per oggetto esseri interamente ipotetici, le definizioni non possono spiegare la natura, o sia l’essenza della cosa che si definisce; ma possono semplicemente determinacele essenziali relazioni percepite tra la cosa che si definisce e noi.

L’ignoranza di questo principio, quante chimere ha prodotte e quanti errori! L’istruttore al contrario che ne facesse uso, tutte le volte che s’incontrasse in simili definizioni, quanto lume spargerebbe egli sull’istruzione! quanta precisione darebbe alle idee! quanti pregiudizii preverrebbe! quanto tempo risparmierebbe egli ai suoi allievi, manifestando loro fin dai primi passi che danno nelle scienze, ciò che a noi è costato tante meditazioni e tante pene per discovrire, cioè, la differenza immensa che passa tra ciò che l’uomo sa e ciò che crede di sapere!

Passiamo alla quarta riflessione. In questa si è detto che spesso si rende la definizione viziosa per eccesso, e spesso si rende viziosa per difetto. Illustriamola colla maggior possibile brevità.

Per definire, si è dettò, bisogna scomporre, bisogna enumerare le idee semplici che si contengono in un'idea, composta. Che si combini questo fine col generai principio della precisione che esclude tutto ciò che è superfluo, e che se ha luogo da per tutto, deve più d’ogni altro averlo nelle definizioni; e si vedrà che le idee semplici che entrano in una definizione, debbono esser talmente distinte le une dalle altre che non si possa sopprimerne una senza render la definizione incompleta, o sia, ch'è l’istesso, senza esporre la cosa che si definisce, ad esser confusa con un’altra da quella diversa. Una definizione dunque può esser viziosa per eccesso, e può esserlo per difetto. Può esser viziosa per eccesso, quando vi si fa inutilmente entrare un’idea semplice, ch'è supposta da un’altra già indicata, o quando vi si fa entrare un’idea che la definizione non deve contenere, ma che deve esserne la conseguenza. Può esser viziosa per difetto, quando si tace un’idea semplice ch’entra nella composizione, e che non è da alcuna delle indicale supposta, né potrebbe essere della definizione la conseguenza; o quando vi si fa entrare un’idea composta, che non è stata ancora definita, e che dovrebbe esser per conseguenza in questo caso anche scomposta. (116)Ilsaggio istruttore conserverà dunque il giusto mezzo tra questi due estremi, evitando ugualmente l’eccesso ed il difetto. Egli si terrà ugualmente lontanò dagli altri due estremi, nell’ultima riflessione indicati.

Si è detto in questa, che spesso si pecca per troppo definire, e spesso si pecca per definire poco. Quest’ultima riflessione non è meno vera delle altre, né meno universali ed interessanti, da prevenirsi, sono i due opposti estremi che condanna. Il primo di questi è già stato illustrato nella prima riflessione. Noi abbiamo in quella mostrata l’impossibilità di definire le idee semplici. Noi non faremo qui che aggiugnervi che, malgrado questa manifesta impossibilità, non vi è forse un solo istitutore che si sia, riguardo a quest’oggetto, interamente emancipato dall’autorità scolastica, la quale, malgrado il discredito nel quale è caduta, influisce ancora più di quel che si crede, e seguiterà forse per molto tempo ad influire sul destino dello spirito umano. Non si è lasciato di definire, quando non si poteva né si doveva (117)definire. Ecco ciò che io intendo per definir troppo. Ma che deve mai intendersi per definir poco?

In tutte le scienze, in quelle istesse che si permettono il minore arbitrio nell'espressioni delle idee, se ne sono inventate, e se ne adoprano sovente alcune che, nel senso metafisico ch’esse presentano, appaiono da principio poco esatte e lo sono effettivamente; ma che si debbono considerare come modi abbreviati d’esprimersi, e che contengono il gran vantaggio d’enunciare in poche parole un’idea, lo sviluppo e la enunciazione esatta della quale ne avrebbe richiedute moltissime. Non si debbono sicuramente proscrivere queste espressioni dalle scienze. Questa severità metafisica produrrebbe moltissimi inconvenienti, de' quali non sarebbe né il maggiore, né l’unico quello, per altro gravissimo, di non avvezzare la gioventù a queste espressioni, che tutti gli Autori che dovranno un giorno leggere, hanno adottate e di continuo adoprate. Ma se non si debbono proscrivere, si dovrebbe però fare ciò che non si fa, o ciò che si fa molto di raro; si dovrebbe nella istituzione di ciascheduna scienza, prima di far uso d’una di queste espressioni, si dovrebbe, io dico, per così dire, definirla; o per parlare con maggiore esattezza, si dovrebbe illustrarla, cioè fissare con precisione e chiarezza la nozione che essa contiene. In meccanica, per esempio, allorché si tratta del moto uniforme, si dice: La velocità è uguale allo spazio diviso per lo tempo. Questa maniera d’esprimersi, presa a rigore, non presenta alcuna idea netta. Una quantità non può esser divisa che da un’altra quantità della medesima natura. Or dové è questa uguaglianza di natura nello spazio e nel tempo? Noi concepiamo lo spazio, come un tutto immenso, inalterabile, inattivo, e tutte le parti del quale sono supposte consistere insieme in una eterna immobilità. Al contrario tutte le parti del tempo sembrano annientarsi e riprodursi di continuo; noi ce lo rappresentiamo come una catena infinita, della quale non può esistere che un solo punto per volta, ch'è da una parte unito a quello che non è di già più, e dall’altra a quello che non è ancora. Come dunque dividere lo spazio per lo tempo? Il saggio istruttore, per prevenir l’equivoco o la oscurità, prima d’adoprare quest’espressione determinerà con precisione e chiarezza il senso che vi si deve attaccare. Egli farà vedere che, quantunque le parti dell’estensione astratta o sia dello spazio sieno supposte permanenti, vi si può nulla di meno concepire una successione, allorché vengono percorse da un corpo che si muove; e che quantunque le parti del tempo sembrino fuggire di continuo e scorrere senza interruzione, nulla di meno lo spazio percorso da un corpo che si muove, fissa, per così dire, le tracce del tempo, e dà una specie di consistenza a quest'astrazione leggiera e fuggitiva. In questo modo egli farà vedere come le quantità relative allo spazio ed al tempo acquistano per mezzo del moto quell’omogeneità che permette di dividere l’una per l’altra; in maniera che quando si dice, che la velocità d’un corpo che si muove con un moto uniforme è uguale allo spazio diviso per lo tempo, è l’istesso che dire: è uguale al quoziente del numero delle parti d’una linea ch’esprimono le parti dello spazio successivamente percorso dal corpo, diviso per lo numero delle parti di un’altra linea ch’esprimono le parti successive del tempo che ha impiegate a percorrerle; giacché per mezzo del moto l’idea della linea si è resa ugualmente adattabile a. quella dello spazio che a quella del tempo.

Ecco un esempio delle illustrazioni che dovrebbero precedere l’uso d’alcune espressioni, le quali, malgrado la loro inesattezza, si debbono rispettare e conservare nelle scienze, per li considerabili vantaggi che le accompagnano e che le han fatte inventare; ma che possono produrre equivoci, o perniciosa oscurità, quando nell’istituzione delle diverse scienze, alle quali appartengono, non si ha cura di ben fissare il senso preciso che vi si deve attaccare. Or questa diligenza trascurata in quasi tutte le scuole è quella che io ho voluto indicare, dicendo che coloro istessi che peccano per troppo definire, peccano contemporaneamente per definir poco.

Ecco le diverse specie di mali, da' quali il saggio istruttore si terrebbe ugualmente lontano, ed ecco la numerosa serie de' beni che verrebbero a quelli sostituiti, quando sostituito venisse all’antico metodo di definire il nuovo che ho proposto.

Il modo col quale, a seconda del mio piano, dovrebbe in ciascheduna scienza proseguirsene e terminarsene l’istruzione, non produrrebbe minori vantaggi.

IV. Tutte le verità hanno un nesso tra loro, e questa catena di continuo interrotta agli occhi degli uomini è così continuata nella suprema intelligenza della Divinità, che tutto il sapere di essa si riduce ad un principio unico ed indivisibile, del quale tutte le altre verità non sono che le conseguenze più o meno remote.

Se noi potessimo conoscere tutte le verità, noi potremmo discovrire questa catena, noi potremmo giugnere a questo principio. Allora ogni scienza dipenderebbe da un solo principio, e questi principii delle diverse scienze non sarebbero altro che le conseguenze più immediate di quel principio unico ed indivisibile, pel quale verrebbero tutte comprese. Allora il sapere dell’uomo sarebbe così esteso, come lo è quello della Divinità. Allora altra differenza non vi sarebbe tra l'intelligenzadel Creatore e l’intelligenza della creatura, se non che quella, collocata in questo punto di veduta, vedrebbe in una sola percezione tutte le conseguenze di questo principio, nel mentre che l'uomo avrebbe bisogno di percorrerle l'una dopo dell’altra, per averne una dettagliata cognizione.

Ma l'uomo è così lontano dal poter discovrire e conoscere tutte le verità, come è lontano dal poter giugnere al sapere della Divinità. Or se l’uomo non può conoscere tutte le verità, egli non solo non può conoscere quella catena che tutte le unisce, ma la porzione delle verità che ignora, gl’impedisce anche di vedere il nesso, o sia la catena di quelle che conosce; giacché questo nesso, questa catena tra queste verità che conosce, viene di continuo interrotta da quelle verità intermedie che dovrebbero formarne l’unione, e che sono tra il numero di quelle che ignora. Per una conseguenza dì questa istessa ignoranza, egli non solo non può vedere il nesso di tutte le verità che alle diverse scienze appartengono; ma non può neppure vedere il nesso di quelle che appartengono a ciascheduna scienza. Ecco perché non vi è finora alcuna scienza che abbia ridotti tutti i suoi principii ad un solo principio; ecco perché quelle che si sono più perfezionate, son quelle che ne han più pochi.

Il sapere dunque dell’uomo si restringe, se mi è permesso di esprimermi con questa similitudine, a pochi, piccioli e separati frammenti delle varie diramazioni di quell’immensa catena, che parte da quel principio unico ed indivisibile che ne è il primo anello. Le diverse scienze formano le varie diramazioni di questa catena. Quelle poche serie di verità che ciascheduna scienza ci offre, e nelle quali, senza poter vedere il legame che unisce l’una serie coll’altra, noi possiamo però scorgere quello che unisce le verità nell'istessa serie comprese, sono i frammenti che conosciamo di ciascheduna di quelle diramazioni. La cognizione del primo anello di ciascheduno di questi frammenti, ossia dei principii dai quali, in quella scienza, ciascheduna serie di verità procede, costituisce la cognizione della metafisica di quella scienza.

Or questa metafisica, che ha guidati o ha dovuto guidare gl’inventori, questa metafisica, senza della quale la scienza non è che una collezione di casi, e colui che la professa non è che un casuista; questa metafisica, io dico, dev’essere il grande scopo d’ogni istituzione. L’arte dell'istitutore sarà di mostrare ai discepoli, a misura che s’innoltrano nella scienza, quelle diverse serie di verità che in essa man mano s’incontrano; di far loro vedere il nesso che le unisce, ed il principio comune dal quale dipendono; di far loro vedere, come ciascheduna di quelle proposizioni che enuncia una di quelle verità, non è, per cosi dire, che la ripetizione della prima, concepita in diversi termini, e presentata sotto una forma diversa, per adattarla ad un diverso uso.

Se nella scienza vi è qualche verità isolata che non appartiene ad alcun’altra, né come principio, né come conseguenza, egli non trascurerà di mostrarla ai suoi discepoli in questo suo vero aspetto.

Quelle finalmente che non dipendono da una sola verità fondamentale, ma dalla combinazione di due o di più fondamentali verità, o dalla combinazione di due o di più verità secondarie, ma a diverse serie appartenenti, saranno anche mostrate nella vera dipendenza che hanno dall’indicata combinazione; e se queste tali verità formano esse medesime il primo anello di altre serie di verità, avranno anche un luogo distinto in questa metafisica istruzione, e saranno anch'esse considerate come verità fondamentali, ma d’un ordine inferiore alle prime.

Per dare una maggiore efficacia a questa importante istruzione, il maestro imporrà un nuovo dovere agli allievi. Egli esigerà da loro delle brevi, ma ragionate dissertazioni, nelle quali, dopo l’istruzione da lui ricevuta sul nesso ed il principio d’una di queste serie di verità, essi manifesteranno d’aver concepito l’uno e l’altro, con un ragionamento scritto, che gioverà non solo per impegnarli all’attenzione, ma anche per esercitarli nell’arte d’ordinare le loro idee, e di scrivere con chiarezza e precisione. Finalmente questa metafisica istruzione che accompagnerà di continuo la scienza, sarà ripetuta nel termine dell'istruzione di essa, e sarà come l’epilogo della scienza istessa.

Istituita con questo metodo la gioventù nelle scienze, regolato in questo modo il principio, il progresso ed il termine in ciascheduna di esse, chi non vede i vantaggi che ne dipenderebbero, così pe’ progressi degli allievi, come per quelli delle scienze istesse?

Dopo la prima lezione, l’idea della scienza, quella del suo oggetto, e quella del suo uso sarebbe così chiara per gli allievi, come non lo è stata per tanti, dopo terminato il corso della scienza intera.

I primi principii delle scienze non verrebbero per essi oscurati dalle vane ricerche e dalle indissolubili questioni; esse non partirebbero dalle chimere, figlie della vanità degli uomini e della loro insana curiosità. Quei fatti semplici e riconosciuti che l’osservazione manifesta a tutti gli uomini, e che tutti gli uomini concepiscono per una specie d’istinto, ma che alcun uomo non può diversamente dagli altri concepire, perché alcun uomo non può al di sopra di essi ascendere, e che per conseguenza non si possono né spiegare né contrastare, sarebbero adoprati nell’istituzione, e considerati dagli allievi, come i punti, da' quali le scienze partono e debbono partire, e non come gli arcani che si debbono, indagare.

L’oscurità, i pregiudizi e gli errori che dal combattuto metodo di definire procedono, sarebbero sostituiti dal lume che il nuovo metodo porterebbe nelle scienze tutte. Le parole verrebbero impiegate ad esprimere le idee e non già a tenerne luogo. I fatti e non i detti, le verità e non le chimere costituirebbero il sapere de' nostri allievi. Nel difficile cammino, così i primi, come gli ulteriori e gli ultimi passi sarebbero ugualmente preceduti, accompagnati e seguiti dall’evidenza.

Finalmente la cognizione delle verità fondamentali di ciascheduna scienza che s’insegna, questa vera e sublime metafisica che resta ignota alla maggior parte, é che non lo sarebbe per alcuno de' nostri allievi, quali progressi non preparerebbe alla gioventù, quali progressi non preparerebbe alle scienze istesse? Conoscendo le lacune che separano le diverse serie di verità, in quella scienza comprese, e le fondamentali verità dalle quali procedono; conoscendo quei primi principii, al disopra de' quali non si può più ascendere, e distinguendo per conseguenza ciò che l’uomo non sa né può sapere, da ciò che non sa, ma può sapere; essi conoscerebbero anche l’imperfezione di quella scienza, distinguerebbero la necessaria dalla reparabile, e conoscerebbero il punto dal quale si deve partire, per somministrarle quella estensione e perfezione della quale è suscettibile.

Con questa guida innanzi agli occhi, essi non si farebbero imporre dagl'immensi volumi che si sono scritti sopra ciascheduna scienza; essi non si smarrirebbero in mezzo a quest’apparente ubertà. Essi conoscerebbero il vero stato de' progressi. che in quella si son fatti, ed invece di cominciare da dové han cominciato i loro predecessori, essi comincerebbero da dové quegli han finito; impiegherebbero a dilatare ed estenderne i confini quel tempo che una diversa istituzione ci costringe oggi ad impiegare nel ricercarli; e dopo qualche tempo che si fosse per tutte le scienze e da molte nazioni praticato un metodo così favorevole all'invenzione, gli uomini, partendo da' medesimi punti e concorrendo a' diversi oggetti del sapere colla direzione medesima, giugnerebbero forse a discovrire e conoscere tutte quelle verità che sono alla portata dello spirito umano.

Lasciando al tempo ed alla posterità il giudicare se queste speranze sian bene fondate, contentiamoci per ora di aver seguito nell'ordine progressivo delle istruzioni il disegno dalla natura indicato nel progressivo sviluppo delle intellettuali facoltà dell'uomo; contentiamoci d’aver corrisposto nell'intero piano di questa scientifica educazione alla doppia destinazione degli allievi del collegio, pel quale viene proposto; contentiamoci finalmente d’aver fatto vedere, come combinandosi l’educazione del magistrato e del guerriero riveder si potrebbero que’ tempi felici, ne' quali il Campo, il Senato ed il Foro vedevano di continuo riuniti nella medesima persona i talenti e le. virtù che richiedevano le loro funzioni diverse.

Io credo d’aver detto poco, nel mentre che chi legge mi accuserà di essermi troppo disteso su quest'oggetto. I seguenti Capi non daran sicuramente luogo a questa lagnanza; poiché io potrò di continuo rapportarmi a ciò che in questo si è detto e sviluppato.

Il solo Capo nel quale si parlerà de' Collegi delle belle arti, esigerà un esame alquanto lungo. In tutti gli altri sarò brevissimo. Il primo tra questi riguarderà il Collegio di marina.


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CAPO XXVI

Del Collegio di Marina

Quando la situazione d’un paese e gl'interessi d’un popolo esigono una marina militare, coloro che a comandarla e dirigerla si destinano, non dovrebbero sicuramente esser omessi in questo piano di pubblica educazione. La natura della loro destinazione, non permettendo la combinazione delle politiche e delle militari funzioni, esclude una parte considerabile degli studii che pel Collegio de' magistrati e de' guerrieri si sono nell’antecedente Capo proposti; ne richiede degli altri ch'erano inopportuni per quella classe; ed in altri finalmente esige alcune necessarie modificazioni.

Nelle prime tre epoche dell’educazione, noi non crediamo che si dovrebbe proporre altra differenza se non quella che si otterrebbe, sostituendo i militari esercizii che han luogo sul mare, a quelli che han luogo sulla terra; e comunicando la pratica nozione delle manovre ne' viaggi, che passata la prima epoca si dovrebbero una volta in ciaschedun anno fare dagli allievi di questo collegio. In questi viaggi, ripartendosi gli allievi in modo, che quelli d’una medesima epoca fossero nel medesimo legno riuniti, si potrebbero facilmente evitare l’interruzioni delle altre istruzioni, giacché gl’istruttori potrebbero esser coll'istesso ordine su’ diversi legni ripartiti.

Nella quarta epoca, le geometriche e fisiche discipline che si son proposte, altra modificazione non dovrebbero ricevere, se non quella che dipenderebbe dall’applicazione di queste scienze alle nautiche teorie. L’istruzione della tattica di terra dovrebbe esser permutata in quella della tattica navale; e i complicati principii della costruzione dovrebbero esser sostituiti agli studii civili e politici, che proposti abbiamo nel precedente Capo.

Se una parte delle accennate istruzioni pare che non abbiano un immediato e diretto rapporto colla destinazione degli allievi di questo collegio, ne avrebbero nulladimeno uno indiretto ed importantissimo.

Esse coltiverebbero il loro intelletto, facendo un uso così ragionevole delle sue facoltà; esse li renderebbero atti a prestare in varie occasioni servizii importantissimi alla patria; esse somministrerebbero loro de' lumi, che potrebbero un giorno condurli a spingere più oltre i progressi che la scienza nautica ha già fatti; esse somministrerebbero finalmente tanti soggetti d’occupazione al loro spirito, e li garantirebbero con questo mezzo dall’ozio, dalla noia e dalle loro funeste appendici, alle quali l’uomo di mare è così esposto.


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CAPO XXVII

Del Collegio de Negozianti

Chiunque è nel caso di conoscere cosa è, o, per meglio dire, cosa dev'essere un negoziante, non sarà sorpreso delle poche e picciole differenze che noi prescriveremo tra l’educazione scientifica di questa classe, così preziosa dello Stato, e quella. della classe, della quale abbiamo nel XXV Capo parlato. Egli conoscerà che nelle istruzioni della prima epoca (118)non vi è cangiamento alcuno da proporre; che in quelle della seconda (119)non vi è che ad adattare un po’ più da vicino l’istruzione geografica ed istorica all’uso del commercio; che in quelle della terza (120)non vi dev'esser differenza alcuna; e che in quelle della quarta (121)basterebbe sostituire le varie teorie del commercio, ed il meccanismo di questa scienza, o sia la parte pratica di essa, alle militari istruzioni, per ottenere il più compiuto piano di scientifica educazione pel collegio, del quale parliamo. Egli conoscerà quali vantaggi un negoziante potrebbe raccorre dalle varie istruzioni in questo piano comprese; quali maggiori estensioni potrebbero avere le sue vedute; quali perfezioni ricever potrebbero le arti meccaniche che sono in gran parte sotto la sua dipendenza, e quali, più d’ogni altro, l'agricoltura che il negoziante dovrebbe sapere, e che, come quelle, riconosce dalla buona fisica i suoi più luminosi principii; quanto più feconde, più vaste, meno pericolose e meno dubbie sarebbero le sue speculazioni; quanto meno frequenti sarebbero quelle perdite che si attribuiscono al caso, ma che per lo più sono effetti dell'ignoranza; quanto finalmente più felici sarebbero i suoi giorni, allorché fossero divisi tra le attive occupazioni del commercio e la tranquilla coltura delle scienze.

Colui che ha letto il citato Capo, e che conosce ciò che dev'essere un negoziante, converrà meco dell’opportunità di questo piano d’istituzione, de' vantaggi che produrrebbe e dell’abuso che io farei del mio tempo e della sua pazienza, se m’impegnassi a maggiormente illustrarlo.


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CAPO XXVIII

Del Collegio de' Medici

Una volta ritrovato il vero, l'uso di esso è d’una facile ed universale applicazione. Il piano, sul quale noi ci siam proposti d’innalzare il sistema dell'educazione scientifica delle diverse classi secondarie, che la seconda delle due classi principali, nelle quali l'intero popolo si è da noi diviso, compongono, questo piano che, come si è mostrato, è quello della natura, è ugualmente opportuno all’istruzione del magistrato e del guerriero, del negoziante e del medico.

Le varie differenze che la diversità della loro destinazione richiede, non alterano punto né l’ordine dell’edificio, né il piano sul quale dev'essere innalzato, né il metodo col quale dev’essere costrutto. Fedeli a ciò che abbiam promesso; intenti ad evitare qualunque inutile ripetizione; supponendo che chi legge abbia costantemente ricorso a ciò che da noi si è minutamente proposto e sviluppato nel Capo XXIV, dové la prima e la più diffusa applicazione si è fatta di questo piano, per la scientifica educazione della prima e della più importante di queste secondarie classi, quale è quella che nel Collegio de' magistrati e de' guerrieri vien compresa; l’esposizione delle differenze che la diversità della destinazione della classe della quale ora parliamo, richiede, si potrà da noi colla massima facilità e brevità eseguire. Le istruzioni che nella prima, nella seconda e nella terza epoca noi proposte abbiamo pel Collegio de' magistrati e de' guerrieri; queste istruzioni che dipendono piuttosto dal miglior uso che si può fare delle prime tre facoltà dell’intelletto, e che appartengono piuttosto all’istruzione di qualunque uomo che al sapere in generale si avvia, che alla particolare destinazione degli allievi di quella classe; queste istruzioni, io dico, dovrebbero in questo come in quel collegio essere ugualmente inculcate e prescritte. Altro non si dovrebbe aggiugnere nel collegio, del quale ora parliamo, se non che le anatomiche lezioni, le quali, formando un oggetto importantissimo della medica istituzione, dovrebbero fin dal quarto anno della prima epoca intraprendersi, e continuar si dovrebbero fino a quell'anno della quarta epoca, nel quale questo studio potrebbe esser sostituito da quello d’una buona fisiologia. Il saggio istruttore non si limiterà alla sola anatomia del corpo umano; ma cercherà in quella degli altri animali tutti quei soccorsi che una chiara ed esatta cognizione della prima rende o necessarii o utili.

Siccome il primo anno di questa anatomica istruzione apparterrebbe, come si è detto, alla prima epoca, nella quale la sola facoltà di percepire si deve adoperare, così in quest’anno l’allievo non dovrebbe far altro che osservare le anatomiche sezioni, senz’altra obbligazione alcuna. Negli anni seguenti, ne' quali, secondo il nostro piano, si pone in uso la seconda facoltà, cioè quella della memoria, egli verrebbe astretto a dar conto, ad arbitrio dell’istruttore, de' varii nomi delle varie parti solide del corpo umano che in quello studio si osservano, e della loro particolare descrizione. Nella terza epoca si dovrebbe esigere qualche cosa di più. Siccome la facoltà dell’immaginazione è destinata a combinare e comporre le idee, o sia le immagini, o le rappresentazioni de' reali effetti per mezzo delle percezioni acquistate, e col mezzo della memoria ritenute; (122)così in quest’epoca, invece d’un’individua descrizione delle varie parti del corpo umano, bisognerebbe esiger dall'allievo quella del tutto che da queste parti vien composto, ciocche lo condurrebbe all'apice di questa scienza e lo disporrebbe alla più chiara intelligenza della fisiologia, alla quale l’anatomia dee servire d’ancella e richiedendosi ancora la cognizione d’una buona fisica, lo studio di essa deve necessariamente riserbarsi per la quarta epoca, nella quale la facoltà di ragionare si adopra.

In questa quarta epoca tutte le istruzioni pel primo collegio proposte, (123) che non riguardano né l’arte della guerra, né l’economia pubblica, né la politica, né la legislazione, (124) dovrebbero esser comuni all’uno ed all’altro collegio; e quelle che questi oggetti riguardano, dovrebbero esser permutate nelle mediche discipline.

La fisiologia dovrebbe esser uno de' principali oggetti della medica istituzione, e questa importante parte della fisica dovrebbe in questo collegio divenire, per così dire, lo scopo di tutte le altre. Questa scienza che ha per oggetto l’economia animale, e Fuso delle diverse parti che l'anatomia ci fa osservare ne' corpi; che considera in che consiste la vita, la sanità e gli effetti di essa; che, preceduta dalla cognizione delle meccaniche leggi, e da quella anche più importante che ha per oggetto i fenomeni dell’organizzazione, ed accompagnata da una giudiziosa applicazione dell’una e dell’altra, può spesso produrre l’evidenza nell'esame di quelle operazioni, che la Natura invano ha cercato di nascondere all’occhio dell’uomo; la fisiologia, come si è detto, dovrebbe essere uno de' più importanti oggetti della medica istituzione.

Dopo i luminosi scritti del celebre Buffon pare evidente che tra le leggi, alle quali sono sottomesse le molecole organiche e i corpi organizzati, ve ne debbono esser alcune che sono essenzialmente diverse da quelle che regolano la materia puramente mobile e quiescibile o inerte. Il voler dunque spiegare l’economia animale colle sole leggi della meccanica, deve necessariamente condurre in gravissimi errori, come vi sono infatti incorsi quei medici che hanno assunto questo capriccioso impegno.

Ma non bisogna confondere l'abuso della meccanica nella fisiologia, col vero uso di essa. Se il primo ha cagionati tanti falsi sistemi e tanti errori; a quante verità luminose ed importanti ha condotto il secondo, e quante altre ne avrebbe fatte discovrire, se diretto si fosse sulle tracce di quell'Italiano illustre che fu il primo ad applicare la meccanica alla fisiologia, e fu anche il primo a mostrarci il vero uso che si deve fare della prima di queste scienze per la seconda? Il dotto ed. infaticabile Borelli, quest'ingegno sublime e creatore, quest’osservatore geometra ci fe’ bastantemente vedere che il fisiologo deve adoprare la meccanica per valutare e determinare i fatti, e non per indovinarli; per assicurarsi, quanto si può, di ciò che si opera ne' corpi animati, e non per presagire ciò che vi si deve operare. Invece, per esempio, d’adoprare quella legge meccanica che fa consistere il maggior effetto dal prolungamento della vetta dalla parte della potenza, e dal raccorcimento di essa dalla parte della resistenza; invece, io dico, d’adoprare questa legge per indovinare l’economia che la natura deve osservare nella posizione di quelle vetti, colle quali si operano i movimenti degli animali; egli osservò la posizione di queste, vide che la natura, molto lungi dal cercare questo risparmio di forza, raccorciava le vetti dalla parte della potenza, e le prolungava dalla parte della resistenza; applicò a questa posizione quella legge, e con quella legge applicata a questi fatti giunse a valutare, determinare, e dimostrare la quantità della forza che la natura impiega in questi diversi movimenti, e di quanto questa forza ecceda la resistenza.

Osservando, per esempio, che i muscoli che mantengono in una situazione orizzontale il gomito e la mano, allorché sostengono il più gran peso possibile, s’inseriscono nella tuberosità dell’osso del gomito ad una distanza dal centro dell’articolazione, venti volte in circa minore di quel che ne è lontano il peso dalla mano sostenuto, ne dedusse che per sostenere un peso di ventotto libbre questi muscoli esercitavano una forza equivalente a cinquecento sessanta libbre. Coll’istesso uso dell’istessa legge egli valutò che in un uomo che sostiene sulle spalle un peso di cento venti libbre, la somma delle forze che la natura esercita ne' muscoli estensori del dorso e nelle cartilagini delle vertebre, sarà equivalente a 25,585 libbre, e che la forza de' soli muscoli non sarà inferiore a 6,401. (125) Coll’istesso uso finalmente dell'istessa legge egli giunse a valutare e dimostrare che un uomo impiega per saltare una forza 2,900 volte più grande di quella del peso del suo corpo. (126)

Questa breve digressione, ma essenziale all’oggetto che ci occupa, basterà, io spero, per indicare l’uso che io propongo di fare della meccanica nella fisiologica istruzione, dall'abuso che pur troppo se n’è fatto. Illustrata quest'idea, riprendiamo l’esposizione del progressivo corso delle mediche discipline.

La fisiologia che considera il corpo umano nello stato di sanità, dovrebbe esser seguita, come lo è infatti, nella medica istituzione de' moderni, dalla patologia che considera il corpo dell'uomo nello stato di malattia e di disordine.

Seguendo il principio da me tanto inculcato (127)di non separare quelle istruzioni che debbono andare unite, quantunque interamente profano ne' misteri d'Esculapio, ardisco di condannare l'uso di coloro che fanno un’istruzione separata e divisa della semiottica.

Se questa parte della teoretica medicina riguarda i segni generali della sanità e della malattia, per qual motivo si separa dalle altre due, delle quali si è parlato? Perché non combinare la semiottica della salute colla fisiologia, e la semiottica della malattia colla patologia? Perché dividere ed allontanare quelle istruzioni che, unite, richiederebbero minor tempo e sarebbero accompagnate da una chiarezza maggiore?

Un’altra istruzione dovrebbe con queste combinarsi, istruzione importantissima per l’esercizio dell'arte medica, ma troppo trascurata nella comune istituzione, e che troverebbe nella semiottica, della quale si è parlato, la circostanza la più opportuna per esser comunicata, senza farne uno studio separato e distinto. Io parlo dell'arte di congetturare, che per la sua imperfezione è appunto quella che ha il maggior bisogno di regole, e che per l'uso continuo che se ne deve fare nell’esercizio dell’arte medica, avrebbe il maggior bisogno d’esser comunicata a coloro che a questo importante ministero si destinano. Le poche regole, alle quali si potrebbe e si dovrebbe quest'arte ridurre, e l’applicazione di queste regole a' fatti, o sia a' segni, de' quali la semiottica si occupa, e che debbono guidare il giudizio del medico, potrebbero produrre considerabili vantaggi. Potrebbero prevenire l’abuso che si fa di quest’arte; potrebbero restringerla nei suoi giusti confini; potrebbero evitare la precipitazione de' giudizii, diminuire i frequenti errori e diminuirne con essi le funeste appendici; potrebbero garantire la medicina e i medici dal discredito, al quale questa facilità gli espone; potrebbero infine dare così alle deliberazioni de' medici, come al loro linguaggio, quella saviezza e quella precauzione ch'è sì rara e sì importante nel ministero, del quale si parla, e che se impone poco, anzi discredita agli occhi dello stolto, è la vera pietra di paragone, colla quale il saggio riconosce il suo simile e discopre l’impostura, l’ignoranza o la follia.

Siccome la fisiologia che tratta della costituzione del corpo umano nello stato di sanità, dovrebbe precedere la patologia che tratta della costituzione del corpo umano nello stato di malattia; così l’igienia che riguarda i mezzi per conservare la salute, dovrebbe precedere la terapeutica che riguarda i mezzi per ripararla e ristabilirla, allorché si è perduta.

Di queste due ultime parti della medica istituzione, la penultima così curata dagli antichi, perché conoscevano che l’arte medica è più efficace per conservare che per restituire la sanità, e così trascurata da' moderni istitutori, perché veggono che il volgo apprezza molto di più il medico che fa credere d’aver restituita la salute ad un infermo, che coluich'effettivamente la prolunga e la conserva in un uomo sano; questa parte della medicina, nella quale Ippocrate, Galeno e Celso ci hanno lasciati tanti salutari insegnamenti (128) dovrebbe divenire uno de' principali oggetti della scientifica educazione del collegio., del quale parliamo.

La terapeutica finalmente terminerà, come si è detto, il corso di questa medica istituzione. Le istruzioni della naturale istoria, e le chimiche esperienze che, secondo il metodo che si è nel citato Capo esposto, ed al quale noi ci siamo in questo rapportati, avrebbero tanta parte in questo piano di scientifica educazione, somministrerebbero a quella parte della terapeutica, che ha per oggetto la farmacia, i più grandi soccorsi; non altrimenti che le anatomiche istruzioni li somministrerebbero a quell'altra parte di essa, che ha per oggetto la chirurgia, considerata in quella estensione che deve sapersi da un medico, dacché l'esercizio di essa è divenuto il particolare ministero d'una classe distinta.

Io non parlo di quella istruzione pratica dell’arte medica, che si acquista coll'ispezione delle cure che da' valenti medici si fanno ne' pubblici luoghi alla loro diligenza affidati; poiché questa dovrebbe cominciare, quando l’allievo verrebbe dalla pubblica educazione emancipato. Il legislatore dovrebbe, riguardo a quest’oggetto, limitarsi a fissare, col consiglio dei savi medici, la durata di questa pratica istruzione, ed i pubblici ospedali, ne' quali converrebbe riceverla, interdicendo con rigorose pene l’esercizio nella medicina a chiunque non abbia compiuto il tempo dalla legge prescritto.

Che si combini ciò che in questo Capo si è detto, con quello che dee servirgli di supplemento, e che si ritrova esposto e sviluppato nel Capo XXV, al quale ci rapportiamo non solo in quel che riguarda le discipline comuni all’uno e all’altro collegio, ma anche in ciò che in quello si è detto sul modo d’istruire e d’insegnare; e quindi si giudichi, se il proposto sistema di scientifica educazione pel Collegio dei medici meriterebbe d’essere adottato e seguito.


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CAPO XXIX

Del Collegio de' Chirurgi

I maestri della scienza chirurgica ne dividono le teorie in generale ed in particolare. La generale non è altro che la teoria medica determinata all’uso delle malattie esterne. Essa dev’esser conosciuta in tutta la sua estensione così dal chirurgo come dal medico; e questo fa che tutte le mediche discipline nell’antecedente Capo proposte, dovrebbero aver luogo così in questo, come in quel collegio.

La teoria poi particolare di questa scienza è quella che riguarda. L’operazione della mano, e questa contiene una lunga serie di principii e di regole scientifiche, relative alla cognizione del modo e della necessità di operare, del carattere de' mali ch’esigono l’operazione, delle difficoltà che nascono dalla struttura delle parti, della loro azione, dell’aere che le circonda, delle regole che prescrivono la causa e gli effetti del male, de' rimedii che questo male esige, del tempo fissato dalle circostanze, dalle leggi dell’economia animale e dall’esperienza; degli accidenti che possono turbare l'operazione e indicarne un’altra, de' movimenti della natura e dei suoi soccorsi nelle cure, delle facilitazioni che se le possono prestare e degli ostacoli che essa può trovare nel tempo, nel luogo e nella stagione, e tante altre cognizioni di questa natura, le quali formar debbono un’essenziale parte della chirurgica istituzione.

Se questa particolare teoria dovesse formare uno studio separato e distinto da quello della teoria generale, l’istituzione chirurgica richiederebbe una durata molto maggiore di quella che richiederebbe l’istituzione medica, e non potrebbe forse esser compresa nel tempo che noi destinato abbiamo per l’esecuzione di questo universale piano di pubblica educazione. Ma il saggio istruttore, combinando la generale teoria colla particolare, facendole camminare di continuo a passi uguali e contemporanei, servendosi de' principii dell’una per l'illustrazione di quelli dell’altra, preverrà questo inconveniente, e darà nel tempo istesso un maggior lume ed una solidità maggiore alle sue istruzioni.

Ecco dunque in che deve, consistere la differenza della medica e della chirurgica istituzione. In tutto il resto, la scientifica educazione di queste due classi sarà la medesima. Nelle anatomiche istruzioni si dovrebbe per altro in questo collegio cominciare ad addestrare la mano degli allievi coll’impiegarla nelle sezioni, ciocche non sarebbe necessario per gli allievi del Collegio de' medici. Il pratico esercizio dell'arte non dovrebbe però esser che preparato da questo preliminare soccorso.

Una lunga ispezione ed un’assistenza di più anni ne' pubblici ospedali, ove le operazioni chirurgiche sono le più frequenti; l’abito d’aver parte alle operazioni ed alle cure che dai più valenti professori si fanno, o di eseguirle sotto l’immediata loro direzione; questa pratica istituzione ugualmente importante della prima (che non altrimenti di quel che si è detto per gli allievi del Collegio de' medici, dovrebbe cominciare quando termina la pubblica educazione, e dovrebbe avere una durata dalla legge prescritta) è il solo mezzo, col quale comunicar si dovrebbero agli allievi già emancipati l’esercizio, l’esperienza e la pratica applicazione della scienza, della quale fin a quel tempo non avrebbero imparate che le sole teorie.


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CAPO XXX

Del Collegio de' Farmaceuti

Io scorro rapidamente su questi oggetti che passere volentieri sotto silenzio, se l’ordine di questo piano non me lo impedisse, e che cerco di trattare colla maggior brevità, sì perché le idee antecedentemente sviluppate me lo permettono, come anche perché non è senza timore che ardisco di porre una mano nella messe altrui.

Gli allievi del collegio, del quale qui si parla, dovrebbero essere molto diversamente istituiti da coloro che oggi all’esercizio della farmacia si destinano. Immersi, la maggior parte, nella più crassa ignoranza, privi d’ogni teoria, istruiti appena del gergo e del più grossolano meccanismo dell'arte, essi sono, non solo incapaci d’accrescerla del minimo grado di perfezione, ma la discreditano cogli errori micidiali, ne' quali di continuo incorrono e comunicano il suo discredito alla scienza medica, che deve necessariamente servirsi del loro ministero, e risentirsi della loro ignoranza.

Se gl’individui di tutti i tre regni della Natura, ed un gran numero di prodotti chimici sono i soggetti dell'arte farmaceutica, le istruzioni della naturale istoria e le chimiche esperienze che noi assegnate abbiamo nelle prime tre epoche della scientifica educazione degli allievi del primo collegio, faranno per gli allievi di questo l’oggetto più importante della loro istituzione. Con saggia economia si risparmierà dunque una parte del tempo agli altri studii destinato, per dare a questi un’estensione maggiore. Per render loro, quanto più si può, familiari queste nozioni, per disporli colle operazioni chimiche alla pratica di quest’arte, il loro ministero sarà impiegato in queste esperienze, ed il maestro nell’istruire il loro intelletto non trascurerà d’abituare le loro mani coll’uso, e i loro sensi coll'esperienza.

Nella quarta epoca gli studii geometrici e fisici che noi proposti abbiamo pel primo collegio, non saranno trascurati in questo; ma gli altri che hanno per oggetto la particolare destinazione di quegli allievi, saranno in questo sostituiti da quegli studii che l’immediata destinazione di questa classe riguardano. La filosofia della chimica e quella della farmacia impiegherà in questo tempo la ragione, nel mentre che il laboratorio farmaceutico sostituito al chimico somministrerà il meccanismo dell'arte.

Il farmaceuta in tal modo istituito sarà uno scienziato che a questo mestiere si consacra. Egli porterà nella sua arte i lumi d’un filosofo; e la passione che i chimici lavori ispirano, combinata co' lumi che ha in questa scienza acquistati, potrebbe non solo renderlo utile all’arte che professa, ma anche alle altre tutte, sulle quali la chimica ha tanta influenza. (129)

CAPO XXXI

De’ Collegi delle Belle Arti

Gli stretti e molteplici rapporti che hanno le belle arti tra loro; le varie diramazioni che a ciascheduna di esse appartengono; gli angusti ed inviolabili confini, nei quali son costretto dalla natura della mia opera a raggirarmi, sono i motivi che mi hanno indotto a preferire un generale piano d’istituzione per tutte le belle arti ad un esame individuo della particolare istituzione che per ciascheduna di esse si dovrebbe prescrivere. Lasciamo adunque ad altri la cura di applicare queste generali idee al particolare uso di ciascheduno di questi collegi, e noi sforziamoci intanto di combinarle in modo che i grandi artisti nelle diverse arti le trovino ugualmente adattabili a quella ch'essi professano.

Se per imitare ed abbellire la natura, per conseguire quest’oggetto comune delle belle arti, bisogna osservarla e bene osservarla, sceglierla, presentarla scrupolosamente, correggerne i difetti, o sia, ch’è l’istesso, avvicinarne le bellezze sparse, per formarne un tutto meraviglioso; se il bello ideale non può essere che il composto delle bellezze reali ch'esistono nella natura, ma che sono in essa sparse e divise; se l’idee di queste bellezze sparse nella natura non possono acquistarsi che colle percezioni, non possono ritenersi che colla memoria, non possono combinarsi e comporsi che immaginazione, se finalmente il ministero della ragione deve venire in soccorso di queste tre altre facoltà, per dirigerne le operazioni; non vi vuol molto a vedere che, oltre l’acquisto di quella meccanica attitudine della mano che deve all'intelletto servire, un ben regolato uso delle intellettuali facoltà e così necessario nell’istituzione dell’artista, come lo è in quella dello scienziato e del filosofo.

Non ci allontaniamo dunque dal piano che la natura ci ha indicato, e che noi abbiamo fedelmente seguito in tutte le altre parti di quest’universale sistema di scientifica educazione; applichiamole all’istruzione degli allievi che alle belle arti si destinano, e confermiamoci nell'idea dell'infallibilità della guida che ci siam proposti di consigliare e seguire.

Senza parlare di quelle iniziali istruzioni, che debbono esser comuni a tutti gli allievi di questa seconda classe, e che nel primo e nel principio del secondo anno della prima epoca sono state da noi assegnate; (130)senza parlare di quegli esercizi! che il puro meccanismo di ciaschedun’arte riguardano, e che dovrebbero cominciare coll’educazione istessa; occupati unicamente all'esame del migliore uso che far si potrebbe delle intellettuali facoltà per istituire l’artista; vediamo come quella dà percepire ch'è la prima, della quale si deve far uso, dovrebbe a questo fine essere adoperata e diretta.

Il senso interno del bello è nell'uomo. Oltre le ragioni che se ne potrebbero addurre, e che non è questo il luogo opportuno da produrre, (131) ciò che si passa in noi all’aspetto d’alcuni oggetti basterebbe a convincercene. Questo interno senso, non altrimenti che gli esterni, può essere oppresso, alterato o distrutto; può essere soccorso e perfezionato; può essere oppresso, o s’è permesso di servirmi di questa espressione, può essere intorpidito dal non uso; può esser alterato o distrutto da un uso cattivo; può esser perfezionato e soccorso da un uso saggio ed opportuno. Nel selvaggio può rimanere oppresso ed intorpidito; nell’artista malamente istituito può venire alterato e distrutto; ed in colui che riceve una buona istituzione, viene sicuramente perfezionato e soccorso. Una cattiva istituzione richiede maggior tempo per produrre quel male, che non ne richieda una buona per produrre questo bene; giacche costa sempre più contrastare la natura che secondarla.

Profittiamo di questa verità. Dirigiamo con questo principio l’uso della prima facoltà. Facciamo che fin dal principio dell’educazione l’occhio dello scultore, dell’architetto e del pittore si eserciti a vedere e ben vedere le più belle produzioni della natura e dell'arte. Facciamo che prima di apprendere i principii della proporzione, della simmetria, dell’ordine, della regolarità, dell’unità combinata colla varietà de' contrasti, de' rapporti, ecc., essi ne veggano, ne riveggano e ne sentano gli effetti. Facciamo che colui che alla musica si destina, prima d’impiegare le sue orecchie a sentire quell’immenso aggregato di regole che formano, per così dire, la grammatica della sua arte, e che come quelle sono moleste, inopportune e perniciose nell’epoca, della quale parliamo, le impieghi nel sentire e nell’eseguire quelle semplici, ma sublimi cantilene, le bellezze delle quali, attinte dal comune fonte della natura, non chieggono il senso esercitato dell’artista, ma sono alla portata di tutti e tutti possono sentire e gustare; facciamo che i loro teneri organi vengano per molto tempo impiegati colle semplici modulazioni della melopeia degli antichi, prima di esserlo da' suoni composti dell’armonia de' modèrni; facciamo, io dico, che il senso interno del bello venga con questi mezzi secondato e soccorso; e non temiamo di non fare della facoltà di percepire il miglior uso che si può per la destinazione degli allievi, de' quali parliamo.

La seconda epoca non sarà meno utilmente impiegata, quando (senza trascurare gl'indicati esercizii, adattandoli anzi al maggiore sviluppo che in quest'età (132) si deve supporre nell’intelletto) si farà della seconda facoltà, cioè della memoria, un uso ugualmente opportuno di quello che si è fatto e si seguiterebbe tuttavia a fare della prima.

Se l’istoria è così necessaria all’artista, come lo è al filosofo od al poeta; se l’ignoranza di essa ha cagionata l’imperfezione nelle opere de' più abili artisti, e gli ha fatti incorrere ne' più grossolani errori; se per aspirare alla perfezione e conservare ciò che dicesi costume, e che forma uno de' principali meriti delle produzioni dell’arte, bisogna non solo sapere i particolari fatti che si vogliono rappresentare, ma bisogna conoscere le circostanze che gli hanno preceduti ed accompagnati, gli usi, i costumi e l’indole de' popoli e dei tempi, ne' quali sono avvenuti, lo stato fisico e politico dei luoghi, la natura del governo, della religione e del culto, i vestimenti, le armi ed il modo di combattere; se lo scultore ed il pittore devono avere queste nozioni non solo per evitare gli errori, ne' quali potrebbe senza di esse incorrere, non solo per adoprarle sempre che il bisogno lo richiede, ma anche per somministrare tanti materiali di più alla sua immaginazione; se l’architetto deve averle per conoscere gli usi, a' quali erano destinati gli antichi monumenti che si trovano della sua arte, per poter con maggior discernimento profittare di questi modelli, per poterli supplire con giudizio, dové sono mancanti, e per poter loro somministrare nell'imitazione che si propone di farne, quegli ornamenti ch'egli deve dalle altre arti e dagli altri artisti richiedere, ma che deve sapere immaginare e dirigere a seconda della gran legge dell'unità e dell'opportunità; se queste nozioni possono anche essere di un gran soccorso a colui che alla musica si destina, come quello che, dovendo servire al poeta, deve penetrare nello spirito del poema, e per conseguenza conoscere e ben conoscere i materiali che ha messi in opera la sua immaginazione; se nella musica istrumentale istessa non si può, secondo l’opinione d’un gran maestro(133)niente di bello creare, se l’artefice non si propone un fatto, un avvenimento da dipingere; e se questo sarebbe il solo mezzo da garantire la musica sinfonica da quella noiosa uniformità che pur troppo vi regna; se finalmente è vero che, quando anche questa istruzione non avesse una manifesta e diretta influenza sull’esercizio di una di queste arti, ne avrebbe sempre una indiretta ed occulta che non lascerebbe per questo d’essere importantissima, giacché l’immaginazione, questa facoltà così preziosa per ogni artista, riconosce dalla memoria ben adoprata e nudrita il suo necessario alimento: qual miglior uso potremmo noi fare della facoltà della memoria nell'istituzione degli allievi che alle belle arti si destinano, che impiegandola nell’acquisto di così importanti nozioni?

L’istruzione dunque dell’istoria, diretta sul piano da noi indicato nel ventesimo quinto Capo di questo libro, ed arricchita di quelle particolari cognizioni che interessano più da vicino l’arte e l’artista,(134)sarà il principale oggetto dell’uso che in questa seconda epoca si farà della seconda facoltà. La istruzione di quelle poche e più semplici regole che in ciascheduna di queste arti si crederanno indispensabili, per poter nella seguente epoca cominciare a porre in opera l’immaginazione degli allievi, ne formeranno l’altro oggetto.

Disposte in questo modo le cose, preparati coll’uso ben regolato della prima e della seconda facoltà, tutti questi materiali all’immaginazione; giunto quel tempo, nel quale noi abbiam creduto che si possa senza rischio porre in opra questa terza facoltà dell’intelletto; vediamo come anderebbe adoprata e diretta negli allievi de' collegi, de' quali parliamo; vediamo con quali mezzi bisognerebbe agitarla e frenarla; vediamo come si potrebbero fin da questa terza epoca, cominciare a conoscere nelle loro produzioni gli effetti di una saggia e luminosa istituzione.

Io comincio dal proporre la lettura de' migliori poeti, come quella che sarebbe la più atta a comunicare un necessario moto immaginazione de' nostri giovani artisti, e ad indicar loro il modo, col quale adoprar si possono i varii materiali che si son loro somministrati nelle prime due epoche di questa istituzione, e che verrebbero da questa lettura considerabilmente aumentati. I poemi epici mi pare che dovrebbero essere agli altri preferiti. Primo, perché le grandi e le forti passioni che formano il soggetto de' poemi di questa natura, sono più facili ad indicarsi dall’artista che non lo sono le tenere e le picciole. Secondo, perché questi poemi, essendo suscettibili d’immagini più grandiose e sublimi, sono più atti a comunicare niuel desiderato carattere di grandezza alle produzioni dell’arte. Terzo, perché i poemi epici, raggirandosi sugli avvenimenti de' tempi eroici de' popoli, cioè di que’ periodi di barbarie ne' quali gli uomini, essendo ancor vicini alla naturale indipendenza, e non avendo ancora assunta la maschera della servitù civile, manifestano quella prodigiosa diversità ed opposizione di caratteri che non si conosce che nell'indipendenza, e si perde nella civile servitù; possono, io dico, con questo mezzo somministrare all’immaginazione dei nostri allievi un gran numero di opportuni soggetti d’imitazione, la quale è sempre più facile ne' caratteri decisi cd opposti, che negl’indecisi e quasi simili.

Per gli stessi motivi e per un altro, anche più valevole, vorrei che alla lettura de' poemi che i tempi barbari riguardano, si unisse quella de' poeti barbari istessi. Se in questo stato della società le grandi differenze degli oggetti così fisici come morali, che nascondono le picciole differenze e le rendono meno interessanti; l’incostanza dell’osservazione che ha bisogno del tempo e del civile ozio per rilevarle, e la povertà della lingua che deve esprimerle, e varie altre concause fisiche, morali e politiche non permettono agli uomini di sentire, di cercare e di esprimere le picciole modificazioni che alla perfezione del bello sono necessarie, e che per conseguenza debbono necessariamente mancare nelle produzioni della loro immaginazione, i grandi e vasti aspetti della natura sono in compenso di ciò meglio da loro sentiti, e per conseguenza meglio trasmessi nelle loro poesie che il meraviglioso ed il sublime, con quell’eroico trasporto e vivo patetico che le accompagna, da ogni parte traspirano. Nelle colte società al contrario, cento concause fisiche, morali e politiche garantiscono l’artista da quel difetto, del quale si è parlato; ma cento concause dell’istessa natura l’allontanano da quella sublimità e grandezza, che si può con tanto vantaggio da esse attingere. Or se il merito dell’istituzione consiste ugualmente nel profittare delle circostanze favorevoli, che nel riparare alle contrarie, e nel supplire a quelle che mancano, le proposte letture corrisponderanno ammirabilmente a queste vedute. Bisogna cercare d’arricchire e d’ingrandire l'immaginazione de' giovani artisti prima di pensare a raffinarla. Nelle colte società le circostanze che la conducono al raffinamento esistono e da loro medesime si presentano; ma quelle che la conducono alla grandezza ed all’ubertà, bisogna altrove cercarle e somministrarle.

Somministrati dunque questi considerabili soccorsi alba immaginazione dei nostri giovani artisti, la grand’arte del maestro sarà di ben dirigerla nelle loro produzioni, e di correggerne le imperfezioni e gli abusi. Egli lascerà loro la scelta libera del soggetto; egli non preverrà mai la loro immaginazione sul piano d’esecuzione; egli non farà che secondarla e soccorrerla sempre che sarà ammettibile, correggerla, quando incorrerà in difetti, e contrastarla soltanto, quando urterà nel falso che consiste nel combinare e comporre gli oggetti che sono di loro natura incompatibili. Questo male che dipende dalla corruzione del gusto, e dal difetto e scarsezza delle idee che l’immaginazione deve combinare e comporre, è stato già da noi in gran parte prevenuto co' molteplici soccorsi che somministrati abbiamo al senso interno del bello, e col considerabile numero di materiali che abbiam preparati all’immaginazione dei nostri allievi. Le loro immagini e le produzioni di esse si risentiranno rare volte e forse non si risentiran mai di questo vizio che si è con tanti mezzi prevenuto; ma si risentiranno sovente di altri difetti che è di una somma importanza correggere a tempo, prima che si convertano in abito. La diligenza del maestro non sarà mai soverchia riguardo a quest’oggetto; giacche vale più a formare il gusto una bellezza o un difetto ben rilevato sul fatto, che cento istruzioni astratte di regole e di principii.

Siccome l’uso dell’immaginazione è l’oggetto principale dell’istituzione, nell’epoca della quale parliamo, così per addestrare, quanto più si può, questa facoltà nel ministero al quale e destinata, il maestro dopo aver rilevati all’allievo i difetti della sua produzione, non dovrà, tutto al più, che una sola volta permettergliene la rifazione, per evitare che l'immaginazione, troppo lungamente occupata dal medesimo soggetto, non perda nella monotonia degli oggetti i frutti di quella energia che ottener potrebbe dalla frequente variazione dei suoi lavori. Non bisogna pretender da principio la perfezione. Basta indicarne il difetto, e far conoscere in che dovrebbe consistere.

Questa necessaria indulgenza nell’epoca, della quale parliamo, non avrà luogo negli ultimi anni della istituzione. Noi esigeremo allora quella perfezione che dobbiamo per ora limitarci ad indicare; e le ripetute correzioni e rifazioni di un medesimo lavoro, che potrebbero impedire i progressi di una immaginazione non ancora bastantemente esercitata, non faranno allora che darle una spinta di più all’esattezza ed alla perfezione.

Nella quarta epoca, l’uso della quarta facoltà non escluderà dunque quello della terza. Adoprando la facoltà di ragionare, noi ci guarderemo bene dal lasciare nell’inazione quella dell'immaginazione.

Noi non faremo altro che unire gl’indicati esercizii a quelle istruzioni che l’uso della quarta facoltà richieggono, e che dovevano per conseguenza riserbarsi per questa quarta epoca, nella quale noi supposto abbiamo la facoltà di ragionare giunta a quel grado di sviluppo che ci permette d’adoprarla senza rischio. (135)

Queste istruzioni riguarderanno quelle regole teoretiche dell’arte, che non conveniva prima di questo tempo insegnare, perché prima di questo tempo non conveniva di far uso della facoltà di ragionare. (136)

Riguarderanno anche in alcune delle belle arti quelle scienze, la nozione delle quali è necessaria per l’esercizio di esse. Ho detto, in alcune delle belle arti, poiché quello che io qui propongo, non deve aver luogo in tutte. Ho detto che quelle scienze si debbono insegnare, che sono necessarie per l’esercizio dell’arte, poiché una scienza può aver stretti rapporti con una delle belle arti, può anche essere la base dei suoi principii, e nulla di meno la nozione di essa può non esser necessaria all’esercizio dell’arte. Le teorie matematiche, per esempio, hanno un rapporto così stretto colle teorie della musica, che se ne possono dire il fondamento o la base; e nulla di meno si può essere eccellente maestro in musica, ed ignorare anche la definizione del punto e della linea. Ma non si potrebbe dir, l’istesso dell’Architetto. Una parte considerabile delle teorie matematiche è così necessaria all'esercizio della sua arte, che senza il loro soccorso l’architetto, incerto nelle sue operazioni, verrebbe in ogni istante arrestato o condotto nell’errore.

Senza le teorie dell’ottica, il pittore sarebbe sovente esposto ai medesimi rischi. Senza la cognizione dell’anatomia esterna del corpo umano, lo statuario ed il pittore non potranno sempre dare tutta la verità alle loro opere, ed incorreranno sovente in errori; e quantunque questa scienza ch’è unicamente fondata sull’osservazione, potrebbe insegnarsi anche nello precedenti epoche, come si è infatti nell'istituzione dei medici e dei chirurgi proposto, nulla di meno, nell’istituzione di queste due arti noi la destiniamo in questa quarta epoca, perché un lungo esercizio del disegno può renderne più utile la cognizione.

Senza dunque entrare in altri dettagli, noi proponiamo qui l’istruzione di quelle sole scienze, la nozione delle quali è necessaria all’esercizio di quell’arte che si vuol professare. Una più estesa istituzione potrebbe produrre un gran male. Potrebbe coltivare la ragione a spese dell’immaginazione, la quale dev’esser, di tutte le facoltà dell'intelletto, la più cara all’artista e la più coltivata nella sua educazione.

L’altra specie d’istruzioni che noi riserbate abbiamo per questa quarta epoca, e che dovrebbero succedere a quelle che si son proposte, riguarderebbero i generali principii del gusto che noi abbiamo con tanti mezzi cercato d’insinuare ne' nostri allievi, e che riceverebbe l’ultima spinta dall’importante istruzione che siam per proporre.

La ragione, il principale ministero della quale è di dirigere le altre facoltà dell’intelletto, deve anche essere per questo fine adoprata dall’artista; deve consigliare la sua immaginazione; deve prevenirne o correggerne gli errori; deve somministrargli de' mezzi onde regolare il suo esame sulle sue produzioni; deve rassicurarlo contro la diversità de' giudizii, che quelle dovranno necessariamente subire.

Il gusto non è arbitrario. Questa verità non ha bisogno di pruova, perché non è contrastata. (137) Essa è ammessa ugualmente da coloro che riducono il gusto a sentire, e da coloro che vogliono costringerlo a ragionare.

Ma sebbene il gusto non è arbitrario, è nulladimeno poco comune. L’interesse, le passioni, i pregiudizii, gli usi, i costumi, i climi, i governi, i culti, l’ignoranza o i lumi, la educazione e l’istituzione falsa o giusta, alcuni straordinarii avvenimenti e tante altre simili circostanze possono alterare, corrompere o perfezionare il gusto d’un individuo o d’un popolo, non altrimenti che possono opprimere, distruggere, perfezionare nell’uno o nell’altro il senso interno del bello. Queste vicende, alle quali è esposto il gusto, e che possono alterarlo, corromperlo o perfezionarlo in un individuo o in un popolo, ma non renderlo arbitrario, sono appunto quelle che ci debbono impegnare a manifestare ai nostri allievi quei principii invariabili, sui quali il vero gusto s’è fondato, e coll’applicazione dei quali qualunque opera di qualunque arte può in qualunque tempo esser diretta e giudicata.

Se la sorgente del piacere e della noia è unicamente ed interamente in noi, noi non dobbiamo far altro che esaminare noi medesimi, che gittare uno sguardo profondo dentro di noi, per discovrire e fissare queste universali ed invariabili regole del gusto, e per somministrare al giovane artista una normaPer rassicurare la sua immaginazione, per correggere i suoi errori, per giudicare delle proprie e delle altrui produzioni, e per non farsi scoraggiare fuor di proposito dall’ingiustizia dei giudizii, che l’interesse, l’invidia o la corruzione del gusto potranno su di quelle richiamare.

Per facilitare questa intrapresa e per mostrarne la possibilità, io mi fo un dovere d’indicare le seguenti idee.

L’Autore della natura, dando agli uomini l’inestimabile dono della perfettibilità, ha nel tempo istesso provveduta la nostra anima d’alcune affezioni che la sollecitano a profittare di questo dono, ed a corrispondere a' gran disegni, pe’ quali è stato loro concesso. La curiosità è una di queste affezioni; essa' è una di quelle originarie molle che spingono lo spirito umano verso la perfezione; essa è comune; essa agisce in tutti gli uomini; ed il vigore e l’universalità della sua azione si manifesta di continuo in noi co' piaceri, che da essa procedono. Tale è quello di percepire un gran numero di cose, o di percepirle facilmente, e per cosi dire ad un tratto; tale è quello della variazione opposto alla noia della monotonia; tale è Il piacere della sorpresa. Ogni uomo gode di percepire un gran numero di cose, e di percepirle facilmente e per così dire ad un tratto. Ogni uomo gode nella variazione e si annoia nella monotonia. Ogni uomo sente il piacere della sorpresa. Questi piaceri sono di tutti i tempi e di tutti gli uomini, perché in tutti i tempi ed in tutti gli uomini la curiosità si trova inerente allo spirito umano'. Questi piaceri non sono esposti all’incostanza ed a' capricci di quelli, che dagli usi e dalle mode procedono, perche l’affezione che li produce è nell’uomo e non nelle circostanze che lo modificano. Questi piaceri sono comuni e perenni, perché comune e perenne è quell’affezione che li rende tali, perché comune e perenne è la curiosità.

Or se l’immediata destinazione delle belle arti è il piacere, come niuno ne dubita, è chiaro che per ottenere che le produzioni delle belle arti abbiano una perfezione costante e comune, o sia universale e perenne, bisogna che i piaceri che esse somministrano sieno costanti e comuni, o sia universali e perenni; e se le regole del gusto sono destinate a far conoscereciò che produce o impedisce la perfezione in queste produzioni, è ugualmente chiaro che per ottenere che queste regole sieno universali e perenni, bisogna che vengano dedotte dalla cognizione di ciò che produce o impedisce il conseguimento di questi piaceri universali e perenni nelle produzioni delle belle arti. Or io domando: quali piaceri universali e perenni somministrar si possono colle produzioni delle belle arti, fuori di quelli che dalla curiosità procedono, e che sono in alcuno di quelli, de' quali si è parlato, compresi? Che il lettore esamini questa questione, e ne giudichi; e noi occupiamoci intanto dell’esposizione delle regole del gusto, le quali saranno universali e perenni, quando dal principio universale e perenne che si è indicato, verranno dedotte.

L’uomo, si è detto, gode di percepire un gran numero di cose, e di percepirle facilmente, e per così dire ad un tratto. Le prime regole del gusto alle belle arti relative debbono dunque esser dedotte dalla cognizione di ciò che produce o impedisce il conseguimento di questo primo piacere nelle produzioni delle belle arti. Tali sono quelle che riguardano la chiarezza, la semplicità, l’ordine, la simmetria, l’unità, il suggerimento e l’espressione.

Senza la chiarezza, la curiosità o non vien soddisfatta, o ha bisogno di molta riflessione e di lungo esame per esserlo. Nel primo caso il sentimento del piacere non viene eccitato, e nel secondo vien indebolito e raffreddato. Senza la semplicità, la curiosità vien delusa nelle sue speranze; poiché ciò che l’anima trova è molto inferiore a quello che da principio si aspettava di trovare. Senza l’ordine, non vi è chiarezza, non vi è felicità di percepire. La progressione delle idee dell'Autore non si combina con quella che si genera nell’osservatore della sua opera. L’anima non indovina cosa alcuna, e cosa alcuna non ritiene. Essa viene umiliata dalla confusione delle sue idee e dall’ignoranza, nella quale rimane. Un sentimento di dolore e di noia vien sostituito a quello del piacere. La curiosità non viene soddisfatta, nò conseguito il fine, pel quale quest'affezione agisce in noi.

Le regole che riguardano la simmetria, dipendono dal medesimo principio, e tendono al fine medesimo. In un’opera composta di molte parti che tutte si debbono contemporaneamente vedere dall’occhio dell'uomo, la simmetria piace all’osservatore, perché gliene facilita la percezione. Essa divide, per così dire, in due parti l’opera, e gli permette di percepirla tutto ad un tratto. In un’opera al contrario, le cui parti non son destinate a presentarsi contemporaneamente, ma successivamente, la simmetria è viziosa; essa dispiace, perché non facilita, non soccorre le funzioni dell’animo, ma l’annoia colla monotonia e colla privazione di quella varietà che tanto le piace. La regola, dunque, generale alla simmetria relativi sarà, che questo esatto rapporto. di parità nelle parti di un’opera sarà lodevole, tutte le volte che sarà utile a facilitarne la percezione; e biasimevole, quando è inutile al conseguimento di questo fine. Essa sarà lodevole in un’opera di architettura, e biasimevole nell’opera del pittore o dello scultore, in un pezzo di musica, ed in tante altre produzioni delle arti.

Non si può dir l’istesso dell’unità. Questa non riguarda i rapporti di parità, ma quelli di concorrenza ad un fine unico; questa non esclude la varietà, ma la dirige, e determina; questa non priva l’animo de' variati piaceri che la diversità delle parti d’un’opera le possono recare, ma esige solo che queste tendano tutte ad accrescere la forza del sentimento, che deve recarle il tutto. Questa è necessaria in qualunque opera di qualunque arte, perché senza di essa non vi è mai un tutto, non vi sono che parti, e l’anima distratta da molte impressioni che si contrastano e distruggono a vicenda, delusa nelle sue speranze, rimane in quel vuoto, dal quale aveva invano desiderato d’uscire. (138)

All'istesso fine corrisponderà un altro principio generale del gusto. Per ottenere che l’animo percepisca un gran numero di cose, e le percepisca facilmente, e per così dire ad un tratto, non tutte le cose, colle quali l’artefice deve somministrare questo piacere all’osservatore della sua opera, debbono in quella essere espresse. Un gran numero di esse debbono esser semplicemente indicate, o, per meglio dire, suggerite. Se la espressione d’una cosa suggerisce al mio animo le idee di varie altre cose, l’istesso alimento riceverà lamia curiosità dalla espressione della prima, che dalle espressioni distinte di tutte le altre: ma il piacere non sarà l’istesso. L’animo, dovendosi fermare sopra ciascheduna delle cose espresse, riceverà divisamente quel piacere che nel primo caso verrebbe concentrato in un punto, e diverrebbe per conseguenza molto più vivo.

Un peggior male sarebbe, se l’artefice non solo non preferisse l’espressione unica all’espressioni distinte, ma si permettesse nel tempo istesso l’una e le altre, cioè all’espressione della cosa che suggerisce le altre, unisse le espressioni distinte delle cose suggerite. In questo caso, il piacere non solo sarebbe diminuito, ma seguito dal dolore; poiché l’espressioni delle cose già suggerite desterebbero la noia invece di alimentare la curiosità, e produrrebbero la confusione invece di aumentare Pubertà. Il grande artefice dunque esprimerà, sempre che può, le cose che più ne suggeriscono altre, e non esprimerà mai le suggerite. Ho detto, sempre che può, poiché egli deve conciliare l’uso di questo principio con quello della chiarezza, dell’opportunità e dell’unità.

L’altro piacere che ci manifesta l’azione della,curiosità in noi, è, come si è detto, il piacere della variazione opposto alla noia della monotonia.

Le altre regole generali del gusto dipenderanno, dunque, dalla cognizione di ciò che produce o impedisce il conseguimento di quest’altro piacere nelle produzioni delle belle arti. Tali sono quelle che indicano i giusti confini della variazione e de' contrasti. Se una lunga uniformità ci annoia, un’eccessiva variazione ci disgusta; la causa dell’uno e dell’altro fenomeno è la medesima, ed è semplicissima. Il piacere della variazione è, come si è detto, un’appendice della curiosità. L'uniformità ci annoia, perché non alimenta questa affezione dell’animo, e la variazione, quando è eccessiva, cioè quando è tale che non può esser percepita dall’animo, ci disgusta, perché smarrisce il suo fine, perché non soddisfa la curiosità.

L’architettura gotica, per esempio, ci disgusta, perché la picciolezza de' suoi variati ornamenti impedisce all’occhio di distinguerli, e la loro moltiplicità non gli permette di fissarsi sopra alcuno di essi. Il piacere della variazione non vien eccitato, perché la varietà che non può esser dall’animo percepita, degenera in uniformità anche più disgustosa di quella che dipende dal vizio opposto; giacche in questa rimane almeno qualche idea distinta nell’animo, nel mentre che in quella non vi resta che la confusione e l’incertezza.

L’istesso, presso a poco, deve dirsi de' contrasti. Per somministrare il piacere della variazione, bisogna che vi sia della varietà nella posizione delle parti d’un tutto. Ciò che nelle belle arti si chiama contrasto, è destinato a conseguire questo fine. Senza di esso le produzioni delle belle arti son prive d’uno de' principali ornamenti del gusto; senza di esso l’uniformità, regna e la natura non è mai bene imitata; senza di esso, qualunque sia il merito dell’opera, il sentimento del piacere è sempre debole, e vien sempre seguito da quello della noia, perché la curiosità non riceve da tutte le parti del tutto né maggiore né diverso alimento di quello che le somministra una sola delle sue parti. Ma siccome l’eccesso nella varietà delle parti produce l’uniformità, cosi l’eccesso nella varietà delle loro posizioni, o sia l’eccesso de' contrasti, produce la monotonia e l'uniformità.

Le opere non solo di molti artefici, ma gli scritti anche di molti Autori della bassa latinità, ne' quali le antitesi sono perenni, ce ne offrono una pruova. Lo spirito vi ritrova così poca varietà, che in quelle, quando si è veduta la posizione di una figura, si può subito indovinare la posizione dell’altra, che l’è d’accanto; ed in questi, quando si è letta una parte della frase, s’indovina sempre l’altra. Questo continuo contrasto, questa perenne opposizione degnerà in una uniformità, in una monotonia insopportabile, più contraria alla natura ed al gusto, che non lo è quella che tocca l’estremo opposto.

Le generali regole del gusto, alla varietà ed ai contrasti relative, saranno dunque le seguenti:

1(a)La varietà allora piace, quando è percettibile. Bisogna che l’anima senta le diversità, le distingua facilmente, e possa su ciascheduna di esse riposarsi. Bisogna, in poche parole, che la cosa sia bastantemente semplice per esser percepita, e bastantemente variata per esser percepita con piacere.

2(a)Le picciole parti non convengono che ai piccioli tutti. I gran tutti non debbono avere che grandi parti. L’architettura greca che ha poche divisioni e grandi divisioni, è fondata su questa regola che altro non è, se non un’appendice dell’altra.

3(a)II contrasto allora piace, quando non si può prevedere; allora è bello, quando sembra necessario; allora è opportuno, quando si sente, perché esiste nell’opera e non perché l’Autore ha voluto mostrarlo. (139)

Il piacere della sorpresa che non meno degli altri due, dei quali si è parlato, manifesta l’azione della curiosità in noi, sarà lo scopo delle altre generali regole del gusto, delle quali ci rimane ora a ragionare.

Io chiamo con questo nome quel sentimento che si desta in noi dalla percezione d’una cosa, che non aspettavamo, o che non aspettavamo in quel modo, nel quale si è a noi presentata. Il sublime, il maraviglioso, il nuovo, l’inaspettato sono i soggetti di questa sorpresa e sono i fonti di questo piacere. Le belle arti possono servirsi di tutti e quattro per eccitarlo. Niuna produzione di gusto meriterà questo nome, se non produce quest’effetto. Il grande artefice non si contenterà soltanto di eccitare questo sentimento, ma procurerà di prolungarlo. Il capo d’opera dell'arte è quando la sorpresa che da principio è mediocre, si sostiene, si aumenta e ci conduce per gradi all’ammirazione. Ecco l’effetto che produce il più gran tempio dell'Europa; ecco quello che produce l'antico Panteon elevato in aria dall’arte di Michelangelo nella cupola di questo tempio, dové quest’immensa massa sembra leggiera per la proporzione che si è data alle basi, sulle' quali poggia; ecco l’effetto che producono, a parer di tutti, la più gran parte delle opere del divino Raffaello; ed ecco l’effetto che produce così nelle belle arti, come nella poesia e nell'eloquenza, tutto ciò ch’è veramente sublime, il vero carattere del quale consiste nell’espressione semplice d’una grande idea.

Queste sono le generali regole del gusto che io vorrei che venissero insegnate e sviluppate agli allievi di questi collegi nell’ultimo periodo della loro istituzione. Esse sono generali e come tali suscettibili d’un gran numero d’applicazioni, di osservazioni, di conseguenze. Io non ho fatto che accennarle e dedurle dal gran principio della curiosità, per mostrare ch'esse sono universali e perenni, cioè che sono per tutti i popoli e per tutti i tempi, perché in tutti i tempi e per tutti i popoli ha luogo il principio, dal quale dipendono. La universalità del mio argomento e la natura del mio lavoro non mi permettevano di far altro. Si apparterrà a ciaschedun maestro di ciaschedun’arte l’eseguire quel che io non posso far altro che proporre. Le sue cure non dovrebbero soltanto limitarsi a bene svilupparle, ma ad applicarle a quella delle belle arti che insegna a rilevarle nelle più belle opere ch’esistono in quella tal arte; a mostrare nelle produzioni dei suoi allievi, dové siano state secondate e dové trascurate o violate, e ad indicar loro il modo, onde riparare a queste negligenze, o a questi errori nelle rifazioni de' loro lavori che, come si è detto, in questa età dovrebbero esser ripetute ad arbitrio del saggio istruttore.

L’immaginazione dei nostri allievi, molto lontano dal venir turbata da questa importante istruzione, riceverebbe da essa il maggior soccorso. Nel momento della produzione, in questo momento così inimico di freno e di coazione, essi si abbandonerebbero con maggior ardire alle sue operazioni. La incertezza non turberebbe i suoi voli, ed i suoi passi non verrebbero in ogni istante arrestati dal timore e dal dubbio. Si’ curi dell’infallibilità della norma che regolerebbe i loro posteriori giudizii, essi lascerebbero correre colla maggior libertà la loro immaginazione che crea, ed aspetterebbero il momento della sua stanchezza, per chiamare in soccorso la ragione che corregge e perfeziona. Ritornando allora sui primi abbozzi delle loro produzioni, sostituendo ai voli indipendenti e rapidi dell’immaginazione i passi lenti e misurati della ragione; chiamando in soccorso i principii e le regole che avrebbe questa apprese, conserverebbero e perfezionerebbero ciò ch'è l’effetto del vero entusiasmo, e rigetterebbero quello ch'è stato l’effetto del riscaldamento e per cosi dire dell’ebrietà.

Ecco come i capi d’opera dell’arte si generano, ed ecco lo scopo dell’indicata istruzione. I suoi principii, le sue regole sarebbero destinate ad evitar gli errori, e non a produrre le bellezze; ad essere il freno dell’immaginazione che travia, e non la guida di quella che si abbandona ai suoi voli; a suggerir la correzione e non la produzione; a venir in soccorso dell’artista, dopo che ha creato e non nel mentre che crea; in poche parole, a soccorrere il giudice e non l’autore.

Che l’artista filosofo esamini queste idee, che osservi senza prevenzione, come senza parzialità l’intero piano d’istituzione che ho proposto, e ne giudichi. Io riposo ugualmente sul suo discernimento e sulla sua esperienza.


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CAPO XXXII

Del Collegio de' Sacerdoti

Il sacerdote che incensa quel Nume che il cittadino adora, che predica quei dommi che formano la credenza del popolo, che in alcuni più fortunati paesi insegna, inculca ed espande quella morale che la più profonda Filosofìa non potè che imperfettamente discovrire sotto il denso velo delle passioni che la nascondevano, e che senza l’istrumento di una rivelazione divina, sempre combattuta, sempre oscura, vacillante ed incerta, avrebbe appena formato il patrimonio esclusivo di quei pochi filosofi che sono veramente degni di questo nome; ma che combinata oggi colla religione, mescolata col culto e colla fede, santificata sugli altari, predicata nei templi, acquista quel vigore e quella espansione che non avrebbe potuto mai ottenere dalla cattedra e nella scuola; il sacerdote, io dico, che dové tutte e dové una parte sola di queste funzioni esercita, deve anch'egli essere sotto la direzione del Governo e delle leggi, educato ed istruito. Cittadino come gli altri, perché partecipe dei medesimi dritti e delle obbligazioni medesime; magistrato come gli altri, perché investito di pubblico carattere e ministro di pubbliche funzioni, utile o pernicioso allo Stato come gli altri che lo servono, a misura che adempie, trascura o viola i doveri del suo ministero, e quelli dell’originaria sua civile condizione, deve, come gli altri, disporsi fin dall'infanzia a concorrere ai gran disegni della legge, coll’istituzione da essa prescritta.

Ma quale dovrebbe esser il piano di questa istituzione. che la legge dovrebbe per questo collegio prescrivere?

Io l’esporrei volentieri, io farei volentieri osservare in che dovrebbe uniformarsi, ed in che dovrebbe distinguersi da. quello delle altre classi secondarie, nelle quali questa seconda classe principale si suddivide; ben volentieri mostrerei anche i gravi mali che si potrebbero con questo mezzo prevenire e i gran beni che si potrebbero preparare, se sviluppata avessi quella parte del mio sistema legislativo che ha per oggetto le leggi che riguardano la religione. Per non esporre dunque le mie idee alle calunnie, che dipender potrebbero dall’ignoranza di quei principii che non potrei qui sviluppare, senza perturbare l’ordine della mia opera, e per non lasciare anche il più discreto lettore in preda ad una quantità di dubbi che potrebbero prevenirlo contro questo piano di ecclesiastica educazione, quando fosse anteposto alle idee che debbo posteriormente manifestare nel quinto libro di quest'opera, io mi riserbo in questo quinto libro l’esame di quest’oggetto, bastandomi d’aver qui mostrato che questa classe della società non verrebbe esclusa dal nostro piano di pubblica educazione.


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CAPO XXXIII

Della pubblica emancipazione degli allievi di questa seconda classe

Istituita in questo modo la gioventù della seconda classe, regolata coi proposti principii la fisica, la morale e la scientifica educazione di essa; le solennità che accompagnar dovrebbero la pubblica emancipazione, non dovrebbero negli allievi di questa classe esser in altro diverse da quelle che proposte abbiamo per gli allievi della prima, fuorché nelle picciole differenze che esigerebbe la diversità della loro destinazione. Queste sono così evidenti, esse sono così facili ad esser concepite ed eseguite, che noi crediamo inutile l'indicarle. Basta leggere il Capo, nel quale si è ragionato di questa importante cerimonia, per vedere in che dovrebbe raggirarsi la necessaria modificazione, della quale si parla.

Fidiamo dunque sull’attenzione e sul discernimento di colui che legge, e terminiamo questo piano di pubblica educazione coll’esame d’un oggetto che, abbracciandola metà degli individui d’ogni società, non potrebbe esser da noi omesso senza esporci volontariamente alle più giuste e più meritate censure.


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CAPO XXXIV

Appendice al proposto Piano di pubblica educazione
Dell'educazione delle donne

La società non è composta di soli uomini; le donne formano la metà almeno dei suoi individui. Esse generano i cittadini; esse li nudriscono e gli educano nei primi semi del vizio o della virtù nei loro teneri cuori; esse suggeriscono e trasmettono i primi errori o le prime verità; esse fanno la gioia o la tristezza delle domestiche mura; esse dividono, diminuiscono o accrescono le nostre sciagure, i nostri timori e le nostre speranze; esse versano la tazza del dolore o del piacere nel seno delle picciole società, dalle quali la gran società è composta. Senza aver parte al governo, esse dirigono qualche volta il potere; senza spezzare le loro catene, esse dominano sovente i loro padroni; e senza contrastar loro le apparenze dell'autorità, ne dividono e qualche volta ne usurpano intera la realità.

Quest'importante porzione della società dovrà o no partecipare all'educazione del magistrato e della legge?

Platone nella sua Repubblica dà alle donne gl'istessi esercizii che dà agli uomini. (140) Sembra che la differenza del sesso e tutte le appendici che da questa differenza procedono, non richieggano agli occhi di questo grand'uomo una proporzionata differenza nella loro educazione. Io non sono punto sorpreso di quest'idea di Platone. Essa è una conseguenza necessaria del suo piano. Quest'ingegno sublime vedeva tutto, prevedeva tutto. Egli volle prevenire una obbiezione che pochi uomini avrebbero per altro avuto il talento di fargli. (141) Avendo tolte dalla sua Repubblica le famiglie particolari, e non sapendo più cosa fare delle donne, si vide costretto di farne degli uomini.

Ma quest’unità di famiglia, questa promiscuità civile tra' due sessi, che ne dipende, e che è tutt'altro da quella pretesa comunione delle mogli che si è erroneamente a Platone imputata, non potevano aver luogo che nel piano d’una repubblica, da questo sommo uomo immaginata, non per istituire un popolo, ma per dipingere la giustizia. II nostro scopo è ben diverso dal suo, e ben diversi ne debbono essere i mezzi.

La società, della quale noi ci occupiamo, dev’esser composta di famiglie, e l’amministrazione interna della famiglia richiede la vigilanza e le cure d’uno de' suoi individui. La donna sedentaria per la natura dei suo fìsico; meno forte, ma più vigilante dell’uomo; esclusa, per la natura del suo sesso, dalla più gran parte delle civili funzioni, ed esclusa dall’altra, dall’uso, dall’opinione e dalle leggi; la donna, io dico, sembra così dalla natura, come dalle sociali istituzioni destinata a questa interna amministrazione. Noi la troviamo, infatti, in questo domestico ministero ‘impiegata in tutti i paesi ed in tutti i tempi, ne' quali il bel sesso non vive né nell’eccesso della servitù, né in quello della libertà.

L’abito e l’istruzione di questo domestico ministero rendono necessaria la domestica educazione per le donne. Un’educazione pubblica, privandole di quest’abito e di questa istruzione, le distoglierebbe dalla loro destinazione; le renderebbe meno atte a soffrirne i pesi, ed a sentirne i piaceri; le renderebbe meno familiari, rendendole più sociali. L'esperienza giustifica questa proposizione. Le donne educate nei conventi divengono ordinariamente cattive madri di famiglia; e nei paesi ove quest’abuso non ha luogo, vi sono più virtù domestiche nello donne, vi è più ordine nelle famiglie, più felicità nei coniugi, meno dissipazione e più vigilanza nelle mogli e nelle madri.

Se l’educazione pubblica non deve aver luogo per le donne, se l’educazione domestica è la sola che loro convenga, esse non debbono dunque partecipare a quella del magistrato e della legge; giacche il magistrato non deve entrare nelle domestiche mura, e la legge non deve prescrivere se non ciò che il magistrato può fare eseguire.

Ecco il motivo, per lo quale le donne non han luogo in questo piano di pubblica educazione. Ma esse non lascerebbero per questo di partecipare ai suoi felici effetti. Astretti ad escluderle dall’immediata e diretta educazione della legge, esse non verrebbero private della mediata ed indiretta che procede dalla sapienza istessa delle sue istituzioni. Formando gli uomini, la legge verrebbe a formare indirettamente anche le donne. È un errore il credere che l’uomo si modifichi sulla donna. Questa sarebbe una contradizione a quella legge eterna e costante della natura, che ha stabilito che il più forte sia sempre il primo a dar la legge al più debole. È vero che l’un sesso cerca di piacere all’altro; ma quest’ambizione unica nella donna è combinata con tante altre nell'uomo. In chi agirà dunque essa con maggiore efficacia? In quale de' due sessi è atta a produrre i più Universali e i più solleciti effetti?

Se per gli vizii del governo e gli errori delle leggi si corrompono i costumi de' popoli, quale è il sesso che fa le leggi ed amministra il governo? Quale è il sesso che ha più freni contro la corruzione e minor forza per espanderla? Il pudore che accresce tanto le grazie della donna, e del quale la vanità si sforza di conservare le apparenze, anche quando si è perduto, non basterebbe forse a persuaderci che la corruzione comincia dagli uomini, e che comunicandosi quindi alle donne diviene un appoggio, un sostegno di quell’istesso male, del quale da principio non è stato che l’effetto? Se. ne' tempi della Cavalleria l’approvazione della dama conduceva l’amante alla giostra, al torneo ed alla crociata; se il cimiero, la corazza e l’elsa della sua spada, ornata de' nastri annodati dalla mano della bellezza che adorava, erano tanti monumenti del suo ardire; se ne' tempi virtuosi e felici della greca e della romana libertà il bel sesso conduceva il cittadino alla vittoria, respingeva i fuggitivi al campo, spargeva lagrime di giubilo su’ cadaveri degli sposi e de' figli morti per la difesa della patria, coronava il difensore della libertà e l’omicida del tiranno, impugnava, quando il bisogno lo richiedeva, le armi contro l’estero inimico, adoprava il pugnale ed il veleno contro l'usurpatore interno, e comprava con una morte volontaria la vita e la libertà della patria; se in Sparta si videro più d’una volta le madri uccidere i proprii figli fuggitivi, o timidi, sovente covrirli d’ignominia co' più ingiuriosi detti e quasi sempre piangere su quelli che senza loro colpa ritornavan dal campo vivi, ma vinti; (142)se in Roma quelle istesse leggi che davano ai mariti tanta autorità sulle mogli, che concedevano agli uni il dritto del divorzio che negavano alle altre, che innalzavano nel seno della famiglia un tribunale spaventevole, nel quale la donna poteva esser giudicata, ma non sedere, poteva esser condannata alla morte, ma non vendicare e punire i torti del padre o dello sposo; se queste stesse leggi, io dico, furono tante volte difese da le donne; se esse salvarono tre volte la patria, la garantirono tre volte dalla vendetta di Coriolano, dall’avidità di Brenno e dalle armi vittoriose di Annibale; se meritarono tre volte un decreto pubblico di riconoscenza dal Senato; non sono queste tante incontrastabili prove dell'influenza che ha il sesso più forte sul carattere, su’ costumi e sull’opinione stessa del più debole?

Formiamo dunque gli uomini e noi formeremo anche le donne; e siccome per una conseguenza necessaria delle sociali combinazioni ciò che da principio non è stato che un effetto, diviene quindi un appoggio, un sostegno e, per cosi dire, una causa della causa istessa che l’ha prodotta; siccome le donne de' tempi e de' popoli, de' quali si è parlato, costrette da principio per piacere agli uomini ad applaudire e prender parte all’ardire, alla destrezza, al coraggio del cavaliere, o alle virtù guerriere e patriottiche del cittadino e del soldato, divennero quindi uno de' principali sostegni di queste virtù istesse, senza delle quali gli uomini non potevano più ad esse piacere; della maniera istessa la correzione de' costumi e delle opinioni delle donne, preceduta e cagionata da quella che noi otterremmo negli uomini, diverrà essa medesima un sostegno ed una causa del pubblico costume e della universale virtù.

Le leggi, delle quali abbiamo ragionato, sono destinate a preparare questo salutare cangiamento; quelle, delle quali siam ora per parlare, son destinate a confermarlo e. perfezionarlo. Quelle riguardavano il giovane sotto l’educazione del magistrato e della legge; queste riguarderanno l'uomo già emancipato da questa educazione, ed affidato alla sola direzione di se medesimo. Quelle riguardano, per così dire, la prima, e queste la seconda educazione del cittadino.


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LIBRO QUARTO - PARTE SECONDA

DELLE LEGGI CHE RIGUARDANO I COSTUMI

CAPO XXXV

Scopo di questa parte della scienza legislativa

L’uomo non può esser felice, senza esser libero: tutti ne convengono. L’uomo non può esser felice, senza convivere co' suoi simili: tutti lo sentono. L’uomo non può convivere co' suoi simili, senza una forma di governo, e senza leggi: tutti lo concepiscono. L’uomo dunque per esser felice deve esser libero e dipendente. Ma la libertà non esclude la dipendenza, come la dipendenza esclude la libertà? Se la libertà suppone il potere di fare ciò che si vuole, come si potrà combinare colla dipendenza, che suppone l’obbligo di fare ciò che si deve? Vi è mai un mezzo per avvicinare questi estremi, per conciliare questi opposi?

Fortunatamente per gli uomini questo mezzo esiste. Ma quale egli è? Dove si ritrova? Chi può somministrarlo?

Se il dovere senza la volontà esclude la libertà; se la volontà senza il dovere esclude la dipendenza; il volere ciò che si deve conserva la libertà, senza distruggere la dipendenza. La volontà di fare ciò che si deve sarà dunque il nesso che unisce e combina la libertà colla dipendenza Quando il cittadino desidera ciò che la legge prescrive, quando correndo ove la sua volontà lo spinge, egli va dové le leggi lo chiamano, allora egli è dipendente perché vive sotto le leggi, ed è libero perché seconda la sua volontà, e farebbe ciò che esse prescrivono, ancorché esse non lo prescrivessero.

Ecco il mezzo che si cercava; ma dové si ritrova? La seconda questione è molto più facile a risolversi della prima. Datemi una società, ove l’interesse e le passioni dell’individuo siano così ben combinate coll'interesse della società istessa che l’uno non possa cercare la sua felicità senza contribuire a quella dell’altra, e voi troverete in essa il proposto mezzo; voi troverete la maggior parte de' suoi individui volere ciò che debbono; voi non troverete privi di questa volontà che gli stupidi e i matti, o coloro che da straordinarie circostanze sono stati condotti alla depravazione o al delitto.

Ma da che dipende questa sublime combinazione? È essa possibile? Chi può somministrarci questo mezzo che concilia la libertà colla dipendenza e che può solo stabilire l'umana felicità? Ecco la terza e la più importante delle proposte questioni, ed ecco lo scopo di questa parte della scienza della legislazione. Il seguente Capo ce ne offrirà le prime idee.


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CAPO XXXVI

Della possibilità di giungere all'indicato scopo

La natura ha fatto l’uomo per la società, la natura lo ha fatto amante di «e medesimo. La sapienza di questa madre antica che si manifesta più che in ogni altro nella consonanza de' mezzi, delle forze e de' fini, ci obbliga a supporre un rapporto tra le proprietà dell'essere e la sua destinazione; tra l’amor proprio e la sociabilità. Per qual motivo dm que l'esperienza ci fa trovare un rapporto negativo piuttosto che positivo tra questi due morali oggetti? Per qual motivo noi troviamo più frequentemente nell'amor proprio le cause della destruzione che non vi troviamo quelle del sostegno e del vigore delle società? La natura, così armonica e conseguente in tutte le sue produzioni, avrà forse lasciato di esserlo soltanto nella più bella e nella più augusta di esse? Avrà essa posto nell’uomo una forza che lo spinge verso la società, ed un’altra che lo induce a distruggerla? Se essa meritasse questa imputazione, gli effetti di questa sua inconseguenza non si dovrebbero forse trovare presso lult’i popoli, ed in tutt’i tempi? La natura non è forse l’istessa in tutt’i luoghi ed in tutte l’età? e gli effetti che dalla natura delle cose procedono, non sono forse così universali e costanti, come lo sono le cause che li producono? Se in una sola società, presso un solo popolo, in un solo tempo si trovasse una sola eccezione contro questa esperienza, non dovrebbe forse questa bastare per giustificare la natura contro l’ingiustizia di questa imputazione? Or l’esperienza istessa non è forse quella che ci fa vedere, non in un solo popolo, ma in varii popoli, non in un solo tempo, ma per più secoli, la società trovare nell’amor proprio il più esaltato, ma ben diretto, de' suoi individui, un sostegno ed un vigore che non avrebbe potuto da alcun altro principio sperare e conseguire? Se l’amor proprio, come non vi è oggi chi più ne dubiti, è il fonte unico di tutte le passioni, e se le azioni più grandi, così nel vizio come nella virtù, suppongono le più forti passioni, chi più di Scevola, chi più d’Attilio, chi più di Curzio e de' Decii fu agitato da una più forte passione, chi più di loro amò per conseguenza se stesso e chi più di loro servì la società e la patria?

Subito che gli uomini vivono in società, la natura di questa unione è tale che ciascuno operando per sè, il prodotto delle sue azioni si riferisce necessariamente all’utile o allo svantaggio degli altri. Se si riflette profondamente su questa verità, si troverà che le azioni istesse che sembrano le più indifferenti, non sono escluse da questa legge. Il necessario legame che ciascheduna parte ha colle altre e col tutto, è la ragione che rende più che evidente questa verità. Il più mirabile e nel tempo istesso il più incontrastabile effetto della società è dunque questo: senza distoglierci dall'operare per noi, essa ci trasporta sempre fuori di noi; senza distruggere quel primo principio unico d’attività e di moto ch’è dentro di noi, e che tende ad indurci a non occuparci che di noi stessi lo dico, senza distruggerlo, anzi rendendolo più attivo e più energico co' bisogni che ci suscita, e colle occasioni di agire che gli moltiplica, ci costringe nel tempo istesso ad operare fuori di noi, in modo che spesso il nostro proprio interesse sparisce per volerlo troppo secondare. Muzio fa bruciare intrepido la sua mano; Attilio abbandona una patria che l’adora, per ritornare tra le catene d'un inimico che gli ha preparata la morte; Curzio si getta nella voragine; i tre Decii si consacrano alla patria, e comprano colla loro morte sicura la sua salute. Quanti bisogni, quale passione bisogna supporre in ciascheduno di questi eroi, per determinarlo a ciascheduna di queste azioni? Questi bisogni, questa passione avevano sicuramente la loro radice in quell’istesso principio che fece sottoscrivere tante proscrizioni a Silla, che fe’ commettere tanti attentati a Catilina, che fece abbassare fino al tradimento l’anima di Cesare; ma le diramazioni erano ne' primi così lontane dal tronco, dal quale partivano, che avevan loro fatto perder di vista il proprio interesse, per cui operavano. Ecco perché il carattere più comune delle grandi passioni è appunto quello di nascondere la consonanza del loro oggetto colla principal cagione che le ha suscitate; ed ecco perché agli occhi dello osservatore poco avveduto pare che abbiano un carattere da per loro esistente ed interamente staccato da quell'amor proprio che ne è l’unica, la vera, l’universale origine, più o meno remota, più o meno nascosta, più o meno eccentrica, a misura che dalle sociali circostanze viene bene o male regolata e diretta.

Se l’amor proprio può dunque restringere ed invigorire i sociali nodi, della maniera istessa che può indebolirli e discioglierli; se per una necessaria conseguenza dell’unione sociale l’uomo operando per sè, il prodotto delle sue azioni dee necessariamente riferirsi o all’utile o allo svantaggio della società; e se, come si è veduto, può produrre così l’uno come l’altro effetto, così l’utile come lo svantaggio di essa; il proposto scopo non è dunque chimerico, non è dunque né nella natura dell’uomo, né in quella della società l’ostacolo che si dee superare; e se non è nella natura delle cose, il conseguimento di esso non sarà mai impossibile.

Lasciamo dunque al volgare moralista le sue invettive contro questo primo principio comune d’attività e di moto; lasciamo a lui la cura insana e sterile di opprimere e di distruggere questa forza che può condurre l’uomo alle più grandi virtù, come infelicemente lo conduce spesso a' più neri delitti. Più rispettosi verso la natura e meno arroganti di lui, scagliamoci piuttosto contro le cause che rendono perniciosa questa forza, scagliamoci contro il Governo e le leggi che non sanno dirigerla.


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CAPO XXXVII

Della passione unica originaria dell’uomo e degli effetti delle sue modificazioni 
nelle diverse passioni fattizie dominanti ne' diversi popoli

L’uomo ama se stesso. Questa è Punica passione insita nella sua natura, inseparabile da essa; questa è la sola passione originaria. Tutte le altre non sono che fattizie; esse non sono che modificazioni di quest’amore, da esterne cause prodotte. L’uomo si ama nello stato della selvaggia indipendenza, ed in quello della servitù civile. Egli si ama nella repubblica e nella monarchia, nell’anarchia e nel dispotismo. Egli si ama nel Governo più ben regolato, come nel più corrotto. Egli si ama e si è amato in tutti i tempi, in tutti i luoghi, in tutti i climi; ma egli non ha, per esempio, amato in tutti i luoghi, in tutti i tempi, in tutte le circostanze la gloria; egli non ha in tutti i luoghi, in tutti i tempi, in tutte le circostanze amato le ricchezze.

Prima delle sociali unioni, nelle selvagge tribù, egli non amava il potere che suppone la perdita dell’indipendenza ed il desiderio di riacquistarla; egli non conosceva l’amor della patria che ne suppone l'esistenza; egli non conosceva l’avarizia che suppone lo stabilimento delle proprietà e lo spirito di previdenza. Egli amava più dell'uomo civile l'ozio ed il riposo, perché aveva meno bisogno di lui e più facilità di soddisfarli. Egli era più di lui inclinato alla vendetta, perché aveva meno freni contro questa passione e più incentivi, perché non conosceva una forza pubblica che lo frenava, né una forza pubblica che lo garantiva e lo vendicava.

Nello stato di barbarie egli cominciò ad amare il potere, perché cominciò a perdere l’indipendenza; cominciò a conoscer l’avarizia, perché cominciò ad esser proprietario; cominciò ad affezionarsi per la patria, perché cominciò ad averne una; cominciò a sentire le spinte della gloria, perché cominciò a sentire il desiderio di distinguersi, (143)ed il bisogno del suffragio degli altri Queste passioni 'divenivano più forti, e quelle che da queste procedono, più si moltiplicavano, a misura che più si restringevano i sociali nodi e più si fortificavano con essi le cause che le producevano.

Nello stato civile finalmente i materiali delle passioni furono presso che infiniti; ma le circostanze fisiche, morali e politiche di ciaschedun popolo ne dissiparono o ne indebolirono alcuni e dettero maggior forza agli altri; alcune passioni furono con questo mezzo indebolite o proscritte, ed altre furono introdotte, stabilite, estese ed invigorite; e da questa operazione, più che da ogni altra, dipese il destino de' popoli e lo stato de' loro costumi. Prosperò il popolo, fiorirono i costumi, quando le passioni introdotte, stabilite, estese, invigorite, furono quelle che avevano il più stretto rapporto con quel grande oggetto che noi ci siam proposti come scopo di questa parte della legislazione; quando la loro forza tendeva a combinare la volontà col dovere. Perì il popolo, si corruppero i costumi, quando questo rapporto si smarrì; quando le passioni introdotte, stabilite, estese, invigorite, non produssero questa salutare combinazione; quando spinsero la volontà dalla parte opposta a quella, ove la chiamava il dovere.

Ma è egli vero che dalle circostanze fisiche, morali e politiche di un popolo proceda questa operazione? e se dalla combinazione di queste circostanze dipende, qual è il luogo che tra queste occupano le leggi? ed oltre a questa parte immediata e diretta, qual'è la mediata ed indiretta che possono avervi? qual’è l’influenza ch’esse aver possono sulle altre circostanze, per render le une atte a produrre, e le altre a non impedire il desiderato effetto?

Vediamolo.


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CAPO XXXVIII

belle circostanze fisiche, morali e politiche che concorrono a formare le passioni dominanti de' popoli, 
e della doppia e principale influenza che vi ha tra queste la legislazione

Siamo sinceri con noi medesimi; non illudiamo noi stessi, né cerchiamo d’illudere i nostri lettori; non ci proponiamo più di quello che possiamo ottenere; non promettiamo più di quello che possiamo eseguire, e misuriamo i nostri disegni colle nostre forze.

Se noi ci proporremo d’indagare il grado di efficacia, col quale ciascheduna delle fisiche, delle morali e delle politiche circostanze d’un popolo influisce sull'indicala operazione, noi incorreremmo nel male, dal quale ci siam proposti di tenerci lontani, noi perderemmo invano il nostro tempo, ed il risultalo de' nostri sforzi sarebbe o l’inganno o l’errore.

Per misurare il valore di una causa, bisogna ch'essa sia semplice, che sia sempre la medesima, che la sua azione sia costante, oche la sua variabilità sia sottoposta ad una certa regola da noi esattamente conosciuta. Quando queste qualità mancano, si smarrisce il filo del ragionamento e l’antica incertezza è l’effetto dell’insana ed inutile ricerca. Il chimico conosce la forza di un corpo composto; dividendolo, giugnerà anche a conoscere la forza particolare di ciaschedun componente; ma ciò malgrado, egli non potrà determinare l’efficacia d’ogni forza determinata nel composto dell’azione delle altre forze componenti.

L’istesso avviene a noi nel soggetto che ci siam proposti di trattare in questo Capo. Noi vediamo alcuni materiali di passioni indeboliti o proscritti presso un popolo, ed altri materiali d’altre passioni moltiplicali ed invigoriti; noi vediamo con questo mezzo alcune passioni private d’ogni vigore presso questo popolo, ed altre stabilite ed invigorite; noi conosciamo che questo effetto non può derivare che dalle particolari circostanze di questo popolo, poiché altrimenti l’istesso fatto si dovrebbe ritrovare presso tutti gli altri popoli; noi cominciamo ad esaminare quali sono le circostanze che han potuto concorrere a produrre quest'effetto, e col soccorso di un maturo esame noi giugniamo a discovrirle; noi le troviamo nel fisico, nel morale e nel politico di questo popolo; noi vediamo come dalle loro forze combinate proceda l’indicato effetto; ma noi non potremo mai giugnere a misurare il vigore, col quale agisce nel concorso ciascheduna di queste cause: noi non potremo mai determinare l’efficacia di ciascheduna forza determinata nel concorso dell’azione delle altre forze conspiranti.

lì più che potremo fare, è di vedere se tra queste cause ve ne sia una, la quale, oltre la parte ch'essa ha nell’azione, abbia anche quella di unire e di combinare le altre cause per farle insieme concorrere, ed in tal caso dare a questa il nome di causa principale. Un esempio potrà molto illustrare quest'idea.

Io veggo in Sparta indeboliti o proscritti tutt'i materiali della cupidigia, della vanità e del timore; io vi veggo moltiplicati ed invigoriti i materiali dell’amor della gloria, della patria e della libertà; veggo con questo mezzo sconosciuta per più secoli l’avarizia e la vanità, indebolita e quasi distrutta la passiune del timore; e veggo la passion della gloria, della patria e della libertà agire con un incredibile vigore. Cerco le cause di quest’effetto, e ne trovo molte, e di diversa natura. Veggo nella fertilità del suo suolo la possibilità di proibire il commercio esterno, e per conseguenza la possibilità di proscrivere l’oro e l’argento. Veggo nell'originario carattere di questo popolo una certa fierezza che apre la strada alle passioni forti e grandi, e mal si combina colle deboli e colle vili. Veggo nella sua situazione, in mezzo a popoli belligeranti, e vicino alla spaventevole potenza di un gran re, (144)una circostanza per indurre il legislatore a renderlo interamente dedito alla guerra, penetrato dalla passione della gloria guerriera e della libertà, inaccessibile al timore, e per avvezzare il corpo e lo spirito alle fatiche, a' rischi ed a' patimenti che porta seco la guerra. Veggo negl’iloti una sorgente di materiali, tutti alti a favorire queste mire; veggo in essi i mezzi, onde dispensare dall’esercizio dell’agricoltura e delle arti i cittadini, per occuparli interamente a ciò che aveva per oggetto la guerra, onde maggiormente allontanarli dall’amor del guadagno che l’esercizio d'un’arte dee necessariamente ispirare, onde facilitare lo stabilimento di quelle pubbliche mense che erano la scuola del patriottismo e della sobrietà, onde finalmente tenere sempre viva innanzi agli occhi l'immagine della servitù, e risvegliare con lo spettacolo de' mali che questa produce l’idea de' vantaggi inestimabili che vanno uniti alla preziosa libertà. Io veggo nella forma, del suo Governo una circostanza la più favorevole ad invigorire e moltiplicare i materiali della passione della patria, ed a render questa comune a tutt i cittadini. Partecipi tutti della sovrana autorità nelle concioni; ammessi lutti alla speranza di poter un giorno aver parte al Senato; a niuno, fuorché all’immeritevole, chiuso l'adito alle magistrature ed alle cariche: qual costituzione più atta ad ispirare per lei il maggior affetto a' suoi cittadini? (145)

Osservo finalmente le leggi di questo popolo, e veggo non solo la parte immediata e diretta che la legislazione ha in questa operazione; veggo e distinguo non solo la sua azione nel concorso delle altre forze, ma veggo in lei la causa che adopra, unisce e combina tutte le altre favorevoli circostanze, ripara a quelle che non lo sono e le dirige tutte al desiderato scopo.

Le leggi sacre che stabilivano il culto degli Dei armati (146)e la massima frugalità ne' sacrificii; (147)le legi mortorie che proibivano il fasto ed il pianto ne' funerali, (148) e negavano l’onore della sepolcrale iscrizione a chiunque non fosse morto indifesa della patria; (149)le leggi agrarie che regolavano la ripartizione de' fondi (150)e l’uguaglianza delle proprietà, (151)e le leggi censorie, (152) ereditarie (153) e dotarie, (154) che la conservavano; le leggi nummarie che bandivano l’oro e l’argento, cilene punivano di morte i detentori, (155) che interdicevano l’esercizio di qualunque arte meccanica al cittadino, (156)e di qualunque traffico o mercenario ministero; (157)le leggi suntuarie che prescrivevano l'uguaglianza e la semplicità nelle vesti (158)e la massima rozzezza ne' mobili; (159)le leggi syssiziache che stabilivano le pubbliche mense e la qualità de cibi che si dovevano in quelle apprestare, (160)e che punivano la pinguedine; (161)le leggi che facevano a spese del pubblico allevare i fanciulli, (162)che li toglievano appena nati dal paterno tetto, che gli avvezzavano fin dalla prima infanzia alla tolleranza del dolore, della fame e delle tenebre; (163)che prescrivevano le pugne degli efebi, (164)che privavano delle prerogative della cittadinanza colui che non aveva potuto reggere alla pubblica istituzione, (165) che stabilendo la dipendenza del più giovane verso il più vecchio, facevano che ogni Spartano vedesse nella patria la sua famiglia e nel concittadino il suo padre, il suo figlio o il suo fratello, (166)che, in poche parole, fin dall’aurora de' suoi giorni gittavano nel cuore del cittadino i germi di quelle passioni che dovevano un giorno dominarlo; le leggi belliche che proibivano d'innalzar mura intorno alla città, (167)che davano a ciaschedun soldato una corona prima d’andare alla pugna, (168)che privavano il fuggitivo, il vile ed il timido dell’altrui consorzio, (169)che promettevano le più grandi distinzioni al più coraggioso ed al più intrepido(170)che rendevano più felice la condizione del guerriero nel campo che nella città.(171) Le leggi finalmente che per riparare agli effetti d'un clima che invita troppo all’amore ed a' suoi eccessi, proibivano allo sposo di coabitare colla sposa; non gli permettevano di condurla in sua casa che di nascosto e per pochi momenti;(172) facevano ballare e combattere nude le donzelle co' giovanetti;(173) le privavano del pudore per privarle d’una parte considerabile delle loro attrattive, e riducevano in questo modo questa circostanza fisica del clima, così contraria al desiderato scopo, nell'impotenza di nuocere al gran disegno: tutte queste leggi, iodico, e tante altre che per brevità tralascio, tendevano o a distruggere ed indebolire i materiali delle vili passioni che si volevano proscrivere, o a moltiplicare e fortificare quelli delle passioni che si volevano stabilire ed invigorire, o ad adoperare, combinare e dirigere le altre circostanze favorevoli che concorrevano a questa operazione, o a prevenire ed indebolire gli ostacoli di quelle che vi si potevano opporre.

Ecco come le fisiche, le morali e le politiche circostanze d’un popolo concorrono ad indebolire o proscrivere alcune passioni ed a stabilirne ed invigorirne delle altre; ed ecco come senza intraprendere di valutare il grado di forza, col quale ciascheduna di queste circostanze agisce nel concorso delle altre, noi possiamo dare alla legislazione il primo luogo, come quella che, oltre la parte diretta che ha nel concorso dell’azione, vi ha anche quella che dipende dall’influenza che può avere sulle altre circostanze, per render le une atte a produrre e le altre a non impedire il desideralo effetto.


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CAPO XXXIX

Del nesso delle antecedenti idee, e dell’esame al quale esse ci conducono

Ritorniamo sui nostri passi, e richiamiamo a chi legge il nesso delle nostre idee e l'ordine del nostro ragionamento.

Abbiam veduto che l’uomo non può essere felice senza esser libero e dipendente. Abbiam veduto che per combinare la libertà colla dipendenza, bisognava combinare la volontà col dovere. Abbiam veduto che questa combinazione non è impossibile, perché non è né contro la natura dell'uomo, né contro, la natura della società. Abbiam veduto che non è inconseguibile, perché l’. esperienza ci fa vedere che si è più volte conseguita. Abbiam in oltre veduto, che siccome le leggi determinano il dovere, così l’anior di noi stessi determina la volontà. Abbiam veduto che quest'amor di noi stessi è l’unica passione originaria dell’uomo, inseparabile dalla sua natura e per conseguenza universale e costante. Abbiam veduto che tutte le altre passioni non sono né originarie, né universali, né costanti, perché se sono conosciute dall’uomo in uno stato, gli sono ignote in un altro; se dominano alcuni uomini, alcuni popoli, in alcuni tempi, sono senza alcun vigore presso altri uomini, altri popoli ed in altri tempi. Abbiam veduto che tutte quest'altre passioni non possi no dirsi naturali, se non in quanto si considerano come modificazioni di quell’unica passione originaria; ma sono in tutto il resto fattizie, perché queste modificazioni sono da esterne cause prodotte. Abbiam veduto che queste esterne cause, che noi abbiam chiamale materiali, di queste fattizie passioni, si moltiplicano a misura che gli uomini si allontanano dallo stato selvaggio e si avvicinano allo stato civile.

Giunti in questo stato, dicemmo che le diverse circostanze fisiche, morali e politiche de' diversi popoli, indebolendo o proscrivendo i materiali d’alcune passioni, ed invigorendo e moltiplicando quelli di alcun altre, indeboliscono, restringono o proscrivono con questo mezzo alcune passioni e ne introducono, stabiliscono, estendono, invigoriscono delle altre; e da questa operazione, dicemmo, più che da ogni altro procede il destino de' popoli e lo stato de' loro costumi. Dicemmo che prospera il popolo, fioriscono i costumi, quando le passioni introdotte, stabilite, estese, invigorite, sono atte a produrre la combinazione della volontà col dovere; languisce il popolo, si corrompono i costumi, quando le passioniintrodotte, stabilite, estese, invigorite, non sono atte a combinare la volontà col dovere.

Abbiamo esaminata la prima di queste proposizioni, ed abbiam veduto come dal concorso delle fisiche, delle morali e delle politiche circostanze d'un popolo effettivamente proceda la formazione delle sue dominanti passioni. Abbiam veduto che la legislazione merita tra queste il primo luogo, come quella che oltre la parte diretta che ha nel concorso dell’azione, ha anche quella che dipende dall’influenza che può avere sulle altre circostanze per combinarle, comporle, dirigerle, modificarle. Abbiam veduto come essa può accrescer la forza delle favorevoli, ed indebolire o distruggere l’opposizione delle contrarie, e render le une atte a produrre e le altre a non impedire il desiderato effetto.

Illustrata questa prima proposizione, conviene ora esaminare la seconda. Conviene vedere come dalla formazione delle passioni dominanti de' popoli dipenda in fatti il conseguimento o lo smarrimento del proposto fine Come queste uniscano o separino la volontà ed il dovere, e come da questa unione o da questa separazione proceda il destino de' popoli e lo stato de' loro costumi..

Ecco ciò che si dee da nói osservare, se vogliamo procedere con quell’ordine che fa discoprire ed illustrare nel tempo istesso le grandi verità, e rassicura l’autore e chi legge nelle difficili e complicate ricerche.


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CAPO XL

Come dalle passioni dominanti de' popoli proceda il conseguimento o lo smarrimento del proposto scopo

Non abusiamo del nome di passione. Non adopriamo questo vocabolo per indicare i deboli ed effimeri desiderii che vengono e partono da noi, senza neppur lasciare le tracce del. loro rapido e quasi impercettibile passaggio. L'uomo che non viene agitato che da queste deboli, varie e moltiplici forze, non giugnerà mai a sentire il vigore delle passioni; non ne proverà, né ne manifesterà mai gli effetti. Le sue azioni si risentiranno della debolezza e dell'incostanza delle cause che le producono, e l’amor proprio dissipato, diviso, distratto in lui in tante direzioni diverse, seguendo la legge universale di qualunque forza, perderà quell’efficacia che si diminuisce a misura che più si allontana dall’unità nelle sue tendenze. Non vi è che l'unità, o almeno la preeminenza d'un desiderio sopra tutti gli altri, che può costituire la passione. Chiunque tu sei, diceva Omar, che, amante della libertà, vuoi esser rido senza beni, polente senza sudditi, suddito senza padrone; sappi disprezzare la morte. I Re tremeranno innanzi a te; tu solo non temerai alcuno.

Ecco la natura ed il carattere della passione. Essa distrugge le divergenze dell'amor proprio, essa lo concentra nel suo unico oggetto; essa esclude la varietà de' desiderii, o esclude almeno la loro uguaglianza; essa li proscrive o li domina; essa suppone l’unità o la preeminenza d’un solo desiderio sopra lutti gli altri, in maniera che quando tutti venissero a collidersi con lui, tutti dovrebbero cedere alla sua forza, ed a lui solo si apparterrebbe il trionfo.

Considerate da questo aspetto le passioni, noi possiamo senza alcuna esitazione dire che, ancorché tutti gli uomini fossero ugualmente suscettibili di passioni, non tutti gli uomini le sentono; che una gran parte di essi, fluttuanti nella varietà de' desiderii, non saprebbero essi medesimi discernere quale è quello che li domina; o se ve ne è uno che con maggior frequenza li agita, questo non è bastantemente forte per superare nella collisione l’opposizione di tutti gli altri. La loro volontà, debole ed incostante come i loro desiderii, cambia di continuo di direzione, come cambiano le cause che la determinano.

L’opposto avviene nell’uomo agitato da una forte, cioè da una vera passione. La sua volontà, dominata da questa passione, sarà come quella, vigorosa e costante. L’unità o la. preeminenza del desiderio la renderà attiva ed uniforme, come la forza che la determina; e se questa passione si combina col dovere, se questa passione è al grande oggetto conducente, costui solo vorrà vigorosamente, costui solo vorrà costantemente ciò che deve. Senza altri desiderii o con altri desiderii, ma tutti inferiori a quello che forma la sua dominante passione, o che combina la sua volontà col suo dovere, egli o non troverà alcun ostacolo da superare o se ne troverà, questi saranno troppo deboli per far traviare la sua volontà dalla direzione, verso la quale la dominante passione lo spinge e determina.

Per non impedire la combinazione della volontà col dovere, vi è dunque bisogno delle passioni; e per ottenerla vi è dunque bisogno delle passioni conducenti. Ma quali sono queste passioni conducenti?


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CAPO XLI

Proseguimento dell’istesso soggetto
Delle passioni conducenti

Se l’avarizia che condusse i seguaci di Cortez nel nuovo mondo, li fe’ trionfare de' combinati ostacoli del clima, del bisogno, del numero e del valore, con un coraggio così impetuoso come costante; se l’istessa passione fece de' Filibustieri un popolo più meraviglioso forse nelle armi di quanti mai ne abbia a nostra memoria tramandati la vecchia istoria; se la speranza immaginaria delle materiali delizie d’una vita futura fece d’uno Scita fuggitivo (174)il conquistatore del Settentrione, e de' suoi discepoli tanti guerrieri fanatici che, per servirmi dell’espressione di un loro poeta, avidi della morte, la cercavano con furore nel campo e feriti dal colpo fortunato si vedevano cadere, ridere e morire; se coll'istesso mezzo, coll’istessa speranza, colla passione istessa si videro gl’istessi prodigi nel Mezzogiorno; se gli Arabi sotto gli stendardi di Maometto soggiogarono più popoli in meno di un secolo, che non avevano conquistati i Romani in seicento anni di guerre e di trionfi; se il mistico ponte che offriva al coraggioso ed all’intrepido il passaggio nel cielo, e faceva precipitare il timido ed il vile nella gola orribile del serpente che abita la caverna oscura della casa del fumo; (175) '(1)se le belle buri, che aspettavano il guerriero intrepido dopo la sua morte nella reggia del piacere; se queste e le altre delizie di una vita futura, dipinte dall’immaginazione fervida e ferace del voluttuoso Profeta, ispirarono maggior coraggio a' Saraceni, che non ne ispirarono forse al Greco ed al Romano il combinato amore della gloria, della patria e della libertà; non per questo lo Spagnuolo, il Filibustiere, il Celto ed il Saraceno trovava nella passione che lo rendeva così terribile nel campo, quella che poteva renderlo ugualmente virtuoso nella città. Fuori delle schiere l’eroe spariva, e la città non vedeva che gli effetti perniciosi o dell'avidità negli uni; o di una voluttuosa ed insana superstizione negli altri. L’istoria di questi popoli, la sorte che ebbero, lo stato de' loro costumi, sono le pruove indubitabili di questa verità.

Non può dirsi l’istesso del Greco e del Romano. La passione che lo rendeva eroe nel campo, lo rendeva ugualmente virtuoso nella città Egli era l’istesso, all’aspetto dell’estero inimico e dell’ambizioso interno; egli mostrava l’istessa disposizione, allorché si trattava d’ubbidire al Console nella guerra ed al magistrato nella pace; l’istesso braccio che combatteva l’inimico nella legione, salvava la vita del cittadino nella città. Nel Senato, nella Concione, nel Foro e nel Campo l’istessa forza lo spingeva verso la direzione medesima, e l’istessa causa che rendé Camillo il terrore degli Ernici, dei Falisci, de' Vei, de' Volsci, degli Equi e de' Toscani, lo fece risplendere nella Censura; gli fe’ meritare nel Senato il nome di secondo Fondatore di Roma; (176)gli fe’ rendere nell’assedio di Faleria gli ostaggi insieme col traditore che glieli aveva condotti; l’indusse ad esiliarsi da se medesimo, e lo fe’ ritornar nella patria per liberarla due volle da' Galli.

Se tutte le forti, cioè le vere passioni, sono dunque conducenti a' grandi effetti, non tutte sono conducenti al grande effetto che noi ci proponiamo, e che propor si dovrebbe il saggio legislatore. Alcune renderanno un popolo formidabile nel campo, ma non lo renderanno virtuoso nella città; gli daranno una prosperità apparente e rapida, ma non reale e durevole; gli prepareranno un letargo eterno con pochi istanti di un’attiva ed impavida ebrietà. Tali sono quelle che son fondate su’ prestigli e l’errore; tali sono quelle che suppongono la cecità dell’animo, e non la sua elevazione; tali sono quelle che animavano i seguaci d’Odin e di Maometto. Alcune lo condurranno alle ricchezze, alle conquiste, alle più ardite intraprese, ma non a quella virtù civile che combina la volontà col dovere, e che può solo costituire l’umana felicità; tale è la passione che animava i conquistatori del nuovo mondo, tale è quella che rendeva indomabili i Filibustieri, tale è l'avarizia. Alcune potranno armare un popolo contro un altro popolo, potran produrre de' prodigi di valore e di intrepidezza, potran dare guerrieri e martiri, ma non cittadini: tale è lo spirito di rivalità tra le nazioni e tra i popoli, tale è il fanatismo religioso e la furibonda intolleranza. Alcune potranno agire in un Governo, ma non potranno aver luogo in un altro: tale è l'amore della libertà nelle repubbliche. Alcune potranno agire in un tempo, in una circostanza, ma non in tutti i tempi ed in tutte le circostanze: tale è la vendetta ispirata dal torto o dall'insulto che un popolo ha ricevuto da un altro popolo, tale è la speranza di difendersi da un inimico spaventevole, tale è quella di detronizzare il tiranno o di espellere l'usurpatore. Alcune potranno produrre i più grandi effetti in un individuo, ma non potranno agire su di un popolo: tale è l’amicizia e l’amore. Alcune conducono al delitto o al vizio piuttosto che alla virtù: tale è l’odio e l’invidia, tale è la picciola ed insana vanità. Alcune potranno indurre il cittadino a fare ciò che dee, ma non già a volerlo; potranno distoglierlo dal delitto, ma non condurlo alla virtù: tale è il timore. In poche parole, se profondamente si esaminano tutte le passioni, delle quali è suscettibile il cuore dell’uomo, non se ne troveranno che due, le quali, co4 nella guerra come nella pace, così nella Repubblica come nel Regno, così nell’individuo come nel popolo, abbiano in ogni tempo, stabilmente ed in tutte le circostanze questa sublime qualità, e queste sono l’amor della patria e della gloria, allorché sono dal legislatore saggiamente introdotte, combinate, diffuse, invigorite. La prima, madre di tutte le virtù sociali, rende la seconda sorgente fecondissima de' prodigi di queste istesse virtù; l’una presta soccorso all’altra, ed a vicenda si fortificano e fecondano Quando la passion. della patria domina nella maggior parte de' cuori, di che può occuparsi colui che vien dominato dalla gloria? Il pubblico bene, misura della pubblica stima, sarà lo scopo de' suoi gloriosi disegni L’anima penetrata da questa sublime passione, persuasa di non poterla soddisfare che coi meriti verso la patria acquistati, non la cercherà che in que’ detti, in que fatti, in quelle azioni che al gran fine corrispondono; e, simile a quegli astri benefici che spargono il lume e la vita nella sfera della loro attività, dalla quale a vicenda traggono il loro alimento, il suo esempio, i suoi sacrificii, i suoi allori, i suoi trionfi, renderanno dal canto suo più energica e più attiva negli altri la passion della patria con lo spettacolo grandioso che loro offre delle sue virtù, e colla parte che loro somministra della sua gloria.

L’egizia, la persiana, la greca e la romana istoria, l’istoria di tutt’i popoli che si son distinti per la virtù e per la vera e solida prosperità che questa ha loro procurato, non è che una pruuva continua di questa verità. Lasciamone dubitare coloro che sono o troppo vili o troppo corrotti per poterla conoscere; e noi, meno inutili di essi nel mondo morale, invece di perdere il nostro tempo a persuaderli, impieghiamolo con maggior profitto nell'indicare le strade, per le quali queste due passioni possono esser condotte in un popolo, ed i mezzi che il legislatore deve impiegare per stabilirle, combinarle, espanderle, invigorirle.


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CAPO XLII

Dell'amor della patria e della sua necessaria dipendenza dalla sapienza delle leggi e del Governo

Non confondiamo le idee le più distinte tra loro. Non abusiamo del sacro nome di amor della patria per indicare quell’affezione pel patrio suolo, ch'è un’appendice de' mali istessi delle civili unioni, e che si può ritrovare così nella più corrotta, come nella più perfetta società. Nell’una e nell’altra l’uomo civile non gode, per così dire, de' beneficii della natura che nella sua infanzia. A misura che le sue forze ed il suo spirito si sviluppano, egli perde di veduta il presente per occuparsi dell avvenire. L’età de' piaceri, il tempo sacro che la natura ha destinato al godimento, si passa nelle speculazioni e sovente nelle amarezze. Agitato da timori e da speranze, dominato da passioni o virtuose o vili, il cuore si rifiuta ciò che desidera;si rimprovera cièche si ha permesso e viene ugualmente tormentato dall’uso e dalla privazione de' beni, ch'eccitano i suoi appetiti Correndo di continuo presso un’immaginaria felicità che ha sempre smarrita, l’uomo ritorna sospirando su’ suoi primi anni, che un immenso numero di oggetti sempre nuovi manteneva in un sentimento continuo di curiosità e frequente di godimento. La rimembranza di questi innocenti piaceri occupa sovente gl’intervalli delle sue penose cure, e, abbellendo l'immagine della sua culla, Io conserva o lo riconduce nella sua patria. Ecco la vera e la comune causa di quell’affezione pel patrio suolo che si ritrova così nelle più corrotte, come nelle più perfette società; ma che è ben diversa da quell’amor della patria, del quale noi dobbiamo qui parlare.

Questa passione è, come tutte le altre, una modificazione dell’amore di noi medesimi; questa passione è, come tutte le altre, fattizia; essa può esser dominante ed ignota; essa può esser senza alcun vigore in un popolo e può esser onnipotente in un altro. La sapienza delle leggi e del Governo l’introducono, la stabiliscono, l’espandono, rinvigoriscono; i vizii dell’uno e delle altre l’indeboliscono, l'escludono, la proscrivono.

Per convincercene, supponiamo un popolo istituito a seconda del sistema legislativo che forma l’oggetto di questa opera. Supponiamo che la parte politica ed economica del'e leggi abbia diffuse le proprietà e moltiplicato il numero dei possidenti; abbia distrutte e prevenute le cause che producono l’eccesso dell’opulenza da una parte, e l’eccesso della miseria dall’altra; abbia facilitati i coniugii col facilitare i mezzi della sussistenza; abbia diminuito e reso quasi nullo il numero di coloro che non han patria, perché non hanno né fondo né famiglia; supponiamo che abolendo una truppa mercenaria che impoverisce e spaventa il popolo, vi abbia sostituita una truppa civile che rassicura il cittadino e la patria, che garantisce l'uso dell'autorità e non l’abuso, e che rende nel tempo stesso più forte lo Stato e meno arbitrario il Governo, più vigorose le leggi e meno diffidente il popolo, più libero il cittadino e meno odiosa la dipendenza; supponiamo che questa parte della legislazione, dissipando gli ostacoli che si opponevano al progresso dell’agricoltura, delle arti e del commercio, abbia favorito il benessere del popolo e la pubblica prosperità; che correggendo il sistema de' dazii abbia impedite le vessazioni, le frodi, le ingiustizie, le miserie, le guerre, le violenze e gli odii reciproci tra chi comanda e chi obbedisce, tra coloro che governano e coloro che sono governati, e tutti gli altri mali che nello stato presente delle cose producono; supponiamo

finalmente che, promovendo la ripartizione e la diffusione delle ricchezze, abbia promossa quella della felicità. Supponiamo che queste leggi che provveggono alla conservazione del popolo, sieno state seguite da quelle che provveggono alla sua tranquillità; supponiamo che una saggia legislazione criminale abbia fondala la libertà civile del popolo sui due cardini della tranquillità pubblica, che sono la massima sicurezza dell’innocente ed il maggiore spavento de' rei; supponiamo che la correzione della criminale procedura, la ripartizione delle giudiziarie funzioni, la soppressione di quella gerarchia barbara che cagiona l’oppressione, l’avvilimento e l’ingiustizia in una parte della nazione e l'indipendenza nell’altra, e la perfezione del Codice penale, abbiano già prodotto questo salutare effetto. Supponiamo che un piano di educazione pubblica simile a quello che si è da noi proposto, sia stato adottato; che tutt’i figli della patria fossero fin dalla loro infanzia educati dalla madre comune; che la loro educazione diretta dal magistrato e dalla legge avesse già distrutti e prevenuti gli errori, diminuita l’ignoranza, preparata la rettificazione dell’opinione pubblica, moltiplicati e fortificati i vincoli della civile unione, approssimate le varie condizioni e prevenuti una gran parte de' tristi effetti della loro inevitabile disuguaglianza; ch'elevando gli animi delle classi infime", e prevenendo la vanità e l’orgoglio delle classi superiori, avesse rese le une e le altre atte a sentire l’impero delle due passioni che si vogliono introdurre, stabilire, espandere ed invigorire Supponiamo che l’esempio, le istruzioni, i discorsi del magistrato e gli altri mezzi diretti ed indiretti dalla legge prescritti e da noi indicati, avessero a questo gran fine corrisposto. Supponiamo che quell’altra parte della legislazione che si propone l’espansione de' lumi e della pubblica istruzione, secondando ciò che si è dalla pubblica educazione preparato, avesse reso il popolo bastantemente illuminato per conoscere la sua felicità e per valutare il vantaggio inestimabile d’appartenere ad una patria, di dipendere da un Governo, e d’esser regolato da leggi che da tutte le parli gliela procurano e somministrano. Supponiamo che le leggi che riguardano la religione, nel tempo istesso che proteggessero questa forza divina che può produrre tanti beni nella società, corretto avessero l’abuso che se ne è fatto e che ha prodotti tanti mali; che distruggendo la differenza assurda tra gl'interessi e le massime del Sacerdozio e dell’Impero dirigessero all’istesso scopo i sermoni del Pontefice e gli ordini del magistrato, i doveri del credente e quelli del cittadino; supponiamo che il recinto del tempio, innalzato dentro le mura della città, indicasse al sacerdozio i principii che da questa posizione dipendono; che, in poche parole, l’Altare, il Tempio, la Reggia ed il Fòro fossero ugualmente impiegati ad ispirare ristesse virtù a' cittadini, l'istesso amore per la patria, ed il rispetto medesimo per le sue leggi. Supponiamo che quell'altra parte della legislazione che ha per oggetto le proprietà e gli acquisti, sostituendo la chiarezza, l’uniformità e la precisione all’incertezza, alla confusione, all’immensità del numero, ed alle contraddizioni delle leggi che oggi compongono queste parte del dritto, sostituita avessero la sicurezza, la concordia e la pace, all'incertezza, ai rischi, agli odii ed a' litigii che oggi atterriscono, desolano e dividono i cittadini. Supponiamo che le leggi che riguardano la patria potestà ed il buon ordine delle famiglie, avessero portalo nelle mura domestiche quell’ordine ch'è tanto più necessario alla nostra felicità, quanto più da vicino e più di continuo ci riguarda. Supponiamo che la sapienza delle leggi, combinata colla forma del Governo, regolato avesse in modo la ripartizione del potere e l’emanazione dell’autorità, che niun individuo dello Stato fosse per la natura della sua condizione escluso dalla possibilità di parteciparvi; supponiamo che le generali regole da noi stabilite sul rapporto tra le leggi ed il principio che anima tutt’i Governi, fossero state seguite, e che co' mezzi in quelle indicati e che nello sviluppo del nostro legislativo sistema sono stati e saranno costantemente adoprati, ottenuto si fosse che l'amor del potere, questo principio di azione inseparabile dall'uomo civile, perché procede dalla perdita dell’indipendenza e dal desiderio di riacquistarla, venisse così ben combinato coll'amor della patria, che dovesse a questo servire, che dovesse questo invigorire, che dovesse questo espandere e conservare. (177)Supponiamo finalmente che la sapienza del Governo, secondando quella delle leggi, ne conservasse religiosamente il vigore, ne secondasse costantemente lo spirito, prevenisse quella differenza perniciosa tra la legislazione e l’amministrazione, e facesse questa a quella servire. Ciò supposto, chi non vede che in questa ipotesi che noi abbiamo il dritto di considerare, come un dato conceduto da chi legge, perché non suppone altro che l’esecuzione del sistema legislativo istesso che si è da noi immaginato; chi non vede, io dico, che l’amor della patria verrebbe da tutte le parti introdotto, sostenuto, diffuso, invigorito presso questo popolo; chi non vede che i varii desiderii, i varii interessi, le speranze diverse del cittadino si verrebbero tutte a combinare con questa passione, e come ne' pochi casi di collisione ceder dovrebbero alla sua forza, da tante parti sostenuta ed invigorita; chi non vede che la volontà sarebbe ammirabilmente combinata col dovere in questa fortunata società; e che per condurre quest'amor della patria a quello entusiasmo ch’è l’ultimo grado della passione, altro non si richiederebbe che somministrare al popolo gli esempi luminosi di quelle straordinarie virtù che il legislatore dee cercare nella seconda delle due passioni, che noi abbiamo scelte come conducenti, la quale, come si è detto, (178)allorché domina in una porzione degl’individui di quell'istesso popolo, ove regna l'amor della patria, riceve da questo la direzione, serve a questo di sprone, conduce coloro ch'essa domina all'istesso fine, comunica agli altri co' suoi effetti la sua energia, e produce nell’intero popolo que’ prodigi che noi con sorpresa leggiamo nell’istorie di alcuni popoli e che sono e saranno sempre considerati come favolosi o come inconseguibili da coloro che osservano gli effetti senza esaminarle cause, e che troppo alieni dalle grandi passioni, ignorano fin dové possa giungere negli uomini il fanatismo istesso della virtù? Il seguente Capo renderà più luminosa questa importante verità.


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CAPO XLIII

Appendice all’antecedente Capo
Su gli effetti della passione della gloria in un popolo, ove regna quella della patria

Quando con imponente e terribile, cerimonia il Romano si consecrava alla salute della patria; quando nelle pubbliche calamità o negli orrori di una sanguinolenta sconfitta i creduli figli di Quirino, atterriti dagl'indizii dello sdegno degli Dei, e della congiura delle infernali Divinità, trovavano nel volontario sacrificio di un solo l’unico rifugio della loro salvezza;, quando il cittadino illustre, il guerriero o il Console, assistito dal Pontefice, con religioso e solenne rito (179)richiamava sopra di sé tutta l’esecrazione degli Dei, e terminata la cerimonia eseguiva la terribile promessa; quando Curzio si gittò nella voragine (180)e i tre Decii si precipitarono nelle schiere inimiche, (181)era forse l’amor della gloria, piuttosto che quello della patria, la causa immediata di questi prodigi; ma questo istesso amor della gloria che in Francia indusse Richelieu a mandare nell’istesso giorno un’offerta a Cornelio, per indurlo a cedergli il Cid, ed un ordine a' suoi confessori di pubblicare ch’egli non aveva mai mortalmente peccato, per aver la gloria di risplendere ugualmente nella Reggia, nel Concistoro, sul teatro e sull’ara; (182)quest’istesso amor della gloria, io dico, non produceva in Rima che le azioni necessarie o utili alla salute della Repubblica, perché non vi erano, se non queste, che in un popolo ove regnava l’amor della patria, richiamar potevano la pubblica stima e l’universale applauso.

Ecco il primo effetto dell'amor della gloria in un popolo, ove regna quello della patria. Da questo primo effetto ne dipendo un altro.

La moltitudine, sebbene animata presso questo popolo da una forte passione, quale è quella della patria, ha nulladimeno bisogno di alcune scosse, di alcuni esempi, atti a comunicarle quella straordinaria energia che in alcuni casi è assolutamente necessaria alla salute della Repubblica, e che può solo liberarla ne' gravi rischi e ne' straordinarii accidenti. Allorché per un effetto del regnante amor della patria, quello della gloria non può produrre che i prodigi di patriottica virtù, queste scosse, questi esempi sono ordinariamente somministrati da coloro che la più forte di tutte le passioni, cioè quella della gloria, agita e tormenta. Scevola, Curzio, Attilio, i tre Decii, avidi della gloria, la cercano ne' tormenti e nella morte per la pubblica salute. Il popolo non vede la causa, ma osserva gli effetti; la virtù sola apparisce, la passione si nasconde. L’entusiasmo dell’individuo si comunica alla moltitudine;l’energia di una passione si comunica all’altra; il popolo corre ove l'eroe lo chiama; e ciò che Vamor della gloria ha prodotto in un solo, quello della patria lo produce quindi nella moltitudine, che non aveva bisogno d’altro che d’una scossa, d’un esempio, per conoscere fin dové può e deve giugnere la virtù. Le pruove di questa verità che ci somministra l’istoria, sono pressoché infinite. Ogni pagina di Livio, di Plutarco, ecc., ne è un argomento. Profittiamone per conoscere i vantaggiosi effetti della passion della gloria in un popolo ove regna quella della patria, profittiamone per conoscere la straordinaria energia che questa da quella riceve, profittiamone più d’ogni altro per mostrare al legislatore l’importanza d’introdurre, stabilire, espandere, invigorire questa regina di tutte le passioni, il sublime ed alla più gran parte degli uomini ignoto amor della gloria. I mezzi che la legislazione deve impiegarvi, formeranno il soggetto del seguente Capo.


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CAPO XLIV

De’ mezzi che la legislazione deve impiegare per introdurre, stabilire, espandere, invigorire la passion della gloria

Siccome tutte le parti d’una saggia legislazione si prestano a vicenda un reciproco soccorso; siccome quello, al quale l’una più da vicino o più direttamente tende, viene dalle altre o indirettamente, o più da lontano preparato e disposto, siccome ciaschedun effetto è sempre in essa il risultato del concorso di molte cause, la più immediata delle quali non fa che dare l’ultima spinta; così coloro che quest’arte arcana ignorano, o non comprendono, limitando i loro sguardi soltanto all’ultima, alla più immediata, ed alla più apparente causa, sono sorpresi nel vedere la picciolezza del mezzo e la grandezza dell’effetto, e trovano il prodigioso o l'inconseguibile in quello che non è che regolare o necessario. Essi oppongono l’idea di prodigioso al fatto, e quella d’inconseguibile a ciò ch'essi chiamano sogni platonici, vane ed oleose speculazioni della povera ed insana filosofia. Ecco ciò che produsse in altri tempi un’ignoranza simile delle forze della natura e della loro conspiranza. I nostri barbari padri trovavano da per tutto de' miracoli o de' maghi, e con uguale ingiustizia conducevano alcuni uomini sull’altare, ed altri alla berlina o al rogo. (183)

Négli uni né gli altri sarebbero urtati nell’istesso errore, sarebbero stati sorpresi dall’istessa meraviglia, avrebbero commessa l'istessa ingiustizia, se conosciuto avessero che così l’Autore della Natura, come il legislatore sapiente tutto opera per concorso di cause e di forze; che quella che essi credono la causa assoluta d’un effetto, non è che la più immediata e la più apparente, ma che è molto lontana dall’esser l’unica; che un immenso numero di altre cause concorrono colla sua azione; e che della maniera istessa che molte picciole forze unite compongono una gran forza, così quel mezzo che isolato sarebbe troppo picciolo per produrre quell’effetto, diviene efficacissimo, allorché viene a tanti altri mezzi, a tante altre cause, a tante altre forze combinato ed aggiunto.

La natura produce i più grandi effetti colle più picciole cause; ma in qual modo? Distruggendo l’equilibrio. Una mezza dramma può far passare dalla quiete al moto due masse di un peso immenso, quando la quiete dipendeva dall’equilibrio, e la mezza dramma l'ha distrutto. Ma l’azione della mezza dramma avrebbe essa prodotto quest’effetto senza l’azione dell’intera massa, alla quale è stata aggiunta? La sola azione della mezza dramma apparisce all’occhio volgare, quella della gravità dell'intera massa gli rimane occulta. Ecco la sorgente del maraviglioso, del prodigioso, dell’inconseguibile, di questi giudizii così frequenti nella bocca dell’ignorante e dello stolto, e così rari in quella del dotto e del saggio.

Per prevenire simili opposizioni, ho creduto necessaria questa premessa. I mezzi che io qui proporrò per introdurre, stabilire, espandere, invigorire la passion della gloria, non saranno altro che le cause le più immediate, le più apparenti di questo desiderato effetto; ma esse suppongono il concorso di tante altre cose, di tante altre forze, di tanti altri mezzi che dall'intero sistema legislativo, che forma l’oggetto di quest’opera, dipendono. Esse suppongono la distruzione dì tutti que’ mali, e la riforma di tutti quegli abusi cheavviliscono, degradano, opprimono una parte del popolo, e rendono l’altra orgogliosa ed insolente, che cagionano o. perpetuano l’eccesso della miseria da una parte e l’eccesso dell’opulenza dall’altra; ch’espongono la moltitudine alle oppressioni, ed incoraggiscono i pochi alle violenze. Esse suppongono il conseguimento di tutti que’ beni, ed il vigore di tutte quelle leggi che, moltiplicando e facilitando i mezzi della sussistenza, rendono il cuore di ciaschedun cittadino suscettibile di que’ sentimenti che non possono penetrarvi, quando quello della miseria l’occupa e l’opprime interamente. Esse suppongono la formazione ed il vigore di tutte quelle leggi che, uguagliando le forze individue di tutt’i membri della società sotto la protezione della forza pubblica, se non distruggono la disuguaglianza delle condizioni, distruggono quella della civile libertà. Esse suppongono finalmente le tante disposizioni, che nel nostro piano di pubblica educazione abbiam date per togliere gli ostacoli, e per favorire l’introduzione, così di questa, come dell’altra conducente passione, della quale si è parlato. Tutte queste concause e quelle che queste suppongono, debbono concorrere con quelle che io son qui per proporre, se si vuol conseguire il desiderato effetto.

Premessa questa protesta, vediamo ora quali sono questi mezzi che si debbono semplicemente considerare come le ultime e le più immediate e dirette tra le tante cause che sì richieggono per introdurre, stabilire, espandere, invigorire la passion delta gloria. Niuno sarà sorpreso che io cominci da dové le moderne leggi si tacciono; da quel mezzo, del quale i moderni Governi o non fanno uso o abusano, dagli onori, io dico, e da premii.

I nostri Governi han smarrito il rapporto che passa tra questo mezzo ed il fine che noi ci proponiamo: essi l'han smarrito e dovevano smarrirlo. Nell'assenza di tutte quelle concause, delle quali si è parlato, che potevan mai da questa sola ottenere? 0 dovevan dunque abbandonare il mezzo, o dovevano destinarlo ad un altro uso. Ecco ciò che si è fatto. Esi dispensano onori, concedono premii; ma né gli uni né gli altri hanno il minimo rapporto colla passione, alla quale noi vogliamo che servano. Essi ricorrono al danaro per premiare il merito, ed agli onori per decorare la nascila, le condizioni, le cariche. Essi alimentano l’avarizia e la vanità, sole passioni che infelicemente regnano tra noi, e possono regnare tra' vizii delle nostre leggi e tra gli errori della moderna politica. Ma qual urto somministrano essi alla passion della gloria?

Bisogna dunque ricorrere all’antichità, per conoscere il rapporto che vi è tra questo mezzo ed il fine, al quale noi l’impieghiamo. Bisogna ricorrere all’istorie di que’ popoli, presso i quali la passion della gloria ha avuta la maggior forza e l’estensione maggiore, per vederne l’uso, per conoscerne l’efficacia, per determinarne le regole. Patria de' Milziadi e degli Aristidi, patria de' Camilli e de' Fabii, patrie della gloria e della immortalità, voi solo bastate a quest’esame, a voi io mi rivolgo, la vostra istoria è quella che io chiamo in garante de' miei detti, le vostre leggi io consulto per determinare le mie regole su quest'oggetto così importante della scienza legislativa. L'antichità mi offrirebbe molli altri popoli, presso i quali io potrei trovare gl’istessi lumi, gl’istessi soccorsi; ma io preferisco questi due, i costumi e le leggi dei quali sono più note.

Malgrado le tante cause che in Atene ed in Roma concorrevano ad elevare gli animi e ad ispirare l’amor della gloria, nulladimeno i legislatori di queste due repubbliche riconobbero ugualmente l’importanza degli onori e de' premii per sostenere, invigorire e diffondere questa sublime passione. Essi videro che per rendere più vigoroso, più energico, più comune l’amor della gloria, bisognava render rappresentativa la gloria; bisognava dare una veste materiale a questo essere morale; bisognava render sensibile ciò che non lo è; bisognava dare all’opinione pubblica de' segni che n’esprimessero i suffragi, che ne manifestassero il favorevole giudizio, che ne indicassero i diversi gradi di stima e di applauso, che n’evitassero l’incertezza o il dubbio, così nella persona di colui che l’aveva meritata, come di coloro che la formavano. (184) Ecco la vera ed antica origine, il vero ed antico uso degli onori e de' premii. Essi erano i segni del pubblico applauso; essi erano i trofei che annunciavano la conquista della pubblica stima, essi erano lo spettacolo che la ragione cercava a' sensi per agitare i cuori. Sotto quest'aspetto furono considerati da' saggi legislatori di questi popoli, e sotto questo aspetto il rapporto tra il mezzo ed il fine fu massimo, ed il modo, col quale l’adoprarono, fu sapientissimo.

Un breve esame di questa parte delle loro leggi ci farà discovrire i luminosi principii che le diressero, e ci farà, per conseguenza, trovare quelli che diriger dovrebbero i legislatori, pe’ quali io scrivo, se si vuol tendere coll’istesso mezzo e colf istesso uso all'istesso fine.

I. Il danaro non fu mai il soggetto del premio né in Atene né in Roma. Le mense de' benemeriti nel Pritaneo non formavano sicuramente un’eccezione di questa regola. (185) Esse erano una distinzione onorevole e non un premio lucrativo. La frugalità che vi regnava, (186) e l’importanza che davano a quest’onore gli uomini più ricchi della Repubblica, (187) non ci permettono di dubitarne.

I legislatori di questi popoli conobbero dunque che la virtù non si compra, ma si onora; che il premio del servo e dello schiavo non deve esser l’istesso di quello del cittadino e dell’eroe; che l’uomo che ama la gloria non va in cerca di ricchezze, ma di distinzioni e di applausi; che ciò che accresce le sue fortune non fa che uguagliarlo agli uomini più ricchi di lui, ma non distinguerlo dagli altri; che per ispirare, diffondere, invigorire l'amor della gloria bisognava alimentare questa passione e non quella che le è la più contraria; che le ricompense pecuniarie divengono un peso pubblico; che debbono cessare, quando questo peso si rende superiore alle forze di chi deve portarlo; che producono lo smarrimento del fine e la distruzione del mezzo coll’uso istesso che ne fanno; che finalmente dové queste moltiplicano i viziosi e gl’ingrati, le onorarie hanno il doppio vantaggio di elevare gli animi e di guadagnare i cuori, giacche quando il beneficio reca gloria, colui che lo riceve si sforza di farlo comparire anche più grande, colla grandezza medesima della riconoscenza.

Il La legge prescriveva il premio, gli uomini non facevano che concederlo a seconda de' suoi precetti. (188)

I legislatori videro dunque che bisognava dare alcuni scopi fìssi e sicuri alla passione che si voleva proteggere; che non conveniva d’abbandonare la destinazione degli onori e de' premii all’incertezza ed a' capricci dell’arbitrio; che quando la legge non vi s’interponesse, lo splendore d’un’azione più brillante che utile e meritevole poteva in un momento di ammirazione produrre un gran male, poteva distruggere quella proporzione che non è meno necessario di conservare tra i premii e le virtù che tra' delitti e le pene, giacche nuoce meno al conseguimento del fine, al quale debbono servire i premii, l’ingiustizia commessa contro della virtù che la parzialità usata in favore della mediocrità. Il veleno di Socrate gli si opponeva meno che la statua innalzata a Frine; (189)e l’assassinio di Cicerone meno che l’apoteosi della figlia.

III. Le specie degli onori e de' premii erano diverse e molte. (190)La grandezza del merito determinò da principio il valore del premio, ed il valore delpremio indicò quindi la grandezza del merito. Con questo metodo essi ottennero la proporzione tra' premii e le virtù, e prevennero l’avvilimento di questa preziosa moneta senza restringerne l’uso. Se molti erano gli onorati e i premiati, non eran mai molti coloro che partecipavano all’istesso onore ed all’istesso premio. La passion della gloria riceveva frequenti spinte, ed il mezzo, col quale le si davano, non s’indeboliva né si usava.

IV. La maggior solennità, la pubblicità maggiore accompagnavan sempre l’onore ed il premio. Saggia disposizione, che ha il rapporto più immediato e diretto col fine, pel quale questo mezzo si adopra. Lo spettacolo in questo genere di cose giova a chi ne è il soggetto, giova anche di più a coloro che ne sono gli spettatori La passion della gloria viene alimentata ed invigorita nel primo, e viene eccitata negli altri.

V. Presso l’uno e l’altro popolo vi erano alcuni onori, alcuni premii posteriori alla vita. I loro legislatori conobbero dunque che la morte che separa l’uomo da lutto ciò che vive, può esser guardata da un diverso aspetto da colui che dalla passion della gloria viene dominato e diretto. Abbreviare il corso de' suoi giorni per la difesa della patria, era in fatto l’istesso che prolungare quelli della sua gloria, per l’Ateniese ed il Romano. La legge di Solone che proibiva di scrivere sulla tomba il nome de' morti, e che eccettuava da questa proibizione colui ch’era morto in difesa della patria; (191)le altre leggi mortorie che prescrivevano le funebri pompe che si dovevano in questa occasione praticare; (192)le due leggi delle XII Tavole a quest’oggetto relative, (193)erano tutte dirette aprodurre al di là della vita le gloriose speranze del cittadino.

VI. Non tutte le virtù, non tutti i meriti portavan secoloro un premio. In Atene il magistrato che si segnalava con qualche felice impresa, durante la sua magistratura, era quindi coronato; (194)ma in Roma non vi era l’istessa legge. Alcuni meriti al contrario ch'erano premiati in Roma, non lo erano in Atene. Malgrado ciò, le virtù premiate in Roma erano ugualmente frequenti in Atene, e quelle coronate in Atene erano ugualmente frequenti in Roma. Qual principio suppone questo fatto?

Una pruova indubitabile che i legislatori di questi popoli conosciuto avessero quella importante verità da noi poc’anzi stabilita, che in un paese ove regna la passion della patria, basti ispirare quella della gloria, perché questa riceva dall’altra la sua direzione; una pruova che questi legislatori conosciuta avessero l’altra gran verità, che il vero oggetto dei premii sia di favorire la passion della gloria e non altro, è appunto l'osservazione che noi veniam di fare. Questi legislatori conobbero che non bisognava cercare nei premii un compenso della virtù, ma un alimento della gloria. Quando essi avevano ottenuto questo fine, avevano tutto ottenuto dal mezzo, al quale avevano avuto ricorso; le virtù non premiate dalla legge, non per questo non lo erano dalla opinione. Quando la passion della gloria le produceva, la gloria che recavano n’era il compenso. Bastava dunque premiare una parte delle virtù per contribuire anche all’altra, perché bastava d’alimentare, invigorire, diffondere la passion della gloria, per ottenere tutte quelle virtù che da questa passione procedono. La statua di Milziade contribuì forse tanto alle virtù di Socrate, quanto contribuì a quelle di Temistocle.

Che il legislatore non si creda dunque nell’obbligo di premiare tutte le virtù per conseguire il fine, pel quale noi ricorriamo a questo mezzo; che l’esempio de' popoli, presso i quali questo mezzo fu con maggior sapienza e con maggior effetto adoprato, l’incoraggisca e lo diriga; che secondi i luminosi principii che una profonda meditazione sulle leggi di questi popoli ci ha fatto discovrire, e non dubiti degli effetti. Egli darà alla passion della gloria tutto quell'alimento, quell’espansione e quel vigore che questo mezzo è atto a somministrarle, e che le somministrò infatti presso i due popoli, dei quali si è parlato.


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CAPO XLV

Proseguimento dell’istesso soggetto

Apriamo di nuovo i fasti della gloria. Ritorniamo sulla istoria e sulle leggi di que’ popoli, presso i quali questa passione ha ricevuto il maggior fermento e l’estensione maggiore, e non abbandoniamo questi preziosi depositi della sapienza antica, senza averne prima attinti tutti que’ mezzi che al proposto fine conducono, e che per poco che si modifichino, sono e saranno sempre adottabili in qualunque tempo, per qualunque popolo, in qualunque clima e sotto qualunque forma di governo egli viva. Il sistema degli antichi spettacoli si presenta opportuno alla nostra memoria, e ci somministra de' lumi molto importanti all'argomento che si agita.

Questi deboli istrumenti de' nostri piaceri, questi momentanei ed incerti refugi della nostri noia, questi alimenti dei nostri vizii e della nostra mollezza, questi perniciosi sostegni della nostra frivolità, furono tutt’altro presso i popoli, dei quali si è parlato, come tutt’altro esser dovrebbero presso di quelli, ne' quali cogl’istessi mezzi si volesse all’istesso fine pervenire. Il vigore de' corpi, che ha tanta influenza su quello degli animi, la destrezza, l’agilità, la forza ed il coraggio non erano i soli beni che col piacere si combinavano negli esercizii della greca e della romana palestra, e negli spettacoli a' quali questi servivano. La passion della gloria veniva mirabilmente alimentata, estesa, invigorita in questi spettacoli, ne' quali Socrate si faceva un dovere d’intervenire, Platone trovava tanti vantaggi ne' suoi libri delle leggi, (195)Tigrane tanta ragione da temere l’inimico che doveva combattere,(196)e ne' quali Alcibiade riportò tre premii,(197)e Catone si disponeva nella sua gioventù a divenire quel che fu nella sua vecchiezza.

Le corone d’olivo, di lauro, di appio verde o secco, che si davano a' vincitori de' diversi giuochi in Grecia, (198)i premii presso a poco simili che si davano per l’istesso merito in Roma, preparavano quelli che si ottenevano quindi dalla virtù e dai talenti del magistrato e del guerriero. L’istessa passione che faceva meritar questi, faceva quelli conseguire; e l'istessa passione veniva dagli uni e dagli altri alimentata e diffusa. Nel Circo e nel Campo, nella Palestra e nel Foro i sacrificii eran diversi, ma il Nume, al quale si dirigevano, era sempre l'istesso.

Il motivo medesimo che aveva dato origine a diversi spettacoli e che ne regolava la periodica ricorrenza, era sovente all’istesso fine diretto, come quello che rammentava e perpetuava la gloria de' cittadini, che avevano qualche importante servizio prestato alla patria, o favorendola sua prosperità, o impedendo la sua rovina.

La gloria degli eroi che avevano vinto in Platea, i talenti, le virtù, il valore di Pausania e d’Aristide, il greco sangue sparso su quelle istesse arene per la comune salvezza, si manifestavano insieme cogli Atleti a' popoli spettatori, ne' Giuochi Eleuteri, detti della libertà. (199) Le lodi di Armodio e di Aristogitone facevano un soggetto di premio nella pugna musica e poetica da Pericle istituita nelle Panatenee d’Atene. (200)Quelle di Trasibulo vi furono quindi aggiunte per premiare coll’istesso onore la medesima virtù. (201)IGiuochi onorarli de' Romani non erano chiamati con questo nome che per la loro destinazione; essi eran diretti ad onorare coloro che avevano qualche importante servizio prestato alla patria.

I Giuochi plebei rammentavano l’espulsione de' Re, e la virtù di Bruto. (202)Il quarto giorno de' Giuochi massimi perpetuava la gloria di Camillo che aveva conciliato il Senato ed il popolo. (203)I Giuochi Capitolini la risvegliavano anche di più; (204)quelli di Castore e di Polluce rammentavano i rischi, ne' quali si trovava Roma, quando Postumio ascese alla Dittatura per liberamela. (205)Ognuno sa finalmente quanto i Giuochi trionfali corrispondessero a queste grandi vedute de' loro istitutori.

Ecco come una quantità d’idee, le più diverse tra loro, venivano dalla sapienza delle leggi presso questi popoli associate, per isvegliare di continuo quella che aveva per oggetto la passione che si voleva di continuo ravvivare; ecco come i loro saggi legislatori trovarono ne' piaceri istessi tanti mezzi da promuovere, diffondere ed invigorire la passione che volevano proteggere; ecco come ottennero che gli spettacoli pagassero varii ed importanti tributi all’utilità pubblica; ecco come somministrando agli uomini de' piaceri utili, essi impedirono che da loro medesimi se ne formassero de' perniciosi; ed ecco come seppero servirsi dell'istinto

che conduce i giovani all’azione ed al piacere, per abituarli all’ordine, alla tolleranza della fatica, al vigore del corpo, all’energia dello spirito, all’entusiasmo della gloria, e per garantirli dall’ozio, sempre seguito dalla noia, dalla frivolità e dal vizio, e sempre distruttore delle grandi ed utili passioni.

Che possiamo noi opporre a piaceri sì ben diretti? Qual cura di questi prendono le nostre leggi? Qual uso fanno esse di questo mezzo? Qual'è la natura e quali ne sono gli effetti ne' moderni popoli dell’Europa?

Ah! l’esame sarebbe troppo ignominioso, ed il parallelo troppo umiliante. Risparmiamo a' nostri contemporanei il di. spregio d’una più virtuosa posterità; non dividiamo l’ignominia delle nostre leggi e de' loro autori con coloro che ne sono le innocenti vittime. Che potremmo noi essere, quando esse non ci permettono di esser altri di quel che siamo? Quel che si poteva far da noi senza il loro soccorso, non si è forse da noi fatto? Chi ha corretta la nostra Scena, chi ha emulata la Tragedia antica, chi ha superata l’antica Commedia? Qual’è la legge che ha dettati i capi d’opera di Racine, di Corneille, di Maffei e di Voltaire? Qual’è quella che gli ha indotti a porre sul teatro la virtù per renderla gloriosa o amata e sempre grande nella depressione istessa? Qual’è quella delle nostre leggi, che ha indotti questi uomini ad eccitare quelle passioni, che esse o distruggono o impediscono di nascere? Qual’è quella che gli ha indotti a rendere abbominevole il giuoco, la crapula, l’intrigo, la galanterìa, la mala fede, l’ipocrisia, l’amicizia falsa e la perfidia? Qual’è quella che ha fatta loro sì opportunamente impiegare la pungente spada del ridicolo contro i pregiudizii, l’ignoranza, la frivolezza e la vanità? Qual'è quella finalmente che ha fatto loro diriger la tragedia a mostrare a' Re ed a coloro che li consigliano, gli effetti spaventevoli della tirannia e dell'ingiustizia, dell'ambizione e del fanatismo, della debolezza e della ferocia, dell’onnipotenza del Monarca e della servitù del popolo, de' delirii dell’uno e de' risentimenti dell'altro? Una pruova che tutta l’ignominia deve sulle leggi cadere, sono gli ostacoli che esse oppongono a' loro sforzi. Nel mentre che la nostra Scena potrebbe esser costantemente onorata dalla virtù e dal buon gusto, esse tollerano che sia sovente deturpata dal vizio e dall’ignoranza. Nel mentre che gli Euripidi e i Sofocli del secolo, persuasi come Platone del vigore che acquista il talento del poeta, allorché è unito a quello del musico, avrebbero come essi potuto contribuire a risvegliare con questa forza combinata le grandi passioni, le leggi autorizzano e perpetuano su’ nostri teatri una specie di dramma ed una musica che non alimentano altra facoltà dell'uomo, se non quella di ridere sulle maniere grossolane ed oscene, che si trasmettono o si perpetuano nel popolo, per l’applauso che richiamano sulla Scena. Nel mentre che la penna benefica de' virtuosi poeti s’impegna a condurre sul teatro gli Scipioni e gli Attilii, i Catoni e i Bruti, le leggi considerano come infami le persone che debbono rappresentarli, e condannandole ad una ignominia tanto perniciosa quanto ingiusta, sono esse medesime quelle che le inducono spesso a meritarla; giacché un’accusa falsa produce sovente de' delitti veri. (206)Quali effetti possono produrre le invettive di Catone e le aringhe di Bruto sulle labbra d’un uomo, al quale la legge vieta fino di far da testimonio, e che una turpe mutilazione, alterando la sua voce, ci fa sempre dubitare nel sentirle, quale de' due sensi, se quello dell'orecchio o quello degli occhi c'inganni? Qual effetto possono produrre i detti di una Lucrezia che dal postribulo è passata alla scena, e che ha già diviso il resto della notte con una parte degli ammiratori delle sue virtù? Ilteatro, che da quelli virtuosi uomini si voleva ridurre ad esser quel che è stato nella sua origine, la scuola della virtù ed il pascolo della gloria, non è forse, per un effetto di questi errori e di queste oscitanze delle leggi, l’asilo della depravazione e l’alimento del vizio? La corruzione delle donne non è forse in gran parte dovuta alla corruzione degli uomini dalle attrici corrotti? Le loro grazie ricercate, i varii modi di piacere da esse immaginati, la loro simulazione e le loro impudenze, dovevano necessariamente trovare delle imitatrici, subito che avevano degli adoratori. La matrona dové apparire attrice, per piacere all’uomo a vicenda corrotto e corrompitore; e la mano istessa che si sforzava d’innalzare nel teatro sulle rovine del vizio i trofei della virtù, divenne per un effetto di queste leggi l’innocente causa del trionfo opposto.

Ecco come le moderne leggi, senza profittare de' vantaggi degli antichi spettacoli, hanno impediti quelli che potevan produrre i soli che abbian luogo tra noi. Gli uni e gli altri potrebbero efficacemente favorire la passione che noi vogliamo promuovere, quando la legislazione li dirigesse a questo fine, e li facesse insieme colle altre concause, delle quali si è parlato, a questo oggetto concorrere. Per riuscirvi essa dovrebbe prevenire gl'inconvenienti che gli uomini introdussero negli antichi spettacoli(207)e quelli che le leggi hanno introdotti ne' moderni. Essa dovrebbe modificare l’antica palestra e purificare il moderno teatro. Essa dovrebbe da quella proscrivere la ferocia e l’indecenza,(208) e da questo l’inezia, la seduzione e l’infamia. Essa dovrebbe imitare le leggi degli antichi, col dare alla gioventù de' piaceri e degli esercizii che fortificassero il corpo e lo spirito, ed a questi esercizii de' premi che fomentassero la gloria; ma la scelta di questi esercizii dovrebbe esser regolata dalla condizione de' tempi e de' luoghi e dal gran principio dell’opportunità.(209)

Essa dovrebbe dare a questi esercizii una certa varietà ed una certa misura, che ne alimentasse ed accrescesse il piacere e ne prevenisse la dispiacevole sazietà. Essa dovrebbe sottoporli all’inflessibilità delle sue regole, per impedirne ogni perniciosa alterazione e per rendere l’esattezza della disciplina amabile, coll’estenderla fino a' piaceri. Essa dovrebbe con questi esercizii istituire degli spettacoli, e con questi spettacoli rammentare le virtù e la gloria di qualche cittadino meritevole.

Essa dovrebbe doppiamente far servire il teatro alla gloria, e col correggere l’opinione pubblica, nel determinarla a stimare ciò che veramente è stimabile, e col celebrare qualche grande azione di qualche cittadino benemerito, e sovente di qualche contemporaneo illustre. Essa dovrebbe introdurvi quella specie di musica, al cangiamento della quale Platone attribuiva una delle cause della decadenza della sua patria. (210) Per facilitare e moltiplicare gli effetti d'un teatro sì ben diretto, essa dovrebbe renderne libero l’adito ad ognuno; essa non dovrebbe porre una porta mercenaria tra il popolo e le lezioni della virtù; essa non dovrebbe solo distruggere l’infamia di coloro ch'esser dovrebbero i sacerdoti della gloria; essa non dovrebbe soltanto rendere gli attori cittadini, ma dovrebbe impegnarsi a rendere, come in Atene, i cittadini attori. (211) In questo modo, oltre i vantaggi che la legislazione troverebbe ne' piaceri pubblici e ne' pubblici spettacoli, vi troverebbe anche un’altra serie numerosa di mezzi, tutti efficaci ad introdurre, stabilire, espandere ed invigorire la passion della gloria.


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CAPO XLVI

Obbiezioni

Diamo un nuovo passo verso l’evidenza, e somministriamo a questa parte della scienza legislativa tutto quel lume, del quale è suscettibile. Non ci abbandoniamo alla sola penetrazione d’un lettore concentrato e profondo, e preveniamo una obbiezione ch’egli non mi farebbe sicuramente, ma che mi farebbe la maggior parte di coloro che leggeranno questo libro. Non vi è istorico, non vi è moralista, non vi è poeta che parlando della corruzione de' costumi d’un popolo non ne attribuisca la causa alle ricchezze ed alle appendici che da queste procedono. Non vi è alcuno che abbia neppur sospettata la possibilità d’una eccezione a' fatti, a' ragionamenti ed alle declamazioni, sulle quali viene questa opinione poggiata. L’impossibilità di procurare, sostenere e stabilire nello stato presente delle cose la prosperità d’un popolo, senza procurare, conservare e stabilire la ricchezza pubblica, questa impossibilità da noi tante volte confessata e dimostrata in quest’opera, diverrebbe la minore del sillogismo, col quale la maggior parte de' miei lettori crederebbe di gittare a terra tutto l'edificio che abbiamo qui cercato d’innalzare.

Per distruggere questa obbiezione, conviene esaminare quali sono le vere cause, per le quali le ricchezze sono divenute, divengono e potranno sempre divenire le corrompitrici de' popoli; e veder quindi se queste cause avrebbero luogo nel popolo, ove il legislativo sistema, che forma l’oggetto di quest'opera, verrebbe in tutte le sue parti seguito. Ecco il soggetto ed il motivo de' due seguenti Capi, co' quali, eseguendo ciò che nel piano di quest’opera ho promesso, cercherò di distruggere una opinione tanto erronea, quanto comune e perniciosa.


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CAPO XLVII

Delle vere cause, per le quali le ricchezze son divenute, divengono e possono divenire le corrompitrici de' popoli

La natura o, per meglio dire, il suo sommo Artefice ha egli separato sulla terra la virtù dalla felicità, o le ha piuttosto unite co' più stretti rapporti? È forse da supporsi tanta ingiustizia nelle sue leggi, tanta bizzarria e tanta insania nell’emanazioni della sua volontà? Se il volgo crede di trovare più sovente separati che uniti questi due beni, il volgo ha egli le vere idee della virtù e della felicità, del virtuoso e del felice? I suoi giudizii, fondati sull’opinione, debbono forse prevalere a quelli del filosofo, fondati sulla scienza? (212) Qual’è stata su di ciò la maniera di pensare della filosofia antica? Quella filosofia istessa che pare che dia tanto peso all'argomento che contro di noi si produce, ha mai dubitato dell’unione di questi due beni, e dell'indissolubilità de' loro rapporti? In che consisteva la beatitudine di Socrate e la voluttà di Epicuro? Se il primo cercava la virtù nella felicità e l'altro la felicità nella virtù, questo dissenso apparente non supponeva forse un consenso reale sul nesso che unisce l’una all'altra, e che le rende indivisibili?

Tutto il Trattato della Repubblica di Platone, questo capo d’opera della sapienza antica, così spesso citato e calunniato, e così poco inteso; questa immagine politica, destinata a stabilire una verità morale, che altro è, se non una dimostrazione sublime e profonda del nesso, del quale si parla? Che altro era l'imperturbabilità stoica, se non lo sforzo insano di rendere la felicità indipendente dalle cause esterne, per darle quella costanza che si voleva con essa comunicare alla virtù? I Principii di Zenone e la Tavola di Cebete non ci confermano forse, nel consenso delle scuole e delle sètte le più tra loro discordi, sull'indicato nesso tra la felicità e la virtù? (213)

Ma non facciamo a chi legge il torto di dimostrargli ciò ch’egli non dovrebbe né ignorare né contrastare, e di sospettare ch'egli pensi col volgo e col volgo il più grossolano ed ignorante. Passiamo all’oggetto, pel quale noi gli abbiamo rammentato questo principio, ed applichiamolo alla questione che si agita.

Se le ricchezze d’uno Stato conducono alla felicità d’un popolo, perché non dovrebbero condurre alla sua virtù? Per qual motivo quel nesso così indissolubile tra la virtù e la felicità dovrebbe in questo solo caso disciogliersi? Se l’esperienza ci fa vedere la corruzione di alcuni popoli seguire le ricchezze di alcuni Stati, cosa ci deve dire la ragione? Non ci ‘deve forse dire che in questi Stati le ricchezze, invece di conservare ed accrescere la felicità di questi popoli, han diminuita e distrutta quella che avevano? Perché da questi fatti particolari e da quel principio generale non dedurne una conseguenza che combini gli uni coll’altro, e che ugualmente ne dipenda? Perché non dedurne che le ricchezze si oppongono alla sua felicità, e favoriscono la sua virtù, quando favoriscono la sua felicità?

Facciamo di questa conseguenza tanto nuova, quanto luminosa, il soggetto del nostro esame. Vediamo per quali cause le ricchezze possono impedire o distruggere la felicità di un popolo, e noi troveremo le vere cause, per le quali possono impedire o distruggere la sua virtù.

Se un popolo povero e virtuoso conquista e soggioga un popolo ricco; se l’esercito vincitore co' prigionieri fatti nella guerra conduce nella patria i tesori immensi, de' quali ha spogliato il vinto; se le prestazioni e i tributi, a' quali questo vien condannato, prolungano e perpetuano i beneficii della vittoria: questo passaggio rapido' ed istantaneo dalla povertà alle ricchezze favorirà forse la felicità di questo popolo, o lo priverà piuttosto di quella che aveva? Procurate non già da' sudori dell'agricoltore, dall’industria dell'artefice, dalle speculazioni del commerciante, ma dalla violenza delle armi e dall’esito della guerra, quale sarà il loro effetto sul popolo che se ne vede in possesso? L’alienazione dall’occupazione e dal lavoro, l’abbandono all'inazione ed all’ozio, la ricerca vana di tutt’i piaceri inefficaci a favorire la felicità, quando non sono preparati e conditi dalla fatica, la noia inimica della felicità come della virtù, le cabale, gl’intrighi e tutt'i disordini che si rendono necessari all’uomo inattivo ed ozioso, per sentire la sua esistenza; in poche parole, la perdita de' sostegni, e degl’istrumenti più necessari della verp felicità, e l’acquisto delle sorgenti più feconde di corruzione e di vizii. Lo spirito guerriero e le antiche istituzioni resisteranno per qualche tempo alla perniciosa azione di queste forze, ma dovranno alla fine soccombervi. Ecco il caso di Roma e di molti altri popoli della guerriera antichità.

Se uno Stato con mezzi meno violenti e più pacifici acquista delle ricchezze, ma per gli errori delle leggi e pe’ vizii del Governo queste si restringono in poche mani, la felicità del popolo verrà favorita o distrutta da ricchezze sì mal ripartite? La povertà, soffribile nell’uguaglianza, non diverrà essa insopportabile all’aspetto dell'opulenza? Le privazioni, indifferenti allorché s’ignorano i godimenti, seguiteranno forse ad esserlo, allorché questi verran conosciuti? L’umiliazione aggiunta alla miseria non ne duplicherà l’infelicità? La sussistenza non diverrà forse più difficile in un popolo, ove la moltitudine è povera e i pochi son ricchi, che in quello ove tutti son poveri? (214)La libertà civile, che non si può indebolire senza distruggere la felicità sociale, potrà essa conservare il suo vigore tra l’eccesso dell’opulenza e quello della povertà?

Se la felicità della moltitudine povera verrà diminuita e distrutta in questo popolo, quella de' pochi ricchi verrà forse favorita? La loro felicità apparente ed invidiata sarà essa accompagnata dalla felicità reale? L’inazione e la noia non avvelenerà forse i loro piaceri, già indeboliti dalla facilità eccessiva di procacciarseli? La disproporzione tra' bisogni ed i mezzi per soddisfarli non è forse ugualmente contraria alla felicità, quando l’eccesso è negli uni che quando è negli altri? Dopo aver goduto ed abusato di tutt’i piaceri, non ghigneranno essi a quel punto, nel quale gli estremi s’incontrano e si perviene al dolore? L’assenza di tutte le passioni non sovrasterà forse a queste infelici vittime dell'abbondanza e della voluttà? La ricerca vana de' desiderii non sarà forse così dolorosa per essi, come lo sarà per l’altra classe la ricerca inutile de' mezzi per soddisfarli? L’industria istessa che accompagna la mediocrità delle fortune e ne condisce tanto il godimento, non è forse ugualmente lontana dall'estremo della miseria che dall’estremo dell’opulenza?

Se dall'influenza che questa specie di ricchezze ha sulla felicità di questo popolo, noi passiamo a quella che ha sui suoi costumi, non troveremo noi che l’istessa causa che le rende distruttrici della sua felicità, è appunto quella che le rende corrompitrici? Quando le ricchezze sono in poche mani, a che giova la fatica e l’industria per acquistarle? La bassezza, la viltà, la cabala e la frode non diverranno esse le sole strade, per le quali si può passare dalla miseria alle ricchezze e dall’oppressione alla violenza? Il povero che vuol divenir ricco, non dev'egli allora passare per tutt'i punti dell'abiezione, e per conseguenza per tutt'i vizii che questa richiede e suppone? L’avarizia che può non essere la passione dominante di un popolo ricco, quando le ricchezze vi sono ben distribuite, potrà non esserlo in quello ove sono sì mal ripartite? L’uomo che ha come provvedere bastantemente a' suoi bisogni con un moderato uso delle sue forze, ha forse quella disposizione a questa passione che vi ha colui che languisce nell’indigenza? Se in un popolo, ove le ricchezze son ben distribuite, le distinzioni che queste producono sono picciole, ed in quello, ove son mal ripartite, sono massime; dové saranno esse più desiderate ed ambite? Se il primo di questi popoli può esser dominato da passioni grandi e sublimi, come si è da noi provato, potrebbe mai esserlo il secondo? La vanità non dovrà forse in questo popolo dominare ne' pochi ricchi, come l’avarizia deve dominare ne' molti poveri? La noia che conduce alla frivolità, non deve forse condurli alla vanità che n’è la sicura appendice? E queste tre forze combinate, oltre le virtù che impediscono, oltre gli altri vizii che producono, non dovranno forse introdurre la galanteria che terminerà l’opra della corruzione?

La prostituzione pubblica può allignare in uno Stato, in mezzo all'eroismo ed alla virtù, la Grecia e Roma avevano delle cortigiane ne' tempi più felici de' loro costumi; ma la galanteria suppone l’assenza delle passioni che li producono, perché suppone l’azione di molte passioni e tutte picciole, perché suppone l’ozio, la noia e la frivolità. senza delle quali non s’introduce, né si espande. In un popolo ove questa regna, la depravazione del sesso più forte si comunica al sesso più debole, e quella del sesso più debole sostiene, fortifica ed espande quella del più forte.

Le donne sono sempre le ultime ad esser corrotte, ma quando lo sono, esse propagano la corruzione. Esse la propagano col cattivo esempio, coi consigli insidiosi e col ridicolo più pernicioso dell’esempio e de' consigli. Esse la propagano colle grazie, cogli artificii, colle lagrime, con lo sdegno e colla pietà. Esse la propagano colla protezione che danno e procurano agli uomini degni del loro interesse. Esse la propagano coll’impero, che acquistano da principio sulle loro famiglie, e che estendono quindi su’ magistrati e sulle leggi.

Quale potrà essere lo stato de' costumi, quando l’asilo dell’innocenza è distrutto, quando il santuario del coniugio è profanato! Chi arrossirà più quando non arrossiscono le matrone, e chi frenerà la plebe, quando i suoi modelli trionfano nell’obbrobrio e nobilitano la depravazione ed il vizio!

Ecco il caso, in cui si trovano una gran parte de' moderni popoli dell'Europa; ed ecco come quella istessa causa, l’eccesso, io dico, dell’opulenza di pochi e l’eccesso della miseria di molti, che rende le ricchezze che posseggono distruttrici della loro felicità, è appunto quella che le rende corrompitrici de' loro costumi. Proseguiamo quest’importante esame.

Se in uno Stato che si è messo in possessione di ricche miniere, o d’una bilancia esorbitantemente vantaggiosa di commercio, le leggi non han saputo dare uno scolo opportuno alla quantità superflua del numerario che vi si accumula, quale sarà l’effetto di quest’eccesso di ricchezze sulla felicità del popolo? L’apparente ed effimera prosperità che gli daranno, non sarà ben presto convertita in una infelicità reale? Quando l’avvilimento del numerario avrà fatto crescere a dismisura il prezzo delle derrate e delle manifatture; quando, non potendo più reggere alla concorrenza delle straniere, non saranno più né trasportate al di fuori, né consumate nell’interno, che dee divenire il cittadino in mezzo a' suoi tesori? (215) Proprietario, egli non potrà coltivare i suoi fondi; colono, egli non troverà da impiegare le sue braccia; artefice, egli non potrà esercitare la sua arte; negoziante, egli non avrà su che far cadere la sua industria e le sue speculazioni. Misero, infelice ed inoperoso, senza partecipare all’eccesso della ricchezza pubblica, egli sentirà tutto il peso della povertà individua. Egli abbandonerà da principio l’occupazione, l’industria e la fatica, perché non troverà in che impiegarla; e quando l’eccesso sarà sparito, egli l’abborrirà per l’abito e l’affetto che ha contratto all’inazione ed all’ozio. L’ozio stabilirà ed estenderà il tristo e vizioso impero della noia e della frivolità, della vanità e della galanteria. L’amore e l’abito dell’inazione perpetuerà la miseria. La miseria diminuerà i coniugi e moltiplicherà i libertini. Il celibato distruggerà la popolazione, ed i galanti e i libertini corromperanno le donne. Le donne corrotte propagheranno la corruzione degli uomini, e tutte queste forze unite ed altre che per brevità tralascio, e tutte dall’istessa causa originate, cioè dal superfluo arrestato, concorreranno a tenere ugualmente lontane da questo popolo la felicità e la virtù.

Ecco il caso d’alcuni altri popoli dell’Europa. (216)

In qualunque modo noi osserveremo dunque le cose, noi troveremo sempre che quelle istesse cause che possono rendere le ricchezze d’un popolo distruttrici della sua felicità, sono anche le vere cause che possono renderle corrompitrici de suoi costumi.

Ma queste cause avrebbero esse luogo in un popolo, nel quale il sistema legislativo, che forma l’oggetto di questa opera, verrebbe adottato? Le sue ricchezze introdotte, distribuite e conservate ne' loro giusti confini, co' mezzi da noi proposti, potrebbero esse non favorire la sua felicità? e questa favorendo, potrebbero esse non favorire la sua virtù? Molto lontano dall’impedirla, non sarebbero esse tali, quali noi considerate le abbiamo, cioè una delle tante concause che concorrerebbero in questo popolo a stabilire il suo impero sotto gli auspicii delle due passioni, delle quali si è parlato? Vediamolo.


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CAPO XLVIII

Dell'assenza di queste cause in un popolo, nel quale il sistema legislativo, 
che forma l’oggetto di quest'opera, verrebbe adottato

Non smarriamo l’unità, l’ordine ed il nesso delle nostre idee; rammentiamolo anzi a chi legge, e non temiamo di conservare sempre vivo questo lume che con ugual chiarezza manifesta la verità e l’errore, e con ugual vantaggio dilegua i dubbi che potrebbero oscurare l’una, eie illusioni che potrebbero occultare l’altro. Ecco ciò che da noi richiede la scienza; ecco ciò che può far meritare a quest’opera il titolo che porta; ecco ciò che distingue le opere del momento dalle opere de' secoli, ed ecco ciò che ci fa ancora ammirare i libri di alcuni venerandi antichi, e ci farà ben presto obliare quelli di molti rinomati moderni.

Nel secondo libro di quest’opera, quando noi ci siamo occupati delle ricchezze, e de' mezzi che debbono introdurle, distribuirle e diffonderle in uno Stato; quando abbiamo mostrata la debolezza, i mali e i rischi, a' quali la povertà espone un popolo nello stato presente delle cose; quando abbiam considerato l’agricoltura, le arti, il commercio, queste tre sorgenti delle ricchezze, come tanti sostegni necessarii della sua prosperità nell’interno e della sua forza al di fuori; quando abbiam mostrato che la libertà stessa non si potrebbe oggi conservare senza le ricchezze; qual è l’idea che noi abbiamo attaccata a questo vocabolo? Qual’è quella che noi ci siamo formati d’un popolo ricco? Qual’è la ricchezza che noi abbiam desiderata e procurata? Qual’è quella che abbiam temuta ed evitata?

Noi non abbiamo proposta ad un popolo povero la conquista di un popolo ricco; noi non abbiamo considerata la violenza delle armi e la fortuna della guerra, come una sorgente di ricchezze; noi non l’abbiamo annoverata tra' mezzi che debbono introdurle in uno Stato. Noi non abbiamo chiamato popolo ricco quello ove si trovano pochi ricchi e molti poveri; quello in cui sono gran ricchezze, ma in poche mani.

Molto lontanI dal decantare la prosperità d’un popolo, nel quale o per la ricchezza delle sue miniere, o pei beneficii del suo commercio si è introdotta ed ammucchiata una quantità eccessiva di numerario, noi abbiamo anzi mostrati i mali che dipendono da quest’eccesso, e i mezzi atti a prevenirlo o distruggerlo.

Noi abbiam cercato le ricchezze nell’agricoltura, nelle arti e nel commercio; in questi solidi, durevoli e pacifici beneficii della fatica e dell’occupazione degli uomini e della loro industriosa ed energica attività. Noi abbiam chiamato ricco quel popolo, ove le ricchezze son tali e così ben distribuite e diffuse, che ciaschedun cittadino con un lavoro discreto di sette o otto ore per giorno può comodamente supplire a' suoi bisogni ed a quelli della sua famiglia, e dové la quantità di numerario che vi si trova, non è né per lo difetto, né per lo eccesso, sproporzionata al godimento ed alla conservazione di quello stato di prosperità.

Per conseguirlo, le leggi da noi proposte diffonderebbero le proprietà e moltiplicherebbero i proprietarii; distruggerebbero quelle grandi masse che fanno l’opulenza de' pochi e la miseria de' molti; metterebbero nella circolazione que’ fondiche oggi rimangono sempre nelle istesse mani; renderebbero divisibile ed alienabile ciò che oggi è indivisibile ed inalienabile.

Togliendo gli ostacoli che si oppongono ai progressi della agricoltura, delle arti e del commercio, esse toglierebbero que’ mali che producono i miserabili e gli oziosi che distruggono quella proporzione che dee passare tra la fatica e i suoi beneficii, per renderla piacevole, utile e comune; che la rendono odiosa ed insopportabile, perché la rendono insufficiente ed eccessiva; che distruggono l’industria, perché la privano di quella libertà ch'è necessaria al suo movimento ed a' suoi effetti; che, in poche parole, condannano una parte della nazione all’ozio, e l’altra all’infelicità ed a' vizii che procedono da questa doppia origine.

A questi mali ch’esse toglierebbero, esse sostituirebbero que’ beni che darebbero al popolo quell'attività, senza della quale non vi è felicità, quella energia, senza della quale non vi è virtù. Colono o proprietario, commerciante o artefice, il cittadino lontano così dallo stento come dall’ozio, così dalla noia come dal tormento, troverebbe in questi soggetti diversi della sua occupazione e della sua industria un eguale istrumento della sua felicità, un sostegno eguale della sua virtù. Il bisogno di vivere o il desiderio di migliorare la sua sorte non lo condurrebbe nelle sale de' ricchi o nelle speculazioni della cabala e della viltà. Le forze del suo corpo o le facoltà del suo spirito gli offrirebbero mezzi più facili alla sua sussistenza, o campi più vasti alle sue speranze.

La Capitale non sarebbe la voragine delle ricchezze e degli uomini. I mezzi, co' quali le nostre leggi otterrebbero la diffusione delle une, procurerebbero l’espansione degli altri. Meno popolate le città, più popolate le campagne, gli uomini meno uniti e più diffusi sarebbero altresì meno molesti e più tranquilli, più felici e più virtuosi.

L’opulenza pubblica e l’assenza dell’ozio, moltiplicando i coniugii ed impedendo la galanteria, favorirebbero la felicità delle donne e quella degli uomini, e sosterrebbero nelle une e negli altri il dolce impero della virtù.

Le lagrime dell'indigenza e i vapori della noia non chiuderebbero il cuore de' cittadini alle due passioni che debbono dominarli, se si vuole che domini la virtù. La passion della patria e quella della gloria verrebbero anzi ugualmente favorite e dal sentimento della felicità, e dall'elevazione che questo produce nell’animo, e dall’energia che questo stato di prosperità desterebbe in tutte le classi del popolo. (217)

Le contribuzioni dalle nostre leggi prescritte, e per la loro intensità e per la loro natura e pel modo col quale sarebbero percepite, non impedirebbero alcuno di questi felici effetti, non avvezzerebbero alcuna porzione de' cittadini alle violenze, alle oppressioni o alle frodi, non alimenterebbero alcuno de' tanti mali che dipendono da questa origine, né alcuno de' tanti vizii che procedono da questi mali.

Il lusso, che noi abbiamo creduto conducente alla ripartizione ed all'equilibrio delle ricchezze, non si raggirerebbe ad una ostentazione insana, che diminuisce invece di accrescere i piaceri della vita, e che non alimenta che la vanità. Le leggi che proteggerebbero l’agricoltura, le arti ed il commercio, spopolerebbero le sale e le statle de' ricchi; e quelle che garantirebbero la nazione intera dalla vanità, separerebbero la ostentazione dal lusso. Ristretto al godimento delle cose che accrescono l’agio e i piaceri innocenti ed utili della vita, il lusso acquisterebbe allora un’influenza favorevole sulla felicità, e ne acquisterebbe per conseguenza una favorevole sui costumi. Il nesso che unisce la felicità e la virtù apparirebbe ancora nell’alimento che il lusso darebbe alle belle arti, e nel conseguimento degli effetti che dipendono dal rapporto occulto, ma indubitato che vi è tra il bello ed il buono.

La tacita, ma polente influenza delle due passioni, che per tanti mezzi diversi verrebbero introdotte, stabilite, estese, invigorite presso il popolo, a seconda de' nostri principii istituito, estendendosi sopra tutt’i soggetti delle civili azioni, si manifesterebbe spesso nell'uso delle ricchezze private. Una strada pubblica da costruire, un pubblico edificio da innalzare, una calamità pubblica da riparare, una famiglia benemerita della patria da soccorrere, un’utile scoverta da incoraggiare o promuovere, diverrebbero sovente gli oggetti delle spese de' più ricchi e della loro benefica e gloriosa emulazione. La sola nazione dell’Europa, ove queste due passioni conservano ancora qualche vigore, quantunque sieno molto lontane dall'aver quell'impero che dal nostro legislativo sistema verrebbe loro procurato, ci offre molti fatti di questa natura che bastano a giustificare le nostre speranze. Le soscrizioni libere così frequenti in Inghilterra e così ignote altrove, queste soscrizioni che han tante volte difesa la salute della nazione e ne han sempre profferita la gloria, queste soscrizioni che distinguono i ricchi Inglesi da' ricchi degli altri popoli, ci fan bastantemente vedere che le ricchezze alimentano la virtù, quando la virtù è alimentata dalle passioni.

Conchiudiamo. Da quel che si è detto, si può facilmente vedere che niuna delle cause che possono rendere le ricchezze corrompitrici de' costumi d’un popolo, avrebbe luogo in quello, presso del quale il nostro legislativo sistema verrebbe adottato: che ben lungi dal produrre questo male, esse favorirebbero il bene opposto. Esse favorirebbero la virtù, favorendo la felicità; esse la favorirebbero più d’ogn’altro, favorendo il dominio delle due passioni che debbono conseguire la desiderata unione della volontà col dovere, e che, come si è veduto, verrebbero da tante concause introdotte, stabilite, estese, invigorite nel popolo, a seconda de' nostri principii istituito.

Tra queste concause si è da noi annoverata la pubblica istruzione. Vediamone dunque l’influenza, e vediamo quale sarebbe la direzione e l'incoraggiamento che dovrebbe dalle leggi ricevere.


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LIBRO QUARTO - PARTE TERZA

CAPO XLIX

Dell'influenza dell'istruzione pubblica sulla virtù e la felicità de' popoli

L’ignoranza produce l’imperfezione delle leggi e la loro imperfezione cagiona i vizii de' popoli. Gli errori corrompono l’opinione, cioè corrompono ciò ch'è più forte del Sovrano e delle leggi. L’ignoranza nasconde il bene ed il male, l’errore confonde l’uno coll’altro; la prima rende il popolo insensibile al bene che gli si vuol fare, il secondo glielo fa abborrire; l'una scoraggisce la mano benefattrice, l’altro la combatte e la perseguita; e l’una e l’altro impediscono il bene e perpetuano il male.

In una società nascente il popolo può esser virtuoso ed ignorante. Ci vuol poco a far le sue leggi, ci vuol poco a renderle accette: l’evidenza le suggerisce(,)(218)la superstizione le santifica. (219) Ma giunto a quel periodo dello stato civile, nel quale i rapporti si moltiplicano quasi all’infinito, nel quale non più l’evidenza, ma una cognizione profonda e difficile di questi rapporti può Solo suggerire le buone leggi, nel quale non più la superstizione, ma la cognizione di questi rapporti ben combinati può solo renderle accette: in questo stato, io dico, della società, la virtù ha bisogno dell’istruzione pubblica, perché questa è necessaria per dettare le buone leggi, ed è necessaria per farle apprezzare e valere.

L’uniformità, che si trova nel sistema legislativo di tutt’i popoli barbari, ci mostra chiaramente che l’evidenza è quella che suggerisce le loro leggi, perché nell'istesse circostanze tutti hanno le stesse leggi immaginate.

In un popolo virtuoso la conservazione della sua virtù suppone, dunque, l’acquisto delle cognizioni e de' lumi che sono necessarii per sostenerla. In un popolo corrotto il passaggio dal vizio alla virtù suppone, dunque, il passaggio dalla ignoranza all’istruzione, dall’errore alla verità.

Il malvagio, dice. Hobbes, è un fanciullo robusto. Egli non ha più di lui che le forze del corpo, delle quali la provvida Natura ha saggiamente privato l’infanzia, per garantirla dai mali a' quali queste conducono, allorché non sono accompagnate e dirette dalle forze dell’animo. In un popolo nascente la forza fisica della società è proporzionata alla sua forza morale. La debolezza della prima non richiede un gran vigore nella seconda per esser regolata e diretta. Ma se col crescere degli anni le forze fisiche della virilità non sono accompagnate e dirette dalle forze morali di quest’età, il popolo diverrà come il malvagio dì Hobbes, un fanciullo robusto che privo di esperienza, di previdenza, di giudizio e di ragione; guidato dagli appetiti e da' capricci dell’infanzia, convertirà in istrumenti di sciagure, d’infelicità e sovente di morte, quelle istesse forze che, dirette dalla ragione e dalla sapienza pubblica, avrebbero procurata e sostenuta la sua felicità. Un popolo può dunque godere d’una certa prosperità in mezzo all'ignominia, finché è fanciullo; ma egli non può né conservarla nella virilità, né riacquistarla, quando l’ha perduta, senza quelle cognizioni e que’ lumi che l'istruzione pubblica somministra ed espande.

Ecco la vera influenza dell’istruzione pubblica sulla virtù e sulla felicità de' popoli; ed ecco come per l’indicato nesso che unisce questi due beni, essa viene ad influire doppiamente sopra ciascheduno di essi pe’ soccorsi che all’altro offre e procura.

Se gli apologisti dell'ignoranza e quelli del sapere avessero sotto questo punto di veduta osservato quest’oggetto, non si sarebbero a vicenda somministrati i materiali, onde combattersi, e né gli uni né gli altri avrebbero ugualmente abusato dell'istoria, per sostenere i loro opposti partiti. Questa luminosa scorta del moralista e del politico diviene un istrumento di seduzione o di errore per colui che ne abusa o non sa consigliarla. Si è tanto declamato contro il metodo scolastico de' nostri padri, e mi pare che se ne sia introdotto uno peggiore. Si proscrive il ragionamento e si abusa della esperienza. L’istoria ci fa vedere l’ignoranza, ora combinata colla virtù, colla prosperità, colla libertà, ed ora combinata co' vizii, colle sciagure, colla servitù. I partigiani dell’ignoranza hanno rapportati que’ fatti, ed hanno questi taciuti; e quelli dell’opposto partito hanno rapportati gli ultimi, ed han taciuti i primi. Gli uni e gli altri hanno avuti dei seguaci, ma gli uni e gli altri han tradita o smarrita la verità, ed han perpetuato il dubbio che non può esser distrutto che dalla verità. Senza rammentare i fatti troppo noti, su’ quali i partigiani dell’uno e dell’altro partito fondano la difesa della loro causa, che si combinino insieme, e si vedrà ch'essi altro non pruovano che la verità da noi indicata Si vedrà che l’ignoranza compatibile colla virtù e colla prosperità, in un periodo dello stato civile, non lo è negli altri; che i suoi effetti nell'infanzia d’un popolo non sono gl’istessi che nella sua maturità; che in questo periodo la virtù e la prosperità pubblica non può esser né conservata, né riacquistata, senza l’istruzione pubblica; che finalmente l’opera di questa, raggirandosi ne’ termini di sola influenza, non dee considerarsi come atta a produrre da se sola ciò che dipender dee dal concorso di molte altre cause; e che, per conseguenza, tutte le volte che si è trovata isolata e da queste disgiunta, non ha potuto produrre quell’effetto che avrebbe dovuto necessariamente produrre, quando fosse stata con queste concause combinata ed associata. Che si scorra su tutta l’istoria: io son sicuro che non si troverà un solo fatto da opporre a questa verità; si troverà che tutti la confermano; e se non se ne incontrerà alcuno chela stabilisca pienamente, questo non pruova altro, se non che non vi è stato finora alcun popolo, ove tutte le concause che dal nostro legislativo sistema verrebbero messe in azione, abbiano contemporaneamente agito con quella unità di direzione e con quel vigore ch'è lo scopo de' nostri disegni, e sarebbe l’effetto dell’esecuzione del nuovo e vasto piano che forma il soggetto di quest'opera. Che il profondo lettore lo giudichi; che la posterità possa esperimentarne gli effetti, e noi occupiamoci intanto di eseguirne tutte le parti con quell’esattezza che l’importanza della materia esige, e della quale ci siam resi debitori verso l’umanità intera, subito che abbiamo impreso a maneggiarla.

L’istruzione pubblica, della quale noi abbiamo mostrata la necessità e l’influenza, è quella concausa che forma il particolare oggetto di questa parte della scienza legislativa. Ma siccome le varie parti d’una saggia legislazione si prestano e debbono a vicenda prestarsi degli scambievoli e reciproci soccorsi, così conviene prima d’ogni altro esaminare, quali soccorsi l’istruzione pubblica verrebbe a ricevere dalle altre parti del nostro legislativo sistema, e passare quindi a vedere, quali sarebbero quelli che da questa parte, che più direttamente la riguarda, le dovrebbero essere procurati e somministrati..

Con quest’ordine l’unità si renderà sempre più sensibile nel complicato edificio che da noi si disegna, e meno dubbi ne saranno i giudizii dell'attento ed imparziale osservatore.


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CAPO L

De’ soccorsi che l’istruzione pubblica verrebbe a ricevere, dalle altre parti di questo legislativo sistema

Bisognerebbe interamente ignorare l’istoria del progresso dello spirito umano, per ignorare i moltiplici ed innegabili rapporti che vi sono tra l’istruzione pubblica e l’opulenza pubblica, tra lo stato del sapere e de' lumi d’un popolo, e quello della sua industria e delle sue ricchezze. Cominciando dall’Egizia e dalla Caldea istoria, e discendendo fino a' nostri tempi, noi troveremo che dové comincia l’istoria del sapere, ivi cominciano i monumenti di questa non mai smentita verità. Noi troveremo i primi germi delle scienze fisiche, morali e politiche svilupparsi in mezzo alle ricche monarchie dell'Egitto e dell’Assiria; lasciare in Mentì ed in Babilonia i preziosi monumenti del loro progresso; e trasmetterci gli indizii d’una perfezione che la più tarda posterità ha loro negata, perché ne ha forse smarrito il nesso; ma che noi abbiamo molta ragione di supporre nelle nazioni e ne' popoli che furono le scuole ed i maestri di Orfeo e di Omero, di Pitagora e di Platone, di Solone e di Licurgo, e dové la scienza arcana, depositata ne' loro misteri, racchiudeva quelle sublimi verità che il silenzio e i simboli nascondevano al volgo ed al profano, e non trasmettevano che dopo lunghe pruove al felice iniziato. (220) Ilcerchio d’oro che ornava il sepolcro di Ofimade e che ne' trecento sessantacinque cubiti di circonferenza conteneva tutte le rivoluzioni che il Cielo ci presenta nel corso di altrettanti giorni; (221) La magnificenza degli obelischi, che erano i gnomoni dell'Egizie meridiane; (222) Il superbo tempio di Belo, da Semiramide innalzato e sull’alto tetto del quale poggiava quell’Osservatorio celebre, dové si fecero le tavole che Callistene inviò ad Aristotele, dové si trovarono registrate le celesti osservazioni di tante centinaia d’anni, (223) e dové vi è molta ragione da credere che il sistema solare fosse stato ritrovato trenta secoli prima che i Copernici e i Galilei sospettata ne avessero la teoria: (224) questo lusso, questa magnificenza negl’istrumenti istessi del sapere e delle scienze, ci fan bastantemente vedere le cognizioni di questi popoli, precedute ed accompagnate dalle loro ricchezze.

Il passaggio ch’esse fecero presso i Fenici, ci annunzia la istessa verità. Questa repubblica di commercianti divenne il deposito de' lumi dell’oriente, dopo esser divenuta l’emporeo delle sue produzioni. Gli antichi libri di Sanconiatone, (225) e gli attestali de' più rinomati istorici dell’alta antichità, (226) non ci permettono di dubitarne.

La Grecia e le greche Colonie, nella nostra Italia stabilite, non fanno che confermarla. I paesi, ne' quali i Pitagora e i Taleti, gli Xenofani e i Leucippi, i Parmenidi e i Zenoni, i Protagora e i Pirri (227) fondarono le loro scuole, ebbero dei seguaci e de' discepoli, e gittarono i primi semi della greca ed itala sapienza, furono, come si sa, i paesi dell’industria e del commercio. Cotrone, (228)Mileto, (229)Elea, (230)Atene, (231)erano già commercianti e ricche, quando cominciarono a sentire le lezioni de' più antichi de' loro maestri.

Passando a Roma, chi non sa che la patria de' Camilli e de' Fabbrici bisognò che uscisse dalla sua antica povertà, per produrre gli Ortenzii e i Tulli, i Virgilii e gli Orazii, i Plinii e i Varroni?

Ritornando nell’oriente, in un’epoca a noi più vicina, noi vedremo che, malgrado gli ostacoli di un potere arbitrario e di un domma assurdo, le scienze non lasciarono di fare dei rapidi progressi nell’Arabia, sotto il regno de' Califfi, in quel tempo nel quale la più gran parte delle ricchezze dell'Asia, ed una porzione anche di quelle dell’Europa e dell’Affrica, andava a colare nella sede di questi esseri misteriosi che, unendo i dritti del trono a quelli dell'altare, quelli della spada a quelli dell’entusiasmo, vendevano gli scettri e davano l’investiture, toglievano la corona agli uni per darla agli altri, e mettevano in contribuzione quasi tutto l'Oriente. (232) Noi sappiamo quanto erano coltivate presso gli Arabi di quel tempo la chimica e la medicina. Noi dobbiamo ad essi quei rimedii che si chiamano moderativi, più dolci e più salutari di quegli stessi che la scuola d’Ippocrate e di Galeno ci hanno tramandati.

L’Algebra, questa scienza perfezionata successivamente da Paciolo, da Scipione Ferrei, da Tartaglia, da Cardano, da Francesco Viete, da Harriot, da Descartes e da Newton, non pervenne a noi che dagli Arabi di quel tempo. Essi tradussero il celebre Almageste di Tolommeo, (233) e l’autore di questa versione spinse così in là le sue osservazioni, che giunse fino a dimostrare che o Tolommeo aveva fissata troppo al settentrione la più gran declinazione del sole, o che l’obliquità dell'ecclittica aveva sofferto qualche cangiamento. Fu finalmente sotto il governo del Calif Almamon, che si misurò la prima volta geometricamente un grado del Meridiano, per determinare la grandezza della terra.

Rivolgendo finalmente i nostri sguardi sul rinascimento delle lettere in Europa e sulla sorte che hanno avuta presso i varii popoli che l’abitano, noi ci confernjeremo anche di più nella indicata verità. Noi le vedremo da principio introdursi e prosperare tra le ricchezze che il commercio, l’industria e la pontificale autocrazia richiamava da tutte le parti nella nostra Italia; noi le vedremo scorrere per l’Europa colf istessa scorta; noi le vedremo abbandonare i popoli poveri o impoveriti, e non le vedremo fermarsi e prosperare che in quelli, presso i quali le ricchezze hanno avuta la sorte medesima.

Tutti questi fatti, quest’esperienza giammai contradetta, ciò che la ragione sola indipendentemente dall’esperienza ci suggerisce sul bisogno che vi è dell'opulenza pubblica per dare al popolo de' pensatori, de' maestri e delle istruzioni, sono, iodico, tanti argomenti incontrastabili de' soccorsi che la parte politica ed economica del nostro legislativo sistema verrebbe ad offrire e somministrare alla pubblica istruzione.

Se l’opulenza pubblica favorisce meno la civile libertà ne' popoli, ove si è questa indebolita o distrutta, le scienze e le arti han potuto avere de' momenti favorevoli, han potuto per alcune particolari circostanze avere qualche periodo di prosperità; ma la loro sorte è stata sempre precaria, la loro espansione sempre ristretta e sempre effimera la loro durata. La coltura degli spiriti suppone l'elevazione degli animi, suppone l’assenza delle violenze, il vigore delle leggi, la confidenza nella loro protezione, in poche parole, la civile libertà. Il godimento di questo bene è così evidentemente favorevole alla pubblica istruzione, come gli è evidentemente contraria la diminuzione o la perdita di esso.

Le leggi dunque che stabiliscono, fortificano ed estendono la civile libertà, somministrano contemporaneamente all’istruzione pubblica uno de' più necessarii e de' più importanti soccorsi. Tali sono quelle, delle quali si è parlato nel terzo Libro di quest’opera; tali sono quelle, delle quali si parlerà nel sesto e settimo di essa. (234)

L’istruzione pubblica è così inimica della superstizione, come la superstizione è inimica dell'istruzione pubblica. Per una conseguenza dunque tanto sicura, quanto evidente, le leggi che promuovono l'istruzione pubblica, concorreranno a distruggere la superstizione, e le leggi che distruggono la superstizione, concorreranno a promuovere l’istruzione pubblica. Chi ha letto il piano di quest’opera può prevedere, quanto quella parte del nostro legislativo sistema, che ha per oggetto la religione, dovrà corrispondere a queste vedute.

Per una reazione simile degli effetti sulle cause, l’istruzione pubblica che, come si è veduto, concorrerebbe con tante altre concause a stabilire ed estendere l’impero delle due passioni, sulle quali fondato verrebbe nel nostro legislativo sistema il vigoroso edificio de' costumi, riceverebbe a vicenda da queste istesse passioni considerabili soccorsi. La passion della gloria, moltiplicando gli sforzi e le imprese de' talenti, promuoverebbe i progressi dell'istruzione pubblica, e la passion della patria dirigendo, come si è veduto, quella della gloria verso gli oggetti del pubblico bene, dirigerebbe l’istruzione pubblica verso la direzione medesima. Quella parte dunque del nostro legislativo sistema, che ha per oggetto i costumi, favorirebbe doppiamente l’istruzione pubblica, promuovendone i progressi e dirigendola.

Quali soccorsi finalmente non le somministrerebbe quella che ha per oggetto la pubblica educazione? Essi sono troppo evidenti, troppo sensibili per aver bisogno d’essere indicati. Il lettore avrebbe dovuto interamente trascurare questa parte della mia opera, o avrebbe dovuto dimenticarsi interamente di quello che vi si tratta, per non conoscerli e per non vedere che tutto quello che l’istruzione pubblica può dall’educazione pubblica sperare e desiderare, si è in quella disposto ed ottenuto. Che resterebbe dunque da opporre e conseguire con questa parte della legislazione che all’istruzione pubblica è particolarmente destinata e diretta? Terminare e perfezionare l’opera, dalle altre sue parti favorita e soccorsa, e da quella che la pubblica educazione riguarda, già impresa, cominciata e fino ad un certo punto portata ed estesa. Ecco a che debbono limitarsi e dirigere le nostre cure, in questa parte della scienza legislativa. Determinato il fine, passiamo alla ricerca de' mezzi.


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CAPO LI

De’ soccorsi che l’istruzione pubblica dovrebbe ricevere da questa parte della legislazione 
che immediatamente la riguarda, e prima d’ogni altro, del nuovo piano, 
sul quale fondar si dovrebbero le Università degli Studii

Ritornando a quel punto, nel quale noi lasciati abbiamo, nella parte scientifica del nostro piano di pubblica educazione, gli allievi di quella parte del popolo che a servire la società coi suoi talenti si destina; ritornando a quel punto, io dico, dal quale noi dobbiamo ora partire, noi troveremo che, compiuta l’opera dell’educazione, le diverse strade del sapere sarebbero già state ampiamente aperte a' nostri allievi; che una parte considerabile del difficile cammino sarebbe già stata in ciascuna di esse percorsa; che i soccorsi che la coltura di una scienza dee da una data cognizione delle altre ripetere, sarebbero già stati somministrati; e che, per favorire la disposizione de' diversi ingegni per le scienze diverse, altro non resterebbe a fare, relativamente all'istruzione della gioventù già dalla pubblica educazione emancipata, che fondare sopra un piano ben diverso da quello, sul quale oggi sono in tutta l’Europa, le Università degli Studii, e dare a quest’antica istituzione una nuova forma, che fosse analoga al nuovo uso, al quale verrebbe destinata, ed alle circostanze diverse, nelle quali si troverebbe la gioventù, della quale si parla.

Per manifestare colla maggiore possibile brevità le nostre idee su questo soggetto, noi supponiamo che tutto ciò che da noi si è detto nel sistema di scientifica educazione da noi proposto, sia noto a chi legge, e che presente sia alla sua memoria. Ciò supposto, noi possiamo senza rischio di venir contradetti asserire che il giovane, già dalla pubblica educazione emancipato, che proseguir volesse la carriera del sapere; e che, secondando la sua parziale inclinazione per alcuna delle sue parti, volesse in quella viepiù innoltrarsi, si troverebbe già bastantemente istruito, per potervi da se medesimo riuscire; e che per accelerare i suoi passi, per favorire il suo corso, per garantirlo da alcuni errori, la legge somministrar gli dovrebbe una guida piuttosto che un maestro, un uomo da consigliare piuttosto che un oratore da sentire.

Per corrispondere a queste vedute, il nuovo metodo d’istruzione da prescriversi nelle Università, delle quali si parla, dovrebbe esser ben diverso dall’antico. Il professore di una scienza non dovrebbe insegnarla, non dovrebbe montare sulla cattedra per comunicare con un’orazione continua ciò che potrebbe con uguale utilità manifestare e pubblicare co' suoi scritti, o che si potrebbe dal giovane già provetto apprendere nelle migliori opere su quella scienza pubblicate. Le sue funzioni dovrebbero esser tutt’altro, e ben diversi esser dovrebbero i suoi doveri. Il suo ministero sarebbe meno facile, ma più augusto e più giovevole, quando si raggirasse a prestare una mano amica al giovane che implora il suo soccorso, a distruggere una difficoltà che l’intriga e che potrebbe o distoglierlo dalla scienza o condurlo in errori; a presentargli quelle grandi vedute che l’uomo superiore, e che osserva la scienza nel suo insieme, somministra sovente a chi l’interroga, senza neppure avvedersene; a dirigerlo nella scelta de' libri ch’egli crede più opportuni allo studio di quella scienza; a risparmiargli la perdita d’un tempo prezioso che la gioventù tante volte impiega nella lettura de' libri superficiali, che rovinano doppiamente e per l’illusione del sapere che procurano e per l’ignoranza reale che perpetuano; a mostrar sovente a' suoi discepoli l’istoria della scoverta delle più grandi verità che in quella scienza si contengono; a rivelar loro i segreti dell'invenzione per favorirne i progressi; a far loro vedere la parte che vi ha avuta il caso e quella che vi ha avuta l'ingegno; a mostrare il passaggio che la più gran parte di esse ha dovuto fare dallo stato d’opinione a quello di verità; a discreditare, sempre che l’occasione se ne presenta, quell’estremo opposto all’antico, ma non meno pernicioso, e col quale dalla manìa di dare alle opinioni il peso che si deve alle verità, si è passato a quella di disprezzare senza distinzione tutto ciò ch’è, opinione, o colle opinioni concatenato; a mostrar loro la differenza che passa tra le opinioni che non si raggirano che ad una nuova combinazione di parole, o che invece di spargere un maggior lume su’ fatti della natura o sulle idee degli uomini, falsificano, alterano, ravviluppano ed oscurano gli uni e le altre, e le opinioni che, sebben nuove ed ardite, son fondate sull’osservazione, generalizzano molti gran fatti considerati come solitarii, assegnai! loro una causa comune e gli spiegano in una maniera più probabile che alcun’altra ipotesi anteriormente immaginata; a far loro, io dico, distinguere la prima specie d’opinioni, che merita il maggior disprezzo, dalla seconda, ch'è uno de' mezzi più attivi e più efficaci della scoverta delle nuove verità e del reale progresso dello spirito umano; ad incoraggiare in questo modo lo spirito di congettura, e nel tempo istesso dirigerlo, e a distruggere un pregiudizio che scoraggisce tanto gl'ingegni inventori, quanto favorisce la natural pigrizia dell’uomo piucché mai durevole, allorché è combinata con una specie d'applicazione leggiera, e, per dir così, meccanica, che alimenta la sua curiosità, senza tormentare il suo ingegno: in poche parole, il ministero di questi secondi istruttori sarebbe più difficile, ma più prezioso, quando si raggirasse a conversare in questo modo co' giovani che concorrerebbero alla loro scuola, ed a prestar loro questi soccorsi, invece di profferire un sermone non interrotto, nel quale il giovane non farebbe che sentire ciò che potrebbe leggere con minor difficoltà e con maggior profitto. Ecco ciò che la legge prescriver dovrebbe a' diversi professori delle diverse scienze nelle nuove Università, che succeder dovrebbero al nuovo piano di scientifica educazione da noi proposto. Lascio a chi legge il valutare quanto questo nuovo metodo promuoverebbe i progressi della pubblica istruzione, e quanto favorirebbe quelli delle scienze istesse.

Questo primo soccorso indicato, passiamo agli altri.


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CAPO LII

Delle Accademie scientifiche

L’unione di più uomini che, sotto la protezione delle leggi e colla loro direzione, di concerto travagliano al progresso del sapere ed alla scoverta di nuove verità, è senza dubbio uno de' principali soccorsi che questa parte. della legislazione somministrar possa a' progressi della pubblica istruzione. La saviezza colla quale le leggi d'alcuni popoli dell'Europa proteggono e dirigono queste scientifiche società; l'universale cognizione che si ha di queste leggi; gli effetti che han prodotto e che non ci permettono di dubitare della loro perfezione; l’arte che hanno avuta di conciliare in esse la dipendenza colla libertà e di subordinarle alle leggi dello Stato, senza sottoporle all’immediata autorità di colui che le detta; la sapienza, io dico, di queste leggi e l’evidenza delle picciole modificazioni che le renderebbero adottabili in qualunque popolo, mi dispensano dall'indicare le mie idee che sarebbero già note ad una gran parte de' miei lettori, e sarebbero agli altri di facilissimo acquisto. Essi non dovrebbero far altro che istruirsi delle leggi che han luogo in quelle Accademie dell’Europa che han più prosperato, e paragonarle con quelle che han fatto perire, per così dire, alcune altre nel loro nascere, per conoscere pienamente ciò che si dovrebbe fare e ciò che si dovrebbe evitare.

Tre sole cose mi credo nell'obbligo di proporre, le quali non riguardano l’economia di queste Accademie, ma alcuni oggetti che il legislatore dovrebbe loro espressamente prefiggere, e che sì per la loro importanza, come pel nesso che hanno col piano di pubblica educazione che ho proposto, non potevano, sicuramente esser omesse o trascurate. La prima di queste riguarda una delle sorgenti più feconde degli errori, ed il modo da diminuirla e distruggerla.

L'umana scienza, diceva Socrate, dee più sovente raggirarsi nella negazione del falso, che nell'affermazione del vero. (235)Idea profonda, degna dell’Oracolo che l’ha profferita e del divino discepolo (236)che ne seppe fare tant'uso. Noi l’abbiam detto e lo ripetiamo: il più grande inimico della verità non è l’ignoranza, ma l’errore. Per discovrir quella, bisogna diminuire il numero degli errori, se si vuol moltiplicare quello delle verità.

Dopo i profondi scritti dell'immortale Locke, non è permesso di dubitare, che una delle più feconde sorgenti degli errori sia l’abuso delle parole e la poca nettezza delle idee che vi si attacca. Cartesio prima di Locke aveva già detto che i Peripatetici, trincerati dietro dell’oscurità delle parole, potevan paragonarsi a' ciechi che, per render la pugna eguale, conducessero un uomo che vede in una caverna oscura; che quest'uomo, aggiungeva egli, sappia far penetrare la luce nella caverna, che costringa i Peripatetici ad attaccare idee nette alle parole, delle quali si servono, ed il suo trionfo sarà sicuro. Il noto e forse ineseguibile progetto d’una lingua filosofica ed universale, nella quale il senso preciso di ciascheduna parola fosse determinato, non fu immaginato da Leibnitz che per riparare al male, del quale si parla.

Ma molto tempo prima di Leibnitz, di Locke e di Cartesio, la greca filosofia aveva non solo riconosciuto l’abuso delle parole, come una sorgente fecondissima di errori, ma profittato aveva di questa conoscenza, per distruggere o almeno per diminuire il male. Noi sappiamo che questo era uno de' principali oggetti dell’antica dialettica, di quella dialettica, ch’era ben diversa da quella, colla' quale si è posteriormente confusa; di quella dialettica, io dico, dalla quale Platone escludeva nella sua Repubblica chiunque non avesse dati lunghi esperimenti di virtù, di vigore d’intelletto e di costanza d’animo, e compiuto non avesse il trentesimoquinto anno della sua vita, (237) ed alla quale esclusivamente attribuiva il nome di scienza, che negava a tutte le altre facoltà. (238) Chiunque ha lette le opere di questo sublime filosofo, avrà osservato che la principale sua cura era di determinare il senso preciso delle parole, per prevenire e distruggere gli errori che dall'abuso di esse dipendono.

Per seguire dunque le vedute de' sommi uomini che ho citati, per profittare d'una verità, della quale la filosofia di tempi così tra loro distanti ha ugualmente riconosciuta l’importanza, io propongo una particolare Accademia, che dovrebbe esser la prima tra tutte le altre, o che dovrebbe esser da‘ più sommi uomini di tutte le altre composta. Essa dovrebbe determinare il senso de' vocaboli, ben fissare il senso che i grammatici chiamano proprio ch'è l’originario ed il primitivo, e dedurne, regolarne e limitarne il figurato, che consiste nell’applicazione che si fa' ad un oggetto intellettuale d’una parola destinata ad esprimere un oggetto sensibile, o ad un oggetto sensibile d'una parola destinata ad esprimere un oggetto intellettuale; essa dovrebbe far l’istesso circa il senso esteso, ch'è il medio tra il proprio ed il figurato, e che consiste nell’estendere a varii oggetti sensibili, o a varii oggetti intellettuali, una parola destinata propriamente ad esprimere un solo di questi oggetti sensibili, o un solo di questi oggetti intellettuali; essa dovrebbe cominciare da quelle voci, delle quali si è più abusato e sulle quali si è per conseguenza più errato; essa dovrebbe finalmente riparare alla povertà della lingua, moltiplicarne i vocaboli, in proporzione che le idee si sono moltiplicate o si moltiplicano, e prevenire in questo modo gli errori che dall'abuso e dal difetto di essi dipendono.

Quest’istituzione, dopo il lavoro non interrotto di molti anni, potrebbe produrre un grand’effetto. Gli uomini che quella lingua parlerebbero e servirebbero, potrebbero intendersi e trasmettere con esattezza le loro idee; le dispute e gli errori, che l’abuso e la deficienza delle parole cagiona e perpetua, terminerebbero; si distinguerebbe, come altrove dicemmo, (239) cieche si sa, da cieche si crede di sapere; le vere nozioni verrebbero dalle apparenti distinte; e non si tarderebbe molto a vedere nelle diverse scienze da' diversi uomini adottarsi i medesimi principii.

L’altra cosa che io propongo, e che non sarebbe di minore importanza, sarebbe la formazione degli elementi delle diverse scienze, i quali, per corrispondere al piano di scientifica educazione che ho proposto, non potrebbero divenire che l'occupazione de' più sommi uomini che in ciascheduna scienza si distinguono, e richiederebbero l’unione di più uomini nelle diverse scienze versati, per eseguire le varie combinazioni di esse in quello proposte, e che tanto tempo risparmierebbero, e tanto lume spargerebbero sul sapere in generale e su quelle scienze in particolare. Io non dico che tutto ciò che ho ivi proposto non si potrebbe senza questo mezzo ottenere; io non dico che i saggi istruttori, che verrebbero scelti dal Governo e dalle leggi regolati e diretti, non potrebbero da loro medesimi eseguirlo; dico soltanto che l’esecuzione di quel piano verrebbe molto facilitata, quando l’importante e difficile costruzione degli elementi delle diverse scienze divenisse uno de' principali oggetti degli accademici lavori.

La terza cosa finalmente, non meno interessante delle altre due, e che non posso trascurare di proporre, senza mancare a cièche ho promesso nel piano di pubblica educazione,(240) è l’istituzione d’una Società Economica, la direzione della quale dovrebbe esser analoga all'uso, pel quale noi l’abbiam proposta.

L’oggetto di questa Società Economica dovrebbe esser la perfezione dell'agricoltura e delle arti meccaniche.

I suoi membri dovrebbero esser diffusi per tutto lo Stato.(241)

Ciascheduna provincia dovrebbe avere i suoi, i quali nel fine di ciaschedun anno si dovrebbero unire nella capitale della provincia, per dare il loro giudizio su ciò che in quell’anno si è da' socii di quella, come delle altre provincie, proposto. La Memoria, approvata dalla pluralità de' suffragi della società intera, dovrebbe esser rimessa al Governo, e dal Governo ai magistrati supremi d'educazione delle diverse provincie, o a quello di quella provincia, nella quale la novità proposta dovrebbe aver luogo. Il Magistrato supremo d’educazione dovrebbe rimetterla a' magistrati particolari d’educazione delle diverse Comunità, nella sua provincia comprese, ed il magistrato particolare di ciascheduna Comunità dovrebbe incaricarne dell’esecuzione i custodi, che quell’arte professano che la proposta migliorazione riguarda. Uno de' più vicini membri dell'Economica Società dovrebbe dirigere i custodi e gli allievi nell'operazioni da farsi, e dovrebbe cercare di far loro concepire i principii, su’ quali il vantaggio di ciò che si propone è fondato. Questa istruzione, che unirebbe la teoria alla pratica, sarebbe la più utile e la più opportuna per quella parte del popolo, della quale si parla.

Da' fondi della pubblica educazione trar si dovrebbero le spese che ciascuna di queste esperienze richiederebbe, ed i vantaggi che se ne trarrebbero, dovrebbero agl'istessi custodi rilasciarsi, per sempre più incoraggiarli ed attaccarli al penoso ministero, del quale sono investiti. Quando l'esperienza giustificasse la speculazione, allora la proposta Memoria dovrebbe esser coronata, dovrebbe pubblicarsi colle stampe, e spargersi per tutte le parti dello Stato. Lo spirito di lettura che noi abbiamo ispirato anche alle classi più subalterne nel nostro piano di pubblica educazione; l’assenza degli errori e di volgari pregiudizii, che tanto si oppongono ad ogni utile novità, e che noi coll'istesso mezzo abbiamo loro procurata; quell’energia che noi comunicata abbiamo a' nostri allievi, e che non tarderebbe molto a divenir comune nel popolo, il quale dopo qualche tempo non sarebbe composto che dagli allievi della pubblica educazione; tutte queste causecombinate ed unite all’evidenza dell’esperienza darebbero alla Società Economica, della quale si parla, un’importanza ed utilità che senza di questi mezzi non potrebbe mai né ottenere né sperare.

L’agricoltura, dovendo naturalmente richiamare le prime sue cure, quali vantaggi non potrebbe da essa ricevere? Qual migliorazione non riceverebbero i suoi istrumenti, qual perfezione le sue pratiche, qual ignota fecondità le sue produzioni? Quanti terreni lasciati in abbandono, perché s’ignora o la natura delle produzioni, alle quali sarebbero atti o la natura de' soccorsi che si dovrebbero loro dare, verrebbero sottratti all’antica sterilità? Quanti errori perniciosissimi verrebbero estirpati, quante verità adottate e praticate, quante straniere scoverte che restano per secoli ignote alle classi che dovrebbero profittarne, verrebbero con questo mezzo diffuse nel volgo e ricevute, quanti mali verrebbero diminuiti o distrutti, quanti prevenuti o riparati, e quanti beni, oggi precarii ed incostanti, diverrebbero allora stabili e costanti? Quali vantaggi finalmente non recherebbe allo Stato intero questo spirito di migliorazione che s’introdurrebbe in tutte le arti ed in tutte le classi del popolo, e questa estensione che si darebbe ad una delle parti più preziose della pubblica istruzione?

Per dare una spinta di più a questo generai movimento, converrebbe associare di tempo in tempo qualche agricoltore e qualche artefice che si distingue nella sua arte all'Economica Società, ed onorare e premiare in questo modo la sua industria cd i suoi talenti. L’uomo di lettere non perderebbe niente del suo lustro e della sua dignità, comunicandola a questi cittadini meritevoli; ma l’agricoltura e le arti guadagnerebbero moltissimo nel vedersi associate alla sapienza; e l’amore per l'una e le altro crescerebbe molto di più in coloro che le coltivano, quando fosse alimentato dall'opinione cd invigorito dalla gloria. Con tanti ostacoli di meno, con tanti urti di più, chi potrebbe dubitare dell’effetto?


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CAPO LIII

Della libertà della Stampa

Se la sapienza delle leggi non consiste soltanto a procurare il bene, ma a perpetuarlo; se la prosperità futura del popolo, non meno della presente, deve richiamar le cure del saggio legislatore; se i confini del tempo debbono essere i soli limiti delle sue vedutele la perennità della sorte del popolo il solo termine delle sue speranze; se la sua paterna provvidenza non deve soltanto restringersi a distruggere i mali che opprimono il popoloso ad impedire quelli che gli sovrastano, ma a prevenire anche quelli ch'egli non può prevedere e che da ignote e straordinarie circostanze potrebbero essere introdotti; se una delle più profonde vedute del legislatore sapiente deve raggirarsi ad ottenere, che il tutto insieme della legislazione contenga i rimedii atti a riparare alle imperfezioni o ai vizii, che si possono discovrire o introdurre nelle sue parti, ed a contenere, per così dire, in se medesima la sorgente inesauribile de' materiali atti al suo nudrimento, alla sua ristorazione ed alla sua riparazione; se finalmente l’efficacia delle buone leggi suppone la corrispondenza d’una saggia amministrazione, e se questa corrispondenza istessa dell’amministrazione dipende dalla sapienza del legislatore nel somministrarle tutti i soccorsi per conservare ed estendere il bene, e tutti gli ostacoli per favorire o indurre il male: se non si può, io dico, dubitare dell’evidenza di queste verità, non si potrà neppure dubitare de' vantaggi della libertà della stampa, che così ammirabilmente corrisponde a tutte queste vedute.

Vi è un tribunale ch'esiste in ciascheduna nazione; ch'è invisibile, perché non ha alcuno de' segni che potrebbero manifestarlo, ma che agisce di continuo, e che è più forte dei magistrati e delle leggi, de' Ministri e de' Re; che può esser pervertito dalle cattive leggi, diretto, corretto, reso giusto e virtuoso dalle buone; ma che non può né dalle une né dalle altre esser contrastato e dominato. Questo tribunale che col fatto ci dimostra che la sovranità è costantemente e realmente nel popolo, e che non lascia in certo modo di esercitarla, malgrado qualunque deposito che ne abbia fatto tra le mani di molti o d’un solo, d'un Senato o d’un Re; questo tribunale, io dico, è quello dell'opinione pubblica.

In un popolo ignorante e corrotto, questo tribunale sconosce i suoi interessi, e coll’onnipotenza de' suoi decreti perpetua il male ed impedisce il bene. Ma in un popolo a seconda del nostro piano di pubblica educazione istituito; in un popolo dominato da quelle due passioni, che le nostre leggi cercherebbero con tanti mezzi d'introdurre, stabilire, espandere, invigorire; in un popolo allontanato dall’errore, approssimato alla verità, condotto alla virtù da tutte quelle concause che il nostro legislativo sistema porrebbe in azione: in questo popolo il tribunale, del quale si parla, sarebbe saggio e virtuoso, ed unendo queste due qualità alla sua originaria ed inseparabile onnipotenza, non avrebbe bisogno d’altro che d’esser avvertito del bene che si potrebbe fare e del male che si potrebbe evitare, per ottener l'uno ed impedir l’altro, ed esternare in questo modo la pubblica prosperità, dalla sapienza del legislatore così vigorosamente introdotta e stabilita, ed alla vigilanza d’un tribunale sì potente e sì interessalo a conservarla, saggiamente affidata.

Ma questo tribunale non ha né foro né tribuna; non vi son comizii, non vi è concione per lui. In qual modo potrà dunque esser istruito dell’inosservanza d’una legge utile; del difetto o del vizio che si è scoverto in un’altra; d’un errore che si è preso o si vuol prendere dall’amministrazione; d’un male che si è fatto o che si cerca di fare dal Governo? In qual modo si richiameranno i suoi suffragi in favore d’un bene da farsi, d'un altro da estendersi, d'un altro da invigorirsi? In qual modo verrà avvertito de' disegni di un Ministero iniquo, o dell’abuso dell’autorità d'un magistrato? In qual modo verrà egli garantito da quel sonno, nel quale la prosperità istessa, combinata colla natural pigrizia dell’uomo, ha tante volte immersi i popoli che ne erano in possesso, ed in qual modo all'attività dell’ambizione che macchina ed attenta, potrà il legislatore stabilmente proporzionare ed opporre la vigilanza di questo tribunale che dovrebbe conservare e difendere? In qual modo, in fine, questo tribunale potrebbe costantemente corrispondere a quelle vedute del saggio legislatore, che si raggirano a somministrare al Governo tutti i soccorsi per conservare ed estendere il bene, e tutti gli ostacoli per favorire o introdurre il male?

La libertà della stampa è questo mezzo: il legislatore non deve dunque trascurarla, il legislatore deve stabilirla, il legislatore deve proteggerla. L’interesse pubblico lo richiede, la durata della sua legislazione e la perennità della sorte del popolo l’esigono, e quel che è più, la giustizia, questa divinità inflessibile che dev'esser sempre consigliata e mai disubbidita dal legislatore, ne vieta manifestamente la privazione. La pruova n’è semplicissima.

Vi è un dritto comune ad ogni individuo di ogni società; vi è un dritto che non si può né perdere né rinunciare né trasferire, perché dipende da un dovere che obbliga ciascheduna società che esiste, finché questa esiste, e dal quale niuno può esser liberato, senza esser escluso dalla società o senza che questa venga distrutta. Questo dovere è quello di contribuire, per quanto ciascheduno può, al bene della società alla quale appartiene, ed il dritto che ne dipende è quello di manifestare alla società istessa le proprie idee che crede conducenti, o a diminuire i suoi mali, o a moltiplicare i suoi beni.

La libertà dunque della stampa è di sua natura fondata sopra un dritto, che non si può né perdere né alienare, finché si appartiene ad una società; ch'è superiore ed anteriore a tutte le leggi, perché dipende da quella che le abbraccia tutte e tutte le precede; che la violenza distrugge, ma che la ragione e la giustizia difendono, e ci dicono d’accordo che la legittima autorità delle leggi non può avere maggiore influenza sull'esercizio di questo dritto, di quella che ha sull’esercizio di tutti gli altri, e per conseguenza che la loro sanzione non può cadere che sulla persona di colui che ne ha abusato. Se non vi è dritto, del quale il malvagio non possa abusare, e ciò malgrado, le leggi ne permettono l’esercizio e non ne puniscono che l’abuso; per qual ragione l’istessa regola non dovrà aver luogo in favore di quello, del quale si parla, l’esercizio del quale, come si è veduto, è molto più prezioso, e per l’uomo e per la società, di quello di molti altri dritti, e l’abuso più difficile e forse meno pernicioso?

Se il male che l’uomo può fare colla stampa, può esser difficilmente occultato e facilmente riparato, e quello che può fare colla spada, può esser facilmente occultato e difficilmente riparato, perche temer più la stampa che la spada, e spiare colui che scrive e non colui che è armato?

Perché invece di distruggere un dritto così prezioso, non sottoporre colui che ne abusa a quell’istessa legge, alla quale vien sottoposto colui che abusa di qualunque altro dritto, cioè alla pena di quel delitto che con quell’abuso ha commesso? Perché non stabilire che qualunque scritto che si pubblica colle stampe, debba contenere o il nome dell’autore o almeno quello dell’editore, e quando il primo si nasconde, richiedere che il secondo risponda del primo, e sia costretto non solo a manifestarlo, ma a provarlo in qualunque caso verrà dal giudice interrogato, (242) e lasciare in questo modo a chiunque il dritto di chiamarlo in giudizio, e d'accusarlo come reo del delitto, del quale ne' suoi scritti si è reso colpevole?

Con un sistema di criminal procedura e di legislazione penale come il nostro, questo stabilimento non richiederebbe che questa sola legge; giacché tutto il resto sarebbe prevenuto e disposto dalla criminale legislazione, così per garantire l’autore, se è innocente, come per proporzionare la sua pena al suo delitto, o sia alla qualità ed al grado del reato che ha commesso, se si trova reo. Chiunque ha presente quella parte della nostra opera che la criminale legislazione riguarda, non potrà dubitare dell'opportunità e dell'efficacia di questa legge, (243)

Ma si dirà, se l’errore è sempre pernicioso, ancorché non è col delitto combinato, un autore potrà divenir pernicioso senza esser delinquente. Qual rimedio a questo male, quando la stampa è libera? La libertà stessa della stampa.

Un errore non è mai pernicioso, quando è generalmente riconosciuto come errore, o quando si può far conoscere come tale. 0 l’errore dunque dello scrittore è come tale generalmente riconosciuto, ed allora la pubblica disapprovazione contiene la pena ed il rimedio, o viene da molti adottato, ed allora, siccome non vi è errore che non noccia a qualcheduno, così non vi sarà errore che non sarà contrastato; e siccome l’evidenza non può accompagnare che la verità, così l’interesse di combatter l’errore farà o discovrire o rischiarare la verità, e l’evidenza della verità farà sparire l’illusione dell’errore. Il trionfo della verità sarà allora la pena, ed il rimedio ed il vantaggio che la pubblica istruzione ne raccoglierà, sarà l’effetto della discussione ch'è essa medesima l’effetto della libertà.

A misura che gli errori si pubblicheranno, verranno dunque o discreditati o combattuti, e dové prima sotto gli auspicii dell'oscurità avrebbero potuto lentamente espandersi, imporre a' meno cauti, e sedurre forse coloro istessi che hanno il potere tra le mani, co' favori della libertà verranno a comparire in tutta la loro deformità, e somministreranno alla verità le occasioni da mostrarsi in tutto il suo lustro, ed accompagnata da' suoi trionfi.

La pubblicazione istessa dell'errore è dunque il miglior rimedio contro le sue seduzioni. Non vi è che la verità cheguadagni nell'esser divulgata. Il primo non ha che un solo aspetto favorevole, l’altra gli ha tutti. L’uno perde dunque tanto nell’esser esposto al pubblico, quanto vi guadagna l’altra. Quello può imporre, finché non è guardato che da un solo aspetto, e questa può esser dubbia, finché non è guardata da tutte le parti. Che si pubblichi l'uno, che si pubblichi l’altra. Un solo aspetto non basterà più a tanti osservatori. Essi formeranno come un cerchio intorno all’oggetto, e questo cerchio che distrugge l’illusione dell'errore, è quell’istesso che dilegua i dubbii della verità.

La libertà dunque della stampa, o che si consideri nel rapporto che avrebbe nel nostro legislativo sistema con quelle grandi vedute, delle quali si è parlato nel principio di questo Capo, o che si consideri come la conseguenza d’un dritto, che non si può né trasferire né rinunciare né distruggere, ma che si può facilmente contenere ne' giusti suoi confini, o che si consideri come uno de' più vigorosi argini dell’errore, o come uno de' più favorevoli veicoli della verità; si troverà sempre che è uno de' beni il più fecondo di altri beni; uno de' dritti più efficaci alla conservazione degli altri dritti; una delle libertà meno esposte al pericolo delle altre libertà, cioè alla licenza, ed uno de' più vigorosi soccorsi che la legislazione somministrar possa alla pubblica istruzione.

Si troverà finalmente, che l’antico voto di Platone verrebbe da noi con questo mezzo doppiamente conseguito; giacché se, per stabilire la felicità d’un popolo, egli voleva che o regnassero i filosofi, o filosofassero i Re, (244)nel popolo, a seconda del nostro legislativo sistema istituito, s’incontrerebbero entrambi i beni; giacché le leggi genererebbero i filosofi e li farebbero regnare, frenerebbero i Re e li costringerebbero a filosofare: regnerebbero i primi dirigendo l’opinione, e filosoferebbero gli ultimi per ottenere i suffragi.


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CAPO LIV

Dei premii scientifici

Io non nego né ignoro che i piaceri più vivi, più profondi e più durevoli sieno quelli che s’incontrano nella coltura delle scienze e nella ricerca delle verità. Io non nego né ignoro che la meditazione, che sembra sì tetra e sì severa, e che è il supplicio degl’ingegni superficiali e delle anime dissipate, divenga l'occupazione favorita di colui che ne sa esperimentare le delizie. Io non nego né ignoro che il vigore e l’elevazione che questa somministra allo spirito, l’estensione che dà alle sue vedute, la prodigiosa varietà di oggetti che gli presenta, ed il sentimento che da tutte queste cose procede, basti a premiare le fatiche degli esseri privilegiali che ne sono in possesso. Io non son sorpreso nel leggere, che Democrito si ritiri in una caverna e che Demetrio rinunci al trono d’Efeso per non essere distratto.

Ma non per questo io escluderei da una saggia legislazione i premii riserbati pel talento, o per meglio dire, per le sue più meritevoli produzioni. I piaceri, de' quali si è parlato, non sono né noti né visibili; non si possono riconoscere, se non quando si sperimentano; e per sperimentarli, bisogna aver per lungo tempo sopportato pazientemente le sole pene delle meditazione e del lavoro. Un altro bene deve dunque determinare la speranza dell'uomo per farle intraprendere; un altro piacere bisogna dunque promettergli per renderle nel principio tollerabili; e questo bene, questo piacere ben diverso da quelli, de' quali si è parlato, deve di sua natura essere apparente e prevedibile, nel mentre che gli altri non si possono né manifestare né prevedere.

Ecco il motivo, la destinazione ed i vantaggi de' premii scientifici. Essi servono piuttosto ad introdurre gli uomini nella carriera delle scienze, che a premiare le fatiche di coloro che vi si sono ammirabilmente innoltrati; essi servono piuttosto a moltiplicare i concorrenti nell'arena del sapere, che a rimunerare l'atleta felice che vi si è distinto; essi servirebbero finalmente per dare un nuovo alimento alla passione della gloria, purché fossero coi medesimi principii determinati e diretti, che io ho esposti nel capo XLIV di questo libro, ed a' quali interamente qui mi rimetto per non ripetere inutilmente le medesime cose. (245)


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CAPO LV

Delle Belle Arti

Le belle arti, che han meritato un luogo distinto nel nostro piano di pubblica educazione, (246) esigono di bel nuovo le nostre cure nella parte della legislazione, della quale ora ci occupiamo. I rapporti che passano tra il Bello, il Vero ed il Buono, danno loro una parte essenziale, ed un’influenza sull’istruzione pubblica e su’ costumi, che non può esser trascurata che dal legislatore che questi rapporti ignora o non sa profittarne.

Un popolo, presso il quale il senso interno del bello vien dalle bellezze delle arti esercitato, sviluppato, coltivato e perfezionato, è senza dubbio (tutte le altre circostanze uguali) più retto ne' suoi giudizii, più giusto nelle sue combinazioni, più ragionevole ne' suoi discorsi, più avanzato e più disposto a far de' progressi nella pubblica istruzione, che non lo è il popolo che è privo di questo soccorso. L’idee d’ordine, di convenienza, di perfezione non si potrebbero rettificare sopra alcuni oggetti, senza sentirsene l’influenza su tutti gli altri, giacche agli occhi dell'indagatore profondo vi è maggior convenienza di quel che si crede, tra le cose che costituiscono la bellezza di una statua e la saviezza di una legge, la perfezione d’un edificio e la sapienza d’uno scritto, la condotta d’un poema e quella d’una battaglia, il merito del pittore e la virtù dell'eroe.

Se le belle arti non avessero dunque altro che quella parte e questa influenza nella pubblica istruzione, non dovrebbe ciò bastare per obbligare il legislatore a promuoverle e proteggerle? Ma quanto crescerà l’idea della loro utilità, quando si rifletterà all’influenza che aver possono su’ costumi!

Un popolo, presso il quale le belle arti han fatto de' considerevoli progressi, ha senza dubbio (tutte le circostanze uguali) molti mezzi di più e molti ostacoli di meno, per esser condotto o conservato sotto l’impero delle due passioni, dalle quali, come si è mostrato, deve dipendere la virtù de' popoli e la perfezione de' loro costumi. Colla scoltura, colla pittura, coll’architettura medesima il legislatore può ammirabilmente risvegliare, alimentare, diffondere l’amor della gloria, adoprando queste arti ne' premii della virtù e ne' monumenti destinati ad eternare la gloria di colui che gli ha meritati. Può risvegliare ed alimentare anche il patriottismo cogli esempi che perpetua, cogli urti che comunica, coi sentimenti che desta l’azione d’un eroe, alla quale il talento dell’artista ha saputo dare tutto quel rilievo che si richiede, per rendere più profondi e più energici questi sentimenti; può finalmente alimentare quella natural compiacenza che tanto favorisce il patriottismo, e che non si sente che da quei popoli che han la sorte d’appartenere ad una patria che gli onora, mettendogli a parte della sua gloria e della sua dignità.

Colla musica può eccitare, può frenare, può innasprire, può intenerire, può destar l’odio per alcuni oggetti e l’amore per alcuni altri; può comunicare una certa energia negli animi, un certo calore ne' cuori, che possono esser molto più di quel che si crede fecondi in effetti; (247)può, in poche parole, risvegliare que’ sentimenti, pe’ quali noi impiegato abbiamo sì frequentemente il ministero di quest'arte nel nostro piano di pubblica educazione, e pe’ quali noi vorremmo che la legislazione ne dirigesse l’esercizio, come diriger dovrebbe quello di tutte le belle arti, per renderle ciò che son atte a divenire, le cooperataci e le sostenitrici dell’istruzione pubblica e della pubblica virtù. (248)

Le belle arti richiedono dunque protezione e direzione.

Noi abbiamo già in gran parte somministrata loro l’una e l’altra nel nostro piano di pubblica educazione. Noi ne abbiam facilitati i progressi coll’istituzione che abbiam data agli artisti; (249) Noi ne abbiam diretto l’uso coll’educazione morale, alla quale parteciperebbero; (250) Noi le abbiam protette col gusto che ne abbiamo ispirato nell'educazione istessa a tutte le classidello Stato che son nel caso d’impiegarle; (251) Noi le abbiamo contemporaneamente dirette colle idee morali che stabilito abbiamo in quelle classi. (252)

Questo è quel che si è fatto, quel che resta a fare è molto più facile.

Vi è un uso da fare delle belle arti che racchiude il doppio vantaggio di promuoverle e dirigerle nel tempo istesso, e che ammirabilmente corrisponde colle idee poc’anzi indicate. Bisognerebbe adoprare le belle arti, per premiare alcuni meriti, per onorare alcune virtù, per eternare alcuni fatti. Le statue, le pitture, i pubblici monumenti dovrebbero aver luogo nelle diverse specie di premii dalle leggi prescritte. Le opere dell’artista dovrebbero coronare la virtù dell’eroe, dovrebbero esercitare il talento dell'artista, ed onorare la sua mano. Bisognerebbe promuovere le arti colla virtù e la virtù colle arti; bisognerebbe ristabilire tra loro quella corrispondenza reciproca che contribuì tanto a moltiplicare nella Grecia gli artisti e gli eroi, e che la sottrasse da quell’obblìo, nel quale furono ingoiate tante nazioni chela precedettero, non perché furon prive di virtù, ma di chi le abbia celebrate:

Vixere fortes ante Agamemnona

Multi; sed, omnes illacrymabiles

Urgentur, ignotique longa

Notte, careni quia vate sacro.(253)

Ecco il miglior mezzo che la legislazione possa impiegare per promuovere e dirigere le belle arti, e condurle a quella perfezione ed a quella utilità che non avran mai,. finché non verranno impiegate che nel servire al lusso, alla vanità, alla voluttà; finché l’artista non verrà considerato, e non si considererà egli medesimo, che come un uomo che diverte i grandi ed il pubblico, e che libera per alcuni momenti dalla Doia l'inoperosa opulenza; finché le belle arti non occuperanno, nel vasto piano del legislatore, un luogo distinto tra le concause del patriottismo e della gloria, e per conseguenza della virtù; e finché l’artista non verrà sovente chiamato dal principe per comunicargli i suoi ordini, a seconda de' prescritti della legge, come li comunicherebbe al magistrato incaricato d’una commissione importante e difficile e, per questo appunto, lusinghiera ed onorevole, pe’ talenti che richiede e la confidenza che suppone.

Che il legislatore, dopo aver dunque educato ed istruito l'artista, (254) l’eserciti e l’onori coll'impiegarlo ne' suoi grandi oggetti, col farlo concorrere a' suoi gran fini, e non dubiti dell'effetto. Egli non avrà bisogno d’altro, per dare alle belle arti tutta quella protezione e direzione che può esser della pertinenza delle leggi. Il resto deve abbandonarlo alla cura dell’amministrazione.


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CAPO LVI

Della sorte e degli effetti della pubblica istruzione in un popolo a seconda del nostro legislativo sistema istituito

Favorita e diretta in questo modo la pubblica istruzione, introdotto con questi mezzi il saper vero tra' dotti, e proscritti gli errori e diffusi i lumi nella moltitudine, incoraggiate, dirette ed operate in questo modo le belle arti; quale sarà la sorte della coltura di questo popolo, quali ne saran gli effetti? L'esperienza di ciò che a tanti popoli è avvenuto, dovrà forse dirigere l’importante presagio che in questo momento ci occupa? Sarà forse un decreto eterno dell’Altissimo, che duemila anni d’ignoranza e di barbarie debbano necessariamente succedere ad uno o due secoli di scienza e di coltura? Se l’esperienza pare che c'induca a questa opinione, cosa deve dirci la ragione? Per presagire con saviezza sulle tracce dell’esperienza, non bisogna forse partire dall’uguaglianza delle cause, per giungere all'uguaglianza degli effetti? Non è forse questo il canone sì trascurato da alcuni moderni filosofi, ma sì inculcato dalla ragione, allorché si tratta di presagire da ciò ch'è avvenuto, ciò che deve avvenire?

Or io domando, qual è il popolo, presso il quale la pubblica istruzione sia stata prodotta e diretta da tutte quelle concause, che la produrrebbero e dirigerebbero in quello che, a seconda del nostro legislativo sistema, verrebbe istituito? Qual è il popolo, nel quale tutte le parti della legislazione abbiano concorso a condurlo e conservarlo in questo stato d’istruzione? Qual è quello, nel quale tutte le cause della prosperità sieno state anche quelle della pubblica istruzione, e la pubblica istruzione resa dalla sapienza delle leggi effetto e causa nel tempo istesso, sia essa medesima divenuta una delle cause e de' sostegni della pubblica prosperità? Quale quello, nel quale l’educazione scientifica delle classi superiori, e l’espansione ‘de' lumi nelle classi inferiori sia stata immediatamente operata dalla legge, immediatamente dalla legge diretta e, per conseguenza, dalla legge condotta a' suoi fini ed associata a' suoi mezzi?

Se noi osserviamo le cause che concorsero a promuovere le scienze e le belle arti in Roma, noi ne troveremo tra queste varie che, ben lungi dall’essere quelle della sua prosperità, furono per lo appunto quelle medesime della sua decadenza e rovina.

Le ricchezze sì conducenti, come si è veduto, (255) all’introduzione ed a' progressi delle scienze e delle belle arti; le ricchezze che nel popolo, a seconda del nostro legislativo sistema istituito, favorirebbero, come si è veduto, (256) La virtù e sarebbero essenziali alla sua prosperità; le ricchezze, io dico, che più d’ogni altro contribuirono a condurle in Roma, invece di favorire la sua virtù e la sua prosperità, dovevano, come si è dimostrato, (257) corrompere i suoi costumi e concorrere alla sua rovina. L’altra causa sì propizia allo sviluppo dell’umano talento, e ch’ebbe in Roma tanta parte nella produzione de' più insigni uomini che sotto il suo cielo fiorirono, non fu forse la civile discordia che precede, accompagnò e seguì la dittatura di Silla, e che non terminò che coll’intera perdita della sua libertà? Finalmente la più diretta, la più immediata e la più potente delle cause che favorirono le scienze e le belle arti in Roma, non fu forse l’interesse e la vanità d'un nascente dispotismo e d’un tiranno avveduto che, per distrarre gli animi dalla memoria recente della perduta libertà, per occultar loro le mesta inazione della servitù, per lasciare uno sfogo alla passion della gloria, prima di poterla interamente distruggere, e per determinare in favor suo gli uomini che hanno la maggiore influenza sull'opinione degli altri; rivolse gli animi verso le scienze e le belle arti; onorò, premiò, incoraggi e promosse con tutt'i mezzi le une e le altre, e le condusse a quel grado di prosperità che fa ancora e farà sempre l’ammirazione della più tarda posterità?

Quali potevan dunque essere la sorte e gli effetti delle scienze e delle belle arti da queste cause prodotte, ed a questi fini dirette? Qual maraviglia che la loro prosperità fosse sì breve, e sì invalutabili e sì effimeri, riguardo al pubblico bene, i loro effetti?

Nella Grecia medesima, nella quale le scienze e le belle arti furono colla libertà associate e nella quale varie cause della pubblica prosperità erano anche cause della pubblica istruzione, vi era nulladimeno una differenza essenziale riguardo a quest’oggetto, tra essa e ’l popolo a seconda del nostro sistema istituito.

Ne’ varii popoli che abitarono questa felice regione, non ve ne era un solo, presso il quale la scientifica educazione fosse come nel nostro, dalla legge immediatamente regolata, dalla legge immediatamente diretta. Questa sola essenzial differenza, oltre le varie altre, che dall’intero sistema legislativo di questi popoli e dall'intero sistema legislativo del nostro procedono; questa sola essenzial differenza, io dico, non basterà forse per farci vedere la differenza ugualmente essenziale che deve passare tra la sorte e gli effetti della pubblica istruzione di que’ popoli, e la sorte e gli effetti della pubblica istruzione del nostro?

Che doveva produrre questo silenzio delle leggi sulla scientifica educazione? Che doveva particolarmente produrre in popoli per la natura del loro clima e per la forma del loro Governo ardenti e vivaci? Quel che in fatti col progresso del tempo successivamente produsse. Le tante diverse scuole che si permutarono in tante diverse sètte di filosofi; lo spirito di partito ch'è Io spirito di qualunque setta e di qualunque settario, e lo spirito di sofisma che, presto o tardi, deve necessariamente nascerne, e ch'è così contrario al sapere, come lo è il primo alla concordia; finalmente il tempio sacro della filosofia e delle scienze convertito in un campo di battaglia, dové non si faceva che attaccare e difendere le diverse opinioni, e dové i trionfi e le perdite erano ugualmente dall’abuso della ragione prodotti, e per conseguenza ugualmente pregiudizievoli alla verità ed alla scienza.

Ecco quale fu una delle più potenti cause che preparò nel loro nascere istesso la decadenza delle scienze, e per conseguenza delle belle arti ancora nella Grecia; ed ecco quella che non avrebbe sicuramente luogo nel popolo, a seconda del nostro legislativo sistema istituito.

Il poco che noi sappiamo dell'egizia e della caldea istoria, ci basta anche per escludere dal presagio che si vuol fare, l’esperienza di ciò che presso questi popoli è avvenuto. Il mistero, col quale presso questi popoli si nascondeva il sapere da coloro che n’erano i depositari!, vizio da essi trasmesso, ma modificato e di molto raddolcito e corretto, presso gli altri popoli dell’antichità, questo mistero doveva necessariamente opporre un potente ostacolo all'espansione de' lumi, alla diffusione degli utili risultati dell’arcano sapere, alla correzione della opinione pubblica, ed alla proscrizione de' volgari errori che, come si è detto, debbono essere i più preziosi effetti che il legislatore deve nella pubblica istruzione cercare ed ottenere. Più, la legge non solo non regolava, né dirigeva presso questi popoli la pubblica istruzione; ma non poteva neppur penetrare nel sacro recinto, nel quale il sapere veniva rinchiuso e difeso dalla curiosità del profano.

Finalmente quel vizio, sì considerabile e sì poco osservato nella forma del Governo di questi popoli, quel vizio che consisteva nel dare un potere più giudiziario che legislativo al Monarca, questo vizio che doveva condurre questi Governi al dispotismo, come ve li condusse in fatti; questo vizio, io dico, fecondava il germe di quella pianta velenosa che doveva ricondurre nell’ignoranza e nella barbarie questi popoli che l’istoria ci presenta, come i primi maestri del genere umano.

lo non parlo degli Arabi sotto l’Impero de' Calif. Le scienze e le arti nate presso di loro tra il dispotismo e la superstizione possono paragonarsi ad un uomo che ha la disgrazia di nascere in un aere pestifero, ed in un suolo infestato da fiere e da mostri. Una vita languida ed una morte immatura doveva necessariamente essere la loro sorte.

Ma che diremo noi dell’Italia, nell’epoca felice del rinascimento delle scienze e delle belle arti? La sorte ch’ebbero, gli effetti che produssero, possono mai influire sul presagio della sorte e degli effetti che aver dovrebbero presso il popolo, a seconda del nostro legislativo sistema istituito? Osservando da filosofi l’istoria di que’ tempi, non si troverà forse che la più potente delle cause che concorsero a richiamare e promuovere le une e le altre in quest'amena regione, fu la pontificale opulenza e l’interesse de' Papi di sostenere coll’opinione un’autocrazia (258)sull’opinione fondata? Riunendo intorno alla Cattedra di Pietro le opere de' sommi artisti e le fatiche e le persone de' dotti, ebbero essi altro fine, se non quello di accrescere la venerazione per la persona che l’occupava? L’autorità che fe’ bruciare le opere di Galileo, e che pagava o premiava i talenti co' beneficii della straniera ignoranza, poteva forse avere altro scopo di quello nel promuovere le scienze e le belle arti?

Se noi osserviamo inoltre lo stato politico dell'Italia di que’ tempi, noi troveremo in quella funesta politica, che dirige i Governi assoluti e deboli, un ostacolo potentissimo all’espansione de' lumi ed alla loro permanenza. Straordinarie circostanze potevano produrre dei grandi uomini in questi Governi; ma le cause jphe favorivano l’ignoranza e l’errore erano permanenti e stabili. Finalmente la protezione de' Medici, qualunque essa fosse, non aveva alcun appoggio nelle leggi, non veniva da queste né prodotta né diretta, in poche parole, era la protezione del cittadino ricco e magnifico, del dedomagogo ambizioso e quindi del sovrano, ma non era quella del legislatore e delle leggi.

Queste poche riflessioni appena accennale, e che, a misura che chi legge, si prenderà la pena di estendere e di approfondare, si troveranno sempre più convincenti; queste poche riflessioni, io dico, basteranno per mostrarci l’abuso che si farebbe dell’esperienza, se si volesse con questa regolare il presagio che ci occupa. Abbandoniamo dunque l’istoria e i fatti, e vediamo ciò che la ragione ed il buon senso ci dicono.

Quando un effetto vien prodotto e sostenuto dal concorso di molle forze che, a vicenda, si soccorrono e si conservano; quando tutte quelle contrarie forze che potrebbero disturbare l’azione delle favorevoli, sono state prevenute ed escluse, la natura delle forze impiegate è di divenire più efficaci a misura che più agiscono; quando finalmente l’effetto istesso che producono e sostengono, diviene per questa ammirabile concatenazione di cose l’alimentò delle forze che concorrono a produrlo e sostenerlo: in questa ipotesi il presagio della stabilità e perennità di quest'effetto non sarebbe forse evidentemente approvato dalla ragione e dal buon senso? Ecco appunto il caso, del quale si parla.

Tutte le parti della legislazione sarebbero, come si è dimostrato, le forze che concorrerebbero a condurre e conservare il popolo in questo stato d’istruzione. Tutte queste parti della legislazione, come si è anche dimostrato, sarebbero talmente formate e combinate, che a vicenda tenderebbero a soccorrersi ed a conservarsi. Tutte le contrarie forze che potrebbero disturbar l’azione delle favorevoli, cioè tutte le cause che potrebbero turbare l’azione delle diverse parti della legislazione, sarebbero, come si è veduto e come si seguiterà a vedere nel decorso dell’opera, dall’intero sistema legislativo prevenute ed escluse. Tutte queste parti della legislazione che direttamente o indirettamente concorrerebbero a condurre e conservare il popolo in questo stato d’istruzione, e che sono quelle istesse che concorrerebbero a condurlo e conservarlo in quello stato di vera e solida prosperità, che forma il comune e generale loro scopo, si renderebbero, come è evidente, più efficaci, a misura che più agirebbero sul popolo, e che questo avesse per più lungo tempo la loro azione subita.

Finalmente l’effetto, del quale si parla, o sia l’istruzione, da tutte queste parti della legislazione direttamente o indirettamente prodotta e sostenuta, diverrebbe, come si è anche provato, l'alimento delle forze che concorrono a produrla e sostenerla; giacche, facendo conoscere al popolo i suoi veri interessi, essa favorirebbe l'azione delle leggi che li fecondano; facendogli conoscere e valutare la sua felicità, concorrerebbe con esse a conseguire, sotto gli auspicii delle due passioni, delle quali si è parlato, la desiderata unione della volontà col dovere; e formando e dirigendo l’opinione pubblica, essa formerebbe e dirigerebbe ciò ch'è più forte del sovrano e delle leggi, e per conseguenza ciò che deve conservare e perpetuare il vigore e la perfezione della legislazione, cioè, ciò che deve garantire il tutto insieme di essa dall'inosservanza o dal languore, e le sue’ parli dalle imperfezioni o da' vizii, che il tempo e le circostanze possono in esse discoprire, introdurre o cagionare.

Quale sarebbe dunque la sorte e gli effetti della pubblica istruzione nel popolo, a seconda del legislativo sistema istituito? Considerata come effetto, lo stato di prosperità, nel quale tante o siffatte forze concorrono a condurla e sostenerla, sarebbe stabile e perpetuo. Considerata come causa, essa non solo concorrerebbe a produrre e sostenere la pubblica prosperità, ma ad eternarla, eternando il vigore e la perfezione della legislazione, dalla quale dipende. (259)

Queste idee si combinano perfettamente con quelle che dal mio intero sistema legislativo dipendono; esse non ne sono che conseguenze semplici e naturali. Ma per distruggere i dubbii che possono eccitare, bisogna prima terminare la costruzione delle altre parti di questo vasto edificio; bisogna anche fare qualche cosa di più. Terminata la costruzione, bisogna presentarlo in un punto di veduta, dal quale l’occhio possa vederne tutt'i rapporti, possa concepirne l’insieme. Quando quest’ultimo passo sarà dato, allora io rammenterò a chi legge queste conseguenze, e le presenterò di nuovo al suo giudizio, senza inquietudine e senza appello.

Proseguiamo intanto la costruzione dell’edificio. Quella parte di esso che le religiose leggi deve contenere e che ha tanto rapporto con quella che abbiam terminala, richiamerà le nuove nostre cure. Questo sarà il Santuario del tempio che io innalzo alla felicità ed alla virtù. Se l’impostura l’ha profanato, prima di vederlo costrutto, spero che la verità lo vendichi, e giustifichi agli occhi dell'uomo i disegni dell'architetto, già noti al Dio che legge ne' cuori, e che condanna i temerarii giudizii.


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LIBRO QUINTO

DELLE LEGGI CHE RIGUARDANO LA RELIGIONE

CAPO I

Introduzione

La religione che precede, prepara, opera, accompagna e segue l’origine, il progresso e lo sviluppo delle civili società; la religione che nel selvaggio è un timido culto, che presta alla ignota causa del suo terrore e de' suoi spaventi, per trattenerne o divergerne la funesta azione, che nelle barbare società è il principio di quell'autorità che non potendosi ancora tollerare nelle mani degli uomini, si ripone volentieri in quelle de' Numi, e che sotto gli auspicii della teocrazia dispone, prepara e per gradi opera il difficile, progressivo e lento passaggio dalla naturale indipendenza alla servitù civile, (260) che nelle società ove questo passaggio è già avvenuto, vale a dire nelle società già perfezionate, può venire in soccorso della pubblica autorità, e per estendere la sanzione nelle leggi, e per ottenere ciò che esse non possono prescrivere, e per evitare ciò che esse non potrebbero sempre giugnere ad impedire; la religione finalmente che potendo produrre tutti questi beni, può degenerare in ma causa fecondissima de' più funesti mali, quali sono quelli che dalle perniciose idee religiose e dal fanatismo si sono vedute tante volle e si veggono tuttavia procedere; la religione, io dico, così inerente alla natura dell’uomo, così necessaria alla formazione, perfezione e conservazione della società, e così terribile nella sua degenerazione, potrebbe forse non esser considerata, come uno degli oggetti più importanti della Scienza Legislativa?

Ma se questa Scienza riguarda tutt’i popoli e tutti i tempi, non dovrà essa forse abbracciare in questa parte de' suoi principii tutte le religioni e tutt'i culti? L'autore di questa Scienza nato nel seno della vera religione, potrebbe egli per questo trascurare le false? Ne’ popoli ove queste sono in vigore, non si richiede forse un’arte maggiore nel legislatore, ed una sapienza maggiore nella legislazione,per profittare dei minori vantaggi che esse offrono, e per riparare, prevenire ed ovviare amaggiori mali a' quali espongono, che non se ne richiede ne' popoli ove la vera religione è stabilita? La Scienza dunque, che dirige il legislatore e la legislazione, non può trascurare le false religioni; e niuno dee gridare anatema all'autore di essa, se l’idolatra ed il pagano, se il seguace di Maometto e quel di Cristo vi trovino ugualmente i principii, coi quali diriger le loro leggi relative a religioni ed a culli così diversi. Figli dell’istesso padre, individui dell’istessa famiglia, potrei io trascurare una porzione sì considerabile dei miei fratelli, perché non ha avuta la sorte di partecipare alla parte più bella della paterna eredità? Potrei io dimenticare il dovere che ho contratto coll’umanità intera, per evitare gli insani giudizii della pusilla ignoranza e della calunniosa superstizione? Il mio amore, il mio rispetto, il mio attaccamento alla sublime religione che professo, non debbono forse accrescere il mio coraggio, invece di diminuirlo?

Io son persuaso che questa parte della mia opera offenderà ugualmente coloro, che mal conoscono la verità, coloro che la rendono l’istrumento del loro interesse, e coloro che la negano; ma io disprezzo ugualmente le grida degl'ignoranti, le calunnie degl'ipocriti, ed i sarcasmi di quella classe di uomini ugualmente dispregevole, che troppo deboli perpensare da loro medesimi, e per non essere soggiogati e condotti dalle opinioni del loro secolo, professano l’irreligione per moda, come avrebbero promosse le crociate, se fossero nati sette secoli fa. Ben lungi dal temere sì fatti uomini, seguiamo i consigli del saggio. Ardiamo d'apparir bigotti agli occhi dell’empio, ed empii agli occhi del fanatico. Se noi rimarremo soli nel nostro partito, noi avremo in noi medesimi un testimonio, che ci dispenserà da quello degli uomini. Come scrittori noi abbiamo contratto il dovere di questa pubblica Magistratura. Noi dobbiam cercare, sostenere, diffondere la Verità. Se questa si trova fuori degli opposti partiti, noi dobbiamo tenercene ugualmente lontani. Noi sarem derisi dagli uni, noi saremo calunniati dagli altri: che imporla? Ciò che interessa veramente l’uomo è d’adempire a' suoi doveri, ed a misura che più dimentica se stesso, più travaglia per se medesimo.


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CAPO II

Vedute generali su’ beni che il legislatore dee nella religione cercare

Quali sono i beni che il legislatore dee nella religione cercare? Quali sono i soccorsi che può da essa ottenere? Qual parte può avere questa forza in quella composizione di forze; qual parte può avere questo mezzo in quella combinazione di mezzi che il legislatore deve adoperare e dirigere, per conseguire ed eternare il grande effetto della virtù e della prosperità del popolo? Ecco la prima questione, che convien risolvere, per dare a questa parte de' nostri legislativi principii quell’ordine, quella precisione e quell’universalità che loro compete.

Nel poc'anzi citato Capo trentesimoquinto del terzo libro di quest’opera, noi avemmo opportuna l’occasione di parlare de' soccorsi che la legislazione può nella religione trovare, come vi ha trovati infatti presso tutt’i popoli, ne' diversi periodi del loro stato di barbarie, per produrre il lento e progressivo passaggio dalla naturale indipendenza alla servitù

civile, o sia a quella totale dipendenza che bisogna considerare come l'integrazione della civile società.

Per quello dunque che riguarda quella considerabile serie di soccorsi che la religione alla legislazione somministra in quell'intermedio spazio tra la selvaggia indipendenza e la servitù civile, noi ci rimettiamo qui a ciò che ivi profondamente si stabilì colla scorta di una luminosa ed eterna esperienza, che sulle origini di tutt’i popoli in tutt’i tempi si estende. Nostro scopo dunque altro ora non è, se non di risolvere la proposta questione per quella parte soltanto che riguarda la civile società già integrata, cioè già pervenuta a qual termine del suo sviluppo, nel quale la forza pubblica. ha già pienamente trionfato sulle forze individue, e libera e palese n’è l’azione.

In questo stato della società, che può, che dee fare la religione?

Le leggi prescrivono, le leggi proibiscono, le leggi puniscono, le leggi premiano. Ma la legge non può prescrivere tutto ciò che si vuol ottenere, non può proibire tutto ciò che si può evitare, non può sempre punire, non può sempre premiare. La legge non può prescrivere che l’adempimento di quei doveri che si chiamano d’obbligazione perfetta, ma non per questo non deve ugualmente ottenere l’adempimento di quelli che si chiamano di obbligazione imperfetta. La legge non può proibire che il delitto, ma non per questo non deve ugualmente evitare. il vizio. La legge non punisce il vizioso, ma il delinquente, né può punire il delinquente, quando rimane occulto il delitto. La legge finalmente non può discovrire tutt i virtuosi, né può premiare tutte le virtù. Ma la grande arte del legislatore è di ottenere più di quel che prescrive, di evitare più di quel che proibisce, di spaventare anche quando non può punire, d’incoraggiare anche quando non può premiare. Quando egli ha trovate le leggi che debbono regolare l’educazione, quando ha escogitate quelle che debbono introdurre, stabilire, espandere, invigorire l’impero delle due passioni, delle quali si è nell'antecedente libro parlato, in qual altra forza può egli trovare nuovi soccorsi per riuscire in questi suoi profondi disegni?

La religione è questa forza, e questi sono i beni che il legislatore vi dee cercare.

Ma quali sono i mali che vi potrebbe incontrare?


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CAPO III

Vedute generali su’ mali che il legislatore dee nella religione evitare

Il dogma di un’altra vita, di un giudice che tutto vede, e che premia e punisce, questo dogma fondamento degli indicati beni può divenire inutile, può anche divenire pernicioso. Può divenire inutile, quando le idee del bene che questo giudice premia, o del male che questo giudice punisce, non hanno rapporto alcuno col bene e col male della società; può divenire pernicioso, quando non solo non vi hanno rapporto alcuno, ma gli sono contrarie, in maniera che la religione ordini o sembri ordinare ciò che il legislatore dee proibire, proibisca o sembri proibire ciò che il legislatore dee prescrivere. Ecco i primi mali che il legislatore deve nella religione evitare.

Se le idee del bene e del male religioso concorrono colle idee del vero bene e del vero male morale e civile, vi è un caso che può ancora rendere inutile il dogma, del quale si parla; e questo avviene, quando i principii o falsi o male intesi dell'espiazione distruggono l’utile influenza della sacra sanzione. Ecco un altro male che il legislatore dee nella religione evitare.

Noi abbiam rammentato a chi legge quel luogo di quest’opera, (261) ove mostrammo quali e quanto importanti erano i soccorsi che la religione alla legislazione somministra ne' varii periodi dello stato di barbarie, sì per riparare ad una parte de' mali della naturale indipendenza ancora quasi interamente esistente nell’infanzia della società, come per disporne ed operarne la lenta e progressiva diminuzione, sino a condurla a quello stato di annientamento che l'integrazione della civile società richiede.

Noi vedemmo che nel difetto d’una forza politica bisognò ricorrere ad una forza teocratica. Noi vedemmo che bisognò considerare come delitti religiosi quelli che erano delitti pubblici; che invece di punire i rei di questi delitti come delinquenti, bisognò immolarli alla Divinità come sacrileghi. Noi vedemmo che per trattenere la vendetta negli offesi, per dar luogo alle composizioni, e per preparare in questo modo gli uomini a rimettere alla forza pubblica così la tutela de' loro diritti, come la vendetta de' loro torti, bisognò introdurre gli asili, le immunità sacre, le tregue religiose. Noi vedemmo che i legislatori, per dare alle loro leggi quella forza che non potevano d’altra parte sperare, bisognò che le facessero discendere da' cieli, che le supponessero ordinate dagli Dei, che si ritirassero negli antri, negli spechi, ove si credeva che risedesse o parlasse la Divinità, della quale non facevano che promulgare gli oracoli. (262)Noi vedemmo finalmente che per ottenere tutte queste cose bisognò dare al corpo, che amministrava la religione, la principale influenza negli affari, che in un altro stato della società si apparterrebbe e dovrebbe interamente appartenere al corpo che amministra il Governo. Or tutto questo che si è fatto e che si dovea fare per condurre la società alla sua integrazione, è manifestamente contrario a quel che si dee fare, allorché vi è giunta. Ma infelicemente molte reliquie di queste antiche istituzioni si conservano sovente dové più, dové meno, anche allorché non sono più utili, perché non servono più all’uso, pel quale furono introdotte, ma son divenute perniciose alla società, dalla quale avrebbero dovuto essere interamente proscritte. Ecco la terza serie de' mali che il legislatore dee nella religione evitare.

A questi mali, che sono le reliquie delle antiche istituzioni dello stato barbarico della società, se ne aggiugne un altro che anch’esso è una reliquia di questo anteriore stato, ma che dipende piuttosto dalla maniera di pensare de' barbari e dall'influenza che questa ha sulla loro religione, che dalle politiche e religiose istituzioni di quel tempo.

Il barbaro, presso del quale l’idea dell’orarne, da cui quella della giustizia procede, o non esiste oè molto oscura; il barbaro che non desidera, non apprezza, non rispetta, non onora che la forza; il barbaro, presso del quale i segni che manifestano l’opinioni della superiorità della forza, sono quelli che unicamente lusingano la vanirà del più forte, e presso del quale per conseguenza il maggior merito del più debole verso il più forte, la cosa da lui più gradita, consiste negli esterni segni di ossequio e di omaggio; il barbaro, io dico, riconoscendo nella Divinità un essere più forte e supponendo in essa l’istesso modo di pensare, comunica alla religione l’istesso spirito, e ripone nell'esterno culto lutto il merito della pietà. Or quest'errore che, cambiandosi collo stato della società la maniera di pensare degli uomini, avrebbe dovuto anche colla causa che l’ha prodotto smarrirsi, quest’errore sopravvive sovente a' tempi ed alle circostanze che l’hanno cagionato, e le sue perniciose reliquie vengono, dové più e dové meno, o dalla natura istessa della religione o dall’ignoranza e dall'interesse de' preti, o da tutte queste tre cause insieme conservate e trasmesse anche nelle società già incivilite. Ecco un altro male da evitarsi.

Ogni religione è minacciata da due opposte specie di mali: o dallo spirito d’irreligione che priva la società della sua utile influenza, o dallo spirito di fanatismo che la rende l’istrumento delle pubbliche e private sciagure, e di delitti. Ecco le due ultime, ma forse le più considerabili serie de' mali, da' quali la legislazione dee garantir la religione; ed ecco generalizzati colla maggior possibile astrazione e brevità i beni che il legislatore dee nella religione cercare e i maliche deve evitare. Diamo ora un altro passo, e cerchiamo di vedere quali sieno le relazioni che le diverse religioni hanno o possono avere con questi beni, e quali sieno quelle che hanno o possono avere con questi mali. Questo esame è necessario per vedere con quai mezzi il legislatore debba nelle diverse religioni ottenere questi beni, evitare questi mali. Ma per riuscire in questo esame bisogna premetterne un altro. Bisogna determinare la natura di queste religioni. Le difficoltà di questa impresa non ce ne debbono distogliere. È comoda cosa Levitare gli ostacoli, ma Farle consiste nel superarli e la perfezione suppone questa vittoria. Si cominci dunque da ciò che sembra più difficile; si principii, io dico, dalle false religioni, e dopo che si sarà pienamente sviluppato ciò che le riguarda, si passi coll’istesso ordine alla vera.


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CAPO IV

Del Politeismo. (263)

Per generalizzare i legislativi principii che questa religione riguardano; per trovare in mezzo alle differenze, delle quali questa religione è sembrata, sembra e sembrerà sempre sì copiosamente suscettibile, le universali relazioni che tutti i particolari politeismi, quantunque sì diversi tra loro, debbono nulladimeno avere per loro essenziale natura cogl’indicati beni e cogl’indicati mali; per partire finalmente da questi dati alla ricerca delle operazioni legislative che ne debbono dipendere, e che come tali potranno per conseguenza esser fondate sopra principii di un universale ed eterno uso, di una universale ed eterna opportunità; per ottener tutto questo, io dico, bisogna generalizzare il soggetto istesso delle nostre ricerche; bisogna formare di tutti i politeismi che ci sono stati, ci sono e ci possono essere, un Politeismo astratto che sia come la specie che tutti quest’individui comprende; bisogna portare in questo caos di oggetti, nei quali le somiglianze sono sì occulte e le differenze così apparenti, quegli sguardi profondi e collettivi che fanno discoprire al filosofo l’uniformità in quelle cose, nelle quali il volgo non vede e non trova che dissomiglianze; bisogna discovrire la natura e l’origine di. questo culto, e bisogna trovarla nella natura invariabile dell’uomo e nelle circostanze universali del genere umano.

Supponiamo l’uomo abbandonato a se stesso, (264) privo di cognizioni e di lumi, circondato dalle tenebre dell’ignoranza che precedono ed accompagnano le origini e le infanzie delle società; riconduciamolo in quello stato, pel quale tutti i popoli han dovuto passare, e nel quale una considerabile porzione del genere umano ancor oggi si ritrova; combiniamo le riflessioni sugli effetti di questa universale posizione con quelle, che ci somministrano le proprietà universali della natura umana, e da questa universale posizione combinata con queste universali proprietà deduciamo i primi anelli di questa teologica catena, intorno alla quale il Politeismo di tutti i popoli in tutti i tempi si raggira.

Vi è un contrasto di finito e d’infinito nella natura umana, che, profondamente osservato dal filosofo, di molli morali fenomeni gli somministra la ragione, e l’origine di molti fatti gli fa discovrire. Se noi osserviamo le nostre forze e le nostre potenze noi troviamo la nostra natura finita e terminata; ma se noi riflettiamo sulle nostre concezioni e svi nostri appetiti, noi vediamo questa natura istessa partecipare dell'infinito, potendo essa concepire in qualche modo l’infinito essere, e potendo appetire ancora un infinito bene ed un infinito numero di cose. L’uomo ignorante non ha potuto sicuramente ragionare come noi su questo inesplicabile contrasto, non l’ha sicuramente come noi scoverto, ma n’è stato come noi colpito. Gli opposti sentimenti che questa partecipazione di finito e d’infinito della natura umana dee destare, han dovuto necessariamente su di lui agire, come agiscono su di noi; e se non han richiamata la sua riflessione, han però con maggior forza influito sulle sue opinioni, giacche a misura che meno estesi sono i lumi della ragione, più immediata e più forte è l’influenza de' sentimenti.

Fermandoci per poco su questa riflessione, e cercandovi ciò che unicamente interessa il nostro argomento; noi vi troveremo facilmente l’ascosa ed universale origine e natura del Politeismo. Noi troveremo il sentimento della propria debolezza condurre l’uomo alla prima idea della Divinità; e il sentimento opposto di perfezione ravviluppare quest’idea negli errori, su’ quali l’orgogliosa ignoranza degli uomini ha innalzato il mostruoso edificio di quest'insana religione, che quantunque diversa nelle modificazioni che ne' diversi luoghi e ne' diversi tempi ha subite, si troverà sempre una e l'istessa nella sua origine e nella sua natura.

L'uomo affetto dal sentimento della sua debolezza, penetrato dallo spavento che i terribili fenomeni della natura destavano in lui, oppresso dal sentimento dell’impotenza delle sue facoltà per allontanarli, ha dovuto su questi fenomeni determinare le sue riflessioni; ha dovuto supporre una forza, una potenza che li cagionava; ha dovuto riconoscere la superiorità di questa forza, di questa potenza; e nella desolazione, nella quale il sentimento della sua debolezza lo precipitava, allorché questa forza minacciava la sua rovina, ha dovuto invocarla, non avendo contro di quella altro rifugio. Ecco il primo passo che lo spirito umano, abbandonato a se stesso,e nell’universale posizione, nella quale noi l’abbiamo supposto, ha dovuto dare verso la religione; ecco infatti il primo che ha dato; ecco il regno di Uranos, detto Celo de' Latini, ossia l’epoca, nella quale ’ignota forza che agitava la natura e spaventava gli uomini, era l’unico oggetto de' voti e del culto dei primi atterriti mortali. (265)

Questo primo passo avrebbe potuto esser l’unico, giacché, come noi vedremo in appresso, nelle Nazioni ove furono misteri, gl’iniziati che vi partecipavano e ch'erano scelti tra i più sapienti del popolo, dopo lunghi errori, ed in mezzo ai lumi della più estesa cultura, ritornarono a quel punto, ove i primi loro padri erano naturalmente pervenuti; ma era più facile che gli uomini vi ritornassero, che non lo era che vi si arrestassero. Lo spirito umano dominato da due sentimenti opposti, che da quel contrasto di finito e d'infinito che si osserva nella natura umana procedono, doveva ben presto nelle sue religiose opinioni risentirsi del sentimento opposto a quello che le avea per la prima volta destate. Se il sentimento della propria debolezza lo condusse ad invocare ed adorare l'ignota forza, l'ignota potenza che agitava la natura, minacciava la sua rovina ed eccitava i suoi spaventi, il sentimento opposto della propria perfezione, combinato coll’ignoranza, nella quale si trovava e nella quale noi l’abbiamo supposto, dové renderlo, come lo rendette infatti ben presto, politeista ed antropomorfita. Non avendo gli uomini, in questo stato di cose, cognizione alcuna delle naturali leggi e molto meno avendo quella ch'è l’ultima ad acquistarsi e che suppone l’ultimo grado dell’umano sapere, cioè il conoscere e concepire, che noi non possiamo, né potremo mai tutto conoscere e concepire; privi di quei soccorsi e di quella circospezione, che dall'indagine delle cause denaturali fenomeni somministrano le scienze e l’esperienza degli umani errori; penetrati anzi da quella orgogliosa manìa di volere e di poter tutto spiegare, che il sentimento della propria perfezione combinato coll’ignoranza ispira; vedendo l’apparente guerra che le diverse potenze della natura si fanno, e non potendola altrimenti spiegare che coll’idea d’intelligenze diverse che dirigessero queste diverse forze, queste diverse potenze; e non potendo finalmente, per l’istesso sentimento della propria perfezione, supporre in queste intelligenze una natura dalla loro diversa, personificarono queste forze, queste potenze; dettero loro senso e vita, le invocarono, le adorarono come di loro più forti, loro dettero, come dice Aristotile, (266) non solo le umane forme, ma ben anche le loro maniere di vivere e le loro affezioni; e se loro dettero un capo, se un nume superiore fu tra questi Numi distinto, se conservarono questa prerogativa all’antico nume, come quello che all’ordine successivo delle cose credevano che presedesse, ne cangiarono sovente sino il nome, perché nuova idea ne concepirono, limitata, circoscritta, superiore, ma non dissimile da quella che degli altri Numi si avean formata.

Questa fu, è e sarà sempre la prima origine del Politeismo sempre coll'Antropomorfismo combinato; questi furono, sono e saranno sempre i primi anelli di quella teologica catena, intorno alla quale il Politeismo di tutt’i popoli in tutt'i tempi si aggira; e questo è il regnò di Saturno e de' Titani, che l’anteriore regno distrussero, che il gran Padre mutilarono, cioè l’epoca di questo secondo culto, nella quale non più all’ignota ed universale forza diressero soltanto i loro voti, e rendettero i loro omaggi gli orgogliosi mortali; ma con più e particolari potenze della natura medesima li divisero, l'nella quale il gran Padre fu mutilato, cioè l’idea dell’ignota ed universale [orza fu ristretta, perché non più come l’unica ed universale regolatrice della natura fu considerata, ma la principale funzione di essa le fu soltanto attribuita, quale era quella che si manifestava nel giro degli astri, nel ritorno delle stagioni, nella successione in somma delle cose, e che per tal ragione non espressero più col nome d’Uranos ossia Celo, cioè di ciò che tutto abbraccia e contiene, ma di Cronos ossia Saturno, che altro non indica, se non ciò che si risolve e gira, cioè il Tempo, nel quale le celesti rivoluzioni sono la misura; che all’anteriore regno succede, perché non più coll’antica idea e coll’antico nome, ma colla nuova idea ed il nuovo nome viene adorata; (267) che de' decreti del Fato, ossia di quella prima legge, che l’ordine successivo e perenne delle cose avea prefisso ed alla quale gli Dei stessi erano sottoposti, è depositario e ministro, perché i cangiamenti prefissi, le prefisse rivoluzioni, gli avvenimenti tutti nella gran catena del fato inseriti, nel loro ordine di successione produce; (268) che ha due volti per rappresentare il passato e l’avvenire, e che i proprii figli divora, perché le sue opere consuma e distrugge. (269)

Vi è una progressione negli errori, come ven’èuna nelle verità. Gli uni e le altre procedono dalla mente umana, la quale, essendo riflessiva e conseguente difficilmente si arresta ne' primi passi che dà in queste opposte regioni. Questa verità confermata dalla ragione e dall’esperienza ci somministra il naturale progresso del Politeismo, del quale abbiam già fissata l’origine e mostrati i primi elementi.

Una volta personificate e deificate una parte delle potenze fisiche della natura, non vi voleva molto a personificare e deificare le altre; ed una volta diviso il reggimento del mondo fisico tra varie intelligenze distinte, non vi voleva molto a supporre la cosa istessa nel reggimento del mondo morale.

Gl’impeti delle passioni, sovente in contrasto tra loro, somministravano un fenomeno simile a quello dell’apparente guerra delle naturali forze, ed era natural cosa lo spiegare con una causa simile un simile effetto. Le forze morali dovettero dunque avere particolari e distinte intelligenze che le agitassero, le comunicassero, le divergessero, le dirigessero.

Le affezioni e le passioni dovettero dunque esser personificate e deificate come gli elementi e gli astri, ecc.; e gli uomini per allontanar da essi, o per richiamare sugli altri la mestizia ed il timore, dovettero fin anche eriger tempi ed altari al Dio della Tristezza ed a quello della Paura. (270)

Gli errori de' sensi dovettero contemporaneamente venire in soccorso de' falsi ragionamenti dell’intelletto, per somministrare la loro parte a questa prodigiosa moltiplicazione di Numi. Si sa che la notte, la quale impedisce di giudicare della distanza e di riconoscere la forma delle cose per cagione dell'oscurità, espone l’uomo in ogni istante all'errore riguardo a' giudizii, ch'egli fa degli oggetti che gli si presentano. Ristretto a giudicare di un oggetto per la sola grandezza dell’angolo, cioè per la sola immagine che forma ne' suoi occhi, dee necessariamente avvenire che quest’oggetto sconosciuto si allungherà e si dilaterà prodigiosamente a misura che se ne avvicina. Esteso di pochi piedi, allorché n’era lontano di molti passi, lo diverrà di molle tese, allorché ne sarà lontano di pochi piedi. S’egli giugnerà a toccare o a riconoscere quest’oggetto, l’illusione terminerà subito, e nell’istante medesimo l’oggetto che gli sembrava gigantesco e mostruoso, non gli comparirà più che nella sua reale grandezza. Ma se fugge o non ardisce avvicinarsi, è certo ch’egli non avrà altra idea di quest’oggetto che quella dell’immagine che ha formata ne' suoi occhi, e che avrà realmente veduta una figura gigantesca e straordinaria per la grandezza e per la forma. (271)

Questa riflessione nel tempo istesso che ci mostra che il pregiudizio degli spettri, sì comune nella plebe de' nostri dì, è fondato sulla natura, e non dipende, come si crede, unicamente dall’immaginazione, ci fa nel tempo istesso discovrire l’ignota ed universale origine di una considerabile parte dei componenti del Politeismo di tutti i popoli e di tutti i tempi. Le moderne ombre,i fantasmi moderni, i moderni spettri dovettero esser considerate come tante Divinità dagli uomini che avean già dato il primo passo nel Politeismo, che avean l’immaginazione ripiena di fenomeni teologicamente spiegati, che vivevano in un suolo, il quale più selvaggio di coloro che l’abitavano, più materiali somministrava a queste illusioni, e che più della moderna plebe erano nelle tenebre dell'ignoranza ravvolti. I boschi, i fiumi, i laghi, il mare dovettero esser popolati di Deità, nate da questi errori; l’abitazione di ciascheduna famiglia doveva esserne circondata; gli antri e le caverne oscure de' monti dovevano esserne ripieni; da per tutto gli uomini ne dovevano incontrare nella notte, o ne' luoghi come la notte oscuri; e questa dovette esser l’origine delle Ninfe che erravano sulla terra sotto il nome di Melie, (272) che con bella immagine Esiodo fa nascere, dopo qualche anno, dalle goccie del sangue di Celo sulla terra cadute dopo la fatale mutilazione, cioè poco dopo introdotto il Politeismo. Questa dovette esser l’origine di tante altre Ninfe, (273) che i boscosi monti o le foreste, le maremme o i laghi, i fiumi,i fonti, il mare, le marine caverne abitavano; questa dovette esser quella degli Dei Penati e dei domestici Lari, (274) che la famiglia proteggevano ed i domestici recinti custodivano, perché intorno ad essi si eran veduti; questa dovette esser quella de' demoni detti Lemures, (275) che gli antichi consideravano come deità notturne, perché nella sola notte si eran manifestate; questa dovette esser quella degli Dei Mani, (276) che de' sepolcri e delle Ombre che nella notte d’intorno vi erravano, prendevan cura, perché vicino a quelli ed in mezzo a queste si eran incontrati; e questa finalmente esser dee l’universale origine di que’ mostri deificatI detti Giganti, (277) che l'interno de' monti abitavano e de' quali noi troviamo ripiena la mitologia di tutt’i popoli in tutt’i tempi.

Seguiamo il corso dello spirito umano in questo laberinto di errori, e noi non rischieremo di perderci; noi li troveremo gli uni dagli altri dipendenti; noi vi troveremo quell’ordine di progressione che si smarrisce subito che questo filo si spezza o si abbandona. Noi abbiam veduto come dalla deificazione di alcune forze fisiche della natura si dové passare alla deificazione delle altre, e come dalla deificazione delle forze fisiche si dové procedere a quella delle morali forze, cioè delle affezioni e passioni dell’animo. Noi abbiam veduto come dagli errori della veduta dové procedere un’altra numerosa legione di Numi, de' quali chi legge ha potuto già concepire l’ispezione e le funzioni. Non vi vuol molto a vedere che lo spirito umano, che, come si è detto, è progressivo e conseguente, non poteva a questo punto del suo cammino arrestarsi. Così negli errori, come nelle verità, le conseguenze più immediate del primo errore divengono esse medesime principii di altri errori, e dall’estensione e combinazione di questi più lontani erronei risultati, nuovo incremento riceve l’erronea catena, nella quale, se la relazione degli ulteriori anelli col primo sparisce, quando si vuole a dirittura trovare, si ritroverà nulla di meno e si ritroverà sicuramente, quando agli intermedii anelli che la formano, si rivolge lo sguardo. Ecco ciò che si osserva nell’universal progresso del Politeismo.

Se le affezioni e le passioni degli uomini avevano distinte intelligenze che di queste morali forze disponevano, perché non avrebbero dovuto averne le virtù ed i talenti? (278)

Se le viziose passioni potevano esser considerate sotto il dominio di alcuni Dei,perché i vizii istessi non avrebbero dovuto essere sotto la pertinenza di altre Deità? (279)

E se le passioni, le virtù, i vizii ed i talenti riconoscevano ugualmente la distinta influenza di particolari Deità, perchénon avrebbe dovuto estendersi l’istessa opinione su diversi beni e su diversi mali? (280)

Se i diversi impeti delle diverse passioni erano attribuiti a Deità diverse che di queste passioni disponevano, qual meraviglia che l’impotenza di allontanar da noi un pensiero che ci turba, e l’azione de' rimorsi che suo malgrado perseguitano il colpevole, abbia destata l’idea di altre Deità che del pensiero disponevano e de' rimorsi? (281)

Se il sentimento della propria perfezione doveva suggerire quello dell’immortalità nell’anima, come l’ha infatti presso tutti i popoli più ignoranti suggerito, perché dopo la morte non avrebbero dovuto esservi Deità, destinate a premiare ed a punire, come ve n’erano nel tempo della vita? (282)

Se le potenze positive della natura erano state deificate, perché non avrebbero dovuto esserlo le negative, quali sono la notte, le tenebre, la morte, il sonno, che un egual dominio manifestano sui deboli mortali? (283)

Se vi era il Dio del sonno, perché non avrebbe dovuto esservi gli Dei de' sogni? (284)

Se la tutela de' boschi, de' laghi, de' fiumi e delle foreste era stata a divine intelligenze attribuita, perché, quando col progresso della società si cominciò a coltivare il terreno, non si sarebbe dovuto attribuire ad altre intelligenze quella delle vigna e de' campi? (285)

Se le particolari famiglie e i loro recinti aveano particolari Dei che li proteggevano e li custodivano, perché non avrebbero dovuto averne il Popolo che da queste famiglie veniva composto, e Ja Città che queste famiglie conteneva? (286)

Se la fecondazione, il nascimento e la vegetazione delle piante esigevano l’ispezione di particolari Deità, perché nonavrebbe dovuto esigerne la fecondazione ed il parto della donna, la prosperità del fanciullo e la sanità dell’uomo? (287)

In poche parole: se il corso dello spirito umano non viene da particolari circostanze interrotto, una volta che si è dato il primo passo nel Politeismo, non è egli necessario che si giunga al Dio Crepilo ed al Dio Stercuzio? (288)

Alla testa di questo immenso popolo di Numi vi sarà, è vero, un Re. La confusa memoria dell’ignoto Essere che fu l’oggetto del primo culto, non si sarà del tutto smarrita. Ma il nome istesso, col quale si esprimeva quest’Essere, o risveglierà molto inferiore idea, o sarà di nuovo cangiato. L’idea del suo potere sarà infinitamente diversa. Egli non sarà più il Monarca assoluto della natura, come nella prima età; egli non sarà neppure il Capo d’una ristretta oligarchia, come nella seconda età; egli non sarà altro che il Principe d’un immenso e tumultuoso Senato, i membri del quale, spesso in guerra col Capo, esercitano da loro stessi diverse e particolari funzioni, nelle quali altro freno non hanno, se non quello che dal Fato dipende, cioè da quell’anteriore legge, emanata dall’antico Re, ma della quale egli non è più che il depositario, ed alla quale egli medesimo è sottoposto. (289)

Ecco il naturale progresso che deve avere, e che ha avuto infatti il Politeismo; ecco la terza età di Esiodo, nella quale questa prodigiosa moltiplicazione di Numi viene fissata; ecco il regno di Giove e de' nuovi Dei che al regno di Saturno e dei Titani succede, cioè che dal primo passo dato nel Politeismo procede: ed ecco la ragione dell’incomprensibile figura che Giove rappresenta nella favola, nella quale Esiodo, dopo averlo considerato come figlio di Cronos, ossia Saturno, il quale fu egli medesimo figlio d’Uranos, ossia Celo, lo chiama padre di tutti i Numi, appunto per indicare che Uranos, Cronos e Giove erano sotto diversi nomi, con diverso potere e con diverso culto, in età diverse l’Essere istesso; (290) ed ecco perché Omero nel tempo istesso che ci dipinge Giove colla bilancia del Fato nelle mani pesare i due fati di morte d’Ettore e d’Achille; (291)nel tempo istesso che ci mostra l’impotenza de' suoi sforzi per sottrarre da' decreti del Fato il suo istesso figlio Sarpedone; nel tempo istesso, io dico, ci fa vedere con divina immagine quest'aurea catena del Fato sospesa da Giove fino alla terra, per mostrarci che di questa inalterabile legge d’ordine, della quale era stato egli medesimo da principio l’autore, non ne era più che il suddito ed il depositario. (292)

Finalmente, siccome presso tutti i popoli il Politeismo ha dovuto prendere origine ed incremento prima della loro civilizzazione, è natural cosa il trovar in quel periodo della barbarie, nel quale il Governo può dire essere interamente teocratico, l’universale origine di quell’ultima colonia di Numi, che di Uomini deificati era composta.

Il Sacerdozio presso del quale, in questo stato della società, tutto il potere si raggirava; il Sacerdozio che arbitrariamente disponeva della pubblica opinione; il Sacerdozio al quale incumbeva di favorire il potere del Re, ch’era, come dice Aristotile, anche il capo di questo potente corpo; il Sacerdozio, io dico, non ha dovuto stentar molto per dare a questo Re un’origine celeste, o per occultare con questo mezzo le amorose avventure de' suoi individui o de' loro aderenti, e preparare nel tempo istesso la futura sorte de' frutti de' loro clandestini piaceri, sostituendo a veri padri o alle vere madri gli Dei o le Dee, de' quali o delle quali essi erano i sacerdoti.

Il tempo, che tutte le tradizioni altera, ha dovuto esagerare alla posterità le gesta, di questi Eroi, nati dagli amori degl'immortali coi mortali, e l’ammirazione unita alla riconoscenza gli ha finalmente deificati.

Io non saprei trovare una più naturale origine di quest’ultima classe di Numi che Esiodo con ragione fissa nella quarta età, (293) e colla quale si può discoprire ancora l’universale origine di tutte quelle favole che ci parlano de' ratti, degli stupri, in una parola delle galanterie passate tra gli abitatori del Cielo e quelli della Terra, e delle metamorfosi, coll’auspicio delle quali si faceva sovente credere che queste fossero avvenute. (294)

In questo stato d’incremento e di estensione trovano la religione i poeti. Quelli tra loro che sono i primi a maneggiare la sacra istoria della loro nazione, sono sempre troppo vicini all’epoca, nella quale la religione ha ricevuta l’ultima mano, per poterne interamente ignorare i successivi progressi. Una confusa tradizione sostenuta dagl’inni e da' cantici degli anteriori poeti, da' riti e dalle preci de' sacerdoti, dalle solennità e dalle feste commemorative, ha dovuto trasmetterne una confusa istoria, ed ha dovuto nel tempo istesso perpetuare la rimembranza di alcuni memorandi avvenimenti. Siccome questi avvenimenti, oche riguardassero l’ordine fisico, o che riguardassero l’ordine morale, doveano sempre essere o dalle fisiche potenze della natura, o dalle morali potenze cagionati; così è chiaro ch'essi dovevano fare un’essenzial parte della religiosa istoria di que’ tempi, come quelli che o dagli Dei reggitori del mondo fisico, o dagli Dei reggitori del mondo morale dipendevano.

Se un avvenimento non si era ristretto ad una picciola e particolare regione; se sopra tutta o una considerabile parte della terra si era esteso; se un considerabile numero delle fisiche potenze della natura vi aveva avuto parte, questo avvenimento doveva essere trasmesso come una guerra che gli Dei si eran fatta tra loro. Tal è l’universale origine delle gigantomachie, di queste guerre divine, delle quali parlano le istorie di tutti i popoli, di quegli anche, de' quali non si può neppur sospettare che la menoma relazione abbiano tra loro avuta. (295)

Se altri avvenimenti un sol uomo, una sola famiglia, un solo popolo, una sola e ristretta regione avevano o favorita o desolata, questi venivano considerati, o come premii di pietà o come flagelli, co' quali gli Dei vendicate avevano le offese ricevute dal sacrilego uomo, dalla sacrilega famiglia, dal sacrilego popolo o da' sacrileghi abitatori di quella regione.

Se ad imponenti fenomeni della natura si rapportavano, questi erano trasmessi come imprese o relazioni delle invisibili Deità, che delle naturali forze in questi fenomeni impiegate disponevano.

Se finalmente si rapportavano a guerre di un popolo contro un altro popolo, queste erano guerre preparate nel Cielo, agitale da' Numi, sostenute dagli Dei divisi ne' due opposti partiti.

Su queste antiche e confuse tradizioni i primi poeti han dovuto innalzare i loro mitologici edificii. Essi han trovata la confusa tradizione de' cangiamenti e degl’incrementi che la religione ha progressivamente subiti, essi han trovato l’Antropomorfismo col Politeismo combinato. Essi han trovata la memoria degli avvenimenti così universali, come particolari, come fisici, come morali teologicamente trasmessa.

Essi han trovate l’esagerate tradizioni delle gesta di quegli Eroi che l’impostura fe’ credere nati dal commercio de' mortali cogl’immortali, e che l’ignoranza, l’ammirazione e la riconoscenza avea posteriormente deificati. Essi hanno ordinariamente trovato anche alcune estere religiose notizie di qualche altro popolo che o la guerra, o il commercio, o qualche altro accidente ha dovuto, per lo più in questo periodo della società, confusamente introdurvi.

Essi hanno finalmente trovate tutte le patrie religiose tradizioni trasmesse in un linguaggio, ch'essendo quello della nascita e dell'infanzia della società, doveva avere quell’universale proprietà di esprimere più idee coll'istesso vocabolo; proprietà che dipende da quell’universale fatto degli uomini che prima acquistano le idee e poi trovan le parole che debbono esprimerle, in maniera che col lento progresso di queste nascenti società, moltiplicandosi le idee, non si moltiplicano contemporaneamente le parole che debbono esprimerle, ma si adattano per lungo tempo più idee alle già adottale parole; d’onde deriva che coloro, che vengono dopo, ed in un tempo di maggior coltura, possono dare varii sensi ad un’istessa antica espressione.

Ecco ciò che i primi poeti, de' quali parliamo, han dovuto trovare, ed ecco ciò che hanno infatti da per tutto trovato. Che vi hanno essi aggiunto? Tutto ciò che la poesia profittando di queste disposizioni poteva su questi fondamenti innalzare. .

Invece, per esempio, di dire che l’occulta forza che agitava la natura e spaventava gli uomini fu da principio sotto il nome di Uranos, ossia Celo, l'unico oggetto de' voti e del culto de' primi atterriti mortali, Esiodo ci dice: Uranos regnò da principio solo; egli teneva i figli nati da lui, e dalla terra (cioè le particolari potenze che la natura nel Cielo e nella terra manifesta) nelle viscere della madre nascosti (cioè esclusi da' divini onori che gli uomini non rendevano allora che a lui solo). (296)

Invece di dire che dopò qualche tempo gli uomini a più e particolari forze della natura dette Titani diressero i loro omaggi, e che stringendo l’idea della prima ed universale forza che avevano chiamata Uranos, ossia Celo, in quella di una potenza che si limitava a regolare il corso degli astri, il ritorno delle stagioni, ecc., con nome atto ad esprimere questa più ristretta idea di quella prima, non più intera, ma mutilata potenza, Cronos o Saturno la chiamarono; egli dice che la Terra irritata contro la crudeltà del Celo, che i suoi figli nel Tartaro teneva nascosti, cercò di vendicarsi; estrasse dalle sue viscere il ferro ed i metalli, ed una falce tagliente ne costrusse; comunicò il gran disegno a' suoi figli, alla ribellione ed alla vendetta eccitandoli; e poiché il solo Saturno più degli altri astuto ebbe il coraggio di accettare il terribile incarico; essa lo nascose, gli consegnò la falce, e l’istruì dell’uso che dovea farne; verso la sera il Cielo sparse sulla terra le tenebre della notte, ed allorché si disponeva a stendersi sulla sua sposa, Saturno con mano ardita mutilò suo padre, e ben lungi dietro di lui gittò ciò che gli aveva tagliato. (297)

Invece di dire che appena diviso il culto in più e particolari potenze deificate, il numero degli Dei cominciò progressivamente a crescere, e che gli uomini nuove Deità da per tutto discovrirono; egli dice che niuna goccia del sangue di Celo, sulla terra caduta dopo la fatale mutilazione, fu infeconda; che ognuna di esse una diversa Deità generò; che le terribili Furie, le Ninfe, che sulla terra erano sotto il nome di Melie, e i Giganti armati ed alla guerra esercitati, dopo qualche anno ne nacquero. (298)

Invece di dire che gli uomini, dopo aver adorate le potenze fisiche della natura, adorarono anche le morali forze, o sieno le affezioni e le passioni, che l’uomo agitano e commuovono; egli dice che Saturno avendo gittato nelle onde agitate del mare ciò che avea reciso a suo padre, questa porzione d’un corpo immortale galleggiò per lungo tempo sulle acque, e dalla schiuma che se ne formò, una nuova Deità ne nacque, che approdò da principio nell’isola di Citerà, e quindi in Cipro. Da per tutto, ove la bella Dea si manifestava, i fiori crescevano sotto i suoi passi; e questa Dea fu chiamata Afrodite o Venere.... L’amore e il bel Cupido la seguono in tutti i luoghi, e l’accompagnano nell’assemblea de' Numi. Il riso, la gioventù, i galanti detti, le soverchierie d’amore, i piaceri, le carezze, la voluttà formano il suo appannaggio. (299) Con ugual poetica finzione egli fa nascere dalla Notte la divorante tristezza (300) e l’invidia, (301)e da Marte con Venere unito il timore e lo spavento, ecc. (302)

All’antica tradizione di quella terribile guerra de' Numi, che senza dubbio da qualche gran catastrofe ebbe origine, egli l’altra tradizione dell'ulteriore cangiamento dell'idea del Supremo Essere e dell’ulteriore estensione del Politeismo vi associò, e con poetiche finzioni vi aggiunse i congressi tenuti da' figli di Saturno, ossia da' nuovi Dei contro gli antichi, il banchetto nel quale Giove, per accrescere il coraggio de' suoi commilitoni, di nettare l’innebrioe di ambrosia; la concione da lui tenuta, e varie altre circostanze di tal natura, che questa guerra accompagnarono e seguirono. (303)

In poche parole in tutta questa favola i fulmini, i tremuoti, l’eruzione de' vulcani, le tempeste, le inondazioni, il disordine in tutte le diverse potenze della natura, sono il fondo della verità; l’interpretazione data a questo avvenimento, come una guerra tra gli Dei, è l’antica tradizione trasmessa, e tutto il resto non è che associazione e creazione poetica.

L’istesso uso facendo gli stessi poeti delle antiche memorie di quegl’imponenti fenomeni della natura, che osservati in un tempo, nel quale tutto era creduto opera degli Dei, tutto doveva come tale trasmettersi; essi non dovettero far altro, che ornare ed arricchire queste antiche tradizioni colle immagini e finzioni della poesia, per formarne le favole della specie di quelle della vittoria di Apollo sul serpente Pitone; della Valle di Tempe, da Nettuno con un colpo del suo tridente aperta; delle Arpie colle loro incursioni e saccheggiamenli; degli amori di Giove colle Ninfe, e di tante altre di questa natura, che, non altrimenti di quelle, delle quali si è parlato, la rimota verità già alterata ed ascosa fanno interamente perdere, e la veduta smarrire. (304)

Dell'istessa maniera questi primi poeti e gli antichi tragici nelle antichissime tradizioni degli uomini, delle famiglie, de' popoli, delle particolari regioni che l’ira e la vendetta che gli Dei avevano su loro richiamata, immaginarono tutto ciò che la poesia poteva su questi antichissimi fondamenti di nuovo innalzare, e ciò che somministrò ad Aristofane i materiali, onde far ridere a spese degli Dei il popolo di Atene. (305)

E dell’istessa maniera Omero sull’antica tradizione degli opposti interessi de' Troiani e de' Greci, che gli Dei in due opposti partiti divisi sposarono, il suo poema di tanti teologici episodii riempì, la maggior parte de' quali, quanto onorarono il poeta, altrettanto discreditarono i Numi. (306)

Finalmente per nulla omettere di ciò che al nostro argomento interessa, all’esagerate tradizioni delle gesta di quegli Eroi deificati, che l’ultima colonia de' Numi avean formata, essi non solo vi aggiunsero gli ornamenti, le allegoriee le finzioni della poesia; ma seguendo quello spirito poetico, che profondamente osservato si raggira a concretare gli astratti, cioè a formare di una specie intera un individuo immaginario, essi vi associano tutto ciò che le tradizioni de' popoli da loro conosciuti rapportavano delle gesta ugualmente esagerate di altri Eroi simili a' loro; ed unendo in questo modo queste diverse esagerate storie di questi diversi, ma simili Eroi, le particolari storie ne formano de' loro particolari Eroi; nelle quali non solo il maraviglioso, ma l’inverosimile e l’impossibile in ogni tratto si trova. (307) Essi fecero l’istesso uso delle altre estere religiose notizie che trovarono, alle proprie aggiungendole, e colle patrie loro tradizioni amalgamandole in modo che dall'istesso fonte e nell'istesso luogo sembrasser nate. (308) Essi profittarono finalmente de' diversi sensi, che per causa della povertà dell’antica lingua si potevano dare alle antiche espressioni, colle quali le antiche tradizioni si trovarono trasmesse, per dare a' fatti che queste contenevano, le più strane e bizzarre alterazioni che la poetica immaginazione poteva ideare. (309)

In poche parole, questi primi poeti profittando della confusa tradizione che trovarono, de' cangiamenti e de' progressi che la religione avea subiti; profittando di quella ugualmente confusa memoria de' memorandi avvenimenti così universali come particolari, così fisici come morali, teologicamente trasmessa; profittando più d’ogni altro dell'Antropomorfismo che, come si è detto, dovette avere col Politeismo una contemporanea origine; profittando dell’esagerate tradizioni delle gesta de' proprii Semidei, ossia patrii Eroi deificati, e nell’interesse che la nazionale vanità vi prendeva; profittando ugualmente dell'estere religiose notizie che trovarono, e della facilità d’incorporarle colle proprie; e profittando finalmente dei soccorsi che somministrava alla loro immaginazione la povertà dell’antica lingua, colla quale le patrie religiose tradizioni trovarono trasmesse; servendosi, io dico, di questi fondamenti e profittando di queste disposizioni, espressero colle posteriori idee de' politici cangiamenti l’anteriore istoria delle vicende delle religiose opinioni; dettero una genealogia fisica agli Dei che non erano suscettibili che di una metafisica generazione, perché tutti nell’umano intelletto erano nati; (310)arricchirono di poetiche invenzioni le antiche tradizioni degli antichi avvenimenti già teologicamente trasmessi; impinguarono l’esagerate tradizioni delle gesta de' loro Semidei colle finzioni della poesia non solo, ma colle ugualmente esagerate tradizioni di altri simili esteri Eroi deificati, che co' loro confusero; amalgamarono dell'istesso modo le altre esotiche religiose notizie colle proprie, un sol corpo formandone; dettero alle antiche espressioni, colle quali le patrie religiose tradizioni trovarono trasmesse, i più strani sensi e le più poetiche interpretazioni; e fecero in questo modo smarrire la traccia di questo culto, e moltiplicarono gli assurdi ed i vizii di questa già assurda e viziosa religione. I poeti che vennero dopo, secondando le loro tracce e per l'istesso cammino progredendo, maggior appoggio ed ulteriore estensione dettero al male; (311)ed in questo stato di confusione, di assurdi e di vizii si dee trovare, come si è infatti da per tutto trovato, il Politeismo, allorché il popolo è già dalla barbarie uscito. Vediamo dunque le universali relazioni che questo universale Politeismo deve in questo stato della società universalmente avere cogl’indicati mali. Ma per riuscirvi con quella esattezza che conviene, bisogna far seguire all'esame già terminato quello che sarà l’oggetto della seguente Appendice.


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CAPO V

Appendice all’antecedente Capo

Dopo aver esposto la generazione del Politeismo, dopo averlo seguito fino a quel punto, nel quale si dee trovare, allorché la società è già della barbarie uscita; è necessario di portare l’istesso esame sul culto che ha dovuto accompagnare queste religiose idee, è necessario osservarlo negli stessi periodi, di seguirlo per gl'istessi spazii e di condurlo all’istesso termine, per giugnere in questo modo a vedere il composto delle opinioni e delle pratiche, ossia il tutto insieme di questa religione, senza l’intera cognizione della quale le ulteriori ricerche, alle quali queste servono di fondamento, non potrebbero essere che mal fondate ed imperfette.

Non vi vuol molto a prevedere qual dovette essere il culto di que’ primi atterriti mortali che all’ignota forza, della quale si è parlato, ebbero ricorso. Semplice ed indeterminato, come l’oggetto al quale era diretto; arbitrario e vagante, come il selvaggio che lo rendeva; dettato dallo spavento, e per conseguenza inopinato ed interrotto, come le cause che lo destavano; non poteva avere né luogo fisso, né cerimonie stabili; non poteva avere né tempi prescritti, né invocazioni uniformi; doveva mancare di sacrificii, ed eccedere in preghiere; doveva esser meno apparente, ma più intenso. (312)

Questa semplicità del primitivo culto, analoga alla semplicità delle prime religiose idee, non poteva per altro conservarsi più lungo tempo di quello che si conservarono le idee istesse, alle quali si rapportava. Quando dall’opinione dell’ignota forza si passò alla deificazione di più forze, di più potenze distinte; quando vi furono più Dei, e questi furono simili agli uomini; in poche parole, quando si dette il primo passo nel Politeismo e per conseguenza nell’Antropomorfismo, che, come si è veduto, dovette con quello avere una contemporanea origine; il culto dové necessariamente risentirsi di questo cangiamento delle religiose opinioni; le sue pratiche dovettero cominciare ad avere quelle determinazioni e quelle distinzioni, che avevano i suoi oggetti; i suoi esercizii dovettero cominciare ad esser più frequenti; bisognò procurare il perdono ed il soccorso degli Dei, come si procurava quello degli uomini; bisognò ricorrere a' doni ed agli omaggi; bisognò introdurre i sacrificii e le prostrazioni: ma in tutti questi cangiamenti, in tutte queste introduzioni dovette universalmente risentirsi la influenza delle circostanze, nelle quali si trovavano e si dovranno sempre necessariamente trovare gli uomini in questo secondo periodo del loro religioso sviluppo. Ancora indipendenti e vaganti, ancora poveri e raminghi, meno isolati, più vicini, ma ancora separati e divisi, non potevano avere né comunione di riti, né sacerdozio distinto; non potevano avere né templi costrutti, né fisse are; non potevano avere promiscuità di culto, né potevano ne' loro sacrificii abbandonare la semplicità del loro stato. Nel domestico recinto o nell'aperta campagna, su poche zolle di terra ammucchiate, si collocava un rozzo simulacro, si faceva una libazione, si bruciava un fascio di scelte erbe o di odoroso alloro; e quest’era il sacrifìcio che ciascheduna famiglia separatamente offeriva a quella Deità che implorava, col ministero del Capo, che ne era nel tempo istesso il Padre ed il Pontefice. (313)

La ragion degli augurii e degli auspicii dové fin da questo tempo prendere origine, e cominciar a fare un’essenzial parte del culto. Abituati gli uomini a spiegare colle teologiche idee i naturali fenomeni, ed osservando nelle diverse parti della natura varii segni, che di varii avvenimenti erano precursori; vedendo, per esempio, nell’apparente pallore o nella straordinaria accensione del Sole o della Luna un presagio costante di un cangiamento nel tempo; vedendo nell’apparizione o nello sparimento di alcuni uccelli, ne' voli o ne' canti di alcuni altri, ecc., simili predizioni, (314) e credendo, per conseguenza degl’istessi già sviluppati principii, che tutto ciò che nella natura avveniva, era all’uomo diretto, era per l’uomo destinato; spiegarono teologicamente questi fenomeni; li considerarono come il linguaggio, col quale i Numi annunziavano agli uomini i futuri eventi; ne dedussero la cura che gli Dei di ciò si prendevano per diriger le loro imprese; e da un errore passando ad un altro, ne dedussero il dovere di consultarli prima d’imprenderle. Gli astri, gli uccelli, il canto de' polli, il sibilo de' serpenti, ecc., tutto richiamò la loro attenzione, tutto poteva essere un avviso degli Dei, tutto era interpretato come tale dopo l’esito delle cose; e correndo appresso a quell’universale e costante logica dell’ignoranza, di dedurre da ogni particolare fatto una generale regola, l’evento buono o cattivo che avea seguito un dato segno, bastò per determinarlo come presagio fausto o funesto in tutte le simili ricorrenze.

Ecco il fondamento e la remota origine della ragion degli augurii e degli auspicii, ragione universale de' popoli barbari, la quale se deve all’interesse ed alla frode i suoi progressi e la sua estensione, non dee sicuramente che all’ignoranza ed all’errore la sua origine ed il suo principio. Non vi vuol molto a vedere che, finché durò l’indicato stato di separazione, questi segni, questi augurii, questi auspicii, ed il modo di prenderli e d’interpretarli, dovettero esser particolari e diversi, come lo erano il culto ed i riti di ciascheduna famiglia, e che il Capo di essa, che nera il Padre ed il Pontefice, dovette anche esserne l’Augure.

Introdotto il Politeismo, la necessaria e progressiva estensione di esso dové produrre una necessaria e progressiva estensione del culto. A misura che gli oggetti delle speranze e dei timori degli uomini avevano un maggior numero di distributori da riconoscere, era natural cosa che un maggior numero di pratiche e di esercizii distinti dovesse esigere il loro interessato culto. Ma siccome nel tempo istesso che il numero degli Dei si moltiplicava, lo stato degli uomini andava ricevendo quelle modificazioni, andava percorrendo quegli spazii, per i quali dallo stato della selvaggia indipendenza si passa per gradi progressivi e quasi insensibili alla civile servitù; (315)così era ugualmente necessario che il culto, che dovea da una parte ricevere progressive alterazioni dalla progressiva moltiplicazione degli Dei, ne dovesse altresì ricevere dall’altra parte dal progressivo sviluppo della società.

In questo costante ed universal ordine di cose, la comunicazione de' privati riti dové esser la prima modificazione che il culto dové ricevere dal primo nodo sociale che si formò.

Quando cominciò ad esserci un’unione, un Senato da' padri di queste avvicinate e già ingrandite famiglie composto; quando cominciò ad esservi un re, un capo che presedeva a questo Senato, e conduceva i padri co' loro aderenti alla guerra; quando in questo Senato bisognò convenire per alcuni affari che la comune salvezza riguardavano; (316)come far ciò in mezzo alle religiose opinioni di questi uomini, in mezzo alla comune credenza che tutto immediatamente dagli Dei si operasse senza unitamente implorare la loro assistenza, senza unitamente indagare il loro volere? Bisognò dunque innalzare il sacro recinto, bisognò costrurre la pubblica ara, bisognò dai particolari riti de' padri formare il pubblico rito; bisognò convenire de' sacrificii che si dovevano offrire, e de' modi co' quali dovevano essere offerti; bisognò finalmente cominciare a fissare la comune ragione degli augurii e degli auspicii, e bisognò dedurla dal comporre e conciliare insieme le particolari ed ereditarie osservazioni de' padri su’ diversi segni, co' quali gli Dei annunziar solevano nelle loro famiglie il loro volere ed i futuri eventi delle cose. (317)

In questo primo principio del pubblico cullo era natural cosa che i padri, ch’erano i soli sacerdoti ed i soli auguri nelle loro famiglie, seguitassero ad esserlo nella città, e che il re, ch’era il capo di questi padri nel Senato e nella guerra, lo fosse anche ne' sacrificii e negli augurii:

Patres sacra, magistratusque soli peragunto ineunloque.

Sacra patres custodiunto.

Sacrorum omnium potestas sub regibus esto. (318)

Rex idem et regi Turno gratissimus augur. (319)

Introdotto il pubblico culto, il numero degli Dei che in ogni giorno s’ingrandiva; la moltiplicità de' sacrificii che doveva estendersi a misura che si moltiplicavan gli Dei e le occasioni di ricorrervi; finalmente la frequenza delle guerre e le intestine collisioni che dovevano esser continue in queste nascenti città, ove la privata indipendenza de' padri si conservava ancora in quasi tutta la sua anteriore estensione; (320) obbligarono ben presto questi padri a dimettersi dal promiscuo ministero del culto, ed a scegliere dal loro istesso corpo un certo numero d’individui, per consegnarli unicamente alle sacre funzioni. Il Sacerdozio formò dunque un ordine distinto che apparteneva a quello de' patrizii per origine e parentela, ed al loro capo o re per la qualità che questi avea e che universalmente conservò di capo o re de' sacrificatori, e di supremo regolatore delle sacre cose. (321)

Istituito l’ordine de' sacerdoti, depositato il sacro ministero in un corpo polente per la sua condizione e venerando per la sua incumbenza, il pubblico culto dové necessariamente prosperare in circostanze si favorevoli. I templi dovettero di venire più augusti, gli altari dovettero moltiplicare, i sacrificii dovettero divenire più esimile più frequenti. Varie feste commemorative di antichi o recenti beneficii ottenuti dovettero in quest’epoca essere istituite. Tutto ciò che poteva alimentare il culto de' devoti mortali, tutto ciò che poteva accrescere la loro riconoscenza o il loro timore per gli Dei, non doveva sicuramente essere trascurato. (322)Illinguaggio, col quale gli uomini parlar dovevano a' Numi, sull’istesso piano, dall’istesso ordine diretto, dovette acquistare quella dignità e quei caratteri che prima non aveva. Gl’inni e i cantici, foggiati da' sacerdoti, dovettero esser più maestosi e più imponenti di quelli che anteriormente eran cantati da' padri colle loro famiglie: le loro enfatiche espressioni dovettero straordinariamente alterare ed esagerare i fatti che indicavano; i loro ricercati vocaboli per distinguersi dal comune linguaggio dovettero ben presto renderli oscuri ed arcani. (323)()Ilmistero finalmente, sì atto a richiamare la venerazione de' mortali, dové venire in soccorso di tutti questi altri mezzi, ugualmente impiegati ad estenderla. Nelle celebrazioni de' più augusti riti delle grandi solennità che le indicate commemorazioni riguardavano, i soli patrizii dovettero esservi ammessi; il resto del popolo formato dalla clientela e dalla servitù dell’anteriore stato di famiglia (324)(dové )esserne escluso; l’inaccessibilità aumentando la venerazione degli esclusi, doveva nel tempo istesso estendere quella degli ammessi, ed il religioso culto veniva in questo modo a guadagnare ugualmente nell’opinione di tutti gli ordini della città. Ecco ciò che doveva avvenire e che infatti universalmente è avvenuto; ed ecco ciò che presso tutti i popoli dette la prima origine a' loro misteri.(325)()

Stabilita e fortificata da tante cause la religiosa dipendenza de' mortali, i suoi progressi eran necessarii, la sua estensione doveva essere immensa. L’ambizione dové ben presto discoprire ristrumento onnipotente che poteva adoprare pe’ suoi disegni. Il Capo della città vide che per far accogliere e rispettare le sue leggi bisognava che le facesse credere discese dal Cielo, dettate da una Deità che aveano offesa e che bisognava placare. (326)()

Il Sacerdozio vide che per estendere il suo potere bisognava moltiplicare le pratiche del culto; bisognava inculcare l’espiazioni che col suo mezzo si dovean praticare; (327)()bisognava più d’ogni altro aggiugnere a convenuti segni, che componevan la ragion degli Augurii e degli Auspica altri mezzi ed altri indizii, de' quali potesse a. suo talento disporre. (328) IlDuce vide che per animare i soldati alla guerra bisognava farla per ordine degli Dei, intimarla con sacro rito in nome de' Numi, far nascere dall’esecrazione del Cielo l’odio del popolo che si andava a combattere, (329) o dall’evocazione degli Dei che ne proteggevano la città, la sicurezza di espugnarla.(330) IlMagistrato vide che per far valere i suoi decreti bisognava abbandonare a' religiosi esperimenti le pruove delle accuse; che bisognava far dipendere dal giudizio degli Dei quello degli uomini; (331) che per diminuire i mali delle private guerre, per raffreddare l’odio e la vendetta tra gli offesi, per dar luogo alle composizioni, bisognava estendere la santità degli asili ed introdurre le tregue religiose; vide in poche parole che nella debolezza della forza pubblica bisognava profittare de' soccorsi che si potevano ricevere dal potere teocratico.(332)

Tutte queste speculazioni dovettero arricchire d’infinite novità il culto; d’infinite cerimonie il rituale, e d’infiniti errori la moltitudine.

Una pratica quanto universale, altrettanto turpe e funesta per l’Umanità, doveva dopo qualche tempo prendere origine dall'indicato stato delle cose. Abituali gli uomini a vedere sull’are de' Numi il sangue e le ceneri de' sacrileghi rei, non dovevano dare che un piccolissimo passo nell’errore, per credere che gli Dei, che si placavano con un simile sacrificio, avrebbero anche più volentieri accettato quello di un innocente. Ne’ grandi rischi o ne' sommi interessi più importante era il perdono o il soccorso de' Numi, più preziosa si giudicò che dovesse esserne l’offerta; ed il Sacerdozio, pel quale più gli effetti dell’umana superstizione divenivano illimitati, più vigoroso si rendeva il suo impero, dovette favorire queste abbominazioni, dové sovente prescriverle in nome degli Dei. Presso alcuni popoli si preferì il prigioniero al cittadino; presso altri s’ebbe ricorso a' fanciulli, a' giovanetti o alle vergini; e presso altri i figli e le figlie de' Re stessi non ne furono esenti. (333)

A questi prodigiosi progressi dell’umana superstizione non mancava che l’ultimo eccesso da aggiugnersi. Bisognava veder l’uomo prostrato innanzi all’ara d’un altro uomo; bisognava condurlo ad offrir vittime e a diriger voti al suo simile. La deificazione degli Eroi figli degli Dei, operata, come si è veduto, dal Sacerdozio, diede quest'altro oggetto al culto, e sottopose a questo nuovo avvilimento la degradata Umanità. I sepolcri si convertirono in templi, le tombe furono cangiate in are, ed in qualche luogo si giunse fino a onorare colle umane vittime queste mortali Deità. (334)

Verso quest’epoca istessa que’ riserbati riti, che nelle feste commemorative, delle quali si è parlato, da' patrizii esclusivamente si celebravano, acquistarono quella forma che ha quindi caratterizzati i misteri di tutt’i popoli. Istituiti, come si è veduto, nelle prime eroiche età de' popoli, non è meraviglia che le classi dominate della nascente società, composte dalla chentela e dalla servitù dell’anteriore stato di famiglia, che dovevano in quel tempo esser nel massimo avvilimento e depressione, ne tollerassero in pace l’esclusione, e con timida venerazione vi vedessero ammessi i soli patrizii, come quelli che avevano presso di loro una illimitata autorità, che avevano di recente abbandonato il promiscuo ministero del culto, e dai quali immediatamente si emanava il Sacerdozio. Ma quando col progresso di queste eroiche società si diminuì per gradi l’ignominiosa differenza; quando gli ordini inferiori della città cominciarono, e pel loro numero e per l’ardire di qualche loro individuo, ad acquistare qualche grado di considerazione che prima non aveano; quando bisognò cominciare a nascondere l’obbrobriosa disuguaglianza, col diminuirne le apparenze, la parte più preziosa del culto dové necessariamente risentirsi de' politici riguardi che richiedeva quest’importante oggetto. Ammetter tutti gl'individui a questi arcani riti era l’istesso che distruggerne la venerazione; seguitare ad escluderne gli ordini inferiori della società, era una distinzione che il nuovo stato delle cose non poteva più tollerare. Bisognò dunque modificare l’inaccessibilità, senza distruggerla; bisognò concedere a tutti gli Ordini l’accessibilità, senza concederla a tutt’i loro individui. Il rispetto che il popolo concepito avea per queste arcane celebrazioni, permise a coloro, che si trovavano nell’attuale esercizio della sacra prerogativa, di non ammettere tra gli aspiranti di tutti gli Ordini, se non quelli che da essi si sarebbero giudicati degni di questa distinzione. Il mezzo era unico, e le circostanze l’indicarono con tanta evidenza, che non dee recar meraviglia se fu egualmente da tutt'i popoli ritrovato. S’introdusse dunque da per tutto l'iniziazione, e da per tutto si vietò agl’iniziati di divulgare i misteri che vedevano o praticavano. Niun segreto si nascondeva, né poteva nascondersi nelle loro celebrazioni; (335)ma l’indivulgabilità e la difficile iniziazione per tutt'altro motivo prescritte dovevano ben presto far credere che vi fosse. Dopo qualche tempo si credette infatti, che que’ riti e quelle cerimonie contenessero qualche gran segreto, e con questa prevenzione non fu difficile il trovarlo. I più perspicaci Adepti fecero delle congetture, e le loro congetture divennero quindi il grande arcano.

Ecco come furono istituiti i misteri di tutti i popoli, sui quali tanto si è pensato e si è scritto, e tanta varietà di opinioni vi è stata, perché non si è voluto indagare l’universale ed eterno corso delle umane cose.(336)

Da tutto ciò che si è detto, si può vedere in quale stato debba trovarsi il culto di questi popoli, allorché saran già dalla barbarie usciti. Se se ne eccettuano gli umani sacrificii, ed alcune di quelle pratiche che, per supplire al difetto della forza pubblica, furono unicamente introdotte, e che si anderan man mano dismettendo a misura che questa si avvicinerà alla sua integrità, in tutto il rimanente un’estensione maggiore prodotta dal tempo e dalle accidentali circostanze farà l’unica differenza che si troverà nel culto di questi popoli giunti a questo periodo della società. Numerosi riti pubblici ed arcani, immensi sacrificii, continue religiose pratiche, frequenti espiazioni, auspicii, augurii, aruspici, oracoli, templi più ricchi, are più numerose, simulacri più perfetti, feste più auguste e più frequenti, Sacerdozio più numeroso, misteri con maggior solennità e con più arcano celebrati, qualche nuovo rito da' vicini adottato, formeranno Io stato del culto in questo stato della società.

Premessi questi esami, le universali relazioni che questo’ universale Politeismo, da quelle opinioni e da queste pratiche composto, deve universalmente avere in questo stato della società cogl’indicati mali, si manifesteranno a' nostri sguardi senza oscurità e senza incertezza.


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CAPO VI

Delle universali relazioni del Politeismo cogl'indicati beni e cogl'indicati mali

Se in una società già uscita dalla barbarie la religione ammette la pluralità degli Dei, vi saranno allora tre religioni nello Stato. Vi sarà quella della moltitudine, vi sarà quella del Governo, vi sarà quella de' sapienti. La religione della moltitudine comprenderà la teologia, originata dall’universale sviluppo delle politeistiche opinioni, combinato colle particolari. circostanze fisiche e morali, che precedettero ed accompagnarono la nascita e l’infanzia di quella società, ed alterata, ornata ed arricchita quindi dalla immaginazione de' poeti, che, come si è veduto, sono i primi teologi delle nazioni, e comprenderà i religiosi doveri che da questo teologico sistema dipendono. La religione del Governo riguarderà gli augurii, gli auspicii, gli oracoli, le feste, i sacrificii, i riti e i diversi modi solenni, co' quali si consulteranno, si conosceranno, si onoreranno, o si placheranno le Deità adorate. La religione de' sapienti sarà una correzione della volgare religione. (337)

Questo popolo avrà una teogonia, e questa teogonia sarà necessariamente ripiena delle antropomorfitiche idee, colle quali, sulle antiche tradizioni lavorando l’immaginazione dei poeti, si troverà trasmessa e sviluppata l’istoria della generazione di questi Dei e delle loro relazioni di superiorità e di dipendenza, di forza e di debolezza, d’odio e di amicizia, di gelosia e d’amore, di patrocinio e di vendetta, di fedeltà e d’incostanza, di stupri, di ratti, d’incesti, di frodi, di tradimenti, di ribellioni, di guerre, di alleanze, di sconfitte, di trionfi. (338) La virtù, il vizio ed il delitto avranno egualmente luogo nell’istoria degli Dei che in quella degli uomini; ed il cieco politeista non potrà fare a meno d’immaginare simili a lui Deità che adora. In mezzo a queste favole la religione prometterà un’altra vita, e parlerà de premii de' buoni e delle pene de' malvagi. Ma come sperare in un siffatto sistema teologico, che le idee del bene e del male religioso corrispondano perfettamente colle idee del vero bene e del vero male morale e civile? Questa religione dunque avrà dové più e dové meno alcune relazioni cogl'indicati beni; ma avrà anche dové più e dové meno altre più numerose, più estese e più indelebili relazioni col primo degl’indicati mali.

Se tra l’immenso numero degli Dei che il Politeismo compongono, vi saranno, come si è veduto, delle Deità che alle passioni presiedono,che delle passioni dispongono, che sono ugualmente invocate per allontanarle e per ispirarle, a che potrà giovare il dogma dell'altra vita per frenare queste passioni, per prevenirne gli effetti? Ciò ch'è creduto l’opera d’un Dio, può mai essere creduto imputabile per l’uomo? Non vediamo noi, infatti, presso gli antichi tragici accusati di continuo gli Dei pe’ disordini de' mortali? (339)

Se in questo assurdo sistema di religione i vizii stessi, come si è anche veduto, sono sotto la protezione di alcune Deità, come sperare che le religiose minacce allontanino gli uomini da que’ vizii che si credono nel Cielo protetti? Il più ladro, invocando il Dio Garidota presso i Sami, il Dio Ermete in Grecia e la Dea Laverna in Roma, poteva egli temere le future pene di un’altra vita, per un’azione che commetteva sotto il patrocinio di una Deità? (340)

Se in mezzo alle antropomorfitiche idee nate insieme col Politeismo, con quello estese e da' poeti fino all'ultimo grado prodotte, la dottrina dell’espiazioni tanto inculcala dal Sacerdozio e così lusinghiera per l’uomo, deve aver fatti presso la moltitudine i più considerabili progressi, a che gioverà la religiosa sanzione, quando l’espiatorie pratiche n’eluderanno gli effetti? Allorché l’orgoglioso mortale, dice Omero, è caduto infelicemente nel delitto, non sa egli che gli Dei si fan placare dagl'incensi, dalle preghiere e dalle vittime? (341)Soquesto quanto pernicioso, altrettanto necessario errore del Politeismo, una lavanda nell’acqua del fiume o del mare purgherà l’omicidio in un luogo; (342)in un altro bisognerà lavarsi le mani nel sangue della vittima; (343)in un altro un mostro carico di delitti non avrà che a porre in una bilancia una quantità di oblazioni equivalenti al peso del suo corpo, per placare gli Dei; (344)ed in un altro finalmente il marito venderà la moglie, il padre venderà i figli, e gli Dei saran soddisfatti, purché la decima ne sia con fedeltà rimessa al Pontefice. (345)Nella coltura della società i filosofi si rideranno, è vero, di questi errori; ma la moltitudine li conserverà nonostante con religiosa ostinazione, ed ognuno sa che ne' bei giorni della Grecia e di Roma non lasciarono di formare una parte essenziale della pubblica religione. Alle moltiplici relazioni dunque che in quest’istesso stato della società il Politeismo ha e deve avere col primo degl’indicati mali, si uniranno anche quelle che ha e deve avere col secondo.

Da queste riflessioni che riguardano più da vicino la religione della moltitudine, passando a quelle che riguardano la religione del Governo, noi troveremo le particolari relazioni del Politeismo colla terza serie de' mali, de' quali si è parlato.

Questa religione del Governo che, come si è detto, non riguarda che feste, sacrificii e riti, che augurii, auspicii ed oracoli, e modi solenni di onorare, placare e consultare le Deità adorate; questa religione del Governo, che dev'essere incatenata colla religione della moltitudine, e che per conseguenza dee nelle sue pratiche risentirsi di tutt’i principii e di tutti gli errori di quella; questa religione del Governo, io dico, potrebbe, come tale, non avere varie intrinseche relazioni cogli avanzi di quelle anteriori pratiche, che le circostanze politiche della società potevano rendere necessarie o utili in qualche modo per lo stato di barbarie, nel quale nacquero, ma che si rendono perniciose subito che le stesse circostanze più non esistono, subito che si è già pervenuto allo stato civile?

Se in un popolo politeista, infatti, e nello stato della società, del quale parliamo, gli asili, le tregue religiose, le immunità sacre non si sosterranno più per un fine politico, si conserveranno nulla di meno per un riguardo religioso. Come non credere infatti un pericolo l’estrarre dal luogo sacro o dal tempio il delinquente che vi si trova, in una religione, nella quale l’attributo della forza campeggia molto più di quello della giustizia, e nella quale gli Dei si suppongon suscettibili dei medesimi capricci e delle inconseguenze medesime degli uomini? (346)

Se in questo popolo ed in questo stato della società non si troveranno più, come nel precedente stato di barbarie, gli umani violenti sacrificii, si troveranno le volontarie consecrazioni, sia per meritare ed assicurare i futuri premii, sia per placare nelle gravi urgenze e nelle pubbliche calamità Io sdegno de' Numi, che si suppongono avidi di sangue e di strage, perché suscettibili di odio e di furore. Se non si vedrà più condurre a viva forza sull'ara degli Dei il delinquente o il fanciullo, il prigioniero o la vergine, si vedranno i divoti dai Cochin correr volontariamente nella Capitale dell’impero per farsi divorare da' cocodrilli sacri che vi si allevano; si vedranno i fanatici del Regno di Martemban distendersi a migliaia sulla strada, per la quale in ogni anno si conduce in gran pompa l’idolo, per farsi schiacciare sotto le ruote dell’immenso carro che lo trasportaci vedranno nel Madagascar le madri esporre alle fiere o strangolar colle proprie mani i figli che son nati ne' giorni o nelle ore infauste; si vedrà nel Giappone e presso altri popoli delle orientali regioni gittarsi sul rogo, ove si fa bruciare il cadavere del marito, l’infelice moglie, che ha avuta la disgrazia di sopravvivergli; (347)finalmente in Roma istessa cosi ne' tempi del patriottismo e della libertà, come in quelli della bassezza e della servitù, si vedrà Curzio precipitarsi nella voragine, e i tre Deci gettarsi con sacro rito nelle schiere nemiche per la salute della patria; (348)si vedranno sotto l’impero di Caligola e sotto quello di Adriano praticarsi simili consecrazioni per la salute de' Tiranni, (349)e si vedranno in questo modo campeggiare gli antichi errori della superstizione così a traverso de' prodigi del patriottismo e della libertà, come in mezzo agli eccessi dell’adulazione e della servitù. Se in questo popolo ed in questo stato della società non si faranno più parlare gli Dei, allorché si tratta di dar leggi e comandare, si proseguirà nulla di meno a cercare i loro consigli, allorché si tratta di deliberare.

Se in questo popolo finalmente, ed in questo stato della società i sacerdoti non avranno più l’antica influenza, come confidenti degli Dei, ne conserveranno per altro una considerabilissima, come interpreti del loro linguaggio. La scienza dell’augure, derisa dal filosofo, seguiterà nulla di meno ad esser venerata dalla moltitudine e per conseguenza rispettata dal Governo. Inseparabile dalla natura di questa religione, la sua influenza durerà, finché durerà la religione istessa. In mezzo alla più estesa coltura, il sacerdote divulgherà nella Caldea che un segno apparso ne' cieli minaccia il Sovrano; ed il popolo si solleverà. (350) I sacerdoti di Meroè spediranno un corriero al Re, per annunciargli il decreto di morte apparso ne' cieli; ed il Re morirà. (351)L’augure dirà a Micia, che gli auspici preti non approvano la sua ritirata; e Micia coll’esercito di Atene resterà in Sicilia e sarà sconfitto. (352) In Roma il Pretore avrà destinato il giorno da terminare un giudizio, e le sue misure rimarranno inutili, perché il Pontefice gli farà sapere che quel giorno è nefasto; i patrizii si saranno già uniti nel Senato, o il popolo ne' Comizii, e la concione si dovrà sciogliere, perché l’augure ha osservato qualche funesto presagio nel cielo; il Generale sarà già pronto a partire, i polli sacri rifiutano di mangiare, e l’aruspice ne impedirà la partenza; un Magistrato sarà stato eletto, la virtù avrà trionfato dell’opposizione di un potente partito, ma l’augure dirà che l’elezione è avvenuta con cattivi auspicii, ed il Magistrato sarà cassato. (353)

Ecco le altre universali relazioni del Politeismo colla terza serie de' mali, de' quali si è parlato. Non minori né meno inerenti alla sua natura sono quelle che ha coll’altro male, che noi abbiamo nel quarto luogo collocato.

Una religione che esige poco dalla parte della morale, e che per conseguenza bisogna ch'esiga molto dalla parte del culto; una religione che non può sostenersi co' dogmi che contiene, e che per conseguenza bisogna che si sostenga cogli spettacoli che offre; una religione finalmente che fa temere gli Dei più per la loro forza che per la loro giustizia, che gli fa stimare più pe’ beneficii che recano, o pe’ mali de' quali dispongono, che per lo bene che prescrivono; dee necessariamente avere relazioni più forti e più intrinseche di qualunque altra coll’indicato errore di riporre nell’esterno culto tutto il merito della pietà. L’immenso numero delle feste de' Greci e de' Romani; (354)l’immenso numero e la natura di alcuni loro sacrificii; l’ecatombe, nelle quali s’immolavano cento tori, ed ai quali in alcuni casi s’aggiugnevano cento leoni e cento aquile; (355)i sacrificii d’Agrotere, ne' quali s’immolavano in Atene cinquecento capre per volta; (356)le primavere sacre, nelle quali tutti gli animali nati, durante quella stagione, eran tolti a' bisogni degli uomini per esser consumati sull’are de' Numi; (357)la creazione d’un Dittatore più volte avvenuta in Roma pel solo oggetto di placare gli Dei; (358)la moltiplicità de' riti; l’importanza che si dava all’esatta osservanza del rituale, e le funeste conseguenze che si attribuivano alla più picciola omissione in questo genere di cose; (359)le libazioni; le purificazioni continue; l’espiazioni che si praticavano ugualmente per placare gli Dei dopo un delitto, che per rendersi degni di onorarli dopo un’involontaria o chimerica contaminazione; (360)le religiose pratiche che dovevano precedere, accompagnare o seguire tutte le azioni degli uomini, e delle quali Esiodo inculca con tanta scrupolosità l’osservanza a Perse, nell’atto stesso che gli consiglia di rendere il doppio del male all’amico che gliene avrà recato un solo; (361)finalmente l’esperienza di tutt’i popoli, ove il Politeismo ha regnato, formano le incontrastabili prove di questa verità.

A questo male se ne aggiugne un altro. Il carattere e le funzioni di alcune Deità, i poetici racconti delle gesta di alcuni Dei, debbono presto o tardi necessariamente produrre alcune specie di culto che offendono i costumi e che possono corromperli, se la vigilanza delle leggi non ripara le insidie della religione. Per una conseguenza di queste cause, le donne di Biblos,che non assistevano alle feste di Adonis, dovevano prostituirsi in un dato giorno, per impiegare nel culto di quel Dio il profitto delle loro religiose dissolutezze. (362) Per una conseguenza di queste cause, la Grecia si riempì di templi innalzati a Venere la Prostituta, e le cerimonie che vi si praticavano, non potevano sicuramente smentire il carattere della Deità che vi si onorava. (363) Per una conseguenza di queste cause nelle Afrodisie, che si celebravano in onore dell’istessa Dea, gl’iniziandi dovevano presentarle una moneta d’argento simile a quella, colla quale si compravano i favori di una beltà venale, e ne ricevevano in compenso doni degni della Dea che l’esigeva. (364) Per una conseguenza di queste cause, Amatunta, Citerà, Pafo, Gnido ed Idalia divennero gli asili della dissolutezza e le tombe del pudore. Per una conseguenza di queste cause, tra' sacri riti che si praticavano in Lesbo, vi erano alcune feste dette Callistie, perché le donne vi si disputavano il premio della beltà, e doveano per conseguenza esporsi agli esami che questo concorso richiedeva. (365) Per una conseguenza delle istesse cause, molte statue ed altri monumenti collocati ne' templi rappresentavano oggetti sì infami e sì mostruosi, che sembra impossibile il concepire, come il pudore potesse entrare ne' templi ed innalzarvi gli occhi al Cielo. (366) Per una conseguenza delle istesse cause, le sacerdotesse dell’isola Formosa si fanno un dovere de' più osceni atti nell’esercizio del culto; esigono da' due sessi una perfetta nudità, durante tre mesi dell’anno; e distruggono in questo modo il pudore col rito. (367)Per una conseguenza finalmente dell’istesse cause, il Senato dové proibire in Roma i Baccanali, dové condannare il culto di Cibele colle Frigie cerimonie, e dové proscrivere fuori le mura della città i templi di Venere, per evitare, dice Vitruvio, che i riti che vi si praticavano, non fossero un’occasione di corruzione pe’ giovanetti e per le matrone. (368)

Le relazioni del Politeismo con tutti questi mali sono evidenti, sono incontrastabili, sono intrinseche alla sua natura. Quelle che ha cogli ultimi due mali, de' quali si è parlato, non lo sono meno.

Il fanatismo e irreligione, questi due estremi, de' quali l’uno è ordinariamente il precursore dell’altro e che per la loro opposizione sembrano esclusi dal poter funestare contemporaneamente i popoli, trovano nulladimeno nel Politeismo un mezzo, onde potere sviluppare e combinare nell’istesso popolo e nell'istesso tempo le loro opposte forze. La ragione è evidente. Siccome non vi è religione meno unita, più distaccata, meno soddisfacente alla ragione un po’ coltivata, di questa, così non vi è, né vi dev’essere religione più facile a discreditarsi di essa. Ma questa religione ha un gran vantaggio. Essa lusinga molto l’uomo; essa lo diverte col culto e non lo molesta colla morale; essa minaccia delle pene, ma somministra rimedii facili per eluderle; essa solleva l’uomo da' rimorsi, senza strapparlo dalle passioni; essa esige l’espiazione e non il pentimento, e il sacrificio e non la correzione. Purché il sangue fumichi sull'are, purché i templi non sien deserti, i suoi Dei non si offendono per l’assenza della virtù.

Questa religione dunque che alimenta il religioso istinto dell’uomo, senza urlare le sue inclinazioni, questa religione, io dico, nel tempo stesso ch'è la più esposta ad esser discreditata, è anche la più atta ad esser sostenuta e sostenuta con furore. La tendenza dunque del Politeismo è di combinare i mali dell’irreligione con quelli del fanatismo. Aristofane farà ridere a spese degli Dei il popolo d’Atene, (369) e Socrate sarà condannato a morire; Euripide farà con applauso risuonare i teatri della Grecia delle più vituperose invettive contro gli Dei, (370) ed Anassagora sarà coverto di catene, e Aristotile accusato, costretto a fuggire, e finalmente ridotto ad avvelenarsi per aver attaccata la Deità del Sole; (371) Il poeta riempirà le sue satire de' più irreligiosi sarcasmi contro de' Numi, Eschilo farà comparire sulla scena un semideo ubbriaco, (372) ed Eraclito sarà oppresso di sciagure, e Stilpone sarà esiliato, per aver detto che la Minerva di Fidia non era una Deità; (373)in Roma i fanciulli istessi si rideranno de' piaceri e de' tormenti degli Elisie degl’inferni; (374)Lucilio, Pacuvio, Lucrezio e Giovenale piaceranno ugualmente per la loro mordacità contra degli uomini, che per quella che manifestano contra gli Dei; l’Amfitrione di Plauto farà ridere, come il Pluto di Aristofane; l’Eunuco di Terenzio non sarà meno ingiurioso per gli Dei, e non sarà perciò meno ripetuto sul teatro; (375)ed intanto il sangue de' Martiri colerà da ogni parte, e i simulacri delle derise Deità vedranno perire tra' tormenti que’ coraggiosi mortali che sdegneranno di onorarle.

In mezzo a tutte queste intrinseche relazioni del Politeismo con tutti gl'indicati mali, qual soccorso si potrà dunque il legislatore augurare dalla religione del suo popolo; o piuttosto quali e quanti ostacoli non dovrà egli trovarvi al conseguimento, o alla conservazione della virtù e della prosperità del popolo che la professa? Questa forza, invece di concorrere colle altre, non turberà piuttosto la loro azione, non verrà piuttosto con quelle a collidersi? Impotente a produrre i beni che si debbono cercare, con tutt'i mali che si debbono nella religione evitare, qual altro espediente si potrà dunque proporre dalla Scienza Legislativa al legislatore di un popolo politeista, se non quello di cangiare la religione del suo popolo, per sostituire alla forza che si oppone quella che deve concorrere, ch’è così necessaria per conseguire ed eternare il grande effetto che noi non abbiamo raccomandato ad una sola causa, ad una sola forza, ma alla composizione di molte cause, di molte forze, che tutte rigorosamente concorrano all'istesso fine, e tutte scambievolmente si soccorrano e si ristorino nella loro azione? 11 Politeismo va dunque distrutto, il Politeismo va dunque sostituito da una nuova religione che sia atta asomministrare gl’indicati beni, che sia atta ad escludere gl’indicati mali. Le premesse rendono incontrastabile questa conseguenza. Il dubbio potrà soltanto raggirarsi sulla possibilità di questa impresa e sui disordini che potrebbero accompagnarla. Il seguente Capo spero che basterà a dileguarlo.


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CAPO VII

Come cangiare questa religione

Ritorniamo sui nostri passi, e vediamo di dedurre da ciò ch'è universalmente avvenuto, ciò che si potrebbe universalmente ottenere; vediamo quali soccorsi potrebbe somministrare a questa operazione il costante sviluppo dello spirito umano nel costante sviluppo delle civili società; vediamo quanti altri potrebbe somministrarne quest’istesso mezzo, quando fosse adoprato, invigorito e diretto dalla legislazione; vediamo quali legislative disposizioni dovrebbero precederla e prepararla, e quali dovrebbero accompagnarla; e noi giugneremo in questo modo a vedere la possibilità di questa necessaria operazione, che la sola ignoranza de' mezzi che debbono produrla ha potuto fino a questo momento far credere o pericolosa o ineseguibile.

Rammentiamoci di ciò che si è detto sui Misteri. Nati nelle prime eroiche età de' popoli, noi abbiam veduto che non furono da principio altro che religiose solennità e commemorativi riti di antichi o recenti beneficii ottenuti, di antiche o recenti sciagure superate; che combinati col politico ordine di quello stato di società, la parte più augusta e più sacra di questi riti non era da principio praticata che da' soli patrizii; che il resto del popolo, composto dalla chentela e dalla servitù dell'anteriore stato di famiglia, ne veniva escluso; che questa religiosa disuguaglianza, divenendo quindi incompatibile colla diminuzione della disuguaglianza politica, fu convertita in un temperamento che modificava l’antica inaccessibilità senza distruggerla; che bisognò ammettere alla partecipazione di questi arcani riti tutti gli ordini della società, senza ammettervi tutt’i loro individui; che bisognò introdurre l’iniziazione, e bisognò vietare agl’iniziati di divulgarci misteri che vedevano e praticavano. Noi vedemmo che niun ignoto fatto, niun ignoto principio, niun segreto si nascondeva né poteva nascondersi in queste arcane celebrazioni; ma che l’indivulgabilità, combinata colla difficile iniziazione, fece ben presto credere che vi fosse; che finalmente, per una conseguenza di questa inevitabile prevenzione, i perspicaci Adepti fecero delle congetture, e che le loro congetture divennero quindi il grande arcano. Or queste congetture, questo arcano generato dalla prevenzione e dalla perspicacia nell'aurora della coltura dei popoli, ci conviene ora esaminare qual mai sia stato. In mezzo alla scarsezza delle notizie che noi abbiamo de' misteri degli antichi popoli, quello che ne troviamo trasmesso basterà, io spero, a farci conoscere quest’oggetto per la parte almeno che riguarda l’uso che dobbiamo farne. Pochi fatti metteranno chi legge nel caso di giudicarne.

Tutti gli scrittori greci e latini che hanno parlato de' misteri d’Iside dell'Egitto e di quelli di Mitra della Persia, convengono che l’unità di Dio e l’immortalità dell'anima, le pene ed i premii dopo la morte, con principii diversi da quelli della comune credenza, erano annunciate in queste arcane celebrazioni. Essi ci parlano degl'iniziati a' misteri, come di uomini religiosi che detestavano gli errori del popolo, e che non avevano altro che disprezzo pel di lui acciecamento.

La preghiera che noi troviamo in Apuleo, quando Lucio fu iniziato a' misteri d’Iside, è la seguente: «Le Potenze celesti ti servono, gl’inferni ti sono sottomessi, l’universo gira sotto la tua mano, i tuoi piedi calpestano il Tartaro, gli astri rispondono alla tua voce, le stagioni ritornano a' tuoi ordini, gli elementi li ubbidiscono.» (376)

Pitagora riconosceva di aver appreso ne' misteri Orfici, che si celebravano in Tracia, l’unità della prima causa universale: in questi misteri diceva egli d’aver attinta l’idea della sostanza eterna, del numero, principio intelligente dell'universo, de' cieli, della terra e degli esseri misti. (377)

Un luogo di Vairone ci fa vedere i primi semi della dottrina platonica sulla Divinità, attinti da' misteri di Samotracia. In essi s’insegnava che altro era il Cielo, altro la Terra, altro gli Esemplari delle cose che Platone chiama Idee. Che il Cielo era quello, dal quale le cose si fanno; la Terra era quella, della quale si fanno; gli Esemplari eran quelli, secondo i quali si fanno. Giove, Giunone e Minerva eran gli antichi nomi impiegati ad esprimere le nuove idee di questo triplice concetto. (378)

Ne’ misteri di Cerere che si celebravano in Eleusi, il Jerofanta che compariva sotto la figura del Creatore, dopo aver aperti i misteri e cantata la teologia degli Dei, rovesciava allora egli medesimo tutto ciò che avea detto, e vi sostituiva la verità, introducendosi nel seguente modo: «Io debbo mani testare un segreto agl’iniziati; che si chiuda l’ingresso ai profani. 0 tu Museo, disceso dalla brillante Selene, sii attento a' miei accenti; io ti annuncerò verità importanti. Non soffrire che i pregiudizii e le affezioni anteriori ti tolgano la felicità che tu desideri, di attingere nella cognizione delle verità misteriose. Considera la natura divina, contemplala di continuo, regola il tuo spirito ed il tuo cuore, e cammina dnella via sicura. Ammira il Padrone unico dell’universo. Ve n’è uno; egli esiste da se medesimo; a lui solo tutti gli altri esseri debbono la loro esistenza; egli opera in tutto e da per tutto; invisibile agli occhi de' mortali, egli vede egli medesimo tutte le cose.»(379)

Plutarco ci dice che il giovane Alcibiade, dopo aver assistito a' misteri di Cerere, non ebbe alcun ritegno d’insultare la statua di Mercurio, onde il popolo cercò con furore la sua condanna. (380)

Crisippo, uno de' migliori ornamenti della setta Stoica, credeva che il maggior beneficio dell’iniziazione consisteva nelle idee giuste della Divinità che si acquistavano. (381)

Stazio c’indica anche il principio dell’unità di Dio, divenuto un segreto de' misteri, in que’ suoi versi, dové dice:

Et triplici mundi summum, quem scire nefastum est

Illum, sed taceo. (382)

L’istesso, pare, che c’indichi Platone, (383)allorché dice, ch'è irreligiosa cosa l’esaminare la natura dall'Essere Supremo; ed allorché raccomanda a coloro che avessero avuta la felicità di conoscere il Padre ed il Sovrano Arbitro di questo universo, di parlarne al popolo. La sua lettera, diretta a Dionisio, dové rammentandogli ciò che gli aveva detto sotto il platano sull'Uno e Trino, gli aggiugne che un sacro dovere gl’impediva d’esporre per iscritto quest’idea: (384)ed il consiglio che fu dato all'imperator Giuliano, impegnato ad opporre la dottrina platonica a quella del Cristianesimo, di dirigersi al Jerofanta d’Eieusi, per ricevere de' lumi sopra i suoi principii (385)son due argomenti di più dell’analogia delle idee di questo filosofo sulla Divinità, con quelle che s’insegnavano nei misteri.

Riguardo al dogma dell’altra vita, l’istesso Plutarco ci fa sapere che tutt'i misteri avean rapporto alla vita futura, ed allo stato dell’anima dopo della morte. Ciò che vi si rappresenta, dice l’Incognito che fa parlare, non ne è che l’ombra; questa è una debole immagine di tutte le bellezze, la contemplazione delle quali è riserbata a tutti coloro che sono stati virtuosi quaggiù. (386)In un altro luogo egli fa vedere quest’istesso principio inculcato ne' misteri di Bacco. (387)Nel suo Trattato d’Iside e d’Osiride dice l’istesso de' misteri egizii.

Prima di lui, Cicerone avea detto che i misteri di Cerere avevano insegnato agl’iniziati, non solo a vivere felicemente, ma anche a morire colla speranza di una vita più beata. (388)

Isocrate dice ancora che gl'iniziati si assicuravano delle dolci speranze per il momento della loro morte e per tutta l'eternità. (389)

In Sofocle, in Euripide, (390)in Aristofane, (391)in Eschine, (392)in Luciano (393)ed in Strabone, (394)si manifesta anche l’istessa dottrina.

Celso dice a' Cristiani, voi vi vantate di credere alle pene eterne, e tutti i Ministri de' misteri non lo annunciarono essi agl’iniziati? (395)

Noi sappiamo che nelle tragedie rappresentate nelle notturne cerimonie de' misteri di Cerere si manifestavano la felicità de' giusti e le pene de' malvagi; (396)e noi sappiamo che alcuni misteri si chiamavano Acherontici, (397)per indicare che il dogma dell'altra vita vi veniva sviluppato.

Ciò che ci dice Platone nel Fedone sparge un gran lume su quest’oggetto. Egli dice che ne' misteri s’imparava a considerar la vita come un luogo di passaggio ed un posto che non è permesso di abbandonare senza la volontà di Dio. Egli aggiunse in un altro luogo dell'istesso Dialogo, che negl'inni che si cantavano ne' misteri, si parlava delle ricompense e de' piaceri de' buoni nel Cielo e de' supplizii che sovrastavano a' malvagi. Egli aggiugne finalmente che la verità che annunciava questa dottrina, era sì meravigliosa pel volgo e sì difficile a concepirsi. (398)

Questo dogma dunque veniva insegnato ne' misteri molto diversamente da quello che veniva professato nella volgare religione.

Raccogliendo finalmente gli altri luoghi degli antichi scrittori a quest'oggetto relativi, noi troviamo da per tutto le tracce di un cangiamento della volgare religione divenuto l’arcano de' misteri.

Diodoro dice che l’iniziazione rendeva l’uomo più religioso e più giusto di ciò ch'era prima. I più grandi uomini dell’antichità, Platone, Cicerone, ecc., fan gli elogi di questi misteri. Porfirio dice che lo stato dell’anima dee trovarsi alla morte come durante i misteri, cioè a dire, purgata di tutte le passioni violente d’invidia, d’odio e di sdegno. (399) In un altro luogo egli dice, che non vi ha che coloro soli, che han diretta tutta la loro condotta e tutte le azioni della vita alla perfezione dell'animo, che possono partecipare ad essere iniziati ai misteri segreti della religione. (400)

Niuno può negare, dice Proclo, che i misteri ritirino l’animo da questa vita materiale e mortale, e che scancellino le sozzure dell'ignoranza, illuminando i nostri spiriti, e dissipando le tenebre negli adepti collo splendore della Divinità. (401)

Dalla formula che si pronunciava dall’Araldo nell’apertura de' misteri di Cerere, si rileva che le persone che si presentavano per essere ammesse, dovevano avere le mani pure, dovevano essere esenti da ogni delitto, dovevano aver data prova di essere riserbate ne' loro discorsi ed eque nella loro condotta. (402)Colui che non aveva fatti tutti gli sforzi per calmare una congiura, o che l’avesse fomentata; il cittadino che si era lasciato corrompere, o che aveva tradita la patria; il Proditore che aveva abbandonata una fortezza o una nave agl’inimici, n’erano esclusi. (403)Ne’ tempi posteriori coloro che eran della setta di Epicuro, o ch'eran dediti alla Magia, particolarmente alla Goelia, non potevano esservi ammessi. Apollonio Tianeo ne fu escluso per questa ragione, (404)e Nerone per il parricidio di sua madre. (405)

Finalmente noisappiamo che il Jerofanta viveva nel celibato, che si ungeva il corpo colla cicuta per rendersi più casto, e che l’assemblea si congedava coll’inculcare agl’iniziati di vegliare e d’esser puri. (406)

Forse da questo cangiamento della volgare religione, da questa correzione de' dogmi e della morale religiosa, divenuto l’arcano de' misteri, derivò l’opinione che regnava tra gl’iniziati e che si manifesta' negli antichi scrittori, cioè ch'essi soli potessero partecipare alla futura felicità. In Aristofane si vede, che coloro che partecipavano a' misteri menavano una vita innocente, santa e tranquilla, che morivano nella speranza di una condizione felice, che la luce de' Campi felici era loro promessa, e che gli altri uomini non dovevano apparecchiarsi che alle tenebre eterne. (407)Sofocle aveva pubblicata l’istessa dottrina. Secondo lui i soli iniziati potevano godere de' piaceri degli Elisi, il Tartaro era riserbato pel resto degli uomini. (408)Felice, dice Euripide, colui, ch'essendo stato degno d’avere la rivelazione de' misteri, vive quindi santamente! (409)Diogene, inveendo contra questa opinione, ce ne indica anche l'esistenza. (410)

Che si combinino ora insieme questi fatti e si paragonino colle cerimonie e co' riti che si praticavano in questi misteri, e si vedrà manifestamente che tutte queste misteriose dottrine, tutti questi arcani dogmi, tutti questi nuovi principii, altra relazione non avevano colle antiche commemorazioni, che furono il vero oggetto di questi misteri, se non quella chela sagacità degli Adepti, le contemplazioni degli Epopti, in poche parole, le congetture di coloro che vi cercarono un segreto che non vi era, seppero nel principio della coltura de' popoli immaginarvi.

Che poteva infatti aver di comune la dottrina dell'unità della prima causa universale, lo sviluppo del dogma dell’altra vita, i principii d’una morale religiosa più sensata, con quei gemiti, con quei pianti, con quelle grida, con que’ digiuni, con quelle fughe di cerimonia, con quelle meste ricerche di alcuna Deità, con quelle apparizioni di ghiande, di radici, di agreste erbe o di selvagge frutta, di papaveri, di mele, d’olio, di frumento, con quel costante passaggio dalla tristezza al giubilo, in poche parole con tutti que’ riti, con tutte quelle cerimonie, che altro non erano né potevano essere, come si è veduto, (411) che commemorazioni di antichi o recenti beneficii ottenuti, istituite nelle prime eroiche età de' popoli, e per conseguenza nell’epoca della loro maggior ignoranza? Chi non vede nelle speculative dottrine, che si sono indicate, le vestigia di un’epoca molto posteriore, e d’uno stato di società molto più avanzato di quello, nel quale, come si è veduto, i misteri di tutt’i popoli sono nati? Chi non ritrova questi caratteri nella indicata preghiera che si proferiva ne' misteri d’Iside, negl’indicati principii che s’insegnavano ne' misteri di Tracia ed in quelli di Samotracia, e nell’indicato inno che si cantava dal Jerofanta in quelli di Eleusi? Non è stato forse dimostrato che quest’inno è del supposto Orfeo, che viveva in un’epoca molto diversa da quella del vero Orfeo, del quale porta il nome?(412)La sola lettura di ciò che Plutarco(413)ed altri antichi scrittori ci han trasmesso sulla dottrina secreta degl’iniziati dell’Egitto, avrebbe dovuto bastare a' dotti per discovrire l’opera delle congetture degli adepti, già culti ed inciviliti, nelle misteriose dottrine che si pretendeva che si nascondessero in questi misteri. La figura umana col capo di sparviere che rappresentava Osiride, era per gl'iniziati l'Intelligenza demurgica, della quale Cnef o la Suprema Intelligenza si era servita per la costruzione dell’universo. Una donna col capo ornato d’una testa di bue, o delle foglie di loto, con un fanciullo in seno che rappresentava Iside che nutriva il suo figlio Orus, era per essi la materia prima, il principio passivo delle generazioni, col mondo, frutto dell’unione de' due principii. Secondo essi la parte più leggiera della materia era l’aere, quella dell’aere lo spirito, quella dello spirito il pensiero o l’intelligenza, finalmente quella dell’intelligenza Dio, egli medesimo (414)moltiforme ed Usiarca, cioè a dire Capo della sostanza materiale, pueumatizzata e deificata, (415)ecc., ecc. Simili idee potevano mai venire in mente di que’ primi ignoranti e barbari istitutori de' misteri?

La prevenzione dunque, della quale si è parlato, potè solo far credere agl’iniziati che i misteri contenessero religiose verità ignote alla moltitudine; questa prevenzione, combinata coi lumi della nascente coltura, fece immaginare i teologici principii che si sono indicati; e questi teologici principii, frutti delle speculazioni degli adepti, già culti ed inciviliti, convertirono quindi effettivamente i misteri in una scuola ed in un tempio, ove s’insegnava e si professava una religione diversa da quella della profana moltitudine. Tutto ciò avvenne senza opera del Governo, senza influenza della Legislazione.

Fermiamoci a questo punto, e vediamo l’uso che dobbiamo fare di questi fatti.

Noi abbiam veduto l’istituzione de' misteri, universale in tutt’ipopoli;noi abbiam veduto questi misteri in tutt’i popoli subire la modificazione che si è indicata; noi abbiam veduto una religione diversa da quella della moltitudine divenire la religione degl’iniziati; noi abbiam veduto questo cangiamento prodotto senza l’opera del Governo, senza l’influenza della Legislazione.

Supponiamo ora che il legislatore d’un popolo politeista, istruito da questi fatti, e persuaso dall’evidenza delle ragioni che si son prodotte sulla necessità di cangiare la religione del suo popolo, regolar volesse le sue misure colla scorta d’una luminosa esperienza. Supponiamo che, vedendo ciò ch'è avvenuto ne' misteri degli antichi popoli, volesse a questo mezzo ricorrere per ottenere il cangiamento che si propone. L’esperienza gli farebbe vedere in questi misteri un mezzo che ha prodotto da se stesso questo effetto in una parte del popolo. Che non dovrebbe sperarne, quando il legislatore l’adoprasse, quando la legge rinvigorisse, quando la legislazione lo dirigesse?

Le prime sue cure dovrebbero rivolgersi a con venire coi primi ministri e coi principali adepti de' misteri della nuova religione che si dovrebbe all’antica sostituire. Questa convenzione dovrebbe essere occulta, ignota alla moltitudine, ignota agl’iniziati istessi che dovrebbero ignorare la mano del legislatore che li conduce. La generazione del Politeismo di tutt’i popoli, quella delle loro favole e del loro culto, nel modo che si è da noi discoverta e sviluppata, somministrerebbe il più sicuro mezzo per discreditare agl’iniziati la volgare religione. Questa dovrebbe esser la prima istruzione, la prima luce che si dovrebbe loro manifestare. I principii della nuova religione dovrebbero seguirla. In tutte queste rivelazioni si dovrebbe per gradi procedere. Ogni annuncio di nuove verità dovrebbe esser preceduto da esplorazioni e da riti. Quelli che si troverebbero già praticati ne' misteri, dovrebbero essere accomodati al nuovo oggetto ed a qualunque altro preferiti. Questa precauzione sarebbe molto più importante di quello che a primo aspetto apparisce, e non dovrebbe esser trascurata, giacche gli uomini che si adattano a tutto senza avvedersene, sono sempre schiavi de' loro usi, e vi sono così attaccati, che sarà sempre più facile di cangiare i motivi e gli oggetti de' loro riti, che di cambiare ed annientare i riti istessi. Finalmente tra gli arcani doveri che si dovrebbero inculcare agl'iniziati, dovrebbe esservi quello di diffonder la luce, di diffonderla cogli esempi e colle istruzioni; ma queste istruzioni, regolate dall’occulta mano del legislatore, prescritte da' Ministri de' misteri, dovrebbero esser dettate dalla più avveduta prudenza, e perciò ristrette in que’ modi ed in que’ confini che non dovrebbero essere nell'arbitrio degl'iniziati di alterare o di oltrepassare.

A queste occulte disposizioni il legislatore dovrebbe accoppiare le pubbliche e le palesi. Le principali tra queste dovrebbero dirigersi a fomentare, estendere, invigorire nel popolo il rispetto pe’ misteri; a render Tiniziazione il voto comune di tutti gl’individui dello Stato, e l’iniziato il modello de' suoi concittadini; a regolare in modo l’ammissione che i pregi che non sono nella libertà dell’uomo d’acquistare, non vi avessero alcuna parte, ma che quelli che dipendono dal mora) carattere dell’uomo dalla virtù e dalla probità, ne fossero gl’indispensabili requisiti; a regolare quella parte della pubblica educazione che le istruzioni religiose riguarda, in modo che senza manifestare disponesse gli animi e li preparasse al gran cangiamento; ad affidare, per questo motivo, queste istruzioni a' soli iniziati; a diminuire per gradi e sotto varii pretesti così il numero, come l’influenza ed il potere de' Ministri del profano culto; in poche parole, a distruggere con una mano, a misura che si verrebbe ad edificare coll’altra.

Finalmente, allorché il nuovo edificio innalzato tra il silenzio de' misteri avrebbe acquistata una bastante estensione ed una sufficiente solidità, e l’antico si sarebbe proporzionatamente indebolito e ristretto; quando la parte più autorevole della società avrebbe adottato il nuovo culto e la nuova religione, e l’altra vi sarebbe stata disposta; allora il misterioso velo dovrebbe squarciarsi; allora il legislatore dovrebbe pubblicare la nuova religione, e dichiararla la religione dello Stato e del Governo. Non vi sarebbe bisogno di proscriver l’antica per annientarla. Il tempo, le istruzioni, gli esempi basterebbero ad abbattere il vacillante mostro che non potrebbe più sostenersi. Ma la coazione, la violenza non dovrebbero avervi alcuna parte. Queste ritarderebbero invece di accelerare il compimento dell’opera, e discrediterebbero la mano del legislatore che dee determinare e dirigere le volontà e non combatterle.

Ecco con quali mezzi anderebbe cangiata l’antica religione; ma quale dovrebbe essere la nuova che le si dovrebbe sostituire? Vediamolo.


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CAPO VIII

Caratteri della nuova religione che si dovrebbe all'antica sostituire

Dopo tutto quel che si è detto, non vi vuol molto a determinare quali dovrebbero essere i caratteri della nuova religione che si dovrebbe all'antica sostituire. Scelta dal legislatore, invitata dal Governo, destinata dalla legge a concorrere colle altre forze impiegate a produrre ed eternare la virtù e la felicità del popolo, essa dovrebbe avere le più forti relazioni cogl’indicati beni, essa non dovrebbe avere alcuna intrinseca relazione cogl'indicati mali.

I doveri da essa prescritti, i beni da essa inculcati, i mali da essa condannati, molto lontano da collidersi colle idee del vero bene e del vero male morale e civile, dovrebbero secondarle, invigorirle, estenderle. Il bene da essa prescritto dovrebbe esser non solo il bene dalla legge ordinato, ma anche quello che il legislatore deve ottenere, senza poter prescrivere; il male da essa proibito dovrebbe essere non solo il male dalla legge condannato, ma anche quello che il legislatore deve evitare, senza poter condannare.

I dogmi della sua fede non dovrebbero opporsi a' precetti della sua morale; ma ci dovrebbe essere un mezzo costante tra ciò che si dee credere, e ciò che si deve operare. L'idea della Divinità, complesso degli archetipi di tutte le perfezioni, dovrebbe appoggiar quella della sua legge, complesso di tutti i doveri.

Le sue funzioni dovrebbero partire dal dogma dell’altra vita; ma questo dogma non dovrebbe contenere alcuno di quei principii che possono eluderne i preziosi effetti. L’espiazione non dovrebbe esserne esclusa, la speranza non dovrebbe esser tolta a colui che ha peccato; ma questa dovrebbe essere appoggiata a que’ mezzi che suppongono l’intima volontà di riparare il male, e l’intera correzione del cuore.

Il suo culto degno della Divinità, alla quale è diretto, non dovrebbe ammettere alcun rito che potesse avvilirne l’augusta idea, alcuna pratica che potesse offendere i costumi, alcuna obbligazione che potesse dispensare dagli altri doveri.

Regolata dal legislatore nel tempo che il civile corpo è già pervenuto alla sua integrità, non dovrebbe risentirsi di alcuna di quelle disposizioni che sono le appendici del bisogno che ci è stato nel l’infanzia de' popoli, di supplire alla debolezza della forza pubblica coi soccorsi imprestati dalla Teocrazia. I suoi templi dovrebbero essere il ricovero de' bisognosi e non asilo de' malvagi. Le sue solennità, le sue feste dovrebbero garantir gli uomini da' delitti, e non i delinquenti dalle pene. Il Sacerdozio dovrebbe formare una delle parti più nobili del corpo sociale, e non un corpo separato; egli dovrebbe essere il modello de' cittadini, e non l’oggetto de' privilegi; egli dovrebbe insegnare agli altri a portare in pace i pubblici pesi, e non esserne immune; egli dovrebbe inculcare la subordinazione alla legittima autorità, e non esserne sottratto.

Finalmente è chiaro che questa religione con questi caratteri non verrebbe neppure ad avere un’intrinseca relazione con que’ due estremi ugualmente perniciosi, cioè col fanatismo e coll'irreligione, ch'essa dovrebbe degenerare dalla sua nativa istituzione per urtare nell'uno o nell’altro, e che questa degenerazione non potrebbe derivare che o dall'oscitanza del Governo o da qualche vizio della Legislazione, cause prevenute ed escluse entrambe dalle varie combinate forze del legislativo sistema che io propongo.

Ma quale è la religione, nella quale, considerata nella sua nativa istituzione, tutti questi caratteri si ritrovano? Ecco l’oggetto del seguente Capo. (416)


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NOTE GIUSTIFICATIVE DE’ FATTI

....Atterriti mortali (N. 4). Vol. III, pag. 349.

Veggasi la Teogonia di Esiodo dal verso 154 fino al verso 158, dové sotto il velo della favola, che ci fa vedere il Padre Celo tenere nelle viscere della madre nascosti tutt'i figli che da lui e dalla Terra erano nati, si manifesta questa prima epoca dell’antichissima greca religione, nella quale il Politeismo non si era ancora introdotto, e nella quale l’ignota forza che agitava la natura, sotto il nome e l’idea d’Uranos, o sia Celo, cioè di ciò che tutto abbraccia e contiene, veniva unicamente invocata, senza che al religioso culto partecipasse alcuna delle altra Divinità in appresso adorate.

Porfirio, sull'autorità di Teofrasto, ci conferma in questa verità. Egli ci mostra che nel principio la religione si aggirava a pratiche molto più semplici e pure, e ad idee molto diverse da quelle che nel suo tempo regnavano.

Non vi erano allora, secondo lui, né figure sensibili, né sanguinolenti sacrificii, e i nomi e le genealogie dell’immenso popolo degli Dei non erano state ancora immaginate. Si rendevano al primo principia di tutte le cose omaggi puri, gli si dirigevano ferventi preghiere, s’implorava il suo soccorso, e si riconosceva in questo modo il suo sovrano dominio.

L’opinione di Erodoto, (417)quantunque nell'apparenza sembra che contraddica quest’idea, mi pare che nella realtà luminosamente la confermi. Secondo lui i Pelasgi che furono i primi abitatori della Grecia, onoravano confusamente molti Dei ch'essi non distinguevano, ed a' quali non davano alcun nome. Or più Dei che l’uno dall’altro non si distinguono, che non hanno l’uno dall’altro diverso nome, che altro indicano, se non la confusa idea di quell’ignota forza da principio unicamente adorata, e che Erodoto non seppe indovinare, perché era troppo penetrato dalle idee politeistiche che da ogni parte lo circondavano?

Rivolgendoci quindi alle antichissime memorie della primitiva religione negli altri popoli, noi troveremo ne' pochi monumenti che ce ne avanzano i materiali, onde vigorosamente sostenere la nostra opinione.

Nel Frammento di Sanconiatone che Euschio ci ha trasmesso, in questo frammento infelicemente alterato, ed interpolato da Filone di Biblos che aveva tradotta quest’antichissime opera, ma che traducendola l’aveva accomodata e mescolata colle idee de' Greci e colle sue proprie; in questo frammento, nel quale si trovano senza distinzione le riflessioni di Filone e di Euschio mescolate e confuse colle relazioni dell’antico istorico; in questo frammento, io dico, nel quale ci è bisogno di molta critica per distinguere ciò ch'è di Sanconiatone, da ciò ch'è di Filone o di Euschio, noi troviamo che Beelzemen, o sia il Signore de' Cieli, era stato l’unico oggetto de' voti e del culto de' primi abitatori della Fenicia regione.

Apollodoro che aveva scritta l’istoria de' Caldei, e che nel principio della sua storia degli Dei ci dice che Celo è stato il primo a regnare su tutto l’universo, ci manifesta bastantemente che presso questa nazione l’istesso oggetto richiamò il primo culto de' primi suoi padri.

Dalla imperfetta relazione ch'Erodoto (418)ci dà dell'antica religione de' Persiani noi possiamo rilevare che La vasta estensione de' Cieli era stata la formola, colla quale i loro padri avevano espressa l’antica ed ignota Divinità. Strabone (419)trattando questo medesimo oggetto ci conferma in questa opinione. Noi vedremo da qui a poco come Nithron era quindi divenuto Il loro supremo Nume.

Ciò che Macrobio (420)ha raccolto ne’ suoi Saturnali sul Dio Giano, ch’egli chiama Dìo degli Dei, ci mostra fino all’evidenza che quest’antichissimo e primo Dio de' Latini fu da principio sotto l'idea di quell'ignota forza, della quale si parla, l’unico oggetto de' voti e del culto de' primi erranti abitatori del Lazio. Il principio dell'orazione del vecchio augure ch'egli riporta, gli antichi poemi de' Salii, l’opinione di Gavio Baffo e l’etimologia di Cornificio fondata sull’autorità di Cicerone ch'egli cita, per sostenere l’opinione di coloro che credevano che Giano era stato considerato come l’Universo, o il Cielo, tutte queste autorità, ed altro che per brevità tralascio, combinate colla favola, la quale ci dice che Giano fu il primo ad ispirare la religione a' Latini, ed a regnare su di essi, nel mentre che l’istessa favola ci fa vedere che i Latini di quel tempo vivevano nello stato della più perfetta selvaggia indipendenza, formano un aggregato di prove le più luminose di questa verità.

Negli antichissimi libri de' Chinesi, de' quali se ne conservano ancora cinque ch'essi chiamano i Kink, si trovano da per tutto le tracce del primitivo culto de' loro primi padri, le quali ci mostrano che questo si raggirava all'adorazione unica di quell'ignota forza, che, come si è veduto, i Greci chiamarono Uranos o sia Celo, i Fenicii Beelzemen o sia Signore de” Cieli, i Persiani La vasta estensione de' Cieli, gli antichi Latini Giano o l'Universo o il Cielo, e ch'essi chiamarono Chan-Ti o Tien, che nella loro lingua esprimono la cosa istessa, cioè il Cielo o La forza che domina nel Cielo. (421)

Un argomento simile noi troviamo nel nome della primitiva Divinità di molti popoli, i quali; in mezzo al Politeismo nel quale erano posteriormente caduti, conservarono, sebben con diversa idea, all'antico Nume l’antico nome, che indicava quale aveva dovuto esser l’unico oggetto del religioso culto de' primi loro padri. Il Knef degli Egizii, l'Adonis de' Sirii, il Baal o Belo degli Assirii e de' Moabiti, il Moloch degli Ammoniti, il Marnas de' Filistei, l’Allah degli Arabi, Il Papeo degli Sciti, e ne' moderni popoli così dell’America, come dell’Emisfero australe il Manitou delle nazioni Algoliche, il Chemien de' Garaibi, l'Okki o Ares-Kovi degli Uroni, l’Eatooa-Rabai de' Taitiani, (422) non significavano e non significano altro che Alto Padrone o Signore. Questo indeterminato nome c’indica bastantemente che uno ed indeterminato era l’oggetto che da principio esprimeva, e quest'unico ed indeterminato oggetto quale poteva mai essere, se non l’ignota forza, della quale parliamo?

È probabile che il Tuiston ch’era il nome della prima Deità de' Germani, e l’Efus che era quello della prima Deità de' Galli, avessero significala la cosa istessa: ma il modo col quale questi ultimi onoravano ancora questa prima loro Deità, anche quando il Politeismo aveva già fatto presso di loro considerabili progressi, ci fa chiaramente conoscere che l’idea che i primi loro padri se ne avevano da principio formata e che i loro discendenti avevano già smarrita, non era diversa da quella che noi abbiamo trovata presso gli altri popoli, dei quali si è parlato. Questa Deità non era rappresentata da alcuna immagine, né da verun emblema; essa non aveva né templi né are. Ne’ boschi ed a' piedi di una quercia di sacro rito si eseguivano, ed ivi si offrivano i sacrificii e si dirigevano i voti all'ignota ed antica Deità. (423)

A tutti questi argomenti se ne aggiugne un altro. Il Dio Supremo presso molti popoli non ha alcun nome. Gli Asturiani, i Cantabri e i Celtiberiani più di ogni altro adorano, dice Strabone, un Dio ignoto che non ha nome. (424)Gl'Indiani del Brasile, colle mani rivolle al Cielo, adorano ed implorano il Dio supremo che non ha né templi, né altari, né nome. Messicani in mezzo alla moltitudine de' loro che le prime relazioni facevano ascendere a duemila, non lasciavano, al riferire di Solis, di riconoscere in tutte le parti dell'impero un Dio supremo; ma questo Dio non aveva alcun nome; essi l’indicavano, riguardando il cielo con venerazione. (425)Da che può ciò derivare? I primi padri di questi popoli, non conoscendo altra Deità che Xignota forza, della quale si è parlato, potevano implorarla ed onorarla, senza darle un nome, perché oscuro ed indeterminato era l’oggetto del loro culto, e perché, come unico, non aveva bisogno d’essere da alcun altro distinto. I loro discendenti, caduti nel Politeismo, han posto alla testa de' loro Numi, come il più antico, quello che senza nome, ma con diversa idea, era da' loro padri invocato.

Finalmente se si riflette che in quasi tutte le lingue primitive la voce Dio ha originariamente, come si sa, indicato Forza, si troverà un altro argomento valevole della nostra opinione.

Le tracce adunque del primo passo che si è dato verso la religione, si trovano corrispondenti alle nostre idee in luoghi, in popoli, in tempi i più distanti tra loro. Se in mezzo alle tenebre che da ogni parte circondano quest’oggetto, noi abbiam data e seguiteremo a dare nel testo la preferenza alla greca Teogonia, noi non l’abbiam fatto per altro motivo, se non perché questa è la sola che ci sia giunta intera e seguita, e che ci sia originalmente pervenuta da uno de' più antichi poeti di questa nazione. Del resto, se i frammenti che noi abbiamo delle Teogonie degli altri popoli, separatamente considerati, non basterebbero a sostenere tutto il progressivo sistema delle nostre idee, perché imperfetti ed interrotti, nulladimeno tali quali sono ci somministreranno non solo le più luminose prove delle sue parti, ma formeranno altresì nella loro combinazione ed avvicinamento una. prova ugualmente luminosa di tutto il sistema intero, ed in questo modo la Teogonia generale del genere umano verrà illustrata e sostenuta da' dettagli conciliati ed approssimati delle Teogonie particolari di ciascheduna nazione.

.... Viene adorata (N. 2). Vol. III, pag. 321.

Per vedere che Esiodo istesso ci ha bastantemente indicato che l’istesso Nume, adorato nel principio sotto l'idea ed il nome d’Uranos o sia Celo, fu quindi adorato sotto la nuova idea ed il nuovo nome di Cronos o sia Saturno, basta avvicinare il verso 624 al verso 644. Gl'istessi Numi che nel primo di questi due versi vengono chiamati figli di Saturno e di Rea, vengono nell'ultimo chiamati figli di Celo e della,Terra. Più: la Terra sotto il nome di Taìa fu moglie di Celo e madre dI Saturno, e sotto il nome di ReiaRea fu figlia di Celo e moglie di Saturno. (426) L’istesso Nume sotto diversa idea e diverso nome aveva l'istessa sposa sotto diversa idea e diverso nome. Cronos è l'istesso che Uranos, ma con idea più ristretta e con nome atto ad esprimere questa più ristretta idea. Reia Rea era l'istessa che Gaia La Terra; ma con più ristretta idea e con nome atto ad esprimere questa più ristretta idea, giacche da tutto il contesto di Esiodo si vede che quando egli chiama la Terra Gaia, vuol indicare tutto il pianeta, o sia ciò che si chiama globo terraqueo, e quando la chiama ReiaRea, pare che voglia indicare quella parte del pianeta che propriamente terra vien detta. Il poeta adunque con ragione quando no, mina la Terra come moglie di Uranos o sia Celo, la chiama Gaia, e quando la nomina come moglie di Cronos o sia Saturno, cioè dell’istesso Nume, ma con più ristretta idea, la chiama ReiaRea.

Noi abbiamo altri luoghi in Esiodo, dové con ugual evidenza s’indica che Uranos e Cronos erano l'istesso Nume, adorati sotto diversa idea e diverso nome; ma cj riserbiamo di produrli, allorché si parlerà del regno di Giove.

.... Produce (N. 3). Vol. III, pag. 321.

Veggasi il verso 460 fino al vèrso 465 della Teogonia, dové Esiodo ci fa vedere Cronos ricevere dal padre Uranos i secreti del destino sulle future rivoluzioni, ed il verso 475 fino al verso 495, dové ci mostra l’impotenza de' suoi sforzi per sottrarsi da' suoi decreti.

Gli antichi consideravano il Fato come una legge emanata fin dal principio delle cose dal supremo Nume; ma alla quale, dopo averla fissata, era egli medesimo sottoposto. Il depositario di questa legge era sempre l’istesso Nume supremo che n’era stato l'autore, chiamato con diversi nomi e progressiva diminuzione d’idee, da principio Uranos o sia Celo, quindi Cronos o sia Saturno, ed in fine Zeujo sia Giove. Noi mostreremo più distintamente questa verità, allorché parleremo del regno di Giove. Bisogna per altro avvertire che queste sì vaste, sì distinte e sì estese idee sul Fato si svilupparono e si estesero progressivamente e per gradi, e non nacquero tutte ad un tratto ne' tempi e nello stato, nel quale si trovarono gli uomini, allorché questo secondo passo nel religioso culto fu dato. Questo ha dovuto accompagnare la prima infanzia della società, come l’anteriore passo ha dovuto precederla; e la ragione, per la quale il regno di Saturno fu chiamato il secolo d'oro, non era altra, se non perché in quel tempo gli uomini ancora godevano della naturale indipendenza, della quale Ovidio (427) ci fa una sì seducente dipintura, e della quale si risvegliava in Roma la rimembranza ne' Saturnali. Or in questo stato, se gli uomini avevano potuto qualche oscura idea acquistare sull'ordine successivo delle cose, che a' loro sensi si manifestavano colle periodiche rivoluzioni degli astri, col ritorno delle stagioni, ecc., se avevano potuto attribuire al primo de' Numi l’origine e la presidenza a quest’ordine, essi non avevano potuto tutto ad un tratto estendere e perfezionare queste idee fino al punto che si richiedeva per formare l'indicata teoria del Fato de' poeti e della legge d’ordine dei filosofi. Simile sviluppo d’idee suppone una società più inoltrata ed una coltura molto più estesa.

Veggasi ciò che su questo secolo d’oro si è da me detto nel terzo Libro di quest'opera, Capo XXV. (428)


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.... E distrugge (N. 4). Vol. III, pag. 321.

oj dapanaj mhn apanta kai auxelin autoj.

Qui consumis quidem omnia, et ipse rursum auges. Inno del supposto Orfeo e Saturno, verso 3. Vedi anche Esiodo, Teogonia, versi 459 e 460.

Ma è ormai tempo di consultare le religiose memorie degli altri popoli, è ormai tempo di mostrare come l’uniformità delle cause ha prodotta l'uniformità negli effetti, cioè di mostrare la loro rassomiglianza così ne' primi elementi de' loro particolari Politeismi, come nella mutilazione o sia restrizione subita dalla prima idea di quell'ignota forza, primo ed unico oggetto del loro primo culto.

È fuor di dubbio che le particolari forze, le particolari potenze della natura che hanno una più sensibile, una più imponente azione, che per la loro vastità più scossero la meraviglia e richiamarono la riflessione degli uomini ne' loro apparenti contrasti, sieno state i primi oggetti, i primi componenti del Politeismo di tutti i popoli. Il Sole, la Luna, la Terra, l’Acqua, il Fuoco, le Meteore, i Venti, ecc., dovettero essere e furono infatti i primi Dei. Noi troviamo da per tutto le vestigie dell'epoca del loro culto succedere immediatamente all'anteriore e breve periodo dell'adorazione unica dell’ignota forza, della quale si è parlato; noi li troviamo da per tutto annoverati tra' primi Dei; noi li troviamo da per tutto considerati come i più antichi. Dall’Indie fino alle Gallie, dall’Etiopia e dall'Egitto fino alle nazioni Iperboree, nell'antico come nel nuovo Continente, questo fatto si trova contestato da tante prove, che per poco che si conoscano le istorie delle prime età de' popoli non si potrà dubitarne. Erodoto, (429) dove parla degli Dei Maggiori de' Persiani; Strabone, (430) dové parla degli stessi Dei de' Cappadocii; Diodoro Siculo, (431) doverapporta l’antica tradizione degli Egizii su’ loro primi Dei; e l’istesso Diodoro, (432) dové rapporta quella degli Etiopi; i sacri libri de' Chinesi, dové ci rivelano l’antichissima loro religione;(433)Massimo Tirio, dové ci trasmette le notizie da lui raccolte sulla religione de' popoli che abitavano al settentrione del Ponto Euxino; ciò che Cesare(434) e Tacito(435) ci hanno indicato sull'antica religione de' Germani, e ciò che il poc’anzi citato istorico della religione de' Galli ha raccolto sugli oggetti del loro antico culto; le notizie finalmente che noi abbiamo della religione di tanti popoli posteriormente scoverti; (436)tutti questi movimenti, io dico, e tanti altri che per brevità tralascio, purché si consultino con quello spirito filosofico che da niun precetto di critica può esser supplito, e che è più che necessario nell’indagine di simili fatti sì male osservati, ed anche più difettosamente trasmessi, ci mostreranno l’uniformità del genere umano in questo secondo passo dato nella religione e primo nel Politeismo.

L’istessa uniformità si troverà nella contemporanea tilazione, o sia restrizione dell'idea di quell'ignota forza da principio unicamente adorata. Noi vedremo l'istessa idea del tempo, meno vaga, ma non dissimile da quella de' Greci, campeggiare in questo secondo periodo; noi vedremo l’idea dell’ignota forza che agitava la natura, con simile mutilazione restringersi in quella d’una forza che presiede al giro d’uno de' due astri, che determinano i giorni, i mesi, gli anni, in poche parole, che sono la più costante e sensibile misura del tempo; noi vedremo insomma, dové il Sole e dové la Luna divenire la suprema Divinità de' popoli, o per meglio dire l’anteriore idea dell'anteriore Nume, dové con nuovo nome e dové coll’antico, restringersi in quella d’una forza, d’una intelligenza, che presiede alla successione de' tempi e delle cose, presedendo alle rivoluzioni d’uno di questi astri.

L’Osiride degli Egizii, il Mitra de' Persiani, l’Adonis dei Sirii, l'Ammon de' Libii, l’Affabino degli Etiopi, il Beleno de' Celti, l’AllahTaala degli Arabi, non erano, come si sa, altro che il Sole. Egli era divenuto il supremo Nume di questi popoli, non altrimenti che lo era divenuto de' Peruviani, de' Floridiani, degli Alapachi e di molti altri popoli dell’America, de' Taitiani e di varii altri isolani del Mare Australe, allorché furono dagli Europei conosciuti. (437)

Dal Frammento di Sanconiatone che si è da noi citato, si rileva chiaramente che presso i Fenicii il loro Beelzemen, o sia il Signore de' Cieli, che avea da principio indicata l’ignota ed uni versai forza che domina nella natura, non indicò quindi altro che il Sole, o sia l’intelligenza che alle rivoluzioni di quest'altro si credeva che presiedesse. L’istesso avvenne al Moloch degli Ammoniti, ed al Baal o Belo degli Assirii e dei Moabiti. (438)

Il Sole era, al riferir di Erodoto (439)e di Strabone, (440)la suprema Divinità de' Messageti e degli Armeni, ed Apollo prese il soprannome d’Iperboreo, perché l’astro, al quale i Greci dettero questo nome, era il supremo oggetto del culto degl'Iperborei. (441)

L’istesso astro era sotto il nome di Penin, il Dio Ottimo Massimo de' popoli che abitavano sulle Alpi Pennine; e sotto quello di Tuiston il supremo Nume de' Germani. (442)

Per quel che si è detto riguardo alla Luna, noi vediamo quest’astro che non meno del Sole può considerarsi come la misura del tempo, adorata come suprema Deità in popoli od in tempi i più distanti tra loro; nella Taurica fin da' tempi della guerra di Troia; nell’isola di Sen sulla costa meridionale della Bassa Brettagna, celebre per le Druidesse che sotto il nome di Senne erano interpreti e ministre di quella suprema Deità; (443)e nel Capo di Buona Speranza presso gli Ottentotti de' nostri dì, ed in molti altri popoli così antichi, come recentemente scoverti. (444)

Finalmente in mezzo alle tenebre, che circondano l’antica religione de' Popoli, che l’antico Lazio abitavano, noi possiamo asserire con sicurezza che il Dio Giano, del quale si è parlato, aveva già lasciato d’essere il Dio unico, ed era già divenuto il Dio del Tempo, prima che la greca religione penetrato avesse in quella regione, ed avesse interrotto il naturale corso della sua Teogonia. In qual altro modo infatti si può con maggior ragionevolezza spiegare l’antichissima favola che ci fa vedere il Dio Giano dividere il suo regno con Saturno, se non supponendo, che quando questo straniero Nume, che era l’istesso che il Cronos de' Greci, fu conosciuto nel Lazio, presedendo, come Giano, al tempo, fu messo a parte dell'istesso regno, perché partecipava all'istesso impero? Il nome di Bifronte che portava Giano; i due volti che avevano i suoi antichi simulacri; il numero de' giorni dell’anno che molte sue antiche rappresentazioni colle due mani indicavano; l'opinione che si conservava anche ne' tempi molto a quelli posteriori che questo Dio presiedesse al principio di tutte le calende e di tutti i mesi; (445)tutti questi fatti e tanti altri, che non è questo il luogo di rapportare, c'inducono ad asserire, che Giano dopo essere stato considerato come l’Universo o il Cielo, o sia come l'Uranos de' Greci, fu quindi considerato come il loro Cronos, o sia come il Dio del Tempo. (446)

.... Della Paura (N. 5). Vol. III, pag. 322.

Esiodo ci fa in più modi vedere questa progressione. Oltre gli argomenti che ce ne dà, e che saranno a suo luogo prodotti, nell’invocazione alle Muse egli dice: Esse cantano ne' loro eterni concerti i Dei che da principio nacquero dal Cielo e dalla Terra, e quelli che da questi derivarono che sono de' diversi beni i distributori. (447) I Dei nati dal Cielo e dalla Terra furono i Titani, (448) che il Gran Padre mutilarono, cioè le forze, le potenze della natura, che furono le prime ad esser adorate, allorché dall’adorazione unica dell’iota forza, della quale si è parlato, si pervenne a dare il primo passo nel Politeismo; quelli che da questi derivarono, furono tutte le altre forze, le altre potenze che sotto poetiche finzioni, sotto genealogie, favole ed allegorie diverse, e sotto nomi de quali quasi sempre bisogna cercare il nativo significato per indovinare il soggetto che esprimono, Esiodo ci fa vedere divenire dopo di quelle progressivamente gli oggetti del religioso culto de' Greci.

Queste forze, queste potenze non furono soltanto le potenze fisiche della natura, ma anche le morali, quali sono le affezioni e le passioni. Tale è Afrodite o Venere, cioè l’Amore che Esiodo fa nascere dalla spiuma cagionata nel mare da' genitali d’Uranos da Cronos recisi; (449)tali sono le Furie che egli fa nascere dalle gocce del sangue dell'istesso Uranos sulla Terra cadute dopo la fatale mutilazione, (450) e che indicano il furore, l’odio, lo sdegno, la vendetta, come lo manifesta il significato dell'istesso loro nome comune epmvc, e de' loro particolari nomi Alhktw, Megaira, Tisiψun;(451)tale è l'Invidia, della quale i Greci fecero un Dio, perché nella loro lingua mascolino ne era il nome, e i Latini una Dealerche nella loro lingua era femminino, e della quale Esiodo nel suo Poema delle Opere è de' giorni, (452) ed Ovidio nelle sue Metamorfosi, (453) ci fanno una sì energica dipintura; tale è l'E mutazione, della quale Esiodo parla nell'istesso luogo; tale è la Tristezza che i Greci personificarono sotto il nome di Ackujo sia Oscurità, Caligine, e della quale Esiodo ci parla nel suo Poema dello Scudo di Ercole, (454) e’ tali sono il Timore e lo Spavento, Foboj e Deimoj, che Esiodo nella Teogonia (455) fa nascere da Marte e da Venere, e li considera come i seguaci del primo nel Poema dello Scudo di Ercole, (456) ed a' quali Omero dà l’istessa origine e l’istesso impiego, (457)e che si veggono nel suo divino poema ora scolpiti nel tremendo Egida di Minerva, ed ora sullo scudo d’Agamennone, (458)ora allestire il carro di Marte per correre alla vendetta d’Ascalafo, (459)ed ora uscire da' navigli de' Greci per porre in fuga i Troiani in mezzo al turbamento ed alla costernazione che cagiona il combattimento di Ettore e di Aiace. (460)

Noi sappiamo che queste due Deità avevano un tempio in Sparta, ed un altro in Roma, (461)e noi vediamo nella tragedia d’Eschilo Sette innanzi Tebe, i sette capi di questa spedizione, in mezzo de' sacrificii, tenendo le mani immerse nel sangue della vittima, giurare per Marte, per Bellona e pel Dio della Paura. (462)

.... Melie (N. 6). Vol. III, pag. 323.

Esiodo, Teogonia, verso 184 fino a 187.

Queste Ninfe erravano, cioè non avevano una dimora fissa e stabile, perché gli accidenti che loro avean fatto incontrare, cioè che avevano prodotta l’illusione, dipendendo da molte combinazioni, non potevano esser fissi e permanenti; esse erravano, secondo l’espressione d’Esiodo, ep/apeirova gaian, super immensam terram, perché secondo quel che si è detto, da per tutto avevan dovuto essere vedute, perché in ogni parte se ne eran dovute incontrare. Il nome istesso di Ninfe conferma ammirabilmente la mia idea. Numfh, Ninfa, vuol dire velata, occulta. Noi sappiamo che le novelle spose si chiamavan con questo nome, perché andavan velate; noi sappiamo che in uno de' due sessi, due parti che la natura ha nascoste sotto due pareti, vengon chiamate Ninfe; noi sappiamo che il bottone d’una rosa non ancora perfettamente schiusa ha l’istesso nome; noi sappiamo finalmente che Ninfe si chiamano le farfalle, che sono ancora nell’inviluppo, nel quale la meravigliosa metamorfosi si forma. Or tutto ciò che si vede nell’oscurità, si vede sì indeterminatamente, così imperfettamente, che sembra come da un velo coverto.

Le cinque seguenti Note spero che spargeranno un pieno lume su questo oggetto.

.... Di tante altre Ninfe (N. 7). Vol. III, pag. 323.

Veggasi Esiodo, Teogonia, verso 240264, dové parla delle cinquanta Ninfe marine, figlie di Nereo e Dori, e verso 346366, dové parla delle altre tremila Ninfe, figlie dell'Oceano e di Tetide, che qua e là disperse, or sulla terra ed ora sotto le acque abitano.

L’opinione sull’anfibieta, sull’incostante dimora di queste Ninfe or sulla terra ed ora sotto le acque, ce ne fa bastantemente vedere la remota origine nelle ottiche illusioni, delle quali si è parlato. La Ninfa che si era incontrata la notte in una paludosa foresta o sulle sponde d’un fiume o vicino ad un fonte o ad un lago, non incontrandosi più nel giorno, perché si erano dileguate le tenebre, né, incontrandosi più nelle altri notti, perché non s’incontravan più gl’istessi accidenti che avevan prodotta l’illusione, si credeva che fosse sparita, perché si era tuffata nelle acque. L’istesso avveniva in quelle che nel mare o nelle marine caverne o vicino alle spiagge del mare si eran vedute. (463)

Si rifletta che questa misteriosa dimora delle Ninfe offre un altro argomento alla nostra idea. Boscosi monti, selvagge foreste, maremme, laghi, fiumi,fonti, mare o marine caverne, erano i luoghi più atti a favorire l’errore; giacché l’illusione avrebbe potuto svanire avvicinandosi all'oggetto che la produceva; ma quest’oggetto o era inaccessibile per gli ostacoli che la natura istessa del luogo opponeva, o lo diveniva per quell’alterazione: che si produce nell’immaginazione dall’orrore e dal timore, che, oltre le tenebre, ognuno sa quanto i luoghi di questa natura sono atti a destare.

Finalmente il trovare queste Deità presso popoli e tempi più distanti tra loro ci conferma nell'opinione della causa comune che ha dovuto esserne l’origine.

Virgilio ci fa vedere queste Deità conosciute dagli antichi abitatori del Lazio molto tempo prima che questi avessero avuta la menoma relazione de' Greci, e precisamente nella religiosa epoca che noi abbiamo loro assegnata. In quell’aureo luogo dell'Eneide, nel quale Evandro manifesta ad Enea l’antichissima istoria del territorio che egli occupava, e che fu quindi quello nel quale Roma fu fondata: questo territorio, egli dice, non era anticamente che una vasta foresta, soggiorno di Ninfe e di Fauni che non dovevano ad altro suolo la loro origine; gli uomini che l’abitavano, eran rustici e grossolani come gli alberi che li vedevan nascere; essi. erano sì lontani dalla coltura, che non sapevano neppur attaccare i buoi all’aratro, ecc. (464)

Tutt'i popoli del Messico han creduti i fiumi, le maremme, i laghi popolati di simili Deità; e si sa che ne' vasti recipienti di acque essi gittavano in ogni anno un fanciullo per tener compagnia a queste Deità che l’abitavano. (465)

Nell’estremità dell’altro emisfero i Goreensi avevano la medesima credenza, ed allorché divennero tributarli della China, il loro Re ottenne di conservare la prerogativa di sacrificar solo a queste chimeriche Deità. Gli Spiriti delle cinque principali montagne della China, de' quattro mari e dei quattro fiumi che ricevevano i divini onori da' Chinesi, sembravano derivati dall'istesso errore. (466)

Presso gli Sciti, presso i Germani e presso i Galli regnava la medesima opinione. I Dei Sulevi, Comodevi, Stivatici di questi ultimi erano prodotti perfettamente simili dell'istessa causa. Finalmente le antiche leggi della Norvegia che proibiscono d’adorare i Genii de' fiumi, de' laghi e de' sepolcri, ecc., (467)ci mostrano gl’istessi effetti dell’istesso errore negli antichi abitatori di questa sì remota regione.


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.... Degli Dei Penati e de' domestici Lari (N. 8). Vol. III, pag. 323.

Il nome che si dava a questi Lari, di Larva, che indica ombre notturne, fantasmi, spettri; le maschere degli antichi che Larva si chiamavano, forse perché occultavano colui che le portava come lo spettro; il fantasma che l’ottica illusione aveva presentato all’uomo intorno alla sua abitazione, si credeva che nascondesse il Nume che alla sua custodia vegliava; l’interpretazione data da alcuni secondo ciò che ce ne dice Dionisio d’Alicarnasso (468)alla parola di Penati, traducendola per Dei secreti o nascosti; l'antica tradizione Etrusca rapportata da Arnobio, (469)dalla quale si rileva che si era sempre ignorato il numero ed i particolari nomi di questi; finalmente l’antichità del culto di questi Dei Lari e Penati di molto anteriore alla fondazione di Roma, e la celebrazione della loro festa durante i Saturnali, formano una serie d’indiziò che insieme combinati ci fan vedere con bastante chiarezza che la prima origine di queste domestiche Deità non fu altro che l’errore de' sensi, del quale si è parlato, e che l'epoca di quest'origine corrisponde perfettamente a quella che nel nostro sistema viene loro assegnata: epoca nella quale gli uomini, ancora sepolti nelle più folte tenebre della barbarica ignoranza, dovevano essere molto più creduli della plebe de' nostri dì, presso la quale, malgrado i lumi che da ogni parte la circondano, una sola di queste illusioni giudicata da una donna come l'apparizione d’uno Spirito basta per accreditare l’esistenza di questo Spirito in quel luogo per un contado intero. La causa celebre ultimamente agitata sopra questo oggetto ne' nostri tribunali ci mostra bastantemente che non vi è la menoma esagerazione in questa asserzione.

.... Lemure (N. 9). Vol. III, pag. 323.

L’idea che ce ne ha trasmessa Nonio (470)corrisponde perfettamente a quest’origine. Lemures, dice egli, sunt larice nocturnae, et terrificationes imaginum et bestiarum. L’antico rito, del quale parla Varrone e col quale si cercava d’espeller nella notte questi Lemuri dalla casa, ci conferma anche nella nostra idea, mostrandoci le vestigie del terrore che avevan dovuto nel principio destare le apparizioni, o sia le ottiche illusioni che avean data origine all'opinione dell’esistenza di queste Deità. Quibus temporibus, dice egli, in sacris fabam jaclant noctu, ac dicunt se Lemures domo extra januam ejicere. (471) Il rito infatti esigeva che nelle tre notti, nelle quali si celebrava la festa a queste Deità consacrata, il padre di famiglia a mezzanotte si levasse da letto, che si riempisse d'un sacro spavento, che facesse un certo strepito colle dita delle mani e col percuotere sopra un vaso di bronzo, come per allontanarle da lui, e che non si rivolgesse in dietro, allorché gittava per dietro le spalle le fave: tutte vestigie del timore che avevan recato le apparizioni, alle quali dovevano la loro origine queste Deità, l’antichità delle quali corrisponde all’epoca che noi abbiamo loro assegnata, giacché questo culto era molto più antico di Roma, e se ne riconosceva l'origine dagli antichi abitatori del Lazio.

.... Degli Dei Mani (N. 10). Vol. III,pag. 323.

I poeti greci e latini distinguevano, come si sa, tre sorta di cose nell'uomo: il corpo, l’anima e la sua ombra o fantasma. Omero, dové parla del privilegio conceduto da Proserpina a Tiresia; (472)Virgilio, dové fa invocare ad Enea le ombre paterne, (473)e dové fa parlare Didone vicina a darsi la morte, (474) c'indicano questo principio dell'antica Mitologia, che Lucrezio ci manifesta anche con maggiore chiarezza ne' seguenti versi:

.... Esse Acherusia tempia,

Quo neque permaneant anima, neque corpora nostra,

Sed quoedam simulacra modis pollenlia miris. (475)

Gli Egizii avevano presso a poco avuta l’istessa opinione. Essi credevano che l'anima era composta da un corpo sottile e luminoso, e da ciò che si chiama intelligenza. Il corpo sottile era, secondo loro, la parte più materiale dell’anima, la sua immagine, il primo inviluppo di essa; e l'intelletto ne era la parte più leggiera. (476)

Pitagora aveva sostenuta ed insegnata una simile dottrina colla sua ipotesi de' membri equivalenti che aveva il corpo leggiero ed aereo, del quale egli supponeva l’anima rivestita, e che le serviva di primo inviluppo, allorché era unito al corpo mortale.

Simile opinione, con piccole differenze, noi vediamo presso quasi tutti i popoli nascere ed espandersi in quel periodo dell’eroiche società che alla religiosa epoca, della quale parliamo, corrisponde.

Or queste ombre, questi corpi sottili, che i Greci ed i Latini credevano che dalle anime, alle quali appartenevano, si separassero dopo la morte dell'uomo, venivano da questi ultimi chiamate Manes. Gli Dei di questo nome eran gli Dei che si credeva che proteggessero queste ombre, e che proteggessero ancora i sepolcri, intorno a' quali si credeva che queste ombre solessero nella notte errare, onde i morti venivano ad essi raccomandati, come dall'antiche sepolcrali iscrizioni si rileva, D. M. Diis Manibus.

Or chi non vede che così l’opinione dell'esistenza di queste ombre, come quella della loro prossimità a' sepolcri, quanto quella degli Dei che di questi sepolcri e di queste ombre prendevan cura, han dovuto ugualmente riconoscere la loro prima origine dalle ottiche illusioni, delle quali si parla? L’opinione rapportata da Servio di coloro che credevano che gli Dei Mani fossero Deità notturne, che tra il cielo e la terra errando presiedevano all’umidità della notte, e che dal loro nome si era chiamato Mane il mattino; e la costante opinione degli antichi, sì opportunamente adoperata da Virgilio, (477)sì chiaramente indicata da Properzio, (478) che le ombre non potessero errar per la terra e manifestarsi agli uomini che nella sola notte, ma che mimiche della luce coll’avvicinarsi del giorno dovessero nell'inferno restituirsi, non fanno che confermarci in questa nostra idea, indicandoci l’antica tradizione delle notturne apparizioni che ne eran stata l’origine.

L’idee de' Taitiani sul loro Dio Oromelooa che secondo essi abita intorno a' cimiterii, e su’ loro Dei Techee, ciascheduno de' quali custodisce e si aggira intorno al cadavere dell’uomo, del quale ha avuto cura durante la vita, (479) sembrano derivate dall’istessa causa, e suppongono gl’istessi errori. L’opinione che hanno che queste Deità entrino qualche volta nelle case durante le tenebre della notte, forma un altro indizio delle ottiche illusioni, alle quali debbono la loro origine.

.... Giganti (N. 4d). Vol. III, pag. 324.

Io prego colui che legge di por mente alle seguenti riflessioni. Noi troviamo questi Giganti descritti come esseri mostruosi; noi troviamo l’idea di questi Giganti costantemente associata a quella delle montagne; noi li vediamo rappresentare le principali figure nelle guerre degli Dei. Non in un solo popolo, non in un solo tempo, non in una sola Mitologia, ma in tutti i popoli, in tutti i tempi, in tutte le Mitologie ci vengono sotto il medesimo aspetto dipinti. In Esiodo i tre Giganti Cotto, Briareo e Gige han ciascheduno cinquanta teste e cento braccia; (480) sono di straordinaria grandezza e d’invalutabile forza; gittano trecento scogli per volta, e sono i principali combattenti nella guerra tra' nuovi Dei e gli antichi. (481) Le viscere della terra sono la loro dimora, (482) e per mostrarci le relazioni che avean col mare (come si sa che ogni Vulcano che è in azione deve averne) egli fissa la casa di Gotto e Gige ne' fondamenti dell’Oceano, e dà a Briareo per moglie la figlia di Nettuno.

Nell’istesso Esiodo, Tifeo che in greco significa Il fumo del fuoco, i vapori infiammati, (483) ha cento teste simili a quelle d’un drago; nere sono le sue lingue; gittano fiamme i suoi occhi, e da tutte le sue teste s’innalza tremendo fuoco; inintelligibili e varie sono le sue voci; le sue grida si sentono fino a' cieli, ed ai suoi fremiti rimbombano fino le lontane montagne. Nell'attacco di Giove con questo Gigante si descrivono tremuoti, tempeste, turbini di venti, ignee eruzioni, combustioni, incendii. (484)

In Ovidio e negli altri poeti, negli antichi istorici e mitologi si trovano simili idee. I Giganti sradicano le montagne, le lanciano contro gli Dei, le ammucchiano le une su delle altre, trasportano il monte Ossa sul Pelion. Tifeo è schiacciato sotto il peso della Sicilia; l’Etna è sul suo capo; gli sforzi del Gigante per liberarsene producono i tremuoti, ed il suo fiato infiammato è la causa dell'eruzioni di questo vulcano. (485)I contorni di Cuma sono da Diodoro chiamati il paese de' Giganti; (486)i Campi Flegrei erano la loro dimora secondo la tradizione d'Apollodoro; (487)e nell'assalto dato agli Dei essi lanciavan querce, alberi e scogli infiammati. Pailene in Macedonia ed un luogo d’Arcadia, dove, secondo Pausania, escono vapori infiammati, sono stati anche considerati come l’abitazione de' Giganti. (488)

Nel Frammento di Sanconiatone da noi più volte citato si dice che i Giganti, figli di Fos, Pur, Flox, cioè di Lume, Fuoco e Fiamma, che erano d’una mostruosa grandezza, avevan dato il loro nome allo montagne Cassio, Liban, Antiliban e Bratis.

Nelle antiche tradizioni Egizie noi vediamo Tifone, il grande inimico d'Osiride, descritto come un mostro che aveva molte teste e molte mani, le di cui braccia si estendevano fino a' confini del mondo, e il di cui capo era coverto di dense nubi; vivo fuoco usciva dalla sua bocca; spazii immensi aveva incendiati; violenta ne era stata la nascita, giacché aveva lacerato il seno di sua madre per uscirne; in un turbine di fuoco era rimasto ingoiato; nelle maremme del lago Sarbonide si teneva nascosto; le mofete che intorno a questo lago si trovavano, eran le sue esalazioni: figure vive de' tremuoti che precedono le prime eruzioni de' vulcani, de' fenomeni che accompagnano e seguono la loro estinzione, delle maremme e de' laghi che nell’antico cratere sovente si formano, delle acque che vi si arrestano, e delle mofete che li circondano. (489)

Nelle istesse tradizioni si parla delle figure spaventevoli che si videro uscire dalla terra nelle persecuzioni da Osiride sofferte. Queste figure erano Giganti mostruosi, de' quali l’uno aveva molte braccia, altri teneva nelle sue mani un quarto di montagna e lo lanciava contro il cielo, ed ognuno di loro era distinto per intraprese meravigliose e nomi spaventevoli. Queste spaventevoli figure si trovavano, al riferir di Plutarco, dipinte negli atrii de' templi, ed il popolo che andava ad assistere a' sacrificii, nel mentre che cantava le lodi d’Osiride, percuoteva queste figure e le caricava di maledizioni pe’ mali che si credeva che avessero recato al mondo. Ma questo rito non escludeva che queste detestate Deità ricevessero anche i loro omaggi, giacché l’istesso Plutarco ci dice che si sacrificava alcune volte a Tifone. (490)

Nell’Edda, o sia nella Mitologia degli Scandinavi, si parla a lungo de' Giganti e della loro guerra cogli Dei. Tetre e grandiose immagini campeggiano nelle favole a quest'oggetto relative; ma in niuna di queste vi è la menoma apparenza che si trattasse di nomini giganteschi. Questi Giganti sono negli antri oscuri della terra incatenati; i loro sforzi per rompere le loro catene fan vacillare le montagne, producono i tremuoti; queste catene saranno un giorno rotte, essi usciranno dalle loro abitazioni oscure per detronizzare gli Dei; l'arco celeste sarà il ponte, pel quale essi passeranno alle superne volte, e l’uman genere sarà allora di nuovo oppresso da tutte le calamità possibili. (491)

Nel Giappone l'istoria delle prime età del mondo non contiene che le tradizioni de' combattimenti degli Dei contro i Giganti. I mostri, de' quali vi si parla, sono presso a poco simili a quelli de' popoli, de' quali si è parlato; simili presso a poco sono le loro gesta, ed essi hanno ancora feste e riti commemorativi di queste antichissime guerre. (492)

Nelle antichissime tradizioni de' popoli dell'Indostan, nelle loro feste commemorative, ne' loro riti, ne' loro inni, nelle loro leggende, si trovano l'istesse idee di Giganti e di Gigantomachie, di questi mostri che avevano combattuto cogli Dei e che ne eran rimasti vinti. L’uno aveva aperto orribili voragini; l’altro aveva percosso il Sole e la Luna; l’altro aveva preparato abissi, ne' quali la terra sarebbe stata ingoiata; altri finalmente furono schiacciati sotto le montagne che essi avevan lanciate, e che un Dio aveva rovesciate su di loro. (493)

Presso i popoli dell’America si trova la medesima credenza. Da per tutto si trovano nel nuovo mondo come nell’antico le tradizioni de' Giganti e della loro guerra cogli Dei. Essi credono che le montagne sieno abitate da' Giganti; che i tremuoti sieno da essi cagionati; ed alcuni di questi popoli, allorché la terra è vacillante sotto i loro piedi, prendono le armi, tirano sassi e freccie contro le montagne, e credono d’allontanare in questo modo questi cattivi Spiriti che si vogliono impadronire del loro paese. (494)

Combiniamo insieme tutti questi fatti, e vediamo quale può essere la causa comune di un sì comune errore.

Nelle gran catastrofi della terra le montagne han dovuto più d’ogni altro richiamare l'attenzione e lo spavento de' miseri atterriti mortali. I tremuoti che han fatto fendere e crollare montagne intere, che sovente han fatto l’une su delle altre ammucchiare, che ne han distaccate immense rocche; l’eruzioni ignee che da' vulcanici monti son partite con spaventevoli ed orribili fenomeni, che han bruciato spazii immensi, che han prodotte alterazioni considerabili ne' vicini mari, sono avvenimenti che il tempo può alterare, ma non scancellare dalla memoria degli uomini, presso i quali l’idee di disordine e di rovina fanno un’impressione che le opposte idee d’ordine e di pace non sono state, né saran mai atte ad uguagliare.

Or supponiamo ciò che è, e che niuno potrà negare, che alcune di queste catastrofi abbiano preceduto o accompagnato la religiosa epoca, della quale parliamo, cioè quando il Politeismo si è già introdotto; supponiamo anche ciò che ha dovuto avvenire, e senza del quale non si potrebbe mai spiegare la causa e l’origine di questa sì universale e sì uniforme credenza; supponiamo, io dico, che per un effetto dell’istesso errore de' sensi, del quale si parla, o le vaporose ed ignee esalazioni d’un vulcano, (495)o qualche altra combinazione d’accidenti abbia fatto qualche gran spettro apparire, sopra o vicino ad alcuna di queste montagne: quale doveva esserne la conseguenza? Questo spettro è l’intelligenza che abita la montagna; quest'intelligenza che ha sì grande e sì mostruosa forma, è il Gigante che la fa agire; questo Gigante che nelle gran catastrofi ha lanciato smisurate rocche o immenso fuoco contro il cielo, è stato in guerra coi Numi.

Io non nego che abbia dovuto esservi un tempo, nel quale la natura più fresca e più vigorosa abbia dovuto esser più gigantesca nelle sue produzioni; io non nego che abbian dovuto esservi uomini giganti, ed animali giganteschi; io non nego neppure che abbian dovuto esservi animali che oggi più non sono; ma tutto ciò che si rileva nelle tradizioni alle guerre de' Giganti relative, non ha niente che fare, come si è veduto, né con sì fatti uomini, né con sì fatti animali. Le sole ottiche illusioni che fecero nascere i Lemures e le Ninfe e le altre Divinità di questa natura, poterono partorire i Giganti, de' quali si è parlato; ed Esiodo ci fa bastantemente vedere questa comunione di causa e contemporaneità di epoca, dicendoci che l’istesse gocce del sangue di Celo sulla terra cadute, dopo la fatale mutilazione, produssero e le Ninfe Melie ed i Giganti. (496)


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.... Le virtù ed i talenti (N. 42). Vol. III, pag. 324.

L’une e gli altri ebbero infatti le loro Deità. Tali erano quelle della Buona Fede e dell’Onore, delle quali parlano Cicerone e Plutarco come due deità da' Greci e da' Latini con ugual religione adorate; (497)tali erano quelle della Giustizia e dell’Equità invocate sotto i nomi di Temide, d’Astrea e Dice da' Greci, e di Sidie da' Fenicii; (498)tale era la Dea della Pietà e quella della Misericordia che ebbe quel celebre tempio in Roma chiamato per antonomasia Asilo; (499)tale era Metis, o sia la Dea della Prudenza, che Esiodo chiama la prima sposa di Giove; (500)tale era Aleteia o la Verità che alcuni fanno figlia di Giove, ed altri del Tempo; (501)tale era Stige o la Dea che presedeva all'osservanza de giuramenti; (502) tale era la Dea del Pudore e della Pudicizia che ebbe due templi in Roma, perché le matrone sdegnavano di sacrificare a questa Dea insieme colle plebee; (503) tale era Arpocrate, o sia il Dio del Silenzio, e della Discrezione che i Latini invocavano sotto il nome della Dea Angerona, (504) ed alla quale associarono il Dio Aius Locutius, cioè il Dio che fa parlare opportunamente; (505)e tali erano riguardo a' talenti Mnemosine (506)e le nove Muse sue figlie e di Giove; (507)tali erano Armonia (508)e le tre Grazie Aglaia, Talia, Eufrosine, figlie di Giove e della bella Eurinoma, che erano considerate non solo come le dispensatrici di quel dono, senza del quale tutti gli altri sono inutili, cioè del dono di piacere; ma che si credevano anche le ispiratrici della più cara delle virtù, la riconoscenza}donde è derivato che in tutte le lingue si adopra il loro nome per esprimere la riconoscenza de' beneficii, e d’onde derivò che gli abitanti del Chersoneso grati a' soccorsi che dagli Ateniesi avean ricevuti, innalzarono un altare con quell’iscrizione sì applaudita da Demostene: a quella delle Grazie che presiede alla riconoscenza. (509)

Noi sappiamo che il Prometeo de' Greci era il Dio dell’industria. Egli aveva rubato il fuoco a Giove, aveva fatto degli uomini coll’argilla, perché somministrando l’industria a' mortali, aveva loro insegnato ad impadronirsi de' beni della natura e ad imitare le sue opere. (510)Noi sappiamo anche che la Dea Pilo de' Greci e la Dea Suadela e Suada de' Latini, erano le Dee della Persuasione, (511) e che il Thoth degli Egizii, il Taaus de' Fenicii, l'Ermete de' Greci, il Teutates de' Galli, l’Erminsul o Irminsus de' Germani, il Mercurio de' Latini, erano gli Dei dell’eloquenza e del sapere, (512)e d’un altro talento ancora presso alcuni di questi popoli, cioè di quello del furto. e della rapina; (513)talento che l’istoria eroica di tutt’i popoli ci presenta come molto glorioso nel periodo della società che alla religiosa epoca, della quale parliamo, corrisponde.

Noi sappiamo inoltre che gli Egizii sotto il nome di Neith, (TOggà o Onka, (514) i Greci sotto quello d’Atene o Pallade, (515)I Latini sotto quello di Minerva, e i Galli sotto quello di Bellisana, (516)si erano presso a poco foggiata un’istessa Deità, che alle arti, alle scienze ed a' bellici talenti presedeva. Noi sappiamo anche che i Dei Merumo ed Ipsuranio, Agreo ed Alico, Crisore e Tecnite, Agrai ed Agrote, Dagone o Sitone de' Fenicii avevano ciascheduno un’arte o un mestiere di propria pertinenza. (517)

La caccia ha avuto presso la più gran parte de' popoli la sua particolare Deità, e si sa che i Galli invocavano Arduina molto tempo prima di conoscer Diana. (518)

Noi sappiamo finalmente, senza parlare del Dio Telesfore

e della Dea Meditrina, (519)e di varie altre Deità di questa specie, che la Magia istessa ed il talento della divinazione hanno avuto presso molti popoli la loro particolare Deità. Tali erano gli Dei Aminus e Magus de' Fenicii, (520)tale era il Proteo dei Greci, (521)e tale era il Dio M ab alias degli Eveensi, del quale parla la Scrittura e che secondo l’etimologia di San Girolamo significa colui che presiede alla profezia. (522)

.... Di altre Deità (N. 43). Vol. III, pag. 324.

Non altrimenti chele virtù ed i talenti, i viziiebbero ancora le loro particolari Deità.

La Frode e gli Amori illeciti, (523)la Voluttà e l’Impudenza, (524)l’imprudenza (525)e la Crapula, (526)la Calunnia e la Derisione, (527)il Dispregio delle leggi e il Mendacio, (528)ebbero i loro Dei e le loro Dee, Murcea e Stimala erano anche due Dee che a' due opposti vizii della pigrizia e della perniciosa vivacità presedevano; (529)e se i pii ladri invocavano Ermete nella Grecia; se in memoria di quest’antica prerogativa del figlio di Giove i Samii, al riferir di Plutarco, (530)tolleravano ancora i furti che si facevano ad Ermete Caridota; i devoti ladri del Lazio avevano, come quelli, la loro particolare Deità da invocare e da rendersi propizia coi doni e colle offerte d’una parte de' loro furtivi acquisti. Tale era la Dea Laverna, (531) che aveva altari e boschi a lei consecrati in Roma. (532)Noi sappiamo che per la particolare devozione a questa Dea i ladri furono chiamati Laverniones: (533)che i venditori che volevano defraudare i compratori l'invocavano, (534) e che col progresso del tempo essa estese il suo impero sopra tutti gl’ipocriti e tutti gl'impostori, come l’indica sì eloquentemente Orazio in que’ suoi versi:

Pulchra Laverna,

Da mihi fallere; dajusto sanctoque videri: 

Noctem peccatis, et fraudibùs objice nubem. (535)

.... Su diversi beni e su diversi mali (N. U). Vol. III, pag. 325.

Se noi osserviamo la greca religione, noi vi troveremo le Deità de' diversi mali. Noi vi troveremo l’Ardore impetuoso e la Vittoria, il Vigore e la Forza, (536) la Speranza e la Fortuna, (537) la Consolazione (538) e la Celebrità, (539) personificate e deificate: noi vi troveremo il Dio Coros, o sia il Dio dell’Occasione; (540) le Dee Dite, o sia delle Preghiere; (541)Asfalia, o sia della Sicurezza; Eunomia, o sia delle Buone leggi, ed Irens, o sia della Pace. (542)

Noi vi troveremo anche le Deità a queste opposte, cioè quelle dell’errore, (543)dell’angosciosa Miseria, della Vecchiezza inferma, del Travaglio affannoso, della Discordia, dell'Oblio, della Peste, de' Dolori, delle Zuffe, delle Occasioni, delle Battaglie, delle Stragi, delle Risse, de' Litigii, e delle calamità tutte che l’uman genere affliggono, e che, secondo la espressione d’Esiodo, Deità sono tutte tra se cognate. (544)Noi troviamo nell'Edipo di Sofocle il Coro diriger voti a Minerva ed a Giove per liberarli dal Genio che desolava Tebe colla peste, (545)e nell'Elettra di Euripide noi vediamo Oreste, incerto se doveva commettere il parricidio ordinato da Apollo, dire: Fosse mai un Genio malefico che mi avesse ingannato sotto la forma di quel Dio! (546)

Se noi osserviamo la latina Religione, noi vi troveremo una gran parte di queste Deità e molte altre a queste simili. Noi vi troveremo la Dea dell’Occasione, (547) e gli Dei della Sicurezza (Dii secari); noi vi troveremo la Consolazione, la Celebrità, la Fortuna, la Tranquillità, io. Pace, la Concordia, il Soccorso e la Libertà, personificate e deificate. (548)Noi troveremo la Dea Vacuna, che era la Dea della vittoria degli antichi popoli del Lazio; onde al riferir di Varrone Vacunalia furon dette le feste che all’onore di questa Dea si celebravano. (549)Noi vi troveremo i nomi ed i simulacri degli Dei e delle Dee: Bonus Genius, Bonus eventus, Bona spes, e quelli di Vetula, o sia dell’ilarità; di e di Volopta, o sia de' Piaceri; di Strenua, o sia de' Guadagni non preveduti; di Consus, o sia del buon Consiglio; di Volumnos o Volumna, o sia della buona Volontà; di Salus, o sia della Salute; di Quies, o sia del Riposo, della Dea Viriplaca che restituisce la concordia tra coniugi, della Dea Fugia che mette in fuga, e Pellonia che allontana gl’inimici, e degli Dei Averrunti, o sia degli Dei Preservatori. (550)

Noi vi troveremo nell'istesso modo le Deità a queste opposte, cioè quelle della pertinenza de' mali. Gli uomini, dice Cicerone, furono così immersi nell'errore, che non solo dettero il nome di Dei alle cose perniciose; ma loro stabilirono ancora un culto religioso. Noi vediamo un tempio della Febbre siti monte Palatino, un altro d'Orbona (cioè della Dea che presedeva alla morte de' figli), ed un altare alla Mala Fortuna sul monte Esquilino. «Qui tantus error fuit, ut perniciosis rebus non modo nomen Deorum tribueretur, sed etiam sacra constituerentur.» (551)

Valerio Massimo (552)ci parla anche di altri templi che aveva la Febbre, e dell’uso che vi era di portarvi i rimedii che servivano agli ammalati.

Noi sappiamo anche che oltre la Febbre, Orbona e la Mala Fortuna, i Romani avevano ancora la Dea Salacia o della Tempesta, (553)la Dea Peneia o della Povertà, (554)ed il Dio Vejovis o Vedius, Divinità malefica. (555)

In questa enumerazione de' mali e degli Dei che ne prendevan cura, noi non trascureremo la guerra. Questo flagello dell’uman genere ha dappertutto avuto le sue particolari Deità. Ares, (556) o sia il Dio della guerra de' Greci; Orion, o sia il Dio della guerra de' Persi; (557)Il Dio della guerra degli Sciti onorato sotto l’emblema d’una spada; (558)Gradivo, Quirino o Marte, o sia il Dio della guerra de' Latini; (559) Mamerco o il Dio della guerra de' Sabini; (560)Neton, o sia il Dio della guerra d’alcuni popoli dell'Iberia; (561)quello de' Lusitani, del quale parla Strabone, (562)e quello de' Chinesi, del quale parlano, i loro sacri Libri, (563)era con ragione chiamato da' Greci e da' Romani Dio comune, perché tutt'i popoli han dovuto foggiarsi un Dio della guerra. I Greci più immaginosi vi aggiunsero la Dea Enyo, (564)e i Latini Bellona, (565)La quale era anticamente chiamata Duellona, al riferir di Varrone, (566)forse perché era la Dea delle private guerre e de' duelli, frequentissimi in quel periodo dell’eroico governo che alla religiosa epoca, della quale parliamo, perfettamente corrisponde. (567)

Finalmente se nella penuria, in cui siamo, delle religiose notizie degli altri popoli, noi troviamo che gli Egizii al riferir di Plutarco avevano anch'essi deificata la Vittoria sotto il nome della Dea Nafte; che i Fenicii avevano deificata la Libertà sotto quello di Nifor; (568) che i Sirii avevano deificata la Fortuna sotto il nome di Gad; (569) che i Messicani avevano un Dio della tempesta, un altro de' diluvii, ed un altro della guerra (570) che i Chinesi (571) e i popoli dell’America settentrionale avevano i loro Geniibenefici e malefìci, e che non lasciavano di sacrificare a questi ultimi per evitare che nuocessero loro; (572) che i Lapponi e i Neri dell'Affrica conservano ancora l’istessa idea, e praticano l’istesso culto in sì opposte regioni; che presso i Taitiani accanto delle Deità che s’invocano per la felice caccia, per la felice pesca, per la felice navigazione, ecc., vi sono i due Dei malefici Ormetooa ed Oremehouhouwe, che s invocano per evitare che nuocciano o per ottenere che nuocciano ad altri, ed al secondo de' quali con strano rito si fa l’invocazione fischiando: (573)noi possiamo con ragione asserire che simili parti dovendo a simili tutti appartenere, una simile classe di Deità ha dovuto esservi presso tutti questi popoli, e che se noi potessimo conoscerle, non vi troveremmo che i nomi e le apparenze che le distinguerebbero da quelle, delle quali si è parlato.


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«... Che del pensiero disponevano e de' rimorsi.

(N. 15). Vol. III, pag. 325.

Noi sappiamo che i Latini invocavano sotto il nome di Mens la Deità che a' pensieri presedeva, e che s’implorava, dice Varrone, per ottenere che ne suggerisse alcuni e ne allontanasse degli altri. (574)IGreci attribuivano questo ministero al particolare demone di ciaschedun uomo, sì noto per l’uso che fece Socrate di quest'antica e volgare credenza. (575)Taitiani hanno una credenza a questa perfettamente simile. Essi credono che ogni uomo ha il suo particolare Techees, che è un genio o demone che forma o suggerisce i suoi interni pensieri, che essi chiamano parou no te oboo, cioè parole del ventre, esprimendo così gl’interni pensieri in una lingua ancor fanciulla, e per conseguenza ancor mancante di vocaboli atti ad esprimere le astratte idee. (576)I sacrificii che da immemorabile tempo si praticavano nella China in onore de' Genii, che degli uomini illustri avevan presa cura, e de' quali Confucio istesso raccomanda con tanto calore l’osservanza, c'indicano un’istessa classe di Deità nell'antica religione di questo popolo. (577)

Per quel che riguarda i rimorsi, noi sappiamo che le Furie non erano soltanto le Deità che si credeva che presedessero alle passioni di furore, d’odio, di sdegno e di vendetta (come si è osservato nella Nota N. 5), ma che eran reputate anche come le Deità che i rimorsi destavano. Noi sappiamo che Oreste agitato da' rimorsi pel parricidio di Clitemnestra sua madre; si considerava come dalle Furie perseguitato; (578)Noi sappiamo che egli dette ad una pietra presso Gitea nellaLaconia il nome di Giove Cappautas, o sia di Giove che solleva, perché in quel luogo aveva ottenuto un momento di tregua da' rimorsi, co' quali le Furie da per tutto lo perseguitavano; (579)e noi sappiamo finalmente che una delle più belle tragedie d’Euripide, che ha per soggetto l’ardita impresa di quest’Eroe nella Tauride, non è fondata che su quest'universale credenza.

.... Nel tempo della vita (N. 46). Vol. III, pag. 325.

L’opinione che l’anima non perisca col corpo, questa opinione sì contrastata nella corruzione delle società, e per conseguenza nell’epoca della loro vecchiezza, è stata nella loro infanzia costantemente stabilita presso tutti i popoli, presso anche quelli, ne' quali la comunicazione che avessero potuto mai avere con altri popoli, ci è, ed è loro interamente ignota.

È noto ciò che le antiche Nazioni hanno su quest’oggetto pensato. Sono note le opinioni de' popoli dell'America a quest’oggetto relative, allorché furono dagli Europei per la prima volta conosciuti. Le antiche istorie ci han trasmesso co' riti, cogli usi, colle feste, co' dommi e colle leggende degli antichi popoli le loro idee sull’immortalità dell’anima, e sopra una vita avvenire. Le Relazioni de' viaggiatori ci somministrano gl’istessi monumenti riguardo a' popoli recentemente conosciuti, e gli ultimi viaggi del celebre Cook ci somministrano argomenti non equivoci di questa opinione ne' segregati abitatori delle diverse isole da lui o visitate o scoverte. Ciò ch'egli ci dice d'uno di questi popoli, conferma ammirabilmente ciò che da noi si è detto, che il sentimento della propria perfezione ha dovuto destar quello dell'immortalità dell’anima. Presso questo popolo, ove la plebe è niente, e i patrizi! son tutto, e dové l’avvilimento e la depressione, nella quale si ritrova quest’infima classe, è giunta ad un grado, cui non pervenne mai né la romana plebe nei tempi eroici di Roma, né la plebe di qualunque altro eroico governo; presso questo popolo, io dico, si crede, al riferire di Cook, all’immortalità dell’anima in tutti gli ordini, fuorché in quello dell'avvilita plebe. (580)

Nata l’idea dell’immortalità dell’anima, il Politeismo che, come si è veduto, da ogni soggetto così fisico come morale veniva alimentato, dovette necessariamente da per tutto ricevere ulteriore incremento da una si universale e sì importante opinione. Era naturalcosa l’immaginare Deità che delle anime da' corpi disciolte prendesser cura, o decretassero la sorte agli anteriori meriti o demeriti proporzionata; era naturalcosa l’immaginare un Dio o un ordine di Dei a questo ministero occupato. Il Mouth de' Fenicii, (581) Il Serapis degli Egizii, (582)il Plutone de' Greci e de' Latini, (583)e la Dea Nemesi degl’istessi, che Esiodo chiama Deità la più funesta ai mortali, (584) perché era considerata come una potenza invisibile che da un’eternità nascosta ed inaccessibile (585)osservava tutto il male che si faceva sulla terra per ottenerne vendetta; il Dio Woldeno, o il Dio de' futuri premii, ed il Dio Idoggo, o il Dio de' futuri castighi degli Scandinavi; (586)Il Yen-Yang dei Cinesi; il Dio Tautusio (587) d’alcuni popoli dell’America, (588)erano infatti gli Dei de' morti, o per meglio dire delle anime già da' corpi separate e disciolte. Se noi ignoriamo il nome delle Deità a queste corrispondenti degli altri popoli, ciò non dipende da altra ragione, se non da quella che nel principio di queste Note si è indicata, cioè, che fuori della greca Teogonia noi non abbiamo che pochi e separati frammenti delle teogonie degli altri popoli, i quali separatamente considerati ora ci soccorrono, ed ora ci abbandonano, ma insieme combinati non fanno che luminosamente confermare il nostro sistema, già da per se stesso stabile e fermo, perché fondato, come si è osservato sulla natura invariabile dell'uomo e sulle circostanze universali del genere umano.

.... Sui deboli mortali (N. 47). Vol. III, pag. 325.

La notte, le tenebre, la morte, il sonno, tutte queste negative potenze della natura furono personificate e deificate; (589)Ma non è da credersi che l’idea che oggi noi ne abbiamo, ne avessero anche gl'ignoranti mortali, che per la prima volta loro diressero voti e consacrarono un culto. Essi le credettero tutt'altro che privazioni o negative potenze; essi le credettero potenze positive come tutte le altre; essi credettero che una qualche potenza oscura, che un essere tenebroso generassero la notte e le tenebre. Essi non considerarono la morte come una privazione della vita, ma come una potenza impiegata a troncarla; e così del Sonno, che Omero ed Esiodo chiamano figlio della Notte e fratello della Morte. (590)

Il modo, col quale Esiodo ne parla nella descrizione che ci dà del Tartaro, celo fa vedere manifestamente, (591)e ci mostra nel tempo istesso che quel linguaggio, che noi condanniamo nel filosofo, ma che esigiamo dal poeta, e che per tal ragione poetico chiamiamo, non deve all’immaginazione dei poeti altro che i progressi e la vaghezza, ma che la sua prima origine e i suoi fondamenti antichi si debbono ripetere dagli errori degli uomini e dalle opinioni realmente esistenti presso i barbari padri di ciascheduna nazione.

.... Gli Dei de' sogni (N. 48). Vol. III, pag. 325.

Era natural cosa l’immaginare gli Dei de' sogni dopo essersi immaginato il Dio del sonno. Esiodo infatti nella generazione di queste Deità fa immediatamente a questo quelli seguire. (592)Omero e Virgilio ci parlano delle due diverse porte, per le quali i fallacie i veri Sogni uscivano:

Sunt gemina somni porta; (593)

ed Ovidio ci parla de' tre principali tra questi, che erano Morfeo, Fobetore e Fantase, che secondo lui erano deputati a' soli Re ed a' Grandi, oltre un’infinità di altri che si occupavano del Popolo. (594)

.... E de' campì (N. 49). Vol. III, pag. 325.

Se le selve, i boschi, le foreste ebbero le loro Ninfe che li proteggevano, allorché col progresso che fece la società cominciò a coltivarsi il terreno, era natural cosa che s’immaginassero nuove Deità che di questi nuovi oggetti prendesser cura. La Cerere e la Proserpina de' Greci. non dovettero ad altra causa la loro origine; le Dee madri de' Germani e dei Galli non ne riconobbero una diversa; gli Spiriti o Deità che a' grani, alle terre coltivabili, alla siccità,alla pioggia, al calore ed al freddo e ad altri oggetti di questa natura si credeva da' Chinesi che presedessero, ebbero l’istessa origine; (595)Ma pressò niun popolo la celeste popolazione venne da questa causa tanto aumentata, quanto lo fu presso i Latini. I diversi oggetti dell’agricoltura, le diverse rurali occupazioni, le diverse produzioni e le circostanze diverse che la riguardavano, i diversi interessi de' coloni e quelli de proprietarii ebbero i loro particolari Dei e le loro particolari Dee.

Alla campagna presedeva la Dea Rusina, (596)al lavoro della terra il Dio Occator (597) alle maggesi Vervactor, (598) alle raccolte Frudusca (599)e Pomona, (600)ed alla loro consumazione la Dea Terense. (601)

Quattordici Deità si dividevano il solo ministero delle biade. Chi ne prendeva cura, allorché erano ancora sepolte nella terra; chi, allorché cominciavano a formarsi i nodi dello stipite; chi, allorché si manifestava l’inviluppo della spiga; chi, allorché cominciava ad aprirsi; chi, allorché le spighe s’uguagliavano; chi, allorché il grano era ancora lattiginoso; chi, allorché diveniva maturo; e chi, allorché era per raccogliersi. Una particolare Deità veniva invocata, allorché si mieteva; un’altra, allorché si batteva; un’altra, allorché si ripuliva o ventilava; un’altra, allorché si riponeva ne' granai, un’altra, allorché si temeva la ruggine o mollume; ed un’altra, allorché si macinava. (602)La prosperità delle produzioni delle colline era attribuita ad una Dea, e quella delle valli ad un’altra. (603)La puta degli alberi, il taglio de' boschi e l’estirpazione delle spine si faceva sotto la protezione di tre distinte Deità. (604)L’abbondanza de' pascoli dipendeva da un’altra Deità. (605)Finalmente le api, le greggie, i buoi ed i giumenti, oggetti o compagni della campestre industria, ebbero anche particolari intelligenze che alla loro conservazione vegliavano. (606)

.... E la Città che queste famiglie conteneva (N. 20). Vol. III,pag. 325.

Dalla supposizione di particolari Deità, che di ciascheduna famiglia e di ciascheduna casa prendesser cura, qual più natural cosa che passare a quella di particolari Deità che la gran famiglia del popolo e la gran casa della città proteggessero? Ogni popolo infatti, ogni città ebbe uno o più Dei che alla sua custodia si credeva che particolarmente vegliassero. (607)Niente di più frequente ne' poeti, negli oratori e negli istorici che i discorsi diretti agli Dei protettori del paese, Dii putrii, Dii indigetes, Dii praestites, qeoi projtatai. (608) Era così stabilita questa credenza che i Romani, allorché tenevano assediata una città, ed allorché vi era qualche apparenza che la loro impresa fosse vicina ad esser seguita da un felice evento, prima di dare l’assalto impiegavano alcune preghiere, e dirigevano alcuni sacrificii agli Dei tutelari di quella per indurli ad abbandonarla.

Plinio dice che Valerio Fiacco cita varii autori per confermare quell’uso, e che le cerimonie di questi sacrificii e le parole di questa evocazione si leggevano ancora a tempo suo nel rituale de' Pontefici. (609)Macrobio rinvenne questa formula nel libro delle Cose secrete di Sammonico Seveno; e ce l’ha a noi trasmessa nel seguente modo:

Si Deus, si Dea es, cui populus civitasque Carthaginiensis est in tutela, teque maxime ille, qui urbis hujus,populique tutelata recepisti: precor, venerorque, veniamque a vobis peto, ut vos populum, civitatemque Carthaginiensem deseratis; loca, templa, sacra, urbemque eorum relinquatis, absque his abeatis, eique populo, civitatique metum, formidinem, oblivionem injiciatis proditique Romani ad me, meosque ventatis nostraque vobis loca, templa, sacra, urbs acceptior, próbatiorque sit: mihique populo Romano militibusque meis propositi sitis, ut sciamus, intelligamusque: si ila feceritis, voveo vobis templa, ludosque facturum. (610)

Per l’istessa ragione era presso i Romani un arcano di religione ed un segreto di Stato il vero nome della Città, (611)e la cognizione del Nume e del suo simulacro, nel quale era particolarmente riposta la tutela della Repubblica ed il fatale pegno della sua salute. (612)Si temeva che, divulgandosi l'uno o l’altro, non potesse esser più facilmente evocata la Deità e rapito il simulacro. Si teneva questo nascosto ne' penetrali del tempio di Vesta, e sarebbe stato un piccolo il penetrare in questo luogo, o il soddisfare una sagrilega curiosità.

Il modo, col quale gli antichi scrittori si esprimono su questo soggetto, ci manifesta in alcuni la circospezione nel non manifestare l’arcano, in altri l’ignoranza del segreto, ed in tutti la fiducia che si aveva in questa protezione. (613)

Dopo questi fatti non ci deve recar meraviglia che i Lacedemoni tenessero incatenato il loro tutelare Dio Enialo; (614)che i Tiriensi facessero altrettanto al loro Apollo; (615)e che gli Ateniesi avessero una Vittoria che chiamavano apteron,cioè a dire senz’ali. (616)

Tutti questi esterni segni non facevano che indicare l’interna confidenza che si aveva nella protezione del Nume, ed il timore di perderla.

Non ci deve neppur recar meraviglia il trovare molte città e varii paesi deificati, come Anzio, (617)Ferento, (618)Il monte Carmelo, (619)l'Isola di Tenedo, (620)Alabanda in Caria, (621)Adrame ed Imera in Sicilia, (622)Bibracte e Vasione nelle Gallie; (623)e più di ogn’altro Romaiche tanti templi ed altari ebbe anche nelle più remote regioni. (624)Questo non. era altro che dare il nome della città o del paese al Genio che si credeva che alla sua custodia vegliasse.

Quando si è scoverta l’origine e la progressione d’una certa serie di fatti, per quanto strani possano questi esser creduti, cessa la meraviglia, ed un sentimento più degno del filosofo a quello subentra, cioè un sentimento di compatimento e d’indulgenza per gli umani errori, i quali tutti da un primo traviamento procedono, ed a quello si aggiungono per incrementi ordinariamente conseguenti e per lo più invalutabili, impercettibili.


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.... Dell’uomo (N. 21). Vol. III, pag. 326.

Per l’incatenamento istesso di cause e di effetti, per una simile progressione di conseguenze, dopo aver assegnato alla fecondazione, al nascimento ed alla vegetazione delle piante un particolare ministero di Numi, era naturalcosa d’immaginare una nuova classe di divine intelligenze che della fecondazione e del parto della donna, della prosperità del fanciullo e della sanità dell'uomo si occupassero.

I Greci infatti ebbero un Dio del Coniugio, Imeneo; (625)ebbero una Dea della Fecondità, Latona; (626)ne ebbero un’altra che presedeva a' parti, Lucina, (627)ed un’altra che vegliava ne' fanciulli e sulla prosperità, Ecatea. (628)

Si possono aggiugnere a queste le Dee Genetilidi o Gennaidì, delle quali parla Pausania, che formavano una parte del seguito di Venere e che favorivano la nascita de' fanciulli.

Finalmente oltre le Dee Ygea o Ygia, Jasa e Panecea che erano tre altre Divinità impiegate a conservare o restituire la sanità dell’uomo, (629)oltre la Dea Hebe che su’ giovani vegliava, ed il Dio Ogena che de' vecchi prendeva cura, (630)essi avevano il particolare demone di ciaschedun uomo, del quale si è già parlato, e che tra le altre particolari cure aveva anche quella di vegliare alla sua conservazione. (631)

I Latini ne avevano un numero molto maggiore: sotto il patrocinio del Dio Talassio si facevano i matrimonii; (632)sotto quello del Dio Domidico si conduceva la sposa in casa, (633)e sotto quello del Dio Jugatino si univano gli sposi. (634)

La Dea Egeria presedeva alla gravidanza, (635) La Dea Natio alla nascita de' fanciulli (636) ed il Dio Vaticanus o Vagitanus al primo suono che proferisce l'uomo col nascere. (637)

Prosa o Prorsa era invocata ne' parti felici, e Postverta ne' difficili; (638) gli Dei Nixii per dar forza alla partoriente, (639)e le Dee Parlala per dirigere il parto, (640)e Numeria per accelerarlo; (641)Vitumnus e Sentinus per colmarlo di vita e di sentimento; (642)Genita Manu per conservar la partoriente, (643)e Genius per ben dirigere il fanciullo; (644)Levana per indurre il padre ad alzarlo da terra o a riconoscerlo; (645)Cunina per guardar la culla; (646)Grane per allontanarne i notturni uccelli detti Striges, che si credeva che le culle de' fanciulli infestassero; (647)Rumina o Rumia per l’abbondanza del latte. (648)

Per dar nome al fanciullo, per farlo cominciare a mangiare, a bere ed a dormire nel letto, per isviluppare e fortificare le sue membra, per farlo reggere su’ suoi piedi, per farlo cominciare a parlare, per garantirlo dagl'incantesimi e dalle paure, per renderlo ingegnoso ed avveduto, per proteggerlo durante la giovanile età, si ricorreva ad altrettante distinte Deità che a ciascheduno di questi oggetti presedevano, e con nomi a questi relativi venivano invocate. (649)

Finalmente non è da omettersi che noi troviamo nell’jEdda, in questa più volte citata antica Mitologia degli Scandinavi, molte Deità a queste simili che sotto il nome di Nornes venivano invocate; (650)che noi ne troviamo ancora ne' popoli che abitano le parti settentrionali dell’America; (651)e che se si vuole considerare il Dio Priapo come il Dio della Fecondità, si troverà che in varii popoli dell’America si onorava una simile Deità sotto una simile rappresentazione.

.... Al Dio Crepito ed al Dio Stercuzio (N. 22). Vol. III, pag. 326.

Senza l’esposta progressione dello spirito umano in questa religiosa catena di errori, chi avrebbe potuto concepire in qual modo uomini ragionevoli avessero potuto mai giugnere ad immaginare Dei e Dee per presedere alle cose istesse le più capricciose? Chi avrebbe potuto concepire in qual modo si fosse giunti ad immaginarne per quelle ancora che eccitano o il rossore o la schifezza? Chi avrebbe potuto concepire in qual modo i Greci ed altri popoli avessero potuto immaginare una Deità per influire sull’espulsione delle mosche, (652)e che gl'istessi Greci avessero potuto immaginarne un’altra per presedere unicamente allo spavento de' cavalli? (653)

Chi avrebbe potuto immaginare in qual modo i pii Latini, o che dovessero agire, (654) o che dovessero andare, (655) o che dovessero per ignote strade passare, (656) o che dovessero scopar la casa, (657)o fare i funerali ad un morto, (658)o costruire un focolaio, (659)o aspirare ad un’eredità, (660)avessero potuto per ciascheduno di questi oggetti immaginare una particolare Deità da invocare; e che Numa Pompilio, impegnato ad introdurre nella nuova città tutti gli oggetti del culto dei Latini popoli, trascurato non avesse d’istituire le feste dette Fornacalia dalla Dea delle fornaci, alla quale erano consecrate? (661)

Chi avrebbe potuto concepire come i Greci avessero potuto immaginare una Dea Lisizona, ed i Latini una Dea Virginensis per presedere a quell'atto segreto, col quale lo Sposo la zona o cintura della Sposa scioglieva? (662)

Chi avrebbe potuto concepire in qual modo questi ultimi avessero potuto immaginare le tre Dee Prema, Perlunda e Perfica per presedere alla consumazione del matrimonio, alla rottura dell'Eugium o Hymen, ed al compimento delle oscene cose? (663)Chi avrebbe finalmente potuto concepire che si fosse giunti ad immaginare una Dea della menstruazione, un Dio de' peti, ed un altro degli sterculei ingrassi?(664)

Ma con questa progressione innanzi agli occhi, con quest’esame de' successivi passi che da un errore all’altro han dato gli uomini, con questa, per così dire, impercettibile graduazione di stranezze e di follie, non solo non si rende difficile a concepire come abbia potuto ciò avvenire, ma si concepirà ancora, e si concepirà facilmente, che lo spirito umano non lascerà di esser progressivo e conseguente, finché la natura umana sarà quella che è stata; finché vi saranno degli uomini collocati nelle universali circostanze, nelle quali noi gli abbiamo supposti; e finché queste universali circostanze, combinate con le premesse universali proprietà della natura umana, li condurranno a dare il primo passo nel Politeismo: ciò che è avvenuto presso gli antichi popoli, ciò che abbiam veduto avvenire presso i popoli recentemente conosciuti, e ciò che seguiremo a vedere essere avvenuto ed avvenire presso gli uni e gli altri, doveva non solo necessariamente avvenire come è avvenuto, ma avverrà, ed avverrà sempre, purché straordinarie circostanze non turbino l'ordinario corso delle loro religiose opinioni.

.... L’Essere istesso (N. 23). Vol. III, pag. 326.

Non vi vuol molto a concepire che l’idea del supremo Essere doveva restringersi col moltiplicarsi il numero degli Dei. Ogni nuova Deità che s’immaginava per presedere ad un oggetto fisico o morale, era una frazione che si smembrava dal gran potere, era una restrizione che si produceva nell'idea dell'antico Nume, che la prima mutilazione aveva dovuto già subire colla prima introduzione del Politeismo, ma che ne dové subire una immensa colla immensa estensione di esso. Riscontrando i fatti, noi li troveremo perfettamente corrispondenti a queste semplicissime vedute.

Per poco che si rifletta sulla greca Teogonia, si troverà che Giove, Saturno o Celo erano l’Essere istesso. Nella Nota a N. 2 noi abbiamo riportati i luoghi della Teogonia d'Esiodo, ne' quali il poeta ci ha mostrato che Saturno o sia Cronos era l’istesso che Celo o sia Uranos. Noi troviamo simili argomenti ed anche in maggior numero riguardo a Giove.

Nella sua invocazione alle Muse, nel tempo istesso che ci dice che esse cantano gli Dei, che dal principio son nati dal rv Cielo e dalla Terra, soggiunge: esse cantano più di ogni altro il Padre degli Dei e degli Uomini, il Sovrano Giove. (665)

Quando parla di Giove come figlio di Saturno e di Rea, egli non lo priva del carattere di Padre degli Dei e degli Uomini. (666)

Egli ripete poco dopo l’istesse parole, quando manifesta la condotta tenuta da Rea, allorché ne era gravida, per sottrarre il gran figlio dalla crudeltà del padre. (667)Questa caratteristica di Padre degli Uomini e degli Dei accompagna ugualmente Giove, quando si tratta della sua agnazione, che allorché si tratta della sua discendenza. (668)

Nel principio dell'istessa Teogonia egli ci dà Mnemosine per figlia di Giove, (669)e poco dopo ce la dà per figlia di Celo. (670)

Per una conseguenza dell'istesso principio, noi vediamo nell'istessa Teogonia la Terra moglie di Celo e madre di Saturno custodire Giove per detronizzare Saturno. (671)

Nell’Inno d’Orfeo a Saturno noi troviamo adoprato l’istesso mezzo per nascondere ed indicare l’istessa verità. Saturno è come Giove chiamato Padre degli Dei e degli Uomini, (672)mentre che è egli medesimo considerato come figlio di Celo. (673)Sembra che i poeti abbiano voluto nascondere questa verità al volgo, ma abbiano voluto nel tempo istesso mostrare di non ignorarla a' saggi. Cicerone infatti per conciliare l'autorità di Omero che dava Vulcano per figlio di Giove, (674) colla tradizione degli altri che lo davano per figlio di Celo, ci dice che era indifferente che si attribuisse all'uno o all'altro, perché Giove e Celo erano l'Essere istesso.

Giove discende da Saturno e Saturno da Celo. Giove, Saturno e Celo sono, come si è mostrato, l'Essere istesso. Celo è mutilato e detronizzato da Saturno, e Saturno da Giove. (675)Che altro può dunque indicare quest'ordine di generazione, questa progressione di mutilazione e di detronizzazione nell'Essere istesso, se non una progressiva modificazione dell’idea del Supremo Essere e del suo potere?

In questa terza età infatti l'idea del Supremo Essere non è più, come nella prima età, l'idea dell'ignota forza che agitava la Natura e che sotto il nome d'Uranos o sia Celo abbracciava tutto, e tutto conteneva; essa non è neppure come nella seconda età quella della Forza, dell’intelligenza, che sotto il nome di Cronos, o sia Saturno, presedeva al tempo o sia alle rivoluzioni degli astri, al ritorno delle stagioni, ecc., essa non è altro che quella dell'Essere, che sotto il nome di Zeus, o sia Giove, dispone delle meteore, del fulmine, del tuono, del lampo, della serenità e della pioggia. (676)Qual immensa restrizione d’idea, qual’immensa diminuzione di potere!

L egizia favola della morte d’Osiride ucciso da Tifone, de' viaggi d’Iside per ritrovare il suo corpo, della dispersione delle sue membra dall’istesso Tifone ordinata dopo che se n’era ritrovato il cadavere, e finalmente della vendetta d’Iside e della vittoria d’Orus suo figlio riportata sopra Tifone, (677)mi pare che c’indichi con bastante chiarezza l’istesso corso delle religiose opinioni degli Egizii, presso i quali per gli ulteriori progressi del Politeismo una nuova modificazione dové subire l’idea del Supremo Essere da principio, come si è veduto, (678) unicamente adorato sotto l’idea ed il nome di Kenef; quindi insieme coi primi oggetti del politeistico culto sotto il nuovo nome e la più ristretta idea di Osiride, (679)e finalmente coll'estensione del Politeismo sotto l’ultimo nome, e la molto più ristretta idea d’Orus, o sia del figlio d’Osiride, cioè del figlio del Sole e della Luna, o sia dell'Essere che alle apparizioni della materia ignea sparsa nell’atmosfera presedeva, e che fu, non altrimenti che Giove tra' Greci, l’ultimo Dio, secondo Erodoto, che regnò nell'Egitto. (680)

Nel Frammento tante volte citato di Sanconiatone, noi troviamo presso i Fenicii nella religiosa epoca corrispondente a quella, della quale parliamo, cioè nell’epoca nella quale il Politeismo aveva fatto presso questo popolo gl'indicati progressi, l’Esse re Supremo, il Re degli Dei, non più coll’antico, ma col nuovo nome d’Adod distinto. (681)

Finalmente basta riflettere profondamente sulle religiose notizie de' diversi popoli sino a noi pervenute, per vedere che se presso tutti questi popoli l’Essere Supremo non ha subito l'istesso cangiamento di nome, ha però presso tutti subita l’istessa restrizione d’idea, la quale dipendendo dall’opinione del suo potere, era necessario che si fosse diminuita a misura che il numero de' partecipanti a questo potere si era moltiplicato.

Il Papeo infatti degli Sciti, per quel che ce ne dice Erodoto, non cangiò l'antico nome, non lasciò di essere il Supremo Essere, giacché Erodoto dice che era il Giove degli Sciti; ma l’idea del suo potere fu sì diminuita, che al riferir dell’istesso istorico, su’ pubblici sacrificii la Deità del fuoco gli era anteposta, e che il Dio della guerra aveva templI ed altari che gli altri Dei non avevano, e che non ne aveva neppure l’istesso Papeo. (682)In America simili fatti han sembrato fenomeni straordinarii, nel mentre che sono costanti effetti di costanti cause.


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.... Ed il depositario (N. 24). Vol. III, pag. 327.

Ristretta negl'indicati e sì angusti confini l’idea di Giove e del suo potere, in che poteva dunque raggirarsi quella della sua superiorità? Io non saprei trovarla in altro che nella sua anteriorità, onde era chiamato Padre degli Dei e degli Uomini; e nel deposito di quell'inalterabile catena o nesso necessario di cose indissolubilmente insieme ligate, detto eimarmhnhda' Greci, e Fatum da' Latini, deposito prezioso, che era necessario che risedesse nel primo Nume che n’era stato l’antico autore, ma al quale egli era divenuto come gli altri Dei sottoposto.

È vero che superficialmente osservandosi l’antica Mitologia, potrebbe a primo aspetto sembrare che questo deposito istesso non fosse creduto nella mente di Giove. In Esiodo le Muse narrano a Giove l’ordine de' destini, il presente, il passato e l’avvenire. (683)

Nell’istesso Esiodo le tre Parche distribuiscono la felicità e le sciagure agli uomini fin dal momento della loro nascita; esse son dette moiraidal verbo meirein, che vuol dire dividere, distribuire, perché distribuivano i destini agli uomini. (684)

In Omero Cloto, la più giovane delle tre sorelle, presiede al momento della nascita, Lachesis fila tutti gli avvenimenti della vita, ed Atropos ne tronca il filo. (685)

In Platone la Necessità ha tre figlie, e queste sono le tre Parche; esse fan girare invece del fuso l'asse del mondo e gli otto Cieli; queste Dee son vestite di bianco ed assise su troni con corone sul capo; esse son collocate ad ugual distanza su queste grandi orbite che librano e rimuovono; su ciascheduna di queste orbite vi è una Sirena che canta con tutta la sua forza; le Parche rispondono a questo canto, l’una, esprimendo le passate cose, l’altra le presenti e l’altra le future; e tutte queste voci non fanno che una sola armonia. Divina immagine che ci mostra in quest’accordo di cantilene, in questa corrispondenza del passato, del presente e dell'avvenire, quell’inalterabile legge d'ordine, quell’armonia, nella quale consiste il sistema e l’economia dell’universo. (686)

In Aristotile si trovano simili idee sulle Parche. Atropos presiede al passato, Cloto al presente e Lachesis all’avvenire. (687)

In Cicerone le tre Parche vengono confuse con quella catena istessa d’avvenimenti necessarii che i Greci, come si è detto, chiamavano eimarmenhe i Latini Fatum. (688) In Virgilio ed in Ovidio fan sovente una comparsa analoga a queste idee. (689)

Ma che si osservino le relazioni delle Muse con Giove; che si osservino quelle che passano tra l’istesso Giove e le Parche; che si riscontrino finalmente gli altri luoghi degli antichi poeti a quest'oggetto relativi, e si vedrà che il vero deposito del Fato è nel potere di Giove.

Se le Muse narrano, o per meglio dire rammentano, secondo il vero senso della greca espressione adoprata da Esiodo, (690)a Giove l’ordine de' destini, cioè le passate, le presenti e le future cose; queste Muse riconoscono dall’istesso Giove questa scienza, della quale fanno uso nelle loro cantilene per allettarlo e non per istruirlo. Il poeta non trascura di fare in ogni occasione avvertire che esse son sue figlie, che esse riconoscono da lui ciò che sono. (691)

Se le Parche han tante relazioni col Fato, esse son come le Muse figlie di Giove; (692) esse non sono soltanto sue figlie, ma sono sotto la sua condotta. Uno de' soprannomi di Giove era quello di hoiraghthj cioè di Condottiero delle Parche. (693) Le loro are, i loro simulacri eran sovente accanto ’a quelli di Giove. In Olimpia, dice Pausania, vicino all’ara di Giove vi era quella delle Parche; in un tempio d’Apollo si vedevan le statue di due Parche accanto a quella di Giove che faceva le veci della terza; ed a Megara la statua di questo medesimo Dio fatta da Theoscomo portava sul capo quella di queste tre Dee. (694) Allorché Cerere, dice l’istesso Pausania,si nascose, e che Pane manifestò il luogo del suo ritiro a Giove, il padre de' Numi le inviò le Parche per obbligarla coi loro detti a far terminare la sterilità che la sua assenza aveva cagionata sulla terra. (695)Cerere dunque non è subordinata nel suo ministero a Giove, perché può nascondersi, può senza il suo ordine isterilire la terra; ma è subordinata a' destini, perche è obbligata ad aderire a' detti delle Parche, le quali sono da Giove mandate, perché sono le sue ministre, allorché si tratta di manifestare e d’eseguire gl’immutabili decreti del Fato.

Più, Esiodo, dové parla delle astuzie di Prometeo, ci fa vedere Giove come un Essere, alla cognizione del quale niente può sfuggire, come un Essere illuminato da un eterno lume, da una infallibile prescienza delle cose. (696)Egli ci fa di continuo vedere i secreti del Fato noti a Saturno, (697)o( )comunicati da Celo a Giove, (698)Virgilio ce lo fa con sicurezza Vedere depositario del Fato in quell’aureo luogo dell'En, ove questo padre de' Numi risponde a Venere timida ed incerta sulla sorte del suo figlio Enea, e le manifesta l’ordine de' destini fino alla più remota posterità di questo Eroe. (699) Egli ce ne somministra un argomento simile, allorché fa parlare Giunone con Venere sul matrimonio di Didone con Enea. (700)Finalmente, senza ripeter ciò che su quest'oggetto si è rapportato nel testo e ciò che se ne è detto nella Nota giustificativa a n. 3, per poco che si approfondisca tutto il complesso della greca e della latina Mitologia, si troverà Giove considerato come Nume anteriore e come il depositario del Fato, e non si vedrà che da questi due aspetti risplendere la sua superiorità.

Fossero avvenute. (N. 25) Vol. III, pag. 328.

Niuna cosa è più facile a dimostrarsi coll'universale e costante istoria delle Nazioni, quanto lo è tutto quello che nel testo si è asserito sull'ultima colonia di Numi che di uomini deificati vien composta; e che Esiodo fissa nella quarta età che alla religiosa epoca, nella quale noi l’abbiamo fissata, perfettamente corrisponde.

Senza ripeter ciò che in un altro luogo di quest'opera si è da noi detto e dimostrato, coi ragionamenti e coi fatti sulla teocratica forma di governo che deve regnare nello Stato della società, del quale parliamo, (701)noi siamo da questo dato partiti per indicare di quale e quanta importanza esser doveva pei capi di questi imperfetti ed ancora debolissimi Governi l’opinione di un’origine celeste, sì per acquistare, come per conservare quell’autorità che nel difetto della forza pubblica non poteva sostenersi che coi soccorsi imprestati dalla Teocrazia. Noi abbiamo detto che questo mezzo essendo il più efficace per conservare o per dare il principale potere ad un individuo; che essendo ugualmente efficace a cuopriree occultare le amorose avventure e ad ovviare alle loro terribili conseguenze; che essendo facile al Sacerdozio il conseguirlo; che essendo del suo interesse di ricorrervi, era natural cosa che si adoprasse. Or tutto questo si prova luminosamente co' fatti.

Da per tutto la Storia eroica ci fa vedere i capi degli eroici Governi figli o discendenti degli Dei. Telamone, Ercole, Teseo, Giasone, Orfeo, Castore e Polluce e tutti gli altri Eroi del Vello d’oro; Adraste, Edipo, Eteocle, Polinice e tutti gli altri capi de' popoli che combattettero nelle due guerre di Tebe; Agamennone, Menelao, Achille, Diomede, Ulisse, Aiace, Priamo, Enea e tutti gli altri Principi della troiana guerra, e tanti altri Re e capi degli eroici Governi della Grecia, furono, come si sa, figli o discendenti degli Dei. (702)

Turno, re de' Rutoli, è figlio d’una Dea. (703)Romolo e Remo eran figli della Reale Sacerdotessa e di Marte. (704)

I Principi Etiopi riconoscevano la loro origine dal Sole.

I nomi di Adad e di Benedad sì comuni ne' Re di Siria, significavano, come l'osserva. il dotto Marsamo, Sole e figlio del Sole. (705)

Dall’istesso Nume Eteo, re della Colchide, si gloriava di discendere.

Secondo le tradizioni del Perù, l’Ynca Manco-Guina-Capac, che colla sua eloquenza seppe distogliere dall’abitazione delle foreste gli uomini che vivevano senza leggi e senza freno, era figlio del Sole. Noi sappiamo che Orfeo, che aveva una simile riputazione tra' Greci, passava anche per essere il figlio d’Apollo.

Nell’istesso nuovo emisfero i popoli che abitano quella parte della Florida che è vicina alla Virginia, considerano i loro capi come discendenti del Sole, ed immolanti a questa Divinità vittime umane alla presenza del capo che rappresenta il Dio, dal quale si crede che egli discenda. (706)

Nell'estremità dell'altro Emisfero Kai-Souven era creduto figlio del Dio d’un fiume da' popoli della Corea; non altrimenti che lo era creduto Aceste in quella parte della Sicilia, ove Enea celebrò i funerali del padre Anchise. (707)

Nel nuovo Mondo come nell'antico si è cercato l’istesso mezzo per imporre agli uomini ancora barbari, cioè ancora attaccati all'originaria indipendenza, e si è coll’istessa facilità ritrovato. Da per tutto il Sacerdozio è stato ugualmente potente in questo stato della società; da per tutto vi sono stati i Calcanti, i Tiresi, gli Amfiarai che come Ministri o interpreti de' Numi han disposto delle opinioni degli uomini; da per tutto in questo periodo del Politeismo che corrisponde a questo stato della società, essi han dovuto avere un’ugual facilità di profittare delle circostanze della religione e de' tempi e di questo loro impero sulla pubblica opinione, per estendere sulla terra la progenie degli Dei; da per tutto finalmente essi han dovuto avere, ed hanno avuto infatti due potentissimi motivi per farlo.

Oltre la prodotta autorità d’Aristotile, il quale ci dice che i Re degli Eroici Regni eran anche capi del Sacerdozio; (708)Noi sappiamo da Demostene, che la ragione, per la quale in Atene gli Arconti prendevano il carattere di sacerdoti, altra non era se non perché i Re e le Regine d’Atene erano stati Sommi Pontefici; che distrutta la regia potestà vi era un Re ed una Regina per le sacre cose, e che questo ministero era finalmente passato agli Arconti ed alle loro mogli; (709) Noi sappiamo da Diodoro che la regia dignità era nel Sacerdozio presso gl'Iperborei; (710)Noi sappiamo da Erodoto che Adrasto andò a farsi espiare da Creso, re di Lidia; e sappiamo da Apollodoro che Euristeo, re di Micene, espiò Copreo che aveva ucciso Ifite; noi sappiamo dal luogo di Menandro d'Efeso rapportato da Giuseppe (contra App.) che Itobal, re di Tiro, era sommo sacerdote; noi sappiamo finalmente che i Re di Roma furono tutti anche Re delle cose sacre (Reges Sacrorum), e che, discacciati i Re, il capo de' Feciali assunse l’istesso nome. (711)

Era dunque interesse del Sacerdozio il dare a' Re, a' capi di questi eroici Governi, un’origine celeste per estendere sulla moltitudine un potere, un’autorità che nell'istesso suo corpo veniva a ricadere.

Ma il secondo motivo era più forte e forse anche più frequente..

In questo stato della società, nel quale gli stimoli d’amore sono proporzionati al vigore che regna ne' corpi, (712) e la gelosia è proporzionata al concorso delle più forti cause che la fan nascere; in questo stato della società, io dico, dovevan esser, come lo furono infatti, frequentissimi gli stupri, i ratti, gli adulterii, gl'incesti, e terribili le vendette che di questi si prendevano. Per occultar quelli, per evitar queste, il Sacerdozio non aveva a far altro che stabilire, ed opportunamente adoprare l’opinione del commercio degl'immortali colle mortali e de' mortali colle immortali, per ottenere il mezzo il più efficace, onde provvedere alla sicurezza degli amanti e favorire nel tempo istesso la futura sorte de' loro clandestini piaceri.

Questo motivo è sì analogo, e questo mezzo è sì semplice, si facile e sì opportuno alle circostanze delle cose, delle quali parliamo, che non deve parer strano il sostenere che per l’istesso motivo si sia ricorso all'istesso mezzo in popoli e tempi i più distanti tra loro. Una semplice esposizione d’alcuni fatti a quest'oggetto relativi ci porrà meglio nel caso di giudicarne.

Alemene, moglie d’Amfìtrione, divien gravida nell’assenza di suo marito. Giove l’ha incinta, ed Ercole, che ne nasce, è suo figlio. (713)

Anchise lungi dalla sua moglie divien padre d’Enea; chi ne sarà la madre? Venere che si era con lui accoppiata nelle foreste del monte Ida. (714)

Acrise, re di Argos, spaventato da un Oracolo, rinchiude in una torre la sua figlia Danae. Preto, fratello d’Acrise, elude l’attenzione del padre, ha commercio con Danae, e da questo commercio ne nasce Perseo. Bisogna nascondere l'attentato. Giove trasformato in pioggia d’oro ha fecondato Largiva Principessa e l'ha resa madre di Perseo.(715)

Piteo dà per sposa la sua figlia Etra ad Egeo. Questi contro l’Oracolo d’Apollo si unisce alla sposa prima delle condizioni dall'Oracolo prescritte, e ne nasce Teseo. Bisogna occultare il vietato commercio, bisogna garantire il fanciullo dall’opinione di questa peccaminosa origine; Piteo pubblica che Nettuno aveva giaciuto colla figlia, ed in questo modo, dice Plutarco, Teseo fu creduto figlio di Nettuno. (716)

La bella Europa viene in Greta da un estraneo paese. Senza avere uno speso genera tre figli: Minos, Sarpedone e Radamanto. Come colorire questo fatto, come renderne rispettabile la prole? Giove trasformatosi in toro l’ha rapita in Fenicia; i tre figli sono con questo Nume generati. (717)

In un Luco sacro a Vulcano si trova esposto un fanciullo. Il sacerdote, che probabilmente ne era il padre e che l’aveva quivi esposto, pubblica qualche prodigio su questo ritrovamento. Questo basta per rendere il fanciullo figlio di Vulcano, e per preparargli sotto il nome di Erictonio tutta quella considerazione che ebbe.

Crisea, figlia di Eteocle, ha un’amorosa avventura; il figlio che ne nasce, è al gran Nume della Guerra attribuito; con questa riputazione Flegia si pone alla testa di molti bravi predatori, fonda una città, occupa il trono dell’avo Eteocle, già passato a' discendenti di Almo, e diviene capo d’un popolo che viene in Omero considerato come il più belligerante di que’ tempi. (718)

Juturna, figlia di Dauno e sorella di Turno, re de' Rutoli, cede alle voglie del Re Latino; si manifesta la sua debolezza e si precipita nel fiume Numico. Bisogna cuoprire questo fatto. Si divulga dal Sacerdozio che Giove le aveva tolta la verginità, ed in compenso le aveva data l’immortalità convertendola n Ninfa di quel fiume. (719)

Il Principe d’un popolo della Tartaria orientale detto Kao-Kiuli aveva in suo potere la figlia d'un Dio Hoang-Ho, che aveva rinchiusa in una torre. Questa divien gravida. Si pubblica che il Sole coi suoi raggi l'aveva fecondata, e che il figlio che n’era nato era uscito da un uovo.

Ciò che ci dice Erodoto (720)non fa che confermarci nella nostra idea. Sovente, die’ egli, un sacerdote che aveva concepito qualche bravo disegno su d’una donna, le faceva credere che il Nume, che egli serviva, ne era divenuto amante; la favorita dal Nume si preparava allora ad andare a dormire nel tempio, dové ordinariamente era con gran pompa condotta da' suoi stessi parenti. Non vi è da dubitare che il sacerdote prendeva le spoglie del Nume e ne faceva le veci. Nel tempio di Belo in Babilonia, a Tebe in Egitto, ed a Patara nella Libia, vi era stato, secondo lui, quest’uso.

Finalmente se si riflette che varie erano le Deità, alle guali le generazioni di questi Eroi si attribuivano, ma che le più frequenti in ciascheduna regione eran più onorate, come Giove, Apollo e Venere tra' Greci, si troverà anche che ciò corrisponde ammirabilmente alla nostra idea, perché il Dio il più onorato era quello che aveva più culto e più templI e per conseguenza più sacerdoti e più ministri, e per conseguenza più relazioni, per le quali si rendeva più frequente il motivo di ricorrere all'opera del Dio per nascondere quella degli uomini.

In questo modo si formò l’ultima colonia di Numi che di uomini deificati era composta. Si cominciò dal credergli figli o discendenti degli Dei, allorché nacquero, e si finì per deificarli dopo la loro morte, allorché il tempo, che tutto altera, aveva già esagerato alla posterità le loro gesta,eia credulità de' tempi, unita all’ammirazione ed alla riconoscenza, gli aveva renduti degni de' divini onori.

Ho detto che questa fu l’ultima colonia di Numi, poiché non si deve porre in questo rango quella che presso alcuni popoli si formò, in un periodo ben diverso della società, dall’apoteosi de' Re, degl’imperatori, de' despoti che non nell’infanzia, ma nella decrepitezza e corruzione de' corpi politici si può soltanto incontrare. Gli Dei di quest'ordine non lo erano che nelle iscrizioni, nelle medaglie, negli obelischi, ne' templi, ma non lo erano nell’opinione degli uomini, che riman sempre libera in mezzo alla servitù, e che può detestare o dispregiare l'oggetto del suo apparente culto.

Noi sappiamo infatti da Cicerone, che allorché Cesare colla sconfitta di Pompeo a Farsaglia e del resto del suo partito in Africa era divenuto padrone assoluto dell’impero, e che il Senato per mostrargli la sua servile dipendenza ordinò che la sua statua fosse portata insiem con quelle degli Dei nelle pompe del Circo accanto a quella della Vittoria, il popolo che soleva batter le mani, allorché passava questa Deità, rimase immobile per timore di non dividere colla statua dell'usurpatore questo religioso applauso. (721)Noi sappiamo da Appiano che, dopo la sua morte, furono da' Consoli condannati all’ultimo supplicio que’ suoi partigiani che gli avevano innalzata in mezzo alla piazza una colonna per rendergli i divini onori; e noi sappiamo da Plinio i sarcasmi ed il ridicolo che si sparsero in Roma sulla sua apoteosi dall'ambizione d’Augusto prescritta. (722) Noi sappiamo ancora che si deificarono non solo gl'Imperatori più scellerati come Tiberio, ma anche i più stupidi come Claudio. Noi sappiamo, finalmente, che Adriano giunse fino a far mettere fra il numero degli Dei l’infame Antinoo, e gli fe’ costruire un magnifico tempio con un Oracolo nella città, che sotto il nome di Antinopoli aveva in suo onore edificata in Egitto.

Tali apoteosi, molto lontano dall'essere un contrassegno di rispetto per la memoria del morto, non erano sicuramente che un turpe e servile omaggio renduto al potere di colui che le ordinava. Fin da' tempi della Repubblica i Proconsoli avevano durante la loro vita istessa partecipato a' divini onori nelle provincie da essi governate. Essi avevan veduto progressivamente istituirsi giuochi, feste, riti, feciali e templi in loro onore. (723) Ma l’istesse città che li collocavano accanto degli Dei; ristesse città che loro consacravano templi, feste e sacrificii, terminata la loro magistratura inviavano sovente deputati al Senato per accusare gli oggetti delle loro timide adorazioni. (724)Chi crederebbe che una delle accuse prodotte contro Verre fosse stata d’aver fino rubati i fondi che si eran depositati per le feste e sacrificii a suo onore istituiti? (725)

Gli orgogliosi Romani erano esenti da queste bassezze, nel mentre che le sentivano con dispregio riferire di molti popoli dell'Asia verso i loro Despoti, e nel mentre che le vedevano con piacere praticare in loro onore nelle città al loro dominio sottoposte; (726)Ma non previdero che vi sarebbero ben presto caduti, allorché sarebbero essi medesimi oppressi sotto quel potere che le aveva procurate a' Despoti dell’Asia, ed a' loro concittadini nelle provincie. Ecco ciò che loro malgrado avvenne, senza che avessero potuto nemmeno negare che le apoteosi de' mostri, che ressero l’impero, fossero più vili e più violente che non lo erano state le associazioni a' divini onori de' loro Proconsoli nelle provincie.

Non bisogna dunque confondere gli Dei fatti dalla servitù con quelli fatti dall'opinione. Noi non abbiamo parlato che di questi, perché questi soltanto debbono aver luogo nel vero, ed universale sistema del politeismo.


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.... e la veduta smarrire (N. 26). Vol. III, pag. 332.

Dopo avere nelle precedenti Note confermato coi fatti ciò che nel testo si è asserito nell’universale origine e nel progresso del Politeismo, non ci rimane a far altro, che a spargere gl'istessi lumi su ciò che i poeti vi hanno aggiunto. Ma siccome quest'incidentale lavoro è divenuto ormai più lungo di quel che avremmo desiderato che fosse, così per non dilungarci maggiormente, noi ometteremo nelle seguenti Note tutti quegli oggetti, che ci sembrano bastantemente co' fatti stessi provati nel testo. Noi ci taceremo dunque su ciò che si è detto relativamente all'uso che i poeti han fatto delle antiche tradizioni relative all'origine e progresso del Politeismo. Noi ci taceremo anche su quel che si è detto dell'uso che han fatto delle antiche tradizioni relative alle guerre degli Dei. In tutto ciò mi pare che il testo non lasci cosa alcuna da desiderare a chi legge. Noi non faremo dunque altro che scorrere rapidamente su ciò che ci pare di avere assolutamente bisogno di maggiore illustrazione. Di tal natura è quel che da noi si è detto sul proposito di ciò che i poeti hanno aggiunto alle antiche tradizioni di quegl’imponenti fenomeni della natura, che, osservati in un tempo, nel quale tutto era creduto opera degli Dei, tutto doveva come tale trasmetterli. In quest’occasione noi abbiamo indicate varie favole che meritano qualche rischiarimento.

Quella della vittoria d’Apollo sul serpente Pitone ci viene da Platone spiegata in un modo che le nostre idee luminosa mente conferma. Per un diluvio o inondazione si formano molti ristagni d’acqua micidiale. Le loro esalazioni sono pestifere e velenose. Dopo una lunga serenità il Sole giugne a disseccare quelle acque. Ecco il vero fatto che secondo Platone (727) questa favola contiene. Questo fatto ha dovuto essereosservalo e trasmesso come un beneficio da Apollo operato. Ecco l’antica tradizione da' poeti trovata. Che vi hanno essi aggiunto? Han permutato nell’idea di un serpente nato dal fango del diluvio quella de' velenosi ristagni. Han cangiata l’idea del disseccamento di questi micidiali ristagni in quella della morte di questo distruttore serpente avvenuta presso Cefiso, cioè presso quell’istesso fiume che aveva cagionato l’inondazione della Focide e della Beozia. Han dato a' raggi del Sole l’analoga idea di dardi: han detto che per atterrare questo mostro, Apollo aveva quasi esaurita la sua faretra, perché vi era stato bisogno d’una lunga serenità per disseccare queste acque.

Hunc Deus arcitenens, etc.

Mille graverà telis exhausta pene pharetra

Perdidit, effuso per vulnera nigra veneno. (728)

Non dissimile discernimento ci somministra la favola della Valle di Tempe. Un tremuoto apre questa valle, e fa correr nel mare le acque del Peneo che inondavano la Tessaglia; ecco il fatto. Questo prodigio è opera di Nettuno; ecco l’antica tradizione trasmessa. I poeti per ornarlo ricorsero al tridente, all’impeto, col quale lo fé ne' vicini monti cadere, ed a simili altre poetiche immagini. (729)

L’istesso si osserverà nella favola delle Arpie. Uno stuolo di locuste (730)piomba nella Bitinia e nella Paflagonia; desola il paese, e vi cagiona la carestia. Tutti gli sforzi per distruggerle o per allontanarle sono inutili; un vento benefico soltanto potè cacciarle da quella regione, e spingerle verso il Mar Jonio. Questo fenomeno è osservato e trasmesso teologicamente. Giove ha mandato le Arpie; (731)queste intelligenze ultrici han dovuto esser vomitate dal Tartaro; gli sforzi di Fineo e del suo popolo sono impotenti contro di loro; il Dio de' Boreali venti ha potuto soltanto cacciarle e precipitarle nel Mar Jonio. I poeti trovano questa tradizione e la maneggiano a modo loro. Essi ci danno una descrizione di queste Arpie, e ce le dipingono in modo da farcene interamente smarrire l’originale. Essi loro danno un padre, e questi è l'odioso Tifeo, sì per le relazioni che questo gigante ha col Tartaro, come per quelle che ha coi perniciosi venti che avevano dovuto spingerle in quella regione. (732) Invece di dire che desolavano il paese, ci dicono che rapivano le vivande dalla tavola di Fineo; invece di dire che non si potevano né espellere né distruggere, essi dicono che ritornavano a misura che si espellevano, e che erano invulnerabili; invece di dire che il Dio de' Boreali venti le aveva precipitate nel Mar Jonio, essi vollero attribuire questo merito a' due Argonauti che si trovarono presenti a questo fatto, perché passavan entrambi per figli di Borea; finalmente invece di dirne le proprietà da' vocaboli che le indicavano, essi ne formarono i tre nomi di Ocipete, cioè colui che vola; di Celeno, cioè oscurità, caligine; e di ApàIo, cioè tempesta: perché infatti esse volano, oscurano l'aere, e cagionano maggior rovina della più gran tempesta. (733)

Le favole relative agli amori di Giove colle Ninfe non hanno una dissimile origine. Giove come Dio, che prcsedeva a' fulmini, alle meteore, alle piogge, doveva aver parte alle inondazioni ed alle siccità; doveva avere relazioni colle Ninfe, che erano le Dee de' fonti; doveva continuamente averne con Giunone, che era la Dea dell'aere. I fenomeni più considerabili avvenuti in questa parte della natura, era naturale che fossero osservati e trasmessi come relazioni delle invisibili Deità, che delle naturali forze in questi fenomeni impiegate disponevano. Vennero quindi i poeti, e queste tradizioni a modo loro maneggiando la scandalosa istoria ne formarono degli amori di Giove con queste Ninfe, e delle sì frequenti gelosie di Giunone da questi amori destate.

Il ministero della Dea Iride, e la figura che rappresenta nella favola, si può coll'istessa facilità dagl'istessi principii dedurre. L'apparizione dell'arco celeste dovette naturalmente prendersi per quella d’una Deità, che a quest’accidente della natura presedeva.

La breve durata di questo fenomeno, la sua non rara apparizione, il suo disparimento, che succede senza lasciar di sé vestigio, dovettero necessariamente richiamare le religiose riflessioni di quegl’ignoranti mortali, che si credevano di poter tutto spiegare, e che tutto infatti spiegavano col soccorso de' loro teologici principii. Volendo applicar questi ai caratteri del fenomeno, del quale si parla, era facil cosa il dedurne ciò che infatti ne dedussero, cioè che l’apparizione di quest’arco non poteva esser che un annuncio degli Dei e la Deità che ci presedeva, loro nunciatrice. Dovendo dare a questa Deità un nome analogo all’idea, che se ne eran formata, la chiamarono Iride, che, secondo Platone, deriva dal verbo eìpeìv, nunciare. Con questa prevenzione, e con quella ignoranza, un motivo di guerra o di dissensione, insorto in un popolo, o la morte di qualche personaggio di considerazione avvenuta dopo qualche apparizione di questo arco, dovettero esser considerati e trasmessi come i verificati presagi della Deità che gli aveva annunciati; e siccome la fragilità della natura umana e lo stato tumultuoso e belligerante di tutte le barbare società dovevano render gl'indicati avvenimenti le più frequenti appendici dell'apparizioni della celeste messaggiera, così gli annunci o di morte o di dissensioni e di guerre furono più particolarmente attribuiti al suo ministero.

I poeti trovarono questi fatti in questo modo trasmessi, trovarono quest’opinione stabilita dalla religione, e ne fecero uso a loro talento. Essi fecero della Dea Iride una giovane donna vestita d’abiti di diversi colori, assisa presso il trono di Giunone, (734)e sempre pronta ad annunciare i suoi ordini. Essi la fecero intervenire come vera messaggiera, facendola parlare, agire e correr con velocità; (735)essi le fecero troncare il capello fatale delle donne, che eran per morire; e dalle mani d’un poeta passando in quelle d’un altro, e sempre più dalla sua origine discostandosi, si giunse fino a farne la serva di Giunone, che in Callimaco appoggia la sua padrona, allorché è stanca, ed in Teocrito prende cura del suo appartamento, e colle sue mani ne prepara ed assesta il letto.

Ecco fin dovefu prodotto e per gradi esteso dall'ignoranza e dalla superstizione de' tempi e dall'immaginazione de' poeti un natural fenomeno, che più non si discerne in mezzo alle favole che lo nascondono.

L’apparizione di qualche Parelio, i Solari e i Lunari Eclissi, le Boreali Aurore, e tanti altri fenomeni di questa natura, chi sa a quante altre teologiche tradizioni avran dato origine, e chi sa quante di quelle favole che han tormentato i dotti, e che gli han fatti cadere in interpretazioni, che urtano il buon senso e la vera filosofia dell'istoria, potrebbero essere facilmente spiegate, se si considerassero come il risultato di ciò che l’immaginazione de' poeti ha aggiunto alle antiche tradizioni di questi fenomeni religiosamente osservati e teologicamente trasmessi! Oltre gl’indicati esempi, noi potremmo produrne degli altri, se la brevità, alla quale ci siamo obbligati, non ce lo proibisse.

.... A spese degli Dei (N. 27). Vol. III, pag. 332.

Spesso un'intera Città, dice Esiodo, vien punita del peccato d'un solo. Perisce il popolo, s’isteriliscono le donne, si smembrano le famiglie, l'esercito vien distrutto, cadon le mura, le navi vengono ingoiate dall'onde per pena di un tal misfatto. (736)

Questo principio della Teogonia d’Esiodo è il risultato delle antiche tradizioni relative agli uomini, alle famiglie, a' popoli che con qualche sacrilego attentato, con qualche offesa a qualche Dio recata, l’ira e la vendetta del cielo avevano su di loro chiamata.

Languiva il popolo Tebano, aride erano le sue campagne, gli armenti venivan distrutti: l’Oracolo rispondeva che il ciel puniva la morte di Laio. (737)

La peste consumava il Greco esercito innanzi a Troia; Achille interrogava Calcante per qual sacrificio trascurato, per qual Nume offeso meritassero i Greci un tal flagello: l’indovino rispondeva che Apollo vendicava il suo sacerdote oltraggiato. (738)

La sterilità, la fame, le civili guerre desolavano l'Epiro; questa è Diana che si vendica del suo asilo violato coll'assassinio di Laodomia uccisa sulla sua ara. (739)

Il mare aveva ingoiato Aiace nel ritorno dalla Troiana spedizione: ognuno attribuiva questo disastro allo sdegno di Minerva pel suo tempio profanato. (740)

Una fiera devasta i campi di Calidone; questa fiera viene uccisa; ma una sanguinosa guerra ne segue tra' Cureti e gli Etolii per chi dovesse appropriarsene le spoglie. A chi si attribuiva la causa di tante sciagure? A Diana che aveva volutovendicarsi di Oeneo, perché l’aveva trascurata in un sacrificio che aveva a tutti i Dei diretto. (741)Le sciagure delle figlie di Tindaro, e l’incesto di Canippo nell’ebrietà, erano state attribuite allo sdegno di Venere ed a quello di Bacco per due simili omissioni. (742)La violenta passione di Fedra pel figlio del suo sposo era stata attribuita all’istessa Dea per vendicarsi del disprezzo che Ippolito faceva del suo culto e de' suoi adoratori. (743)

Sovente dalla natura della pena si presumeva la qualità della colpa, che aveva dovuto produrla.

Se una giovine beltà periva nel fiore de' suoi giorni, essa aveva dovuto contendere in bellezza con qualche Dea.

Se Andromeda si vide esposta al furore di un mostro marino, ciò era avvenuto perché la madre aveva uguagliata la sua bellezza a quella delle Nereidi. (744)

Se le figlie di Preto divennero furiose e si abbandonarono alla prostituzione, bisognava dire che Giunone aveva così punita una simile arroganza.

Se il poeta Tamirida perde la vista, ciò dipendeva dall’aver ardito sfidar ne' versi enei canto le Muse istesse.

Se Salmoneo perì con un fulmine, egli aveva offeso Giove, volendone imitare lo strepito. (745)

Se Capaneo, uno de' sette capi Argivi che combattettero nella tebana guerra, perì dell’istessa morte, ciò bastò per farlo considerare come un empio, che con qualche sua bestemmia aveva dovuto attirarsi lo sdegno di Giove. Le virtù che l'adornavano e delle quali Euripide ci ha lasciata una sì vantaggiosa descrizione, (746) non bastarono per garantirlo da questa taccia e per esimerlo dall’ignominiosa distinzione d’escludere il suo cadavere dal comun rogo, nel quale i cadaveri dei suoi compagni furono insieme bruciati. Bisognò costruire un rogo distinto per lui, ed in questo rogo la sua moglie Evadue si precipitò per unire le sue ceneri a quelle d’un Eroe, che un fulmine aveva reso un empio. (747)

Ecco quali erano le antiche tradizioni che i poeti trovarono sugli uomini, le famiglie, i popoli, che l’ira e la vendetta degli Dei avevano su di loro richiamata. Qual tesoro nelle loro mani I Basta riscontrare i luoghi, ove essi le rapportano, per vedere l'uso che ne han fatto e ciò che la loro immaginazione vi ha aggiunto.

.... Discreditarono i Numi (N. 28). Vol. III, pag. 332.

Se le antiche tradizioni rapportavano le guerre d’un popolo contro un altro popolo, come preparate e mosse daiNumi, se esse le supponevano come sostenute dagli Dei divisi ne' due opposti partiti, che non aggiunsero i poeti a queste antiche tradizioni coi loro teologici episodii? L’odio di Giunone e di Minerva contro i Troiani è portato in Omero ad un tal grado, che non si può senza orrore osservare la condotta di queste due Deità. Ciò che si trova nel quarto libro dell'Ilìade basterebbe a darcene un saggio. Si era convenuto di rimetter le pretensioni de' due partiti all'esito d’una singoiar pugna tra Paride e Menelao, di conceder Elena al vincitore e di por fine in questo modo alla guerra. Si esegue il duello; e Menelao supera Paride e la contrastata Principessa avrebbe dovuto con ciò ritornare al suo legittimo sposo. Che fa Giunone? Invece di favorire la causa della giustizia secondata dalla sorte delle armi, induce i Troiani a negar Elena ed a violare con ciò la promessa ed il giuramento, perché, così continuandosi la guerra, Troia sarebbe distrutta. Minerva non «fa una figura meno scandalosa in questo poema. Noi la vediamo ora spogliar Venere e percuoter Marte con un colpo di sasso, ed ora venire in soccorso di Diomede per fargli ferire l'una e l'altra Deità. Noi la vediamo ora prender figura di Deifobe per ingannare Ettore col preteso soccorso di suo fratello, ed ora rifiutare insieme con Giunone di soccorrere il più Enea, perché han fatto inviolabili giuramenti di non prestar mai alcun soccorso ad alcun Troiano, anche allorché le fiamme ne divorassero la città, ed i Greci vi ponessero tutto a fuoco, ed a sangue.

Noi siam ben lontani dal voler rapportare tutt'i teologici episodii, da questo poeta aggiunti all’antica tradizione che fu il soggetto del suo poema. Ci siam contentati di mostrare con quelli prodotti, quanto poco onore facessero questi agli Dei, quali effetti dovessero produrre nelle idee morali degli uomini, e quanta ragione avesse Pitagora di dire che per questi episodii Omero era tormentato negl’inferni, Platone di proscrivere i poeti dalla sua Repubblica, (748)e Cicerone di dire: nec multo absurdiora sunt ea quae poetarum vocibus fusa ipsa suavitate nocuerunt, qui et ira inflammatos, et libidine furentes induxerunt Deos, feceruntque ut eorum bella, pugnas, proelia, vulnera videremus, odia proeterea, dissidia, discordias, ortus, interitus, querelas, etc. (749)

.... In ogni tratto si trova (N. 29). Vol. III, pag. 333.

Per convincerci della verità nel testo stabilito prendiamo per oggetto del nostro esame il personaggio più illustre dell’eroica Mitologia. Io spero che per poco che si rifletta sull'Ercole de' Greci, si troverà che questo non è altro che il composto dell'Ercole Tebano e dell'uom forte di varii popoli; si troverà che, coll’indicato principio, si può soltanto spiegare quella parte della Mitologia che quest’Eroe riguarda; si troveranno le cause delle differenze tra ’l principio ed i progressi che ebbe; si troverà finalmente, che ciò che gli antichi mitologi han su di ciò pensato, ben lungi dal distoglierci, ci confermerà nella nostra opinione.

Prima di Esiodo e di Omero i Fenicii avevan già avuto commercio con varii popoli, ne avevan già avuto coi Greci; quest'istessi ne avevan dal canto loro avuto co' loro vicini. Varie religiose notizie di questi popoli, sebbene alterate ed oscure, dovettero nulladimeno pervenire in questo modo a' Greci, e così alterate ed oscure, ed anche di più, perché più lontane dalla loro origine, dovettero essere da questi poeti trovate. Quelle degli Eroi che presso questi popoli si erano segnalati colle lor gesta, come interessavano più l’umana curiosità, dovettero più d’ogni altro comunicarsi. In simili posizioni, in simili circostanze, era natural cosa che si trovassero simili eroi. Cosa fecero dunque i poeti? Alle alterate tradizioni del proprio Ercole aggiunsero le ugualmente alterate tradizioni degli Ercoli degli altri popoli, o sia degli uomini che con diversi nomi, ma con simili gesta, avevano destata l’istessa ammirazione e si erano quindi attirato l'istesso culto, e concretando, come si è detto, una specie intera in un solo individuo, la particolare istoriane formarono del proprio loro Eroe, nella quale era natural cosa che, in questo modo formata, non solo l’inverisimile, ma l'impossibile anche di continuo si trovasse.

Se noi riflettiamo su’ travagli di quest’Eroe, se noi riflettiamo su’ suoi viaggi, noi non potremo dubitare di questa verità. Noi vedremo che le città prese, i tiranni puniti, i mostri distrutti o domati, i Re, o per meglio dire i capi dell’eroiche popolazioni, ristabiliti ne' loro regni; gli uomini selvaggi e fieri combattuti ed uccisi; le rapine con violenza eseguite; i più forti nella lotta e nel corso superati; le nuove città fabbricate; il corso de' fiumi o distrutto, o rimesso nell’antico letto; le strade aperte ne' luoghi inaccessibili; le maremme disseccate: tutte queste gesta che la tradizione, la quale tutto altera, ha esagerate e che i poeti hanno viepiù ingigantite, ed a modo loro modificate e colorite; ricondotte al loro giusto livello sono effettivamente i travagli comuni de' primi eroi di tutte le nascenti società. Noi vedremo che i viaggi d'Ercole ed i suoi travagli, in Creta, in Egitto, nelle coste occidentali dell’Affrica, nella Spagna, in Sicilia e fin nel fondo della Scizia, ecc., non sono altro che il prodotto delle confuse ed esagerate tradizioni delle gesta di altrettanti simili esteri eroi e del mezzo ignoto impiegato da' poeti per aggiugnerle a quelle che il proprio Eroe riguardavano, ed a lui appropriarle, facendolo per altrettanti diversi luoghi viaggiare.

Se noi riflettiamo all’incremento che questa parte della Mitologia ricevé progressivamente, cioè a' nuovi travagli, ed a' nuovi viaggi che furono posteriormente aggiunti a quelli, de' quali parlano Esiodo ed Omero, si troverà di ciò la ragione nell'istesso principio; poiché a misura che nuove relazioni a' Greci pervenivano di altri simili eroi di altri popoli, era natural cosa che nuove aggiunzioni dovessero formarsi alla sua storia; giacché i Greci prevenuti già in favore di tanti suoi travagli e de' suoi sì estesi viaggi, non dovevano stentar molto a persuadersi, che ignoti travagli ed ignoti viaggi di quest'Eroe si discoprissero. (750)

Se noi riflettiamo finalmente a ciò, che gli antichi mitologi ci han su di ciò trasmesso, noi vedremo da ogni parte tralucere questa verità. Noi troveremo in Erodoto distinti tre Ercoli, l’Egizio, che egli crede il più antico, l’Olimpico ed il Tebano. (751) Noi troveremo in Pausania l’antica tradizione degli abitanti d’Olimpia, colla quale si sosteneva, che il più antico Ercole fosse stato il Cretese, e che a lui e non già al Tebano si doveva l’istituzione de' giuochi Olimpici. (752) Noi troveremo in Diodoro Siculo confermata l'asserzione d’Erodoto e distinti l'Ercole Egizio, il Cretese ed il Tebano. (753) Noi ne troveremo in Cicerone enumerati sei di altrettanti diversi luoghi. (754) Noi vedremo finalmente ne' mitologi greci posteriori giugnere il numero degli Ercoli fino a quaranta.

Che vuol ciò indicare? Erodoto, Pausania, Diodoro, Cicerone, e gli altri che venner dopo, trovarono in diversi popoli le memorie d’un originario e proprio Eroe, simile all'Ercole che i poeti celebravano, trovarono varie delle gesta che questi avevano al loro Ercole attribuite, appartenersi all’uom forte che questi popoli come originario del loro paese vantavano; videro che l’istesso uomo non aveva potuto percorrere tanti paesi, ed eseguire tante imprese; videro che l’epoche di queste imprese non potevano combinarsi nella durata della vita d’un istesso uomo; videro, come l’osserva Erodoto, che l’Eroe Egizio, per esempio, simile all'Ercole Greco, ed annoverato tra' dodici gran Dei dell'Egitto, doveva essere di molto anteriore all’Eroe Greco: e da tutte queste riflessioni invece di dedurne che più eroi stranieri erano concorsi ad impinguare l'Ercole Tebano, ne dedussero che vi erano stati più Ercoli. Io lascio a chi legge il valutare, quanto l’opinione di questi antichi mitologi conferma il principio da noi stabilito; egli vi riuscirà più facilmente, quando rifletterà alla diversità de' nomi di questi diversi, ma simili eroi, (755) ed alla diversità delle loro rappresentazioni presso i loro respettivi popoli, tra le quali quella che rapporta Luciano e che rappresentava l'Ogmion de' Galli, ci fa nel tempo istesso vedere l’originaria differenza del soggetto, e come se ne fosse poi confusa l’idea coll’Èrcole Greco. (756)

Ciò che si è osservato sull'Ercole de' Greci, si potrebbe dell'istessa maniera osservare sul loro Bacco e sul loro Orfeo. Noi troveremmo in ciò che i poeti ne han detto l’istesse vestigie dell'istesso accoppiamento delle patrie tradizioni relative a questi due Eroi coll’estere notizie di varii simili eroi d’altri popoli. Noi li vedremmo per l’istesso motivo viaggiare in varii luoghi, perché in varii luoghi avea dovuto esservi un primo uomo, che aveva insegnato il modo d’estrarre il liquore dalle uve e che con questo mezzo gli aveva a varie imprese eccitati; e perché in molti popoli aveva dovuto esservi un Eroe che, coll’armonia de' suoi versi e colla dolcezza del suo canto, in un tempo ed in un periodo della società, nel quale tutti gli uomini son cantori e poeti, aveva dovuto spingerli, attirarli, frenarli, in poche parole indurli ad agire a seconda de' suoi disegni.

Noi vedremmo per le istesse ragioni estendersi progressivamente quella parte della Mitologia che questi due Eroi riguarda. Noi vedremmo per le stesse riflessioni negli antichi mitologi distinti più Bacchi e più Orfei nati in diversi luoghi ed in tempi diversi. (757)Noi vedremmo finalmente che in generale, quando dalle gesta così del Bacco, come dell’Orfeo, così dell’Ercole, come degli altri personaggi dell’eroica Mitologia, si separassero quelle de' diversi, ma simili eroi di altri popoli, che i poeti hanno insieme confuse, ed al proprio Eroe attribuite; che quando si escludessero que’ viaggi che per nascondere questa frode furono dagli stessi poeti immaginati; che quando finalmente si discernessero l’esagerazioni delle tradizioni, e quelle che i poeti hanno a queste aggiunte colle loro finzioni, colle loro interpretazioni, colle loro immagini e colle loro allegorie, si troverebbe che la vera istoria di quegli eroi si ridurrebbe a fatti non solo verisimili, ma certi e necessari ad avvenire in popoli in quelle circostanze collocati. (758)


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.... Sembrasser nate (N. 30). Vol. III,pag. 333.

Se le altre estere religiose notizie dovevano esser meno copiose, perché meno interessavano l’umana curiosità, se l’uso di esse doveva esser meno frequente ne' poeti, perché meno lusingava la vanità nazionale; non per questo le poche che trovarono, furono da essi interamente trascurate. Noi le vediamo più di una volta adoprate e colle proprie incorporate in Esiodo ed in Omero, e noi ne vediamo anche più frequente l’uso ne' poeti che venner dopo.

Esiodo nell’enumerazione che fa de' fiumi, di queste Deità, figlie, secondo lui, di Tetide e di Oceano, nomina il Nilo, pel quale gli Egizii avevano tanta venerazione, ed il Meandro fiume adorato nell’Asia Minore; si pretende che abbia nominato anche il Danubio sotto il nome d'Isroj;, ed il Po sottoquello di Hrtdanon. (759)

Da un lungo passaggio di Diodoro Siculo si rileva chiaramente che ciò che Esiodo ed Omero ci han detto degl'Inferni e de' Campi Elisi, non è altro che un. impasto poetico delle teologiche idee de' Greci sullo stato dell'anime dopo la morte, coi riti mortuarii e le funebri cerimonie degli Egizii. Io non trascrivo qui questo lungo tratto di Diodoro, perché ognuno può riscontrarlo e convincersene. (760)

Varii altri luoghi di questi due poeti ci somministrano un simile accoppiamento dell'estere religiose notizie da essi trovate, colle patrie teologiche opinioni. Tutto ciò che offriva alla loro immaginazione un campo più abbondante e più esteso, ed un più copioso numero di materiali, era natural cosa che non fosse da essi interamente trascurato.

Ma da questa verità di fatto ne è derivato un errore di opinione. I mitologi così antichi come moderni, (761) vedendo le religiose notizie d’un popolo mescolate con quelle d’un altro popolo, e vedendo nel tempo istesso che gli Dei d’un popolo, quantunque con diversi nomi, eran nulladimeno simili agli Dei d’un altro popolo, han creduto che il fonte delle favole e della religione sia stato sempre il passaggio delle teologiche idee del popolo più antico nel più moderno. Invece di vedere che simili cause han dovuto produrre simili effetti da per tutto; invece di vedere che il Politeismo è nato e si è esteso in un popolo per le istesse cause, per le quali è nato e si è esteso nell’altro; invece di osservare che l’estere notizie dell'estere religioni non sono ordinariamente pervenute ne' popoli se non molto tardi, e per lo più quando la religione era già giunta al termine del suo sviluppo; invece di vedere che queste estere notizie non han fatto altro, che somministrare a' poeti un materiale di più, onde ornare ed arricchire i loro mitologici edifìcii: vedendo, io dico, la somiglianza degli effetti e non sapendo indagare la somiglianza delle cause, han preso il partito il più facile, ed il meno filosofico, quale è quello di sostenere che tutt'i popoli abbiano l’un dall'altro attinti i loro Dei e le loro favole, e sono per tal ragione andati in cerca del popolo più antico, per caratterizzarlo come principio e fonte del Politeismo e delle favole di tutti gli altri popoli. Si è veduto, per esempio, che il Teutates de' Galli, l’Erminsul o Irminsus de' Germani, l’Ermete de' Greci, il Mercurio de' Latini erano simili tra loro, e simili al Thoth degli Egizii; che il Beleno da' Celti, l'Apollo de' Greci, il Mitra de' Persiani erano simili all'Osiride degli stessi Egizii; che l’Aliat degli Arabi, la Mar zane de' Sarmati, l’Astarte de' Fenicii, e la Venere de' Greci eran presso questi diversi popoli l’Intelligenza istessa, cioè la Dea dell'Amore; che il Plutone o l’Ades de' Greci, il Mouth de' Fenicii, il Dis de' Celti, il Sumanus de' Latini, il Suranus de' Sabini, il Ladon de' Sarmati indicavan presso tutti questi popoli una simile Deità, ecc., se ne è dedotto che l'un popolo aveva dall'altro prese queste Deità, e che il più antico era quello che doveva considerarsene come la prima origine.

Ma io domando, per qual ragione si sarebbe da per tutto cangiato il nome di questi Dei? Per qual ragione non si sarebbe loro lasciato quello che dal popolo più antico era stato ad essi dato? Per qual ragione i Greci, i quali allorché adottarono dagli Egizii il culto d’Iside, le lasciarono l’istesso nome e gl'istessi simboli, (762) non avrebbero fatto l’istesso per le altre Deità, se, come si pretende, l’avessero dall’istesso popolo ricevute? Per qual ragione i Galli e gli Svevi, che avevano conservato all'istessa Iside il suo originario nome, (763)non avrebbero fatto l’istesso per l’altre loro Deità, se avessero come Iside avuta una straniera origine? Se tutti questi popoli adoravano la Luna, o sia l’intelligenza che a quest’astro credevano che presedesse: e questa Deità aveva, come si è osservato, (764)presso ciascheduno di questi popoli il suo distinto e particolare nome, perché non l’avrebbero da principio chiamata Iside, se avessero da principio ricevuto dagli Egìzi! il culto della Luna? Gl’istessi Galli,i quali allorché ricevettero da' loro conquistatori il culto di Giove e di altri Dei onorati in Roma, conservarono loro l’istesso nome, perché non avrebbero tenuto l'istesso metodo colle altre loro antiche Deità, se da altri popoli le avessero ricevute? (765)Se Cibele conservò il suo nome in un popolo, che al riferir di Tacito l’onorava nel fondo della Germania, (766)perché non avrebbero avuta l’istessa sorte gli altri suoi Dei, se come Cibele fossero di fuori venuti?

Se i greci poeti hanno impinguate le loro religiose idee sugl’inferni e sui Campi Elisii coll’estere notizie delle cerimonie e de' riti che si praticavano in Egitto ne' funerali de' morti, si potrà forse per questo dire che il fondo principale di queste idee non fosse nato presso i Greci istessi, come è nato presso tutt’i popoli? Quando gli Europei conobbero i popoli del nuovo Mondo, non vi trovarono essi la credenza che le anime di coloro che avevano mal vissuto, andassero ad abitare certi laghi fangosi, com’i Greci le inviavano sulle sponde di Stige e d’Acheronte: e quelle di coloro che avevan menata una vita regolare, andassero ad abitare alcuni luoghi deliziosi assai simili ai Campi Elisi? (767)Non vi trovarono forse anche la distinzione tra l’anima e l’ombra o simulacro di essa, e la credenza comune con quella di varii popoli dell’antichità, che nel mentre che l’anima era nel soggiorno delizioso, la sua ombra errava intorno a' luoghi del suo sepolcro? (768)Senza aver conosciuto né i Persi, né i Latini, la custodia del fuoco sacro non richiamava forse con uguale culto la loro religiosa attenzione? Nella Luisiana i Natchez non avevano forse una guardia che vegliava di continuo alla perennità di questo fuoco? (769)

Nel Perù, sotto l’impero degl’Incas, non vi erano forse i templi alla custodia di questo sagro fuoco destinati, e vergini sacerdotesse che l’alimentavano di continuo per impedire che si estinguesse e l’istessa pena minacciata alle Vestali in Roma, allorché violavano il voto delle loro verginità, quale era quella d’esser vive sepolte? Nel Messico la custodia dell’istesso fuoco era nell'istesso modo all'istesse mani affidata. Presso gl’Irocchesi e gli Uroni, ed altri popoli meno avanzati verso la coltura, in difetto di templi, il sagro fuoco si custodiva ne' luoghi alle pubbliche assemblee destinati, e questi luoghi eran presso a poco simili alle Pritanie d’Atene. (770)

Se il fondo dunque del Politeismo e della Mitologia di tutt'i popoli è l’istesso; ciò non dipende perché l’uno l’abbia dall’altro attinto, ma perché le universali proprietà della natura umana combinate colle universali circostanze del genere umano han dovuto da per tutto produrre universali effetti. Tutto ciò che si è detto e nel testo, ed in queste Noie, mi pare che non lasci alcun dubbio su questa verità.

.... Poteva ideare (N. 34). Vol. III, pag. 333.

Pochi esempi basteranno, io spero, per manifestare quest'altra chiave delle favole che dipende dalla cognizione della povertà della primitiva lingua de' popoli e dell’uso, o per meglio dire abuso che i poeti fecero di questa povertà.

La favola del Cavallo che Nettuno dalla terra estrasse, non è fondata che sopra un semplicissimo avvenimento teologicamente trasmesso e sotto gli auspiciidella povertà della antica lingua, da' poeti fino a questo punto alterato.

Un nuovo fonte ad un tratto si manifesta. Questo fenomeno fisico viene teologicamente osservato e trasmesso. Si dice che Nettuno ha estratto dalla terra un fonte. Quest'antica tradizione viene coll'antico linguaggio trasmessa. In quest’antica lingua l’istessa voce imi che esprimeva acqua, esprimeva anche un cavallo. I poeti, correndo sempre verso il più maraviglioso, profittano di quest’effetto della povertà dell'antica lingua, ed invece di dire che Nettuno aveva fatto dalla terra uscire un fonte, dissero che ne aveva fatto uscire un cavallo. Per una progressione dell'istesso equivoco l’antico epiteto dato a Nettuno Il che significava aquatico, significò quindi Cavaliere, per questa ragione istessa Nettuno fu da Cavalieri invocato e per questa istessa ragione gli fu consecrato l’Ippopotamo, o sia il Cavallo marino. Per un effetto finalmente dell’istessa causa la greca favolosa Istoria parlava de' due ruscelli Erifa e Partenia cangiati in cavalli. (771)Un’antica tradizione rapportava che Giove, disseccate Tacque del Diluvio, dette a Deucalione un popolo, cioè che quella regione si ripopolò di nuovo: ma siccome nell'antica lingua la parola Laos significava ed una pietra, ed un popolo, (772)I poeti si servirono di questo doppio senso per dire che, scolate le acque, Giove aveva dato a Deucalione uomini di pietra.

Per un effetto dell’istessa povertà dell’antica lingua un’istessa voce Kerarasignificava le diramazioni d’un fiume, o le corna. Da quel che rapporta Suida nell'istessa antica lingua un’istessa voce Tauroj; o Tairoj; indicava anche un toro (773)ed un fiume, forse perché que’ primi Greci trovando una relazione tra' fenomeni d’un toro e d'un fiume sdegnato, espressero coll'istesso vocabolo i due subbietti di questa apparente relazione. Con questa antica lingua si trovò trasmessa l'antica tradizione che Ercole aveva troncato un corno, cioè una diramazione del Tauro Acheloo, cioè del fiume Acheloo. Che fecero i poeti? Dissero che il fiume Acheloo si era cangiato in Toro, e che Ercole gli aveva reciso un corno. (774)

.... Erano nati (N. 32). Vol. III, pag. 331.

Basta gittar gli occhi sulle genealogie degli Dei per vedere che queste sono interamente opera dell’immaginazione de' poeti. (775) Erodoto volle senza dubbio questa verità indicare, allorché disse che la Teogonia greca, o sia la generazione degli Dei de' Greci, non era più antica di Esiodo e di Omero. (776) Se queste infatti foggiate si fossero dagli uomini che il Politeismo formarono; se queste fossero state colle tradizioni delle altre religiose opinioni trasmesse; i poeti sarebbero stati in quest’oggetto più uniformi tra loro; non si troverebbero quelle gran differenze che in ogni tratto s’incontrano nelle genealogie di Esiodo, di Omero e degli altri poeti; non si troverebbero quelle che s’incontrano sovente ne' diversi poemi d’un istesso poeta; e non si troverebbero finalmente quelle che qualche volta s’incontrano anche nell'istesso poeta e nel poema istesso.

In Esiodo, per esempio, Venere vien formata dalla schiuma che si produsse nel mare da' genitali di Celo da Saturno recisi; (777)ed in Omero questa Dea è figlia di Giove e di Dionea. (778)

In Esiodo Giunone senza il soccorso di Giove genera Vulcano, ed in Omero questo Dio è figlio di Giove e di Giunone. (779)

Nell'istesso Esiodo Tifeo è figlio del Tartaro e della Terra, e negl'Inni che si attribuiscono ad Omero, questo Gigante vien formato da' vapori che Giunone irritata contro di Giove aveva fatti dalla terra uscire, (780)

In Esiodo le Grazie son figlie di Giove e della bella Eurinoma; in uno degl’Inni del supposto Orfeo son figlie di Eunomia molto da quella diversa; in altri poeti son figlie di Giove e di Giunone; ed in altri di Venere: in tutti i poeti esse son vergini, ed in Omero una è sposa del Sonno, ed un’altra di Vulcano. (781)

Nella Teogonia d’Esiodo le Furie nascono dal sangue di Celo sulla terra caduto dopo la fatale mutilazione; (782)in Licofrone (783)ed in Eschilo (784)son figlie della Notte e d’Acheronte: Sofocle (785)le fa uscire dalla Terra e dalle Tenebre; Epimenide le fa nascere da Saturno e da Euronima o Eronima: l’Autore d’un inno diretto all’Eumenidi dice che esse debbono la loro origine a Plutone ed à Proserpina.

17 istesso Esiodo che, come si è detto, nella Teogonia fa nascer le Furie dal sangue di Celo, in un altro suo poema (786)le fa nascere dalla Discordia.

La genealogia delle Parche varia non solo presso l’istesso poeta, ma anche nel poema istesso. In un luogo della Teogonia Esiodo ce le dà per figlie dell'Èrebo e della Notte, (787)ed in un altro luogo dell'istesso poema ce le dà per figlie di Giove e di Temide. (788)

Che vuol dunque indicare questa prodigiosa varietà, questo illimitato arbitrio de' poeti nel foggiare le genealogie degli Dei? Quest'è chiaro: essi si son serviti di questa specie d’allegoria per indicare e nascondere nel tempo istesso tutto ciò che con questo mezzo si poteva nel tempo istesso indicare e nascondere. Essi se ne son serviti, come si è veduto, per esprimere ciò che le antiche tradizioni confusamente rapportavano, sul passaggio da una religiosa idea in un’altra, o sulla estensione progressiva degli oggetti del politeistico culto. Così Celo è padre di Saturno e Saturno di Giove, perché l’idea del Supremo Essere che s’indicava sotto il nome di Celo, si modifico in quella che s'indicava sotto il nome di Saturno, e questa si modificò di nuovo in quella che s’indicava sotto il nome di Giove; cosi ogni goccia del sangue di Celo sulla terra caduta una nuova Deità genera in Esiodo; così i suoi genitali producono Venere; perché l’istessa causa che colla mutilazione di Celo aveva stabilito il Politeismo, doveva ben presto estenderlo, ed alle fisiche potenze doveva ben presto le morali forze accoppiare.

Essi se ne servirono per indicare tutte quelle relazioni d’una o più Deità con una o più altre Deità che si potevano sotto questa specie d’allegoria additare. Così in Esiodo Metis o sia la Dea della Prudenza, prima moglie di Giove, divenuta gravida di Minerva, o sia della Dea della Sapienza, vien da Giove ingoiata, per far uscire dal cranio del gran Padre la sapiente figlia; (789)così Temide o la Giustizia, cioè la Dea che presede alla proporzione e convenienza delle cose, è madre Eunomia che presede alla bontà delle leggi, di Diche che presede al dritto ed all’equità, e d’Irene che presede alla pace. (790) Così la Notte e madre di tutto ciò che vi è d’odioso per gli uomini, come lo sono Nemesis, o sia la Vendetta divina, la Vecchiezza, l’Invidia, la divorante Tristezza, la Discordia, le Parche; è madre di tutto ciò che si fa nell'oscurità, come la Frode e la Maldicenza o sia Nomo; è madre di lutto ciò che accade nella notte, come il Sonno ed i Sogni; è madre finalmente di ciò che risiede nell’occidentali regioni che sono le regioni delle tenebre, come l'Esperidi. (791)

Queste genealogie a questi usi impiegate era natural cosa che venissero cangiate dagli altri poeti e sovente dal poeta istesso che le aveva foggiate, subito che una nuova idea veniva loro in acconcio d’indicare e di nascondere sotto la stessa specie d’allegoria. Così Omero, che non aveva il disegno d’indicare qual luogo avesse occupato Venere nello sviluppo del Politeismo, ma che aveva quello di mostrare la relazione che passava tra Giove, Dionea e Venere, cangia la genealogia d’Esiodo e la fa nascere da queste due Deità. Per una simil ragione egli altera la genealogia di Vulcano e quella di Tifeo; e distrugge la verginità di due Grazie da tutt'i poeti rispettata.

Dell'istesso modo per indicare che dopo le grand'inondazioni o diluvii, a misura che il gran lago, che tutte le cose nascondeva, si ritirava, apparivano tante parti della Natura che furono quindi oggetti di culto, ed apparivano le cose tutte sotto le acque sommerse, l’istesso Omero chiama l'Oceano padre degli Dei e quindi di tutte le cose, e dà a questa Deità una generazione molto più estesa di quella che Esiodo le attribuisce. (792)

Per una simile ragione negl’Inni del supposto Orfeo questa caratteristica vien data alla Notte, la quale vien chiamata Madre degli Dei e degli Uomini, perché in questi funesti disastri dell'umanità le tenebre che avevan dovuto per lungo tempo dominare sulle regioni che ne furono il teatro, a misura che si cominciavano a dileguare manifestavano gli esseri che furono oggetti d’adorazione e di culto, e facevano riapparire gli uomini da questi accidenti separati ed in gran parte distrutti.

Per una simile ragione l’istesso Esiodo che nella sua Cosmogonia, colla quale dà principio alla sua Teogonia, e nella quale confuse o volle confondere qualche antica tradizione di quest’infelice stato di cose colla generazione istessa dell’universo: l’istesso Esiodo, io dico, che in questa parte del suo poema considera, dopo la confusione avvenuta tra le diverse parti della Natura o sia Caos, la Terra, l’Amore, l'Erebo, la Notte, la Serenità, ed i Giorni, tutti come anteriori ad Uranos o sia Celo, (793)perché infatti il Cielo deve essere tra queste cose l’ultimo ad apparire a' miseri mortali che a tali rivoluzioni sopravvissero e che la confusa memoria ne trasmisero; allorché poi vuol presentarci quest’istesso Uranos, o sia Celo nel rapporto che ha colla religiosa istoria della sua nazione, lo considera come Padre degli Dei e degli Uomini, e Dio, unico a regnare da principio, ed estende quindi, come si è altrove osservato, quest’istessa caratteristica di padre degli Dei e degli Uomini a Saturno, figlio di Celo, ed a Giove figlio di Saturno, per indicare e nel tempo stesso nascondere che Celo, Saturno e Giove furono, sebben con progressiva diminuzione d’idea, considerati nulla di meno come l’essere istesso. (794)Dell'istesso modo l’istesso Esiodo che fa nascer dalle gocce del sangue di Celo le Furie, allorché vuol indicare il rapido progresso che, appena introdotto, dovette far il Politeismo, ed il luogo che queste Deità occupavano nel suo sviluppo; le fa nascere, come si è veduto, dalla Discordia, allorché vuol indicare le relazioni che esse hanno con quest’Intelligenza malefica che gli uomini separa e divide. Dell’istesso modo finalmente l’istesso Esiodo che fa nascer dalla Notte le Parche, allorché le vuol presentare come Deità odiose agli uomini; le fa nascer da Giove e da Temide, allorché le vuol presentare come distributrici delle pene e delle ricompense.

Ecco quali furono gli usi che i poeti fecero delle genealogie degli Dei, ed ecco i motivi pei quali le foggiarono, e foggiate le cangiarono come loro piacque. Essi fecero l'istess'uso di questa specie d’allegoria che fecero di tutte le altre. Bastava che il fatto che volevano indicare avesse una remota relazione coll'allegoria che si presentava alla loro immaginazione, per occultar quello sotto i veli di questa.

I primi poeti ne diedero l’esempio. I poeti che venner do po, lo secondarono, estendendo sempre più l’abuso che quelli fatto avevano così dell’allegorico linguaggio, come di tutt’i diversi materiali, de' quali si è parlato. Essi infatti, cioè questi posteriori poeti diedero, al riferir di Pausania, più teste all'Idra di Lerno, (795) ed un occhio solo ed un sol dente alle tre figlie primogenite di Forco. (796) Essi immaginarono i capelli intortigliati di serpenti delle Gorgone loro sorelle, e l'attività micidiale de' loro sguardi. (797) Essi fecero petrificare coloro che quelle guardavano, e misero nelle mani di Perseo il capo di Medusa, per desolare l’isola di Serife, petrificandone gli abitanti, ed il Re, col presentar loro questo capo fatale. (798) Essi attribuirono a' gemiti di queste tre sorelle, combinati coi sibili de' loro serpenti, durante l’attacco di Perseo, l'origine dell'armonia a più capi, da Minerva imitata con un flauto e con questo mezzo agli uomini trasmessa. (799)Essi aggiunsero alla favola,di Bellerofonte il dono del Cavallo Pegaseo da Minerva ricevuto; l’uso che quest’Eroe De fece per combatterla Chimera, e la sua precipitosa caduta, allorché volle col suo soccorso innalzarsi fino a' Cieli. (800)

Essi fecero correr le pietre e costruir Tebe al suon della Lira d’Anfione, (801)e convertirono i Centauri d’Omero in mostri, metà uomini e metà cavalli; (802)essi arricchirono, come l’osserva l’istesso Pausania, (803)La storia di Meleagro e della guerra che seguì la famosa caccia del Cinghiale di Calidon dinuove favole; e prestarono l'istessa mano a quella d’Edipo. (804) Essi estesero fino al punto che si è veduto il ministero d’iride,(805)e fecero con ugual discapito degli Dei apparire ora Giunone sotto le spoglie di Beroe nudrice di Bacco, per disturbare gli amori di Giove con Semele;(806)ora Prometeo per proferire le più esecrabili bestemmie, (807)ed ora Diana per consolare Ippolito moribondo, promettendogli di vendicarlo coll’uccidere di propria mano uno degli amanti di Venere, ecc.(808)

In poche parole così i primi poeti che diedero l’esempio, come i posteriori poeti che lo secondarono ed estesero, fecero, come si è detto, da ogni parte smarrire le vere tracce. della sacra storia, delle patrie religiose opinioni, e moltiplicarono ed infinitamente estesero gli assurdi ed i vizii di questa. già assurda e viziosa religione.

Ciò che avvenne presso i Greci è avvenuto, avviene ed avverrà presso tutte le nazioni, purché da straordinarie circostanze non sia stato, o non sarà alterato o interrotto l'indicato ed ordinario corso del loro religioso sviluppo. In tutte queste nazioni i poeti sono stati e saranno i primi a maneggiare la sacra istoria della loro patria; in tutte queste nazioni con simili materiali essi han dovuto, e dovranno innalzare simili edificii; in tutte queste nazioni dunque la loro simile opera ha dovuto e dovrà produrre simili effetti. Ciò che coi ragionamenti e coi fatti si è. da me provato, basterà, io spero, per convincere chi legge di questa verità.


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PARERE PRESENTATO AL RE

SULLA PROPOSIZIONE
DI UN AFFITTO SESSENNALE
DEL COSÌ DETTO
TAVOLIERE DI PUGLIA

Sire.

In tutti gli Stati, ove i vecchi mali ed antichi errori opprimono il popolo; ove il Governo non ha ancora avuto il tempo da scoprire i primi principii di questi mali, né ha potuto ancora formare un piano di operazioni progressive e concatenate, in modo che l’una serva di apparecchio all'altra per distruggerli; dove, per una conseguenza necessaria di questo stato di cose, la maggior parte delle correzioni, non solo utili, ma necessarie, possono divenir perniciose o ineseguibili, perché isolate e disgiunte dalle altre, operazioni che dovevano precederle e prepararle; in questi Stati ed in queste circostanze le sole novità che si possono senza rischio intraprendere ed eseguire, si riducono a quelle poche operazioni, le quali, senza spezzare e scomporre l’erroneacatena, ne ingentiliscono soltanto alcuni anelli, per renderli meno duri e meno gravosi alla nazione che n’è avvinta. Queste, Sire, sono le nostre circostanze, e di questa natura è l’affitto sessennale del regio Tavoliere di Puglia, che si propone, e sul quale V. M. si degnò ieri l’altro d’impormi di manifestarle per iscritto il mio parere.

Il vasto erbaggio del Tavoliere si affitta oggi da V. M. per un solo anno locali (809) col metodo della professazione; e secondo il nuovo metodo che si propone, l’intero erbaggio si affitterebbe per sei anni all'istessa classe di persone. La natura della cosa non sarebbe dunque cambiata. L’istessa specie di contratto si farebbe coll'istessa specie di contraenti; e tutte le anteriori cause o, per meglio dire, gli antichi errori e gli anteriori vizii delle nostre leggi e della nostra amministrazione, che possono rendere oggi necessario questo uso di questo fondo della Corona, avrebbero col nuovo metodo l'istesso nesso che hanno coll'antico. Non vi sarebbe dunque sconcerto alcuno da temere per questa parte.

Ma vi sarebbe forse qualche bene da sperarne? Per risolvere questa questione con quell'ordine che conviene, bisogna, prima di ogni altro, esaminare se nell’attuale metodo vi sieno de' disordini che verrebbero ad esser diminuiti o distrutti dal nuovo metodo che si propone; bisogna quindi vedere se vi sieno altri beni che potrebbero esser prodotti o preparati da questa, per così dire, impercettibile novità, e bisogna finalmente vedere se gl'inconvenienti che le si attribuiscono, sono veri o immaginarii.

§. I
Primo disordine dell'attuale metodo
La Scommissione

Tra' disordini dell’attuai metodo, il primo che si presenta è la scommissione, cioè la devastazione che si fa dell'erbaggio del Tavoliere prima di esser ripartito. Varie sono le cause che concorrono a produrre questo male nel presente sistema delle cose, e che han reso e rendono inutili tutte le leggi che han cercato d’impedirlo. Le principali sono le seguenti:

I. L’interesse del fisco. Siccome colla professazione ogni locato cerca di acquistare quella quantità di pascolo ch'è proporzionata al bisogno del suo gregge, così quanto meno erba vi è nel Tavoliere, tanto più terreno debb’egli cercare di ottenere, onde tanto maggior numero di pecore dee professare, c, per conseguenza, tanta maggior somma di danaro dee far colare nel regio erario. Quest’istesso calcolo facendosi nell’istesso modo da tutti i locati, in tutti dee produrre l’istesso effetto; onde è che la professazione cresce a misura che l’erba si è diminuita, e la devastazione del Tavoliere, impoverendo i locati, arricchisce il fisco. Come si può dunque sperare che i ministri del fisco, che cercano il favore del principe nel promuovere soltanto i suoi apparenti interessi, impediscano un male, sul quale essi ripongono il loro credito e le loro speranze?

II. Un’altra causa delle scommissioni dipende dal manifesto interesse di coloro che sono impiegati ad evitarla. I cavallari, ciascuno de' quali paga 300 ducati al fisco, per acquistare il dritto di custodire il Tavoliere e partecipare alla multa, alla quale sono condannati coloro che lo scommettono, debbono favorire il delitto per profittare della pena, e debbono cercare di occultarlo per introitare una maggior somma con una transazione che priva il fisco della porzione che gli spetterebbe, ed estende quella del custode che l'occulta.

Gli altri custodi dell'erbaggio del Tavoliere sono i guardiani delle locazioni. Siccome questi non appartengono ad un locato più che ad un altro, ma a tutto il corpo dei locati a quella tale locazione ascritti, così essi non corrono alcun rischio nel far devastare dagli individui della stessa locazione l’erbaggio alla loro custodia affidato; ma vi trovano il grande interesse nel danaro, col quale si compra il loro criminoso consenso. Invece dunque di allontanare, essi invitano i locati alla scommissione.

III. Il bisogno è la terza causa della scommissione. Sovente alcuni locati si trovano nel caso di non aver erba da far pascere alle loro greggi fuori del Tavoliere; sovente l’imminente caduta delle nevi gli obbliga ad abbandonare le vicine montagne; in questi casi il bisogno li costringe a gittarsi nel Tavoliere, e, per conseguenza, a scommetterlo. Or qualunque legge che contrasti colla necessità, non solo è ingiusta, ma inutile; e qualunque pena che sia inferiore all’interesse che vi è nel delinquere, è inefficace.

IV. Un’altra causa finalmente della scommissione è l’emulazione. Allorché una porzione de' locati è già calata nel Tavoliere, e profitta degli erbaggi comuni senza pagarli, perché non ancora ripartiti, gli altri locati, che sarebbero perqualche altro tempo rimasti nei pascoli estivi, si precipitano ancor essi nel Tavoliere, per non abbandonare a quelli il beneficio, e riserbarne per essi il solo peso. Tutte le greggi, dunque, piombano nel Tavoliere quasi ad un tratto, e prima del tempo; le montagne rimangono deserte quando abbondano ancora di erbaggi, e quando la stagione permetterebbe ancora di profittarne, ed intanto gli erbaggi del verno son devastati nell’autunno; ed il Tavoliere divenendo così più insufficiente al nutrimento delle greggi, gli erbaggi de' privati proprietarii acquistano quel prezzo che gli ha indotti a convertire in pascoli quei campi che la natura, in preferenza a tutti gli altri dell'Italia, ha prescelti per manifestare la sua ubertà nella produzione de' grani.

Sire, tutte queste cause della scommissione sarebbero distrutte dal nuovo metodo che si propone.

I. Il fisco non avrebbe più alcun interesse nel tollerarla o promuoverla, perché il prodotto dell’effetto non dipenderebbe più dall'accidentale scarsezza o abbondanza dell'erbaggio del Tavoliere, quando questo si desse in affitto per sei anni, e si ripartisse fin dal primo anno, allorché le pecore son già per ritirarsi nelle montagne.

II. I cavallari più non esisterebbero.

III. I guardiani delle locazioni verrebbero sostituiti dai guardiani de' locati.

IV. Il bisogno che potrebbe obbligare alcuni locati a calare nel Tavoliere prima del tempo, li condurrebbe nel proprio erbaggio, del quale farebbero uso con quell’ordine e con quell’economia che il proprio interesse richiede, e non gli obbligherebbe più a devastare il Tavoliere, errandovi alla confusa come i Tartari, e presentando nella vecchiezza della società l’immagine della sua infanzia.

V. Finalmente l'emulazione più non avrebbe luogo, quando i locati che fossero i primi a calare, non occupassero altro erbaggio che il proprio; i pascoli delle montagne non sarebbero più abbandonati prima del tempo; la Puglia potrebbe con una minor quantità di terreno consacrato a pascolo sostentare l’istessa quantità di pecore; e, per conseguenza, i primi erbaggi, perdendo una parte del loro valore, sarebbero in parte restituiti all’agricoltura, dalla quale, per una conseguenza dell'antico metodo, sono stati sottratti.

Ilprimo disordine, dunque, inerente all’antico metodo, sarebbe con tutte le sue funeste appendici riparato nel nuovo.

§. II
Secondo disordine dell'attuale metodo
Sproporzione tra il possedibile ed il professato delle diverse locazioni

Dal coacervo che si è fatto dell'ultimo sessennio, si rileva che alcune locazioni han professato fino a dieci volte più del loro possedibile; altre hanno anche di molto ecceduto il possedibile, ed altre han professato un numero di pecore presso a poco uguale al possedibile. Il possedibile di una locazione è quella quantità di pecore che l’erbaggio a quella locazione assegnato si è creduto esser atto a nutrire. Dunque l’istesso beneficio si è pagato in alcune locazioni molto più caro di quello che si è pagato in altre locazioni.

Questo disordine, inevitabile nel metodo della volontaria professazione, nel quale l’accordo e il dissenso de' locati di ciascheduna locazione produce la bassa o l’alta sua professazione, sarebbe interamente corretto nel nuovo metodo, nel quale il prezzo dell'affitto generale del Tavoliere sarebbe ripartito nelle diverse locazioni a seconda del loro effettivo e relativo valore.

§. III
Terzo disordine dell'attuale metodo
Sproporzione tra il beneficio ed il carico de' diversi locati

Per conoscere la natura delle cause, sovente conviene esaminare la natura degli effetti. Vediamo dunque quali effetti può produrre e produce in fatti il nuovo metodo della volontaria professazione, nella sorte degl'individui che professano. Ogni locato ascritto ad una locazione ha il dritto di professare quel numero di pecore che vuole. Questa dichiarazione è segreta è occulta, si fa all’orecchio del presidente della dogana, e le tenebre della notte sono anche adoprate per aumentare il mistero. Terminata la professazione, si sommano tutte le professazioni che in ciascheduna locazione si sono fatte da' locati a quella locazione ascritti.

Supponiamo, ciò che spesso avviene, che la professazione di una locazione sia dieci volte maggiore del suo possedibile. In questo caso ciaschedun locato non potrà collocare nell'erbaggio della locazione che la decima parte delle pecore che ha professate; ed egli dovrà pagare al fisco per questa decima parte di pecore, che si chiamano del possedibile, una contribuzione alla ragione di 132 ducati a migliaia di pecore, e per le altre nove parti che ha professato, alla ragione di ducati 32 a migliaio. In questa posizione di cose, supponiamo che vi sieno quattro locati in queste locazioni, il primo de' quali,. avendo mille pecore, ne abbia professate diecimila; il secondo, che avendo anch'egli mille pecore, ne abbia professate cinquemila; il terzo, che avendo duemila pecore, ne abbia professato soltanto il doppio, cioè quattromila; ed il quarto, che non avendo menata neppure una pecora in Puglia, profittando del dritto che ha, ne abbia professato cinquantamila. Vediamo quale sarebbe la diversa sorte di questi locati.

Il primo locato che ha mille pecore viventi e che ne ha professate diecimila, dovrà pagare per lo possedibile, o sia per la decima parte delle pecore che ha professate, e che può collocare nell’erbaggio della locazione, ducati 132, e per le altre novemila pecore che ha professate, alla ragione di 32 ducati a migliaio, altri 288, in tutto ducati 420; e mediante questa spesa si troverà di aver collocate tutte le sue mille pecore nell'erbaggio della locazione.

Il secondo locato che ha anche mille pecore, e che ne ha professate cinquemila, dovrà pagare per lo possedibile, o sia per la decima parte delle pecore che ha professate, e che può collocare nell’erbaggio della locazione, ducati 68, e per le altre quattromila e cinquecento, alla ragione di 32 ducati a migliaio, altri ducati 144. In tutto pagherà dunque al fisco ducati 210. Ma questo locato, pagando questa somma al fisco, non colloca nella locazione se non la metà delle sue mille pecore, e gli resta il carico di collocare le altre cinquecento negli erbaggi de' particolari a prezzo molto più caro, giacche in questi erbaggi per ogni cento pecore si debbe almeno pagare ducati 80; sicché questo secondo locato, per somministrare il pascolo alle sue mille pecore, dee per lo meno spendere ducati 610.

Il terzo locato, che ha duemila pecore, e che ne ha professato soltanto il doppio, cioè quattromila, otterrà l’erba nella locazione per le sole quattrocento pecore, decima parte della quantità professala, e per queste quattrocento pecore di possedibile, alla ragione di ducati 132 a migliaio, e per le altre tremila e seicento, professate alla ragione di ducati 32 a migliaio, dovrà pagare in tutto al fisco ducati 171, 20; ma per le altre mille e seicento pecore viventi, che dee collocare fuorI della locazione, dovrà comprare almeno altri 1280 ducati d’erbe baronali; sicché costui per duemila pecore viventi, sarà costretto a pagare in tutto almeno ducati 1451, 20.

Il quarto locato, finalmente, che non ha neppure una sola pecora in Puglia, ma che ne ha professate cinquantamila, acquista il dritto nella locazione per una quantità di erba proporzionata alla decima parte delle pecore professate, vale a dire, per cinquemila pecore. Egli si transige allora co' locati. Fa loro pagare la considerabile somma che debbe al fisco, se ne fa dare un’altra anche considerabile per sé, e cede loro l’erbaggio che gli apparterrebbe, ma che gli sarebbe inutile se gli rimanesse, perché non ha pecore da collocarvi. Questo è un riscatto che si fa coll'autorità delle leggi, é sotto la loro protezione.

Il primo locato, dunque, per provvedere di pascolo le sue mille pecore, spenderà………………………………………... Ducati

400

Il secondo per l'istesso numero di pecore, spenderà …..

610,20

Il terzo per duemila pecore, spenderà………………………..

1451,20

Il quarto locato, finalmente, senza avere neppure una pecora in Puglia, ritornerà in sua casa con un considerabile guadagno che fa unicamente all'altrui rovina.

Se si paragona poi la sorte di un locato di questa locazione con quella di un altro locato di un’altra locazione, la professazione della quale o non ha ecceduto (810) o ha ecceduto di poco il possedibile, si troverà una differenza anche più sorprendente, giacché dové uno dei locati della prima locazione per provvedere di erbaggio le sue duemila pecore ha dovuto spendere………………………………….Ducati

1451,20

Il locato della seconda locazione per l’istesso numero di pecore, spenderà poco di più.………………………………………..

264

Il primo, dunque, per ogni pecora spenderà grana 72, 7/12, ed il secondo per ogni pecora grana 13, 2/12. Dunque, posta l'eguaglianza di tutti gli altri dati, il secondo avrà sul primo un vantaggio dell'81,34 per 100.

Questo calcolo, Sire, ch'è fondato sopra dati che di continuo si verificano in Puglia, basterà per manifestare alla M. V. la diversa sorte che possono correre, e che corrono in fatti, i locati della vostra dogana di Foggia, per una conseguenza inevitabile dell'attuale metodo della volontaria professazione. Or questo strano disordine verrebbe interamente abolito nel nuovo metodo che si propone. In questo, come si è veduto, il prezzo generale del Tavoliere verrebbe ripartito nelle diverse locazioni a seconda del loro effettivo e relativo valore; e l’erbaggio di ciascheduna locazione verrebbe ripartito a' locati a seconda dell'effettivo e relativo numero delle loro pecore, e, per conseguenza, in ciaschedun locato il carico verrebbe ad essere ugualmente proporzionato al beneficio che gli si somministra.

§ .IV
Quarto disordine dell'attuale metodo
Mortalità dei pastori e delle greggi

Per un’altra conseguenza dell’attuale metodo, pascolandosi, come si è veduto, il Tavoliere di Puglia alla rinfusa prima del ripartimento, e non potendo i pastori costruire le loro capanne ed i ripari per le loro pecore, se prima non venga loro assegnato il terreno che debbono occupare, ne avviene che i pastori e le pecore restano dal principio di novembre sino alla fine di dicembre esposti a tutti i rigori del cielo, e privi di quei comodi e di quei ricoveri che sono necessarii per garantir gli uni e le altre dalle malattie e dalla morte. Questo disordine, che desola tante famiglie, che impoverisce tanti focati, che cuopre in ogni anno di lutto gli alpestri villaggi dell’Abbruzzo, e fa spargere torrenti di lagrime alla parte la più abbandonata e la più laboriosa de' vostri sudditi, sarebbe prevenuto nel nuovo metodo; giacche ogni locato, avendo la sua porzione di erbaggio fissa e permanente per l’intero sessennio, potrebbe anticipatamente costruirvi le capanne, i ripari e tutti quei ricoveri che servono per l’agio de' pastori e per la sicurezza delle greggi.

§. V
Quinto disordine dell'attuale metodo
L’avvilimento della sovranità

Nel mentre che il padre del popolo edifica colle sue virtù, soccorre colle sue provvidenze, rassicura colla sua giustizia tutti i sudditi del suo impero, nell’istesso tempo i vizii delle leggi che egli non ha fatte, gli abusi dell’amministrazione ch'egli non ha introdotti, ed il falso zelo de' ministri che nonha potuto conoscere, oscurano sovente nelle provincie la sua gloria, prostituiscono la sua dignità, e renderebbero fino odioso il suo nome, se le virtù di un re potessero essere ignote al più lontano abitatore de' suoi dominii.

Sire, questo vero delitto contro la sovranità in niuna parte dello Stato si commette tanto abitualmente, quanto in Puglia. I ministri della dogana, eccettuali quelli che si regolano co' principii di una morale più rigida, per evitar le frodi de' locati, ne fan commettere a V. M. Tutto ciò che le speculazioni di un mercadante astuto e di mala fede possono suggerire alla sua avidità, è stato praticato, ed oggi più che mai si pratica da alcuni ministri della dogana, per ottenere una professazione alta, e per ritrarre dai fondi della pastorizia il massimo guadagno per lo fisco. È vero che senza questi sotterfugi la rendita della dogana diminuirebbe considerabilmente; ma questo riguardo, senza legittimare la loro condotta, non fa che manifestare il vizio dell'attuai sistema. Ora ii nuovo che si propone, assicurando a V. M. l'istesso introito, le risparmierebbe la vergogna ed il rimorso di questi mezzi. Non vi sarebbe alcun bisogno di cabale, d’intrighi e di frodi, quando V. M. dicesse a' locati: IJ erbaggio del Tavoliere mi he reso tanto in sei anni, io voglio altrettanto da voi esigerne nel futuro sessennio, ecc. Questo contratto sarebbe pubblico, manifesto, chiaro; non vi sarebbero collisioni da evitare, né frodi da commettere per garantirsene. Questo solo disordine evitato, basterebbe per render prezioso il nuovo metodo, quando anche non prevenisse tutti gli altri disordini, dei quali si è parlato.

§. VI
Vantaggi del nuovo metodo

Il principale tra questi mi pare che sia l'adito che questo nuovo metodo darebbe alla ceduazione del Tavoliere. Gli ostacoli che V. M. ha incontrati in questa operazione, ch'è stata più volte proposta, sono, che l'Abbruzzo potrebbe perdere il rifugio per le sue greggi, che gli Abbruzzesi potrebbero rimanere esclusi da questo acquisto, che i potenti sarebbero forse i soli ad impadronirsene. Or questi rischi non avrebbero più luogo, quando dall’affitto sessennale si passasse alla censuazione. Siccome il Tavoliere verrebbe con questo affitto ad esser distribuito così ai poveri come ai ricchi, così agli Abbruzzesi come ai Pugliesi, convertendosi il contratto di affitto in quello di censuazione, gl’istessi individui che verrebbero oggi ad aver parte all'affitto, parteciperebbero allora alla censuazione. V. M. non dovrebbe far altro allora che transigersi co' proprietarii della statonica, cioè dell’erba estiva; abolire tutte le leggi proibitive che oggi esistono in Puglia, dové ha ciascheduno il dritto di fare quell'uso che vuole del suo terreno, per trasferirne tutta la proprietà ai nuovi censuatarii, e per esperimentarne i salutari effetti, i quali comincerebbero col popolare la Puglia, e terminerebbero col migliorarne il clima istesso.

L’altro vantaggio del nuovo metodo sarebbe quello di assicurare a V. M. non solo il prodotto del sessennio più ricco che vi sia mai stato, ma anche un beneficio almeno di annui ducati 34,000 di più. (811)

Questo beneficio verrebbe anche aumentato di un’altra considerabile quantità, quando V. M. si degnasse di concedere ai locati la grazia che le han chiesto per mezzo dei loro deputati, di avere altri 10,000 tomoli di sale alla ragione di carlini 24 a tomolo. Oggi i locati o non comprano questo sale, o l’acquistano in contrabbando. Nell’uno e nell’altro caso V. M. nonlo vende. Dnnque i 14,000 ducati che introiterebbe, saprebbero un avanzo di più sulle rendite della pastorizia, ed un beneficio per i locati che lo chieggono.

§. VII
Inconvenienti che si attribuiscono al nuovo metodo che si propone

Si crede che la ripartizione stabile del Tavoliere, noi? lasciando a' locati la libertà di scegliere né quella qualità néquella quantità di erbaggio che la natura variabile della loro industria richiede, potrebbe nuocere invece di giovare all'industria stessa ed a' locati che l’esercitano. A questa obiezione si risponde, che i locati conoscono sicuramente meglio i loro bisogni, che non li conosce l’oppositore che se n’è assunta la tutela, ed i locati son quelli che han chiesto a V. M. l’affitto sessennale del Tavoliere. Si risponde ancora, che l’industria come varia in un locato, così varia in un altro; e che se un locato abbonderà di una qualità d’erba che non gli è utile, e mancherà di quella qualità che gli bisogna, in un altro locato avverrà l’opposto, ed allora l’uno o cangerà le sue pecore coll'altro, o permuterà coll’altro la sua erba.

Riguardo poi alla quantità, o cresce la quantità totale delle pecore de' locati, o cresce questa quantità negli uni e si diminuisce negli altri. Nel primo caso, in tutti i metodi possibili che si possono immaginare, non vi è che un solo espediente da prendere: portare fuori dello Stato o al macello le pecore, alle quali manca il pascolo. Nel secondo caso i locati, ai quali si sono aumentate le pecore, o compreranno l’erbaggio che supera a coloro, ai quali sono mancate, o venderannoa questi l’eccedente numero delle loro pecore. Il bisogno di vendere e quello di comprare essendo ugualmente forte, l'equilibrio ritornerà da se medesimo, purché il Governo non se ne mescoli.

L’altra obbiezione che si fa, è circa il ripartimene de' pascoli pe’ locati. Ma se colui che ha fatta questa obbiezione avesse preveduto gli espedienti che il Consiglio ha presi per regolare l’uno e l’altro, non avrebbe fatto, o non avrebbe sicuramente dovuto fare questa obbiezione. Nel parere del supremo Consiglio delle finanze, a V. M. umiliato, sono indicati questi espedienti; onde credo inutile il ripeterli.

§ Ultimo

A tutte queste riflessioni non mi resta che una sola cosa «da aggiugnere per manifestare alla M. V. tutti i miei sentimenti con quella confidenza che m’ispira la sua giustizia, e con quella franchezza che esigono i miei principii e i miei doveri. L'affittosessennale, del quale si sono mostrati i vantaggi, è stato insinuato per ordine di V. M. a' locati, ed è stato da essi richiesto in un particolare lor parlamento, convocato per ordine di V. M. e tenuto alla presenza de' suoi Ministri. In questo parlamento si sono manifestate le condizioni, colle quali V. M. sarebbe venuta a questo affitto; in questo istesso parlamento si sono per ordine di V. M. eletti i deputati che dovevano in nome della generalità de' locati trattare l’affare., Molte carte, che portano l’augusto nome di V. M., non permettono di dubitare della risoluzione già presa in favore del nuovo metodo. Dopo tutti questi passi, mi pare che non vi sarebbe che un solo caso, nel quale V. M. potrebbe recederne, senza compromettere la sua sovrana dignità, cioè quando i locati non volessero accedere alle condizioni proposte loro in nome della V. M.

Ecco quanto, in esecuzione de' sovrani comandi di V. M, ho creduto mio dovere di rassegnarle; mentre umiliato a' piedi della M. V., con profondissimo inchino mi rassegno

Di V. M.

Napoli, 30 marzo 1788.

Fedelissimo Vassallo

Gaetano Filangieri.


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ESTRATTO DELL'OPERA DI G. PLAYFAIR

DIRETTO
AL MARCHESE D. T,
An Essay on the national Debt. London, 1787,
LETTERA DEL CAVALIERE FILANGIERI
AL MARCHESE D. T.

Caro Amico,

Ho il dispiacere di non potervi mandare l'opera dePlavfair, che mi chiedete con tanta avidità. È più di un mese da che la restituii al cavaliere Hamilton. Cercherò di riaverla. Intanto, per soddisfare alla vostra curiosità, vi mando l’estratto che ne feci per uso mio. Il libro è scritto coi sani principii della pubblica economia. Se vi è da notare qualche difetto, è che l'autore, dopo di aver dipinto coi colori più tetri le possibili conseguenze del debito nazionale della Gran Bretagna, conchiude con approvare il fondo di ammortizzazione, di un milione di lire sterline, che nell'anno scorso fu stabilito da quel Parlamento, e di cui tanto parlai con voi e con P.... in una sera dell'inverno passato, lo non ho potuto comprendere il nesso di un ragionamento così singolare. Qualunque cosa però egli dica io sono rimasto fermo nella mia idea, e continuo a riguardare quel nuovo fondo di ammortizzazione puramente destinato ad illudere il popolo e ad aumentare l influenza del Governo. Se le amministrazioni passate hanno in ogni occasione dissipato con prodigalità il patrimonio della posterità, come si può credere che le future risparmieranno i tesori che sono nelle loro mani? Subito che scoppierà una nuova guerra, i risparmii del fondo di ammortizzazione saranno i primi ad essere impiegati nei bisogni dello Stato.

Per somministrarvi degli altri pensieri relativi all'istesso oggetto, ho fatto trascrivere dal mio zibaldone un interessante articolo del famoso Riccardo Price nelle sue Osservazioni sull’importanza della rivoluzione d'America, che troverete qui unito. Addio, caro amico. Lasciate per qualche giorno la capitale e venite a trovarmi. La mia salute non è in buono stato. Quella di mia moglie e dei figli è ottima. Roberto è come un fiore. Venite. Ho molte cose a dirvi. Sono con inviolabile attaccamento

Vico Equense, 14 giugno 1788.

Ilvostro Filangieri.

I

Presso le antiche nazioni era costante il costume di provvedere in tempo di pace ai bisogni della guerra; e di accumulare ricchezze nel pubblico tesoro, come mezzi sicuri di conquista e di difesa. Nel breve intervallo, che passò tra la guerra di Persia e quella del Peloponneso, gli Ateniesi ammassarono nella cittadella più di diecimila talenti. Appiano Alessandrino, il quale aveva consultato i pubblici registri, assicura che i tesori raccolti dai Tolomei ascendevano a settecento quarantamila talenti, o sia più di dugento milioni di lire sterline. Gli antichi istorici descrivevano le immense ricchezze, di cui s’impadronì Alessandro nella presa di Susa e di Echatana, e di cui una porzione era stata conservata fin dai tempi di Ciro. Gli Spartani, ai quali le leggi proibivano di accumulare numerario, avevano, ciò non ostante, un pubblico tesoro molto ben fornito. Anche le antiche repubbliche delle Gallie, secondo Strabone, avevano comunemente in«erbo delle grandi somme. Giulio Cesare, allorché entrò in Roma in tempo delle guerre civili, vi trovò considerevoli tesori; e quegl’imperatori successori, presso i quali la saviezza avea qualche luogo, diedero esempi di prudente economia, riservando sempre una quantità di numerario per sovvenire ai bisogni dello Stato.

Ma nei tempi moderni tutto ha cambiato di aspetto. Invece di tesorizzare per l’avvenire, il costume si è introdotto presso le nazioni europee, d’impegnare le rendite pubbliche, e di legare alla posterità i debiti contratti dagli antenati, il secolo presente segue l'esempio di quello che lo ha preceduto; e finalmente la necessità ci ha forzato d’impegnare finanche le proprietà pubbliche, e di consumare le rendite, e dissipare il patrimonio dei nostri discendenti.

Non è necessario che la ragione faccia di grandi sforzi per comprendere le conseguenzé funeste e certe che debbono risultare da questo sistema politico, poiché la stessa analogia regna tra glijndividui e gli Stati,zallorché essi son prossimi ad un fallimento.

Ma, indipendentemente dal ragionamento o dalla accennata osservazione, l’esperienza dei tempi passati dee convincerci che l'uso d’ipotecare le rendite pubbliche ha successivamente ndebolito tutti gli Stati che l’hanno adottato. Le repubbliche 4’ Italia hanno somministrato il primo esempio di quest'uso, al quale molli possono attribuire la loro ruina. Genova e Venezia, le sole che abbiano conservato una esistenza in qualche maniera indipendente, se ne sono trovate a lungo andare indebolitissirne. La Spagna adottò quest'uso ad esempio delle repubbliche italiane, ed in proporzione della sua forza naturale essa s’indebolì tanto maggiormente, quanto era più viziosa l’imposizione e la ripartizione de' suoi tributi. Il debito nazionale della Spagna si, accrebbe ad un punto considerevole prima della fine del XVI secolo, cento anni prima che cominciasse ad esistere un debito pubblico in Inghilterra. La Francia, non ostante la sua fertilità e le sue prodigiose risorse naturali, languisce oggi sotto l’oppressione dell’istesso peso. La repubblica delle Provincie Unite si trova tanto oppressa ed indebolita da' suoi debiti, quanto lo sono Genova e Venezia. La Gran Bretagna, quantunque abbia cominciato tardi, ha fatto dei rapidi progressi in siffatta carriera, ed ha anche contralto di quegli enormi debiti che opprimono ora, e che mineranno in fine tutte le grandi nazioni dell’Europa.

Il debito pubblico della Gran Bretagna e l'uso pernicioso d'ipotecare a perpetuità le rendite, cominciarono ai tempi della rivoluzione, e pongono in dubbio se la infelicità che minaccia il regno non possa cancellare i benefizii che esso ha ritratto da quell’avvenimento. Non fu la necessità del momento che fece ricorrere a questo mezzo, ma fu un piano i regolare di politica, adottato sopra i principii dell'Olanda, per attaccare gl’individui alla nuova forma di governo ch'ebbe luogo nell’abdicazione del re Giacomo. Alla conclusione della guerra che cominciò l'anno della rivoluzione, e che finì col Trattato di Riswich nel 1697, il debito della Gran Bretagna, ipotecato e non ipotecato, giungeva a ventun milione e mezzo. Ma come la maggior parte di questo debito era stato contratto con brevi anticipazioni, e sopra rendile vitalizie, in meno dr quattro anni più di cinque milioni furono restituiti; e questa restituzione è la maggiore che siasi veduta in un periodo così breve.

Nel corso della guerra che cominciò nel 1702, il debito pubblico si accumulò sempre di più; e alla conclusione del Trattato di Utrecht montava a cinquantatré milioni seicento ottantun mila lire sterline. Nel corso di una pace profonda di 17 anni, non ne furono rimborsati che otto milioni.

Alla conclusione della guerra colla Spagna e colla Francia, che cominciò nel 1739, e finì l’ultimo giorno del 1748, il debito nazionale fu portato alla somma di 78,293,000 lire sterline; ed in quella che scoppiò nel 1755, il debito pubblico, ipotecato e non ipotecato; montava a 139,500,000 lire sterline. Non ne furono rimborsati che otto milioni nei sette anni di pace che seguirono; e nel corso della guerra dell’America, la quale non durò che sette anni, si contrasse un nuovo debito di 120 milioni.

Questo quadro fedele dell’origine e dei progressi del debito nazionale conduce l'autore a giudicare da ciò ch'è avvenuto, di quello che dovrà avvenire. Ih ogni guerra dopo la rivoluzione le spese hanno aumentato gradatamente, ed al contrario, i rimborsi in tempo di pace hanno diminuito. È molto probabile che le guerre future saranno sempre più dispendiose. finché la Gran Bretagna continua a prender parte nel sistema politico d’Europa, finché ritiene possessioni straniere e lontane, un impero in Asia, stabilimenti nell’Indie Orientali, le operazioni della guerra sopra un teatro così esteso non possono valutarsi meno di dodici milioni di lire sterline in ogni anno. '.

E come le guerre, in qualunque modo comincino, sono sempre vantaggiose per taluni individui, è cosa ben rara che le stesse si terminino nel periodo di sei o sette anni. È dunque probabilissimo che il fuoco della guerra non potrebbe accendersi nuovamente senza che l’Inghilterra non venisse obbligata a formare un nuovo debito di 70 o di 80 milioni di lire sterline.

Ecco come l’autore spiega la maniera, colla quale un accrescimento di debito pubblico affetta la nazione, e le conseguenze che ne debbono probabilmente risultare. «Forse, egli v dice, il miglior metodo di trovare come il debito affetta la nazione sarebbe quello di considerare il popolo in generale come diviso in due classi, una di gente industriosa e l’altra di oziosi; di riflettere che ogni aumento di debili produce da se stesso un aumento nel numero degli oziosi; ed ognuno con verrà che questi vivono sui travagli ed a spese della classe industriosa: finalmente, di osservare che fino a che la pro porzione tra queste due classi è tale che il carico imposto sugl’industriosi non sia troppo pesante, potrà forse agire in modo da eccitare maggiormente l’industria. Ma quando i carichi pesano al di là della proporzione che la natura delle cose è in istato di soffrire, allora l’industria sarà calpestata, il commercio col forestiere fuggirà da noi, cadremo ben presto nella povertà e nel niente, e non saremo più che una nazione senza industria, senza forze e senza considerazione in Europa.

Questa disgrazia è senza dubbio la più terribile che un gran debito nazionale possa cagionare; e perciò è ugual mente la più lontana di quelle che possiamo temere. Una rivoluzione del Governo è l’avvenimento il più verisimile che i carichi troppo pesanti faranno nascere; poiché subito che la distruzione comincierà necessariamente a far delle rovine, gl'industriosi e la classe del basso popolo ne sen tiranno più fortemente gli effetti; e questi in Inghilterra, come da per tutto altrove, sono i più numerosi, ed in conseguenza, quando lo vogliono, i più forti. Allorché questi vedranno che vanno a soccombere sotto un peso che non hanno più la forza di sopportare, egli è probabile che rifiuteranno di pagare gl'interessi di un debito enorme che essi non hanno formato, e che gli opprime per risparmiare 5 l'ozioso e l’infingardo.

L’idea di una perfetta uguaglianza di ranghi, quantunque rigettata dalle persone di buon senso, a cagione dell’impossibilità della sua esistenza, non è stata mai intera mente sbandita dallo spirito umano. È dessa che forma il primo principio, sul quale le idee del bene, del male e della 5 libertà sono fondate; è dessa che restringe il potere e che gli dice, almeno in Inghilterra: fino a tal punto puoi andare, e non più lungi; è dessa che fa che gli uomini abborriscano ciò che credono ingiusto; è ad essa finalmente che noi siamo debitori della costituzione libera, di cui go diamo.

Egli è certamente dovere e giustizia il pagare i debiti che hanno contratto i nostri antenati, ma ciò si intende fino al punto, in cui tali debiti si trovano bilanciati coll’eredità che i medesimi ci hanno lasciato, sia che questa eredità consista nella ricchezza, sia che consista nella libertà. 5 Ma quando superano questi limiti, non vi è ombra di giustizia a pagarli; e quantunque l’abitudine faccia accostumare gli uomini a portare dei carichi, che l’inclinazione cercherebbe naturalmente di scuotere, pure l’abitudine non lo fa che fino ad un certo punto; ed al momento che vi è dell’eccesso, i sentimenti ed i primi principii di giustizia riprendono il di sopra. In fatti, noi l'abbiamo ereditata la libertà dai nostri antenati, e l’ultimo dei contadini ne ha la sua porzione. Questo però è tutto il suo appannaggio. I suoi travagli, le sue fatiche, il sudore della sua fronte fu rono impegnati prima ch'egli fosse nato. Egli entra in un mondo, dové molti vivono nella comodità e nell’abbondanza, di cui egli si trova privo. Non gli appartiene nemmeno un pollice di quelle fertili pianure che lo circondano, nemmeno un solo pezzo di pane che esse producono. Le pene, le vi gilie, le cure, sono il suo patrimonio; ma i frutti del suo travaglio non appartengono a lui. Il disordine dei tempi passati lo ha caricato di debiti, ed egli non ha nemmeno la dolce consolazione di riflettere che questi debiti furono con tratti per comprare la sua libertà, o che essi sono impiegati per conservarla. Prima che il debito esistesse, la costituzione libera fu stabilita dai difensori della patria dell'ultimo secolo, i quali l’hanno trasmessa alla loro posterità come un patrimonio libero da qualsivoglia peso. Ora il prezzo in gran parte di tutto ciò che l'industria può produrre deve essere impiegato non nell’amministrazione della giustizia, dnon al sostentamento dello Stato, ma al mantenimento di una nuova specie di uomini che hanno una proprietà ideale ne' fondi; uomini che, senza essere la più utile, sono la parte più opulenta del genere umano; uomini finalmente, che senza cure e senza pene godono di tutti i favori della fortuna.

Qualunque sieno gli argomenti che lo spirito o l'interesse possono suggerire; per quanto sia complicata la maniera, colla quale il debito nazionale agisce sopra talune classi della società, sempre questa maniera affretterà sol tanto i coltivatori ed i contadini, le di cui mani utili produ cono quell'opulenza, alla quale essi non hanno che una così piccola parte, ed i quali, quantunque ridotti alla condizione la più servile tra i sudditi, sono intanto i più numerosi, i più potenti, ed anche i più in istato di dare la legge, se Io vogliono.

Noi abbiamo veduto, nel ristretto spazio di poco più di sette anni, l’industria del nostro paese tassata a più di 19,000 lire sterline per ogni giorno di lavoro; e cinquant’anni dovranno passare, finché essa sarà alleggerita da que sto peso. Prima di questo tempo, gli occhi della maggior parte del popolo che ora travaglia, saranno chiusi per sem pre. Siccome passerà molto tempo prima che noi possiamo rimborsare i debiti già contratti, vi è tutto il luogo di credere che in questo intervallo noi saremo nel caso di farne dei nuovi, e, per conseguenza, che i nostri nuovi pesi aumenteranno sempre. E se essi continueranno ugualmente a crescere per cinquant’anni di seguito, il tempo in cui la nostra pazienza sarebbe spossata, giungerebbe prima che i soccorsi attesi dai fondi di ammortizzazione venissero a sollevarci. Allora l'anarchia e la confusione prenderebbero luogo; ed insieme col debito pubblico andrebbe ad estinguersi e l’attuale governo e l'autorità del parlamento. Un peso che si aumenta incessantemente, o dee rompere le reni di chi lo porta, o debb’essere gittato.

II

L’articolo del debito nazionale tratto dal libro di Riccardo Price, intitolato: Osservazioni sull'importanza della rivoluzione d’America, e sui mezzi di renderla utile al mondo.

Sembra evidente che il primo oggetto che deve occupare gli Stati Uniti, è l’abolizione del loro debito nazionale. Il loro credito viene di nascere. Se essi non lo conservano, se essi non lo estendono; la sua caduta è certa, e la loro riputazione, il loro onore nazionale non può non cadere insieme con esso.

Felicemente è una cosa facile il mantenerlo. Gli Americani hanno grandi risorse interne e territoriali in un vasto Continente che possiede tutti i vantaggi del suolo e del clima, e che contiene una moltitudine di terre non concedute. Gli stabilimenti vi saranno rapidi ugualmente che l’aumento del loro valore. Se gli Stati Uniti ne dispongono in favore delle truppe e degli emigrati, ben tosto la più gran parte del debito nazionale sarà estinta. Ma qualora essi non avranno questa risorsa, essi possono sopportare delle imposizioni sufficienti per estinguerlo gradatamente. Supponendo che i loro debiti giungano a nove milioni di lire sterline, le quali portano un interesse di cinque e mezzo per cento, un’imposizione di un milione sarebbe bastante a pagare questo interesse, ed a fornire in ogni anno un eccedente di un mezzo milione per una cassa di ammortizzazione, che estinguerebbe il capitale in quindici anni. Un eccedente di un quarto di un milione farebbe lo stesso in venti anni e mezzo. Estinto il capitale, non essendo più necessaria l’imposizione, se ne potrebbe alleggerire il peso, ma sarebbe imprudente di abolirla interamente. Centomila lire sterline, riservate annualmente, e religiosamente impiegate a dissodare le terre non concedute, e ad altre migliorie, diverranno in poco tempo un tesoro o piuttosto un patrimonio continentale che potrebbe bastare a tutte le spese della Confederazione, e che preserverebbe per sempre gli Stati particolari dai debiti e dalle tasse(812)

Un tal fondo, nella supposizione che, facendolo calere, se ne ritirasse il cinque per cento, formerebbe un capitale di tre milioni sterlini in diciannove anni, di trenta milioni in cinquantasette anni, di cento milioni in ottantun anno, di duecentosessantun milioni in un secolo; e se si pervenisse a fargli produrre un interesse di dieci per cento, monterebbe a cinque milioni in diciannove anni, a cento milioni in quarantanove anni, e diecimila milioni in novantasette anni.

Egli è incredibile che non si possa citare un solo Governo che abbia pensato a un mezzo così semplice di aumentare la sua grandezza e le sue ricchezze. Il più leggiero fondo d’ammortizzazione, se è fedelmente rispettato, influisce sull'abolizione de' debiti, come l'interesse dell'interesse sull’accrescimento del capitale nel commercio del danaro. Una tale riserva è dunque una speculazione della più alta importanza. (813)

Ma se il Governo si permette di disporre di siffatti fondi, tutto è rovinato. L’Inghilterra ne somministra un tristo esempio. I fondi della cassa di ammortizzazione, in altri tempi unica speranza del regno, per essere stati alienati, sono divenuti inutili ed impotenti. Se essi fossero stati impiegati all’oggetto, al quale erano stati destinati, avrebbero nel 1775 aumentato la rendita dello Stato di più di cinque milioni all'anno. Invece di ciò, la nazione era allora schiacciala da un debito di centotrentasette milioni, che portava un interesse di circaquattro milioni e mezzo, e che non lasciava alla rendita dello Stato che un eccedente di poca importanza. Questo debito si è accresciuto dopo, fino alla somma di duecentottanta milioni, che porta un interesse di nove milioni e mezzo, se vi si aggiungono le spese di amministrazione. Qual errore mostruoso!

Se non s’impiegano mezzi per minorare questo debito terribile, in modo da diminuire le pubbliche inquietudini, ne risulteranno presto o tardi, ma infallibilmente, delle orribili convulsioni.

Questo esempio memorabile serva pure di lezione agli Stati Uniti! I loro debiti attuali non sono enormi. Una cassa di ammortizzazione, esente da qualunque malversazione, può ben presto estinguerli, e divenire in seguito una risorsa sicura nelle occasioni le più importanti. Si stabilisca pure questo fondo, si rispetti come l’Arca del Signore era rispettata presso i Giudei, e gli Americani ne riceveranno la stessa assistenza. Le proposte risorse preserveranno per sempre l’America dall'accumulamento dei debiti pubblici, e conseguentemente dal gravoso carico d’imposizioni necessarie per sostenerli; malattia mortale che verisimilmente cagionerà ben presto la distruzione di molti Stati d’Europa.

FINE DEL TERZO ED ULTIMO VOLUME


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NOTE

(1) Pederate.

(2) Tutti gli antichi scrittori mostrano la loro meraviglia nella prodigiosa tolleranza de' fanciulli Spartani nel soffrire questa flagellazione, che in ogni anno si faceva loro sull’ara di Diana, per mostrar loro, dice Senofonte, che colui che soffre per breve tempo il dolore, gode quindi per lungo tempo delle lodi: Touto de dhlwsai kai ev toutw Boulomenos, oti eji oligon cronon, alghsanta, polun cronon eudokimounta eufraineqai. Eliano, Plutarco, Cicerone e molti altri antichi scrittori ci assicurano che alle volte morivano in questa flagellazione, senza neppure mandar fuori un sospiro. Vedi Eliano, lib. XIII. Plutar., Iris t itatis Laconicis, e Cicerone, Tuscul. I e V, e Seneca in quel suo opuscolo, ove esamina la questione, come avvenga ch'essendovi una Provvidenza, i virtuosi soffrono de' mali.

(3) Adolescentum, dice Cicerone, greges Lacedemone vidimus ipsi inm credibili contentione certantes pugnis, calcibus, unguibus, morsu denique, ut exanimarentur priusquam se victos faterentur. Cic., Tuscul. V. Vedi anche Seneca, De Benefìciis, lib. V, e Plutarc, in Lycurgo.

(4) Vedi Plut. iti igesil, e AEliam., Var. Hist.

(5) Quid leges sine moribus vana: proficiunt. llor., Od, III, 25.

(6) Merijon organon proj to diamenein taj politeiaj einai to paideiesqai proj tas politeiaj. Arisiot., Polit, lib. V.

(7) Aristotile. Ecco l'origine del Divide et impera.

(8) Strab., lib. X.

(9) Arist., Polii., Iib. IV, dové parla de' fanciulli Spartani, e Plut., Instit. Lacon.

(10) Plat., De Legib. dial. VII.

(11) Vedi PlaL, De Legib., dial. VII, e Nicolai Gragli, De Rep. Laced., lib. III, in Thesaur. Grav. et Gron., vol. V.

(12) In Creta, non altrimenti che in Sparta, la cultura della terra era abbandonata a' servi. Le mani libere non maneggiavano che l’arco e la spada; la zappa e l’aratro erano abbandonati a Perieci in Creta, ed agli Iloti in Sparta. Vedi Arist., Polit., lib. II. Strab., lib. XII. Athaen., lib. VI. Plutar., in Vita Lycurgi.

(13) Si vegga ciò che ci dice Platone; De Legib., dial. V, e per riguardo agli Spartani leggasi il Trattato di Nicola Graglio, De Repub. Laced., III, lab. IV, in Thesaur. Gravii et Gron., vol. V.

(14) Si ricordi ciò che da noi si è detto su quest'oggetto nel libro delle Leggi Politiche ed Economiche, ne capi dové si è parlato della moltiplicazione de' proprietari, ed in quelli dové si è parlato della diffusione delle ricchezze.

(15) Io prego il lettore di non giudicare di questo piano prima d averlo interamente osservato. Io non posso dire tutto ad un tratto. Ciascheduno di questi articoli preliminari suggerirà molte difficoltà od obbiezioni a chi legge. Ma, a misura ch’egli s’inoltrerà, le troverà dileguate e distrutte. Questa ripartizione del popolo potrà suggerirgliene una che, se avesse luogo, dovrebbe discreditare agli occhi dell’umano filosofo l’intero piano che io ho pensato. Potrebbe indurlo a credere che io voglia introdurre nell’Europa la divisione e la perpetuità delle Caste degl'Indiani. Quando egli leggerà l’ottavo ed il decimosesto capo di questo libro, egli vedrà quanto io sono alieno da questo disegno, e quanto sarebbe ingiusta questa imputazione. Riserbandomi a prevenire queste obbiezioni ne' citati capi, mi contento qui di dire che le due classi, nelle quali ho divisi tutti gl'individui della società, non riguardano il loro stato politico, ma la loro destinazione; non la condizione, nella quale sono nati, ma quella, alla quale le circostanze, che in appresso esporremo, li destineranno.

(16) Non voglio lasciare di avvertire, che nelle grandi capitali un solo Magistrato inferiore di educazione non potrebbe bastare per corrispondere a tutte le parti del suo ministero. Allorché si conosceranno i suoi doveri, si converrà del bisogno che vi sarebbe di dividere queste grandi città in più quartieri alla sua popolazione proporzionati, e di assegnare a ciaschedun quartiere il suo particolare magistrato. Converrebbe anche procurare che i custodi in queste grandi città fissassero la loro abitazione ne’ borghi, o ne' luoghi ai borghi vicini, piuttosto che nel centro della città. La lettura del piano di educazione ne farà conoscere i motivi.

(17) Basta leggere ciò che Plutarco nella Vita di Licurgo ed Ateo., lib. VI e lib. XIV, ci dicono della ferocia, colla quale gli Spartani trattavano gli Iloti, per persuaderci di tutta la verità di questa espressione. Noi sappiamo anche da Tucidide, lib. IV, num. 80, e da Diod., lib. XII, che una volta essendo cresciuto molto il numero degl’iloti, fino a dare dello spavento a' cittadini, si pubblicò un Editto, col quale s’invitavano i più validi e più robusti di questi schiavi a presentarsi, per essere incorporati nell’ordine dei cittadini. Duemila di questi infelici si presentarono. Furono essi coronati di fiori, e condotti ne' templi; ma poco dopo questi duemila Iloti disparvero, e comunemente si crede che fossero stati trucidati. Si sa ciò che s’intendeva sotto l’orribile nome dell’Imboscata. Di tempo in tempo quelli che presedevano all’educazione della gioventù in Sparta, sceglievano tra' loro allievi i più prudenti e più arditi; gli armavano di pugnali, e davano loro quanto bisognava di viveri per un certo numero di giorni. Ciò fatto, questi giovani si disperdevano nella campagna e si nascondevano, durante il giorno, nei boschi o nelle caverne. La notte uscivano dalla loro imboscata, e si mettevano nelle pubbliche strade, ed ivi scannavano tutti gl'Iloti che incontravano. Alcune volte questi giovani marciavau di giorno, e trucidavano tutti gl’iloti che parevan loro più forti e più robusti degli altri. Vedi Plutar. ed Aten., loc. cit.Finalmente noi ci confermeremo sempre più in queste opinioni degli Spartani, se leggeremo ciò che gli antichi scrittori ci dicono della condotta da essi tenuta cogli Armiesi e coi Siracusani. Il tradimento fatto a questi ultimi ci vien indicato da Diod., lib. XXIV, e le crudeltà usate sui primi ci vengono elegantemente descritte da Senofonte, De Reb. gest. Graec., lib. II. E anche da osservarsi la dipintura che ci fa Erodoto del loro carattere nel lib. IX, num. 53, e Senofonte, De Repub. Laced.

(18) Arist., Polit., lib. VII, cap. X, init.; Herod., lib. Il, num. 163; Plat. in Tim. Diod., lib. I.

(19) Diod., lib. 11; Strab., lib. XV. Viaggi de la Boulaye le Gouz., pag. 159, 160, 162. Lettr. edif, l. 5, 12, 24, 26. Viaggi di Pvrard., pag. 273.

(20) La destinazione degli esposti dovrebbe dipendere assolutamente dall’arbitrio del Magistrato supremo di educazione di ciascheduna provincia. Egli potrebbe servirsi di questo rifugio, per provvedere di artisti quelle arti, che ne mancherebbero nella sua provincia, o che converrebbe introdurvi.In questo piano di pubblica educazione io non farò menzione alcuna di questa porzione degl'individui della Società. Siccome nel quinto anno della loro età dovrebbero, come il resto del popolo, essere ammessi alla pubblica educazione; così non vi sarebbe alcuna differenza tra essi e tutti gli altri allievi della classe, della quale parliamo. Una sola particolarità dovrebbe stabilirsi in loro favore, e questa riguardar dovrebbe il tempo della loro emancipazione, nella quale, a differenza degli altri, essi dovrebbero dal Governo ricevere un pecuniario soccorso per. provvedere a' loro primi bisogni. Io non posso determinare il valore di questo soccorso, perché dipender dovrebbe dalle circostanze de' luoghi e de' popoli, ne' quali questo piano verrebbe adottato.Non posso però astenermi dal profittare di quest'occasione per manifestare i miei giusti desiderii, per la migliorazione del moderno metodo di ricevere ed allevare queste infelici vittime del vizio, della debolezza o della miseria. L’immenso numero che ne perisce, ha scosso molti Governi su questo importante oggetto dell’amministrazione. In molti paesi dell Europa si è pensato e si pensa tuttavia a riparare a questo male. Ma, bisogna confessarlo, tutto quello che si è fatto o che si è pensato, ci lascia ancora molto da desiderare.Il male è rimasto sempre superiore a' rimedii, perché non si è ancor trovato il modo da troncarlo nella sua radice. Bisogna distruggere gli ospedali degli esposti, se si voglia far vivere gli esposti. finché un fanciullo, appena nato, dovrà soffrire i disagi d’un viaggio spesso di più giornate per giugnere all’ospedale; finché sarà affidato ad una nutrice che avrà forse da dividere il suo latte e le sue cure con tre altri fanciulli; finché dovrà respirare l’aere mal sano, e marcire nel succidume inevitabile in luoghi di questa natura; finché la sua debole e mal ristorata macchinuccia dovrà soggiacere a tutti questi mali, malgrado tutte le possibili cure del Governo, e tutta la vigilanza de' suoi Ministri, sarà sempre un prodigio, se egli vive.Nel nostro piano di pubblica educazione si potrebbe facilmente ovviare a tutti questi disordini. In ciascheduna comunità, il magistrato di educazione dovrebbe prender cura di tutti gli esposti che verrebbero presentati in questa comunità. Una famiglia da lui scelta per quest’oggetto dovrebbe raccogliere l'esposto e nutrirlo per i primi giorni. Intanto il magistrato farebbe pubblicare in tutta la comunità che vi è un esposto da nutrire. La pensione sarebbe già fissata e a tutti nota; e questa verrebbe puntualmente pagata a. chiunque Si prendesse la cura di nutrirlo. Questa si continuerebbe pe’ maschi fino al quinto anno, giacche allora verrebbero ammessi nella pubblica educazione; e per le donne fino a' dodici, giacche in questa età è da presumere che una donna possa col frutto delle sue fatiche comodamente provvedere alla sua sussistenza. Non si può dubitare che i fondi, che s’impiegano nel mantenimento degli ospedali degli esposti, basterebbero abbondantemente al pagamento di tutte queste pensioni, ed alle altre spese che richiederebbe questo metodo, tra le quali quelle dell’indicato soccorso pei maschi, dopo la loro emancipazione, e quelle delle doti per le femmine, non formerebbero un nuovo esito; giacche l'uno e l'altro sono generalmente in uso in tutte le nazioni, ove vi sono pubblici ricettacoli per gli esposti. Io lascio a chi legge l'esame de vantaggi che si otterrebbero con questo metodo, giacche non mi è permesso di più dire in una nota.

(21) Veggasi anche ciò che dice riguardo all’istesso oggetto nel dial. VII, De Legibus.

(22) Eliano ci ha conservata la seguente legge di Sparta: Προσegegraπτο, dice egli, di και τω νόμω, και διά δέκα ήμερων πάντα τοις έφορους τούς εφήβους παρίστασθαi γυμνούς δημοσία, και ει μεν ήσαν εύπαγεiς και έroμένοι, και εν των γυμνασίων οίον ει διαγλυφqέντες, και διατορνεuqεντες, έπηνούντο, ει deτι χαύνων ήν αύτοiς των μελών, ή υγρόερον, ύποιδδυσης και ύπαναφυομένης διά την ραθυμίαn πιμελήj, αλλά ενταύθα μεν επαίοντο και εδικαiοΰντο.

«Adscriptum etiam hoc erat in lege, ut decimo quoque die EphebI ad unum omnes se coram Ephoris nudos publice sisterent: ac, si essent solida corporis habitudine, validique, et quasi sculpti ex certaminibus, et tornati, commendabantur: sin aliquod membrata illis esset turgidum vel molle, ob suppositam et subcrescentem ex ocio pinguedinem, verberabantur, et multabantur.» Vedi Aelian., Var. Hist., lib. XIV, cap. VII; vedi etiam Athen.

(23) Trattato sull'educazione, scz. 1.

(24) Emil., tomo I, lib. II.

(25) L’Autore dell’Emilio è tra questo numero. Vedi lib. III. Io non son sorpreso che questo sommo scrittore abbia adottata quest'opinione; ma non posso nascondere la mia meraviglia nel vedere che egli incorra nel vizio così raro ne' profondi pensatori come lui, e così frequente ne' superficiali scrittori, d'attribuire un effetto di molte cause combinate ad una sola causa. Egli attribuisce al grand’uso della carne la fierezza degl’inglesi, e quella de' selvaggi; e la dolcezza de' Gauri all’astinenza da questo cibo. Quante cause fisiche, morali e politiche concorreranno a produrre quest'effetto! Per qual motivo la umanità e la dolcezza sono le virtù più rare de' Frati, a' quali quest’astinenza forma un precetto della loro regola? Gli uomini errerebbero meno se, invece d’attribuire molti effetti ad una sola causa, attribuissero molte cause ad un solo effetto.

(26)Των δε εψων ευδοκιμεί μάλίςα παρ αύτοίς μελας ζωμός, ώες μήτε χρεαdίου δείσqαι τούς πρεσβυτέρους, αλλά παραχωρείν τοις νεανίσκοiς, αυτούς δε ζωμού καταταγμένους εστiasqai..«Inter opsonia prima laus erat juri nigro; quare carnibus non indigebant majores natu, sed eas permittebant junioribus, ipsi decuriati jure vescebantur.» Vedi Plut.. De Instìtutis Laconicis; idem in Lycurgo. Non voglio trascurare di dire che nei paesi estremamente caldi si potrebbe far un’eccezione alla regola relativa al vantaggioso uso delle carni; poiché, siccome in questi paesi gli umori del corpo inclinano molto all’alcali, così i vegetabili fanno miglior nudrimento che le carni. La natura istessa ci indica questa eccezione, poiché ne' tempi canicolari noi abbiamo una minor disposizione a cibarci della carne che De’ tempi freddi.

(27) Tissot.

(28) Platone voleva che fosse interdetto il vino a' fanciulli fino a' 18 anni. Vedi il dialogo II, De Legibus.

(29) Vedi Locke, Trattato sull'educazione sez. I, § I.

(30) Emilio lib. II.

(31) Trattato sull’educazione sez. I, § XXIII.

(32) Il padre di Montaigne, persuaso di questa verità, non fece mai risvegliare il figlio, che al suono di qualche dolce istrumento. Essais. lib. 1, cap XXV.

(33) Ho detto d’un moderato caldo, poiché le copiose traspirazioni nuoccion a' fanciulli indebolendoli.

(34) Platone si serve della voce àspuaiav, iastratum lectum, per indicare Il modo di dormire dei fanciulli Spartani. Vedi dial. I, De Le gibus. Vedi Justiu., lib. Ili: Statuisse Ljcurguni, dice egli, nihil ut somui causa substerneretur.

(35) Trattato sull educazione sez. I, § XXIII.

(36) In qualunque modo, fuorché sul capo, essendo la sede di tutti i nervi, dal quale si ramificano e si distribuiscono nel resto del corpo: caricandosi di qualche peso alquanto considerabile, si comprimono troppo le vertebre del collo, e non essendo il peso a perpendicolo, può la spina del dorso piegarsi da uno de' lati, e soffrirne anche del danno la midolla allungata. I custodi impediranno dunque di portare de' pesi sul capo.

(37) «In omnibus enim ludendo conari debemus, ut eo voluptates, et cupiditates puerorum vertamus, quo eos tandem pervenire cupimus. Caput autem disciplina rectam educationem dicimus, quae ludentis ammam in amorem praecipue illius perducit, quod virili retate perfecte sit comparata virtute artis ejus jam acturus.»Plat., De Legibus, dial. I.

(38) Nec literas didicit, nec natare. L’istesso proverbio era tra' Greci per additare un ignorante. mhte nein, mhte grammata epijatai.

(39) Purché il clima Io permetta.

(40) Vedi Locke, Trattato sull'educazione sei. I, lib. VIII.

(41) Emilio, lib. II.

(42) M. de Buffon, Histor. Natur., tomo VI, ediz. In 1.2; dové parla dell’origine degli spettri.

(43) Vedi la Relazione del terzo viaggio di Cook fatta da un uffiziale del suo seguito, tradotta dall'inglese e stampata a Parigi nell'anno 1782, tomo I, in 8, pag. 267, fino a pag. 289. Il nome del marinaio è Trecher. La Relazione di questo avvenimento è interessantissima. Io non la rapporto, perché non posso dilungarmi quanto richiederebbe il dettaglio di tutte le circostanze che l’accompagnarono.

(44) Plutarco in vita Lycur.

(45) Omoj eqizwntai scotouj euqarswj kai adwwj odenein.... «ut in tenebris, et noctu audacter, et sine ullo metu incedere consuescant.» Item in Institutis Laconicis, dové parla de' notturni Sistii.

(46) Quest’ospedale potrebbe anche essere aperto alle fanciulle dell istessa provincia, e potrebbe nel. tempo istesso somministrare questo beneficio ai due sessi.

(47) La fondazione delle infermerie sarebbe necessaria per evitare il contagio de' mali, che tra fanciulli sono anche più facili a comunicarsi che tra gli adulti. Quando la prossimità di varie Comunità lo permettesse, se ne potrebbe fondare una per l'uso di più Comunità. Questo regolamento diminuirebbe le spese, e faciliterebbe il buon ordine.

(48) Veggasi particolarmente il mezzo tenuto da Rousseau per comunicare la idea della proprietà ad Emilio. Egli istesso dice che l’avvenimento del giardiniere, da lui a quest’oggetto disposto, richiedeva più mesi di apparecchio.

(49) Misericordiam volo, non sacrificium, Osea, cap. VI.

(50) Vedi ciò che si è detto nel Capo II di questo libro IV.

(51) Vedi il Capo VIII di questo libro IV.

(52) I discorsi su questo soggetto non dovrebbero esser proferiti, se non alla presenza degli allievi, che sono già per terminare il corso dell’educazione. Essi dovrebbero per conseguenza esser rari e straordinarii. Il magistrato dovrebbe impiegare in questi discorsi que’ momenti e que’ giorni che gli riuscirebbero a grado, e che sarebbero i meno occupati per i giovani, a' quali verrebbero diretti.

(53) Arist., Problemat sect. XXX.

(54) Il tempo che si potrebbe a quest’oggetto destinare, sarebbe quello delle domeniche, nel mentre che i fanciulli sarebbero agli stabiliti esercizii occupati. L’istruzione de' custodi si dovrebbe fare in ciascheduna domenica; ma la metà de custodi che interverrebbe nell'una, non dovrebbe assistervi nell’altra. Cosi quelli che non anderebbero all’istruzione, invigilerebbero su’ fanciulli, e ciaschedun custode verrebbe ad essere in questo modo presente all'istruzione due volle al mese.

(55) Allorché si leggerà il seguente Capo, si vedrà che io destino per apprendere a leggere ed a scrivere ai fanciulli di questa prima classe quel tempo che passa tra la loro prima ammissione alla pubblica educazione, e l’ammissione alle morali istruzioni, alle quali, come si è detto, non cominceranno ad intervenire prima d’aver compiuti i sette anni, vale a dire due anni dopo la prima ammissione; e siccome essi non sarebbero ammessi ai morali discorsi prima di aver assistito per due anni al corso delle morali istruzioni, così prima dell'età di 9 anni compiuti non avrebbe luogo la lettura dei romanzi, che qui propongo.

(56) Vedi l’articolo Del sonno, nel Capo Dell’educazione fisica.

(57) Niun fanciullo dovrebbe esser obbligato a leggere l’un libro piuttosto che l’altro. In ciascheduna casa di ciaschedun custode vi dovrebbero essere varii esemplari di queste collezioni, per favorire quest'arbitraria scelta.

(58) Vedi l’antecedente libro nel Capo della parte II, Sulle pene d’infamia.

(59) Veggasi nel I articolo di questo Capo l'età da noi destinata alle morali istruzioni.

(60) Vedi l’articolo I dell’antecedente Capo.

(61) Il metodo recentemente inventalo per insegnare a leggere ed a scrivere a molti fanciulli nel tempo istesso è utilissimo.Io lo rapporterei, se non fosse universalmente conosciuto. Un sol maestro basta con questo metodo a molti fanciulli; e l'istruzione richiede minor tempo di quel che richiede quella d’un solo.Bisogna avvertire che una parte di questo tempo assegnata all’istruzione del leggere e dello scrivere verrà impiegata in quella di leggere e scrivere le cifre numeriche che coll'istesso metodo si rende ugualmente facile.

(62) Per prevenire ogni equivoco, bisogna sapere che io chiamo fanciulli della prima ripartizione quelli che non sono ancora ammessi alle morali istruzioni, cioè quelli che sono nell’età che passa dall’ingresso fino al settimo od ottavo anno, nel quale vengono ammessi a queste istruzioni. Gli allievi della seconda ripartizione sono quelli che sono ammessi a queste istruzioni, e per conseguenza che si trovano tra il settimo od ottavo anno, fino al nono o decimo. Quelli della terza ripartizione sono quelli che vengono ammessi a' morali discorsi, cioè che si trovano tra il nono o decimo anno di età, fino al termine dell’educazione.

(63) Che si legga il Capo III del libro I delle Istituzioni militari di Flavio Vegezio, e si vedrà quanto questi principii corrispondano a quelli della disciplina antica.

(64)Vedi il Capo VII del II libro di quest'opera.

(65) Esse non durerebbero tutte e quattro che due ore e mezzo.

(66) Non voglio qui trascurare di prevenire un dubbio, che potrebbe insorgere sull'applicazione del nostro piano di popolare educazione all'istruzione di quella porzione di fanciulli che verrebbero al mestiere di marinaro destinati. Come combinare, si dirà, l’istruzione del marinaro, che suppone l’uso della navigazione, col vostro sistema? Questa obbiezione sembrerà molto debole a coloro che ignorano ciò che si richiede, per formare un buon marinaro. Se un uomo viene fino all’età di 18 anni istruito in tutto quello che riguarda l’uso del cordame d’un naviglio; s’egli sa quello che dal marinaro si deve oprare per guarnirlo; se egli è avvezzo a salire sugli alberi, a discendere e ad eseguire con agilità e destrezza quello che riguarda la sua professione; egli non ha bisogno che di uno o due anni di navigazione per divenire un eccellente marinaro. Or le prime istruzioni si potrebbero benissimo combinare col nostro piano di educazione. Alcune picciole navigazioni, combinabili con questo piano, basterebbero per avvezzare il fisico de' fanciulli all’elemento, sul quale debbono passare una gran parte della loro vita. Emancipati che sarebbero dalla pubblica educazione, essi si perfezionerebbero ben presto nella loro arte, e si troverebbero anche superiori a coloro che una lenta pratica ha istruiti. Io lascio a' dotti marinari il giudizio di quest'idea.

(67) Coloro, come per esempio gli agricoltori ch'esercitano arti che l’obbligano ad allontanarsi dal luogo dell’abitazione, per non perdere inutilmente il tempo che si richiederebbe per andare e ritornare dalle loro abitazioni, convertiranno la cena nel pranzo, ed il pranzo nella cena. Essi potranno cosi mangiare nell'istesso luogo, ove si ritroveranno per esercitare la loro arte; essi si avvezzeranno in questo modo al tenor di vita che dovran menare, allorché saranno adulti.

(68) Si rammenti ciò che si è detto circa i Governi, ne' quali la classe, di cui si parla, partecipa all'esercizio della sovranità. La particolare istruzione per questo fine proposta avrà luogo in quest’istessa ora ed in questo giorno, colla differenza che quella, della quale si è parlato nel testo, occuperà in questi Governi il penultimo anno, e questa l'ultimo.

(69) Io lo ripeto: questa magistratura dovrebbe essere una delle più rispettabili cariche dello Stato; dovrebbe divenire il premio dei più gran servizii prestati alla patria; e siccome sarebbe poco laboriosa e molto onorevole, così potrebbe essere esercitata dagli uomini più benemeriti dello Stato, che la loro età esclude dalle cure più laboriose. Il guerriero celebre ed il magistrato illustre potrebbero esserne, ugualmente investiti, e potrebbero ugualmente corrispondere al gran disegno della legge.

(70) Io mi rammento d’aver trovato in Omero i Musici chiamati col nome d’istitutori, e niuno ignora quanta influenza avesse la Musica nel sistema della pittagorica e platonica educazione.

(71) Siccome questo discorso non dovrebbe essere ideato dal magistrato, ma dalla legge; così mi son fatto un dovere d’indicare qui il modo, nel quale dovrebbe esser concepito.

(72) Bisogna avvertire che la pubblica emancipazione, della quale noi abbiamo qui parlato, non dovrebbe togliere dalla dipendenza de' padri i figli che l’avrebbero ottenuta. I preziosi dritti della patria potestà debbono esser garantiti e non distrutti dalle civili leggi. Noi indicheremo diffusamente le nostre idee relative a quest’importante oggetto della legislazione nell’ultimo Libro di quest’opera; e chi ne ha letto il piano generale, che ho esposto nel principio istesso della mia opera, può anticipatamente congetturare quali sono le mie idee e quali i miei principi! sulla patria potestà e sui riguardi che le leggi le debbono.

(73)Il lettore si rammenterà che tutto ciò che si è qui accennato sui mali che dipendono dal sistema presente delle truppe perpetue, è stato da me provato in varii luoghi del II libro di quest’opera, e più d’ogni altro nel Capo VII.

(74) Vedi il Capo l di questo IV libro.

(75) Vedi il Capo VI di questo IV libro.

(76) Quando si vedrà il piano d’educazione scientifica, che io propongo per questo collegio, queste idee non sembreranno strane.

(77) La fondazione d’una generale infermeria per tutti gli allievi di questa classe sarebbe anche necessaria, come si è detto esserlo quelle che si dovrebbero nelle vicine Comunità fondare per gli allievi della prima classe.

(78) Capo X di questo libro, che ha per titolo: Generali regolamenti sull'educazione morale della prima classe.

(79) Vedi il Capo VI di questo libro, che ha per titolo: Generali differenze tra l'educazione delle due classi principali nelle quali si è diviso il popolo.

(80) Vedi l’età a questi discorsi destinata nell’educazione morale della seconda classe, giacche nell’una e nell’altra dovrebbe esser l'istessa.

(81) Nel II Capo di questo IV libro.

(82)Vedi Emilio, lib. IV.

(83) Ciò che nell'educazione della prima classe si doveva, riguardo a questi oggetti, fare dal magistrato particolare d’educazione di ciascheduna Comunità, si farà in questa dal magistrato particolare di ciaschedun Collegio.

(84) Ognuno vede che io non parlo qui che delle facoltà dell’intelletto.

(85)Mnhmsunhn kalew Zhenoj, sullekton, anassan, H Mousaj teknws ieraj, leufwnoujMemoriant voco Jovis conjugem reginam,Qit(s Mttsas genuitj sacras pias, stridulam vocem habentes.Vedi l’Inno d'Orfeo Sulla memoria, vers. 1 e 2.

(86)Platone nel Timeo.

(87) Vedi il Capo XX, dové è indicata Peti dell’ammissione, che verrebbe ad essere tra' cinque e i sei anni.

(88) Vedi il suo primo Discorso sulla Storia Naturale.

(89)Vedi il primo Discorso sulla Storia Naturale di questo celebre scrittore.

(90) Che mi si permetta di trascrivere l’aureo luogo di Platone, dové viene si luminosamente inculcato questo principio: Is docendi modus accipiendus est, quo pueri minime coacti ad discendum esse videantur. Non decet enim, liberum hominem cum servitute disciplinam aliquam discere; n quippe ingente labores corporis vi suscepti, nihilo deterius corpus efficiunt; nulla vero animae violenta disciplina est stabilis. —Vera loqueris. — Ergo «non tamquam coactos pueros in disciplinis, o vir optime, sed quasi lu dentes enutrias.» Vedi dial. VII, De Repub.

(91) Queste notturne osservazioni potranno combinarsi cogli esercizii notturni nella parte fisica dell’educazione da noi proposti.

(92) Vedi il Capo XXVI del III libro di quest'opera.

(93) Niuno ignora che ordinariamente si comincia ad insegnare il latino, subito che il fanciullo ha imparato a leggere.

(94) Non posso astenermi di rapportare qui due tratti dell'elegantissima Orazione del Facciolati. 4d Grammaticam, dové con colori molto vivi egli dipinge i vizii di questo metodo: «Quemadmodum enim, sono le sue parole, subitarius miles, si in confertissimam hostium aciem statim compellatur, periculi magnitudine, atque insolentia despondet animum, suique prorsus oblitus vix telum expedit; ita litterariae palestrae tirunculi ingentes grammaticorum commentationes aggredi jussi, cogitatone ipsa difficultatis et laboris exanimantur, spemque omnem evadendi statim objiciunt.E parlando di ciò, che a lui medesimo era avvenuto, dice: «Ego obruebar infinita illa, atque implicantissima regularum strue, nec pluribus votis adversa tempestate jactari nauta: portum desiderant, quam ego; inde me ut expedirem, et improbi laboris terminum aliquando contigerem, Deorum, hominumque opem implorabam.»

(95) Vedi le due lettere del Flamminio, scritte l’una a Monsignor Luigi Calino, e l'altra a Monsignor Galeazzo Florimonte da Sessa.

(96) Il noto Buonamici, il Cesare de nostri tempi, autore dell’istoria, che ha per titolo: De Rebus ad Velitras gestis, confessava di non aver fatto studio alcuno sulla grammatica; ma di riconoscere la cognizione di questa lingua dalla sola lettura de' suoi migliori Scrittori, e particolarmente di Cesare. Facciolati dice l'istesso nella citata Orazione: «Si quid valeo, dice egli, Ciceroni, Terentio, Livio, Cesari, Virgilio, Horatio, ceterisque ejus aetatis scriptoribus debeo: nihil a me repetundarum jure postulet Priscianus, nihil Donatus vindicet, nihil Valla, nihil Sanctius, nihil ille ipse, delicite quondam nostrae, Emanuel Alvarus, quos omnes una cum crepundiis vel abjeci, vel deposui. Excidere jamdiu animo eorum monita, excidere leges, nihil que mihi potest ad studium retardandum contingere infestius, quam tristis quaedam eorum recordatio ac metus, unde solent arida ac exanguia proficisci. Quid enim est aliud grammatice loqui, quam omnino latine non lo qui, si credimus praeceptori maximo Quintiliano?»

(97) Le letture proposte nella parte morale dell’educazione di questa classe potranno anche contribuire a quest'oggetto. Esse dovrebbero però raggirarsi alle sole opere scritte nella volgare lingua, o in quella tra le viventi che noi abbiamo sin da! principio dell’educazione proposta.

(98) L Arte Poetica d’Aristotile non è forse fondata sui poemi di Omero? Quanti precetti Orazio ha dedotti da due o tre versi, che la sua immaginazione ha forse creati divertendosi? Prima che Lisia avesse raccolte le regole dell'eloquenza, che Platone scritto avesse il profondo suo dialogo intitolato Gorgia; prima che Aristotile avesse foggiata la sua Rettorica, e che Cicerone composti avesse i libri De Oratore; quanti insigni oratori avevano attinto dalla natura ciò che questi legislatori celebri han quindi prescritto? Tutto ciò che questi insigni ci han insegnato sull arte dell'oratore e del poeta, che altro pruova, se non la difficoltà di uguagliarli? Troppo illuminati per credere che le loro regole potevano fare degli oratori e de' poeti, essi non vollero sicuramente che esagerarne le difficoltà. Essi vi sono in fatti riusciti, ed hanno doppiamente favorita la loro gloria, e coll'apparente invenzione dell’arte, e col gran numero di emuli che questa ha loro tolti.

(99) Per favorire questa parte dell’educazione, che riguarda l’arte della guerra, io vorrei che i custodi di questo collegio fossero anche questi guerrieri ben istruiti nella pratica del loro mestiere.

(100) Vedi l’Articolo IV di questo Capo.

(101)Vedi l’Articolo I di questo Capo.

(102)Quest’istruzione dovrebbe essere affidata al Magistrato d’educazione di questo collegio. Questa dovrebbe essere una delle più importanti funzioni del suo ministero, e questa sola funzione basta a farci conoscere i lumi che richieder si dovrebbero nella persona, alla quale verrebbe affidata.

(103)Vedi ciò che si è detto su ciò che compone questo Stato di una Nazione, nel I libro e propriamente dal Capo X fino all'ultimo.

(104)Plat., De legib. dial. 1.

(105) Si sanno l'infinite questioni che si son fatte dai logici, per sapere se la Logica sia un’arte o una scienza.

(106) Per una anche più evidente ragione noi non abbiam parlato dell Etica, poiché, come si è veduto, i principii di questa scienza verrebbero comunicati nella parte morale dell'educazione, nelle istruzioni e nei discorsi morali.

(107) Per evitare l’equivoco, io avverto che la semplicità delle due idee, delle quali si parla, si raggira non nell’idea espressa colla parola linea, ma in quella espressa colla retta; e così non in quella espressa colla parola superficie, ma in quella espressa colla parola piana.

(108) Che i geometri mi perdonino, se io adopro qui la parola figura, parlando di linea. La novità delle idee permette la novità nell'espressioni, e l'universalità delle mie vedute rendeva qui necessario l'uso di questo diritto.

(109) Che si rifletta per qual ragione noi concepiamo subito la definizione che si dà della linea retta, dicendosi, che è la più corta che si possa tirare da un punto ad un altro; e si vedrà che ciò non può dipendere che dalla nozione primitiva che noi abbiamo della linea retta. Supponiamo, infatti, che non l’avessimo: donde noi sapremmo. che da un punto ad un altro non vi sia che un solo cammino, che sia il più breve? Non potremmo noi credere che ve ne siano varii, e tutti uguali e più brevi? Se noi siam persuasi che non ve ne è che un solo, se noi supponiamo questa verità, come implicitamente compresa nella suddetta definizione, da qual causa può dipendere, se non dalla nozione primitiva che noi abbiam già della linea retta, e della quale questa definizione non è che la sequela?

(110) L’istesso. si deve dire riguardo alla definizione della superficie piana.

(111) Chi crederebbe che uno de' più rinomati filosofi del secolo abbia precisamente da quest’esame, cioè dall’applicazione della definizione che si da della sostanza, alla definizione che si dà della materia, abbia, io dico, dedotta questa conseguenza, che io mi permetto appena di supporla in un giovane riflessivo, ed in un maestro male istruito, ma di buona fede? Coloro che han letto le opere del filosofo, del quale io parlo, conosceranno la verità di quest’asserzione, e mi loderanno d’aver risparmiato un nome sì rispettabile in un confronto sì umiliante.

(112) Io ripeto qui ciò che poc’anzi lio fatto anche in una nota avvertire. L’idea semplice, della quale qui si parla, è quella che si esprime colla parola retta.

(113) Dove si è parlato delle idee astratte e semplici, ma indirette figurate. Veggasi anche la nota che illustra questa proposizione.

(114) Si sa infatti in quali inconvenienti sono inciampali i geometri che han voluto cangiarla.

(115) Vedi ciò che su questo si è detto a pag. 16566.

(116) Secondo questi principii, che mi paiono incontrastabili, la definizione che si desse del corpo, dicendo: è un essere esteso, impenetrabile, sfigurato, composto di parti, dotato della forza d’inerzia, mobile e quiescibile, sarebbe viziosa per eccesso; e quella che se ne desse, dicendo: è un essere esteso ed impenetrabile, lo sarebbe per difetto. La perfetta sarebbe soltanto quella che lo definisce: Un essere esteso, impenetrabile e figurato. Il lettore non deve far altro che riflettere su quest’esempio, per concepire con chiarezza ciò che si è detto sui due indicati opposti vizii, nei quali si frequentemente s’incorre, allorché si definisce.

(117)Ho detto che non sì poteva e non si doveva, per escludere da questa espressione quei casi, nella seconda riflessione indicati, nei quali, malgrado l’impossibilità di definire, si deve definire.

(118) Cioè quella nella quale non si adopra che la facoltà di percepire.

(119) Quando si adopra la facoltà della memoria.

(120) Quando si adopra la facoltà dell'immaginazione.

(121) Quando si adopra la facoltà di ragionare.

(122) Vedi il capo XXIV.

(123)Nel citato Capo XXIV.

(124) Essi Don dovrebbero apprendere che quella parte delle patrie leggi, ch'è necessaria alla condotta del privato cittadino, e che avrebbe qualche immediato rapporto colla loro destinazione, e, non altrimenti che nelle altre classi, essi dovrebbero essere in questi oggetti istruiti dal magistrato particolare d'educazione del loro collegio.

(125) Proposizione 61.

(126) Proposizione 75.

(127) Vedi il citalo Capo XXIV.

(128) Il trattato profondo d Ippocrate, De aere, aquis et locis, quello De diaeta salubri quello De liquidorum usu, il suo libro De alimento, e gli altri insegnamenti a quest’oggetto relativi, sparsi discontinuo nel resto delle sue opere, ci fan vedere quanto questo padre della medicina si sia occupato della più importante delle sue parti.I quattro libri di Galeno De sanitade tuenda, i tre De alimentis, il libro De attenuante victu, quello De exercitatione, e quelli De consuetudine, De salubri diceta, oltre i suoi Comentarii agli aforismi d’Ippocrate, a quest’oggetto relativi, e finalmente l’intero libro De re medica di Celso, bastano a mostrarci quanta l’igienia abbia interessati gli antichi medici più occupati del bene dell’umanità, e più generalmente alieni dallo spirito d’interesse e d’impostura, che ha pur troppo discreditato in alcuni paesi questa rispettabile classe della società.

(129) Io non ho qui parlato dell’istruzione, che ha per oggetto l’intelligenza di quel gergo che i medici adoprano nell’ordinazione de' rimedii. Questo linguaggio simbolico, che costa tanta fatica a' medici per apprenderlo, ed a' farmaceuti per capirlo, e che cagiona tanti equivoci, dovrebbe esser abolito. Le ricette mediche dovrebbero essere scritte colla maggior chiarezza, e non sarebbe fuor di proposito che si adottasse l’uso di scriverle nella volgare lingua.

(130)Vedi il Capo XXIV.

(131) Vedi il dottissimo Saggio sulle Belle Arti del dotto e virtuoso nostro concittadino Francesco Mario Pagano, dové ha vendicate le Platoniche idee sul bello dalle opposizioni di alcuni rinomati moderni.

(132) Vedi nel citato Capo XXIV l'età, nella quale comincia la seconda epoca della scientifica educazione.

(133) Tartini.

(134)Per facilitare l’acquisto di queste nozioni, io credo che si dovrebbero avere delle stampe, nelle quali questi oggetti venissero indicati: ciò risparmierebbe molto tempo all’istruttore, eviterebbe negli allievi la noia di penose e lunghe descrizioni, interesserebbe la loro curiosità e quella comune inclinazione che hanno i giovanetti per tutto ciò ch'è effigie, e faciliterebbe infinitamente l’intelligenza delle cose di questa natura, e la loro rimembranza. Una stampa, per esempio, che rappresentasse il vestimento di uno Spartano, le sue armi, ecc., varrebbe più di qualunque minuta descrizione per darne l’idea chiara e distinta.

(135)( )Vedi nel citato Capo XXIV l’anno, nel quale questa quarta epoca deve cominciare.

(136) Durante il corso di questa istruzione, e negli anni che la seguono fino al termine dell’educazione, gli allievi del Collegio d'architettura saranno in ogni giorno condotti ne’ luoghi, ove qualche edificio si costruisce per apprendere la pratica di quest'arte. L istesso maestro che insegnerà loro la teoria, li condurrà in questi luoghi per manifestarne loro la pratica.

(137)Il noto proverbio che dice, che non bisogna disputare sui gusti, non riguarda il gusto considerato nel senso, nel quale noi qui adopriamo questa voce.

(138) Denique sit quod vis, simplex dumtaxat et unum. Orat., Art. Poet.

(139) Victrix causa Diis placidi; sed vieta Catoni. Ecco un modello dei contrasti che nelle belle lettere si chiamano antitesi. Il dotto Pagano, nel poc'anzi lodato Saggio sulle Belle Arti; rapporta anche con ragione questo verso di Lucano, come un esempio del sublime.

(140) De Republ., dial. V., e dial. VII, dové termina il Dialogo.

(141) Emil., lib. IV.

(142) Vedi i varii aneddoti a questo oggetto relativi raccolti da Nicola Graglio, De Repub. Laced., lib. III, tab. XII, § XI et XIII, apud Gronov. Thesaur, lib. V.

(143) Si rammenti ciò che si è detto nell'articolo IV del Capo X di questo libro IV.

(144) Quello della Persia.

(145) Vedi Senof, De Repub. Lacedam.

(146) Tutti i simulacri degli Dei dovevano essere armati in Sparta, e quelli delle Dee dovevano esserlo ugualmente. Vedi Plutarco, Institut. Laconic. Il legislatore volle innalzare nel cielo la gloria bellica, per farla più facilmente discendere sulla terra. Venere istessa non era inerme presso questo popolo. Oltre le testimonianze di Pausania, lib. Ili; di Lattanzio, Divinarum Institutionum, cap. XX, e di Quintiliano, lib li, cap. IV, si trovano varii epigrammi greci su questo proposito, de' quali ci piace qui trascriverne uno:

Kai κύπρις Σπάρτας, ούκ αςεσιν διατ’έν' άλλοις ’Ιδρύται, μαλακάς έσσάμενα ςολιδας.’Αλλά κατά κράτος μεν ٤χει κόρυν άντί χαλύπτρας,’Αντί δέ χρυsείων άκρέμενων κάμακαΟυ gάρ χρή τεύχεων είναι δίχα τάν παράχοιτιν Θράκος ένυαλίου, καί Δακεδαιμονίαν.Et Venus Spartae, non urbibus ut in aliisPosita est, molles induta stolas;Sed in capite quidem habet galeam prò mitra,Pro aureis autem actibus, hastam.Non enim oportet sine annis esse conjugemThracii Martis, et Lacedcemoniam.Vedi Anthologiae, lib. IV, cap. XII, epigr. XXIII.

(147) Plut. in Vita Lycur.; idem in Apophthegmatis.

(148)Plut., Insiti. Laconic.

(149) Plut., Instit. Laconic., ed in Vita Lycur.

(150) Eracl, De Politiis, e Plutarco nell'Agyde.

(151) Polib.. lib. VI, e Giust., lib. III.

(152) Plut, Iustit Laconic. Queste leggi censorie erano quelle che proporzionavano il numero delle sorti a quelle de' cittadini Quando il numero di que sti oltrepassava il numero di quelle, si ricorreva alla missione nelle colonie. Ci confermano nella lunga durala di questo stabilimento le varie colonie spartane, delle quali ci parlano Platone, Aristotele, Erodoto, Tucidide, Pausania ed Isocrate.

(153) I beni del padre si suddividevano a' figli, e quelli di colui che moriva senza figli, passavano a colui che ne aveva più. Plut., Instit. Laconic. ed Vita Lycur.

(154) Le doti eran proibite. Giustino, lib. III; Plut. in Apophthegmalis, Eliano, lib. VI.

(155) Plut., Instit. Laconic.; Nicola us. De moribus gentium apud Stobaum. Vedi anche Senof., De Repub Lacedcem. et Aten., lib. VI.

(156) Plut., ibid; Ebano, Var. Hist, lib. V, cap. VI, e lib XIX; e Isocr., Pauatheuaico, dové ci fa sapere che l’agricoltura entrava anche nelle arti proibite.

(157) Senof., De Repub. Lacedcem., e Nicolaus, De moribus gentium apud Stoboeum.

(158)Arist, Politicorum lib. IV, cap. IX; Giustino, lib III, e Senof., De Repub Lacedam, dové mostrando l’attenzione del legislatore nel distruggere tutti I motivi dell’avidità, parla della semplicità delle vesti

Αλλά μεν oudίματίων ge ένεκά χργιματίςεον, ού gar esqhtojπολυτελεία, άλλά σώματος εύεξια κοσμούνται. Nec vestitus causa pecuniam quadri necesseest. Nam illi non pretiosa veste, sed corporis egregia constitutione ornantur. Vedi anche Tucidide,

lib 1.

(159) Questi поп potevano, come si sa, esser lavorati che colla scure e la sega. Plut, in Lycur.

(160) Κπιqesqai dicePlutarco, de τήν τρύφην καί τ ٥٧ ζήλον άφελέσqαι του πλούτου dianohqeij, τά συσσίτιαεισηgέσατο. «Ut luxum inhiberet, et divitiarum studium tolleret syssitia instituit.» Senofonte considera queste pubbliche mense come una scuola di sobrietà, come il vincolo del civile amore, e come un potentissimo istrumento del patriottismo. Per la qualità de' cibi che in esse si appastavano, vedi Plut., Instit. Laconic. ed iti Lycur., ed Eliano,Par. lib. III, cap XXIV. Vedi anche Cicerone, Tuscul., lib. 1, n 34, dové parla del sugo nero che si aveva per la più squisita delle vivande che avevan luogo in queste pubbliche mense.

(161) Eliano, Par. Hist, lib. XIV, cap. VII.

(162) Plut, Insiti. Laconic., ed in Pila Lycur.

(163) Idem, ibid., dové parla de' doveri delle balie e delle flagellazioni che su’ l’ara di Diana si facevano subire a fanciulli, per isperimentare la loro costanza nel soffrire il dolore. Vedi anche Ebano, lib. XIII, e Cicerone, Tuscul., lib. 11, n. 14.

(164) Veggasi la descrizione di queste giovanili pugne presso Pausania in Laconici Non si può leggere questo racconto senza sorpresa.

(165) Vedi Plut., Iustit. Laconic, ed in Lycur., e Seno!.. De Repub. Lacaedoem., i quali, rapportando le varie leggi a quest’oggetto relative, ci fan vedere quanto questo stabilimento concorreva a sostenere il buon ordine non solo, ma ad invigorire più d’ogni altro il patriottismo degli Spartani.

(166) Plut., Instit. Lacouic, ed in Lycur.

(167) Plut. negli Apophthegmatis, ed in Vita Lycur. Vedi anche Ovi I., Metamorph. Si sa il detto celebre d'alcuni Spartani, i quali, passando sotto le mura di Corinto, domandarono: «Quali donne abitano questa città? — Sono i Corinti. — Essi risposero: —Uomini timidi e vili non sanno che le sole mura inespugnabili d’una città sono ì cittadini determinati a morire?»

(168) Senof, De Repub. Lacedcem, e Plut. in Lycur.

(169) Senof., ibid., e Nicolaus, De moribus gentium apud Stoboeum. Incorreva nell'ignominia colui che seco coabitava, o che seco si esercitava, come Patte stano entrambi i citati autori.

(170)Vedi il Trattato di Nicola Graglio, De Repub. Laced., lib. IV, cap. IX, nel vol. V, del Tesoro di Grevio e Gronovio.

(171) E degno d’esser letto l’aureo detto di Plutarco su quest’oggetto: Έχρώντο δε γυμνασιοις μαλαχώτεροις παρά τήν ςρατείαν, καί τήν άλλην δίαιταν ούκ ούτω κεκολασμενην, ούδ'υπεύθυνον τοίς νέοις παρείχον, ώςε μόνοις άνθρώπων εκείνοις τής είς τον πόλεμον άσκήσεως, άναπαυσιν είναι τόν πόλεμον.«Exercitationibus utebantur per bella mollioribus, et reliquam quoque vitam minus adstrictam, et obnoxiam dabant juventuti. Ita solis inter mortales respiratio exercitationis bellica: erat ipsum bellum.» Vedi Plut. in Lycur.

(172) Plut., Instit. Lacouic. ed in Vita Lycur.

(173) Plut. in Vita Lycur.; Senof., De Repub. Lacedam., e Proper., lib. III, Elegiarum, dové elegantemente questo poeta descrive le indicate pugne.

(174) Sipge, figlio di Tridulfo Principe Scita, che si crede fuggito dalla sua patria, allorché Pompeo avendo vinto Mitridate mise in grande spavento tutti gli alleati del Re del Ponto. Egli si diresse verso il Settentrione dell’Europa e, fatta la conquista di alcuni popoli Celti, prese il nome di Odio, forse perché con questo nome si chiamava il Dio supremo di questi popoli, de' quali egli si fece forse il Sacerdote ed il Pontefice. Veggasi VIntroduzione allIstoria di Danimarca, di M. Mallet.

(175) L'Eterno, diceva il Profeta, ha gettato un ponte sull'abisso degl'inferni. Questo ponte è più stretto del taglio d’una scimitarra. Dopo la risurrezione il bravo colla leggerezza de' suoi passi lo passerà, per elevarsi sulle volte celesti, ed il vile precipitando da questo ponte cadrà nella gola dello spaventevole serpente che abita l’indicata caverna.

(176) Per avere con tanta fermezza impedita l'emigrazione de' Romani nel paese de' Vei. Vedi Plut. nella Vita, di Camillo; Aurelio Vittore, Degli Uomini illustri, cap. XXIII.

(177) Se mi si domandasse: Perché non avete fatto dell’amor della patria, piuttosto che dell’amor del potere, il principio di attività di tutt’i Governi? Io risponderei ciò che già indicai su questo proposito nel libro I, che l’amor del potere esiste nella società, e quello della patria vi si deve introdurre; che il legislatore non dee far altro che adoprare l’amor del potere, ma che l’amor della patria dev’essere prima destato e poi adoprato; che l’amor della patria non esiste nella società corrotta, ma l’amor del potere vi esiste; che l’amor della patria non è inseparabile dalla società, ma l’amor del potere ne è inseparabile; che il legislatore dee servirsi di quel principio ch’è universale ed inseparabile, per introdurre e conservare quella forra che non è né universale né inseparabile; e che non altrimenti che in fisica una forza derivata dall’unione di molte forze conspiranti è superiore a quella di ciascheduna delle sue cause, cosi nel caso nostro la passion della patria derivata dal concorso di tante forze diverrebbe superiore a quella del potere che concorre a formarla Quella avrebbe tutte le proprietà della passione, ed a questa non le rimarrebbero che quelle di un desiderio incapace di resisterle, allorché verrebbe in collisione.

(178)Vedi il fine del precedente Capo.

(179) Livio, nel lib. VIII, cap. IX, ci descrive la consecrazione di Decio nella guerra contro i Latini, gli effetti che questa produsse, e le solennità che accompagnavano questa cerimonia. Mi piace di rapportar qui la formola che in questi casi doveva proferire colui che si consecrava, come quella che si risente di tutta la virtù e maestà Latina: «Jane, Jupiter, Mars pater. Quirine, Bellona, Lares, Divi Novensiles, Dii indigetes, Divi, quorum est potestas nostrorum, hostiumque, Diique Manes, vos precor, veneror, veniam peto feroque, uti populo Romano Quiritium vim victoriamque prosperetis; hostes que populi Romani Quiritium, terrore, formidine, morteque afficiatis. Sicut verbis nuncupavi, ita prò republica Quiritium, exercitu, legionibus, auxilii populi Romani Quiritium, legiones, auxiliaque hostium, mecum, Diis Manibus, Tellurique devoveo.»

(180) Livio, lib VII, cap. VI.

(181) Vedi Livio, lib. VIII, cap. IX, dové parla dell’indicata consecrazione del primo Decio nella guerra contro i Latini, e lib X. cap. IX, dové parla della consecrazione del secondo Decio nella guerra de' Galli e de' Sanniti. Cicerone attribuisce l'istessa gloria al console Decio, figlio del secondo Decio, che comandava l’armata di Roma contro Pirro nella battaglia d’Ascoli.

(182) Vedi Dummanier, Mèmoires pour servir à l’histoire de la Hollande, articolo Grolius. È cosa strana, in vero, il vedere un Cardinal de Richelieu ambire la canonizzazione.

(183) Non vorrei che mi si Tacesse qui un’imputazione che son sicuro di non meritare, lo sono molto lontano da parlare qui di tutti i miracoli. Io non parlo che di quelli che l’ignoranza ha immaginati.

(184) Un’antica legge attica parlando delle corone e della ragione, per la quale si adopravano, c’indica espressamente quest’idea. Affinché, dice essa, coloro che l’ottenevano (agamwsij en auth th timómenoi upodhmou) «contenti essent sua civilatis opinione.» Vedi Pottero, Archeologia Greca, lib. I, cap. XXV.

(185) Sitia,parasitia, sithsij ev Prutaneiw, era un premio che consisteva nel dritto d’intervenire a' pranzi chela Repubblica apprestava a' suoi benemeriti nel Pritaneo; coloro che si erano distinti nelle legazioni avevano un particolare titolo a quest’onore.

(186) Solon autem, dice Ateneo, iis, qui in Prytaneo alebantur, placentam praebere jubet, panem vero diebus festis apponere, etc. Vedi Ateo., Deipnosoph., lib. IV.

(187) Noi sappiamo che i discendenti d’Ippocrate, di Armodio e di Aristogilone godevano di questa distinzione. Noi sappiamo quanto Demostene e i suoi cognati, che a riguardo suo vi furono ammessi, se ne gloriavano (vedi Plut. in Fifa Demost), e noi sappiamo quali fossero le ricchezze di Demostene: la sua sola contribuzione alla riedificazione delle mura di Atene, che fu la causa della sua celebre arringa pro Corona, basta a farcelo annoverare tra i cittadini più ricchi d'Atene.

(188) Veggasi la celebre arringa di Eschine contro Tesifonte, o sia contro il decreto da lui emanato per la corona di Demoslene.In Roma le varie corone a' varii meriti destinate erano dalla legge e non dall’arbitrio degli uomini prescritte Colui che aveva vinti de' nemici poco degni d’esercitare il valore romano, poteva aspirare all’onore dell'ovazione e non del gran trionfoj alla corona ovale e non alla trionfale. Colui che ottener poteva la corona rostrale non poteva ottenere per lo stesso merito la castrense o la murale; e colui che l’una di queste otteneva non poteva per lo stesso merito ottenere la civica o l'obsidionale Bisognava estenderei contini della Repubblica e lasciare almeno cinquemila inimici morti nel campo per ottenere l’onore del gran trionfo. Tutto era dalla legge prescritto. L’Esercito, il Console, il Senato non facevano che eseguirla.

(189) Si sa che questa celebre cortigiana fu onorata dopo la sua morte d’una statua d’oro, eretta in Delfo, in mezzo a quelle di due re.

(190) GlI antichi scrittori ce ne han serbate varie, sebbene una parte considerabile ce ne abbia involate il tempo. Noi sappiamo quale fosse in Atene il premio, detto proedia. che dava a colui che l’otteneva il diritto d’occupare il primo luogo ne' pubblici spettacoli, ne' conviti e nelle concioni, e dava a tutti gli altri il dovere d’alzarsi e di cedergli il posto. Vedi Arist. nell’Equites, ed il suo Scoliaste. Noi sappiamo quale fosse, quello detto eikwn., cioè l’onore che si recava ad un cittadino, facendogli una statua o ponendo la sua immagine in uno de' lunghi pubblici dell’antichità. Vedi Demost., De falsa legat. Noi sappiamo quale fosse il premio della corona in Atene, e i due capi d'opera della greca eloquenza ce ne han minutamente informati. Vedi Eschine in Clesiphontem e Demost., prò Corona.Noi abbiamo già accennato quello delle pubbliche mense nel Pritaneo. Vi erano anche, oltre di questi, molte altre specie di premii militari. Tali erano le coione coll’iscrizione del nome e delle gloriose gesta di colui che le aveva meritate; tali le colonne e le statue, nelle quali venivano descritte le vittorie riportate dal generale, al quale questo raro onore si concedeva; tale quello di riporre le armi nella fortezza in memoria del valore e fortezza mostrata nella guerra, e tanti altri che per brevità tralascio, e che si possono riscontrare in Pottero, Archaeologia Graeca, lib. III, cap. XIII, (o non parlo delle varie specie di onori e di premii de' Romani, perché sono a tutti noti.

(191)Essa n’eccettuava anche le donne che morivano in parto. Vedi Plut. in Vita Solonis. Sembra che questo legislatore considerato avesse come morte per la salute della patria le donne che morivano per somministrarle de' cittadini.

(192) Veggasi Pottero, Archeologia Greca., lib. IV, cap. VIII, dové parla de funebri onori che si recavano in Atene a coloro eh eran morti per la difesa della patria. I tre discorsi funebri, l’uno di Pericle, rapportato da Tucidide; l’altro di Demostene, fatto per coloro che perirono nella battaglia di Cheronea, e l’altro che Platone fa proferire ad Aspasia nel suo Menexene, ci danno una ben vasta idea di questa specie di onori.

(193) Queste due leggi vengono rapportate da Cicerone, l'una nel libro II e l’altra nel III, De Legibus. L’una escludeva dalla generai proibizione di togliere un membro dal corpo d un morto, per fargli nuovi funerali, coloro ch’eran morti per la difesa della patria; e l’altra ordinava che si cantassero pubblicamente le lodi ne' funerali di coloro che si eran distinti nello zelo per la patria, o ch’eran morti in sua difesa; essa vi aggiugneva l’onore di quelle lugubri cantilene dette Nenia che si proferivano a suon di flauto.L’istesso Cicerone, nel suo libro De Claris Oratorib., cita un luogo di Catone, il quale nelle sue Origini parlava di alcuni canticI che si cantavano ne' primi tempi della Repubblica, ne' conviti, in onore de' cittadini illustri: «Utinam estarent, dice egli illa carmina, quae mullis saeculis ante suam etatem in epulis esse cantitata a singulis convivis. de clarorum virorum laudibus, in Originibus scriptum reliquit Cato.» Noi abbiam ragione di credere che quest'onore fosse anche dalla legge regolato e prescritto. Per quel che riguarda i funebri elogi non vi è da dubitarne. Noi leggiamo in Dionisio d’Alicarnasso, che il figlio di Appio ebbe bisogno dell’ordine del Console e de' Tribuni per pronunziate l’elogio di suo padre innanzi al popolo; e Dione Cassio, parlando d'un Romano illustre, ci dice che il Senato dopo la sua morte gli decretò una statua e l’onore d’un elogio pubblico. Questo era ne' tempi felici della Repubblica un premio che la legge prometteva, ed il magistrato concedeva al benemerito della patria, e non un vano incenso che l’adulazione offri quindi al potere ed alle ricchezze, e che non servi, coi né dice l’istesso Cicerone, che ad imbarazzare ed oscurare l’istoria. Cicer., ibid.

(194) Dopo che aveva renduti i conti. Vedi Eschine in Ctesipwitem.

(195) Vedi dialogo VIII, De Legibus.

(196) Questo Generale delle truppe di Serse, avendo inteso a che si riduceva il premio del vincitore in questi giuochi, si volse, dice Erodoto, a Mardonio, che come Capo comandava a tutta l’armata, e disse: «O Cielo! con quali uomini andiamo noi ad azzuffarci! Questi, insensibili all’interesse, non combattono che per la gloria, né altra passione conoscono.» Vedi Erodoto, lib. VIII, n. 26.Vedi Ateneo, dové parla della magnificenza dell'atleta Leofrone.

(197) Quando Silla ordinò il torneo sacro de' giovanetti a cavallo, egli nominò Sesto, nipote del gran Pompeo, per uno de' capitani delle due bande. Tutti i giovani si protestarono ch'essi non avrebbero corso. Silla lasciò ad essi la scelta, e tutti elessero Catone; e Sesto istesso gli cede volentieri il posto come al più degno. Di quante riflessioni è suscettibile questo puerile aneddoto!

(198) Vedi le Odi di Pindaro.

(199) Vedi Pausania in Beoticis.

(200) Vedi Meursio nella sua Graecia Feriata.

(201) Idem, ibid.

(202)Bosin., Antiq. Rom., lib. III, cap. XX; Pitisco, Lexicon Antiq. Roman.

(203) In questa occasione i Giuochi magni, che duravano tre giorni, furono convertiti ne’ maximi che duravano quattro giorni. Livio, lib. V.

(204) Questi rammentavano l'irruzione de' Galli e l’assedio del Campidoglio liberato da Camillo, che, come altrove si è detto, meritò il nome di secondo Fondatore di Roma. Livio, idem.

(205) Vedi Hopsin, De Origine Festorum; Pitisco, Lexicon Antiq. Roman.

(206) Questo motivo istesso dee rendere agli occhi del saggio altrettanto più rispettabili coloro, che han saputo da questo stato d'abbiezione elevarsi sino alla più sublime virtù. Il teatro ci ha offerti e ci offre tuttavia nell’uno o nell’altro sesso degli uomini degni della più giusta stima, non solo per le loro virtù, non solo per l'elevazione de' loro animi, ma anche pe’ loro talenti. La mia patria ne conta alcuni tra i suoi cittadini, ed altri tra quelli che hanno onorate le sue scene. Queste eccezioni quanto sono più rare, tanto sono più onorevoli per coloro che ne sono il soggetto.

(207) Chi non sa le oscenità che nel progresso del tempo, quando i costumi si corruppero, s’introdussero ne' Giuochi Florali di Roma? La Satira 6 di Giovenale ne dà una orribile dipintura. È noto l'avvenimento di Catone, rapportato da Valerio Massimo, lib. VI, cap. 10, e da Seneca, Epistola 97.

(208) Ognuno vedrà, che io intendo qui parlare della nudità degli atleti in Grecia, e delle pugne gladiatorie de' Romani. Quella deturpava agli occhi del saggio l'augusta maestà di que’ giuochi, ne' quali questo abuso s’introdusse, come si sa da Tucidide, molto tardi, cioè nella LXXVII Olimpiade, e queste originate dalla grossolana superstizione di onorare col sangue umano la memoria de' morti non meritavano sicuramente di entrare in quegli spettacoli, ne' quali la passione della gloria guidava sull'arena i virtuosi e liberi cittadini. Ma infelicemente non vi è umana istituzione che non sia accoppiata a qualche imperfezione.

(209) Questa istituzione sarebbe altrettanto più facile a riuscire, in quanto la gioventù avrebbe già nel nostro piano di pubblica educazione acquistato l'abito ed il gusto per questa specie di piaceri e di esercizii, che sarebbe ben contenta dì continuare negli anni che succedono all’emancipazione, e ch’esigono, come si è detto, la seconda educazione.

(210) Vedi il suo Trattato, De Legibus.

(211) Demostene ci ha conservato due leggi Attiche a quest’oggetto relative. Io mi fo un dovere di rapportarle, per mostrare quanta importanza si dee dare a quel che da me si è detto:Έξεϊναι τούς άτιμούς άγωνίζομένούς επιλαμβάνεσqαι τής χειρος, καί έξagein έκ τήςqumelhj.Ignominiosos in choro saltantes de scena deturbare fas esto.Μή χορεύειν ξένον, ή χιλίας 'άποτίνειν τ٥ν χορ hgoν.Hospes in choro ne saltato si secus fecerit choragus mille drachmis mulctator. Vedi Demostene, Leptinea. Queste due leggi Attiche avevano un rapporto con quella che regolava la condizione delle persone che potevan combattere ne Giuochi Olimpici. Ciaschedun atleta doveva esser presentato al popolo, prima d’entrare nell’arena, e l’araldo doveva ad alta voce gridare: Vi è alcuno che possa accusar costui come schiavo, come ladro, o come ignominioso? Se vi era una simile accusa, l’atleta doveva giustificarsi, o astenersi dal comparire nell’arena. Vedi Meursio, loc. cit.

(212) Vedi le sublimi vedute di Platone a questa differenza dell opinione o della scienza relative, nel suo VI e VII dialogo, De Republica.

(213)Vedi Diog. Laerz., De vitìs. dogmatibus etc. Philosophorum, lib. VII: Epicteti Enchiridion. Vedi Cebete Tebano, Tabula.

(214) Vedi il Capo III e IV del II libro di quest’opera.

(215) Vedi il Capo XXVIII del li libro di quest’opera, dové si è diffusamente ragionato su quest’oggetto.

(216) Vedi il citato Capo del II libro.

(217)Vedi ciò che poc’anzi si è detto su questo oggetto nel Capo XLII e XLIV di questo libro.

(218) Vedi il Capo XXV del III libro, dové si è mostrata questa uniformità.

(219) Vedi l’istesso Capo che si è citato.

(220) Il segreto, ch'era uno de' principali doveri degl'Iniziati, e che si perpetuò in tutt’i Misteri dell’antichità, ha lasciata la posterità nell’ignoranza delle più sublimi verità che s’insegnavano, si professavano e si trasmettevano in questi Misteri. A noi non è pervenuta che la superficie dell’antica sapienza. I principii più luminosi di essa ci debbono necessariamente essere ignoti, perche non era permesso di divulgarli. La lettera di Platone diretta a Dionigio, nella quale gli rammenta ciò ch’egli aveva a voce detto sotto il platano sull'uno e il trino, e nella quale gli dice, che la sacra legge del segreto non gli permetteva di distendersi su quell'oggetto; ciò che egli dice sui suoi scritti, ch'erano molto inferiori alla sua filosofia; il giuramento, che noi troviamo nelle opere d’Ippocrate, di non divulgare i principii della sua scienza, e di non comunicarli che a' soli Iniziati; la lettera scritta da Alessandro a sua moglie dopo essere stato ammesso a' Misteri, e l’ordine datole di darla alle fiamme subito che l’avesse letta, ci mostrano bastantemente quanto imperfetta debba necessariamente essere la nostra cognizione sulla sapienza antica.

(221) Vedi Diodoro, lib. I, pag. 59. Non bisogna credere che gli Egizi, fissando il loro anno nel periodo di 365 giorni, non avessero conosciuto il difetto di quelle poche ore che si trovava nel loro Calendario. Il loro anno Magno, detto anche anno Eliaco, li garantisce da questa imputazione. Il primo mese dell’anno Egiziano si chiamava Thoth. Quando il levare eliaco della canicola cadeva nel primo giorno di questo mese, si diceva che il Thoth era canicolare: ed era compreso sotto il nome di ciclo canicolare il tempo che scorreva da un Thoth canicolare fino al seguente. Questo intervallo doveva necessariamente essere di 1460 anni Giuliani, e di 1461 Egizi, giacche ogni anno Giuliano superava l’anno Egizio di circa 6 ore. Or questo lungo periodo formava l’anno Magno, o Eliaco degli Egizi.

(222) Vedi Appione presso Giuseppe Ebreo, Advers., App. II.

(223) Simplicius, lib. II, Commeut. de Cado.

(224) Vedi Aristarco Samio, che ci ha resa più che probabile questa congettura.

(225) Veggasi il frammento di questo antico scrittore rapportato da Euschio, Praepar. Evang., lib. I.

(226) Veggasi Strabone, lib. XVI, dové parla della Cosmogonia immaginata dal fenicio Mosco, che viveva verso i tempi della guerra di Troia.

(227) Pirro d’Elea, istitutore della celebre setta Eleatica.

(228) Giustino, lib. III. cap. II.

(229) Diog. Laerz., Vita Philosoph. lib. I.

(230)Strab., lib. VI.

(231) Senof., De augend. Redditib.

(232) Bruck, Hist. Philosoph. tomo III, pag. 681.

(233) Questa era, come si sa, una collezione di un gran numero di osservazioni e di problemi degli antichi riguardo alla geometria ed all’astronomia. Questa collezione era scritta in greco, e Il titolo era: suntaxij mhgijh, o sia Amplissima collezione. Gli Arabi la chiamarono Almagherti, e noi Almageste.

(234) Le leggi relative alla patria potestà ed al buon ordine delle famiglie, che sono quelle, delle quali si parlerà in questo settimo Libro, mi pare che vi abbiano un’influenza anche maggiore, per la pace che procurerebbero nelle famiglie, che è uno de' beni più necessarii per l'uomo, che alle scienze si destina e consacra.

(235) Vedi Argumentum Marsilii in I dial. Plat. de Republìca.

(236)Platone.

(237) De Republica, dialogo VII in fine.

(238) Si legga quell’aureo luogo di Platone, che si trova nel suo dialogo VII, De Republica, dové fa la distinzione tra la scienza, la cogitazione, la fede e l’immaginazione, comprendendo le due prime nel più generale vocabolo d’intelligenza, e le ultime due in quello d'opinione. Egli dimostra, perché la dialettica sola meriti il nome di scienza, e la geometria non meriti che quello di cogitazione, quantunque l’una e l’altra appartengano all’intelligenza. Che mi si permetta di trascrivere una parte di questo profondo luogo:«Nemo autem adversabitur nobis dicentibus, quod disserendi facultas duntaxat conatur ordine certo circa unum quodque, quod ipsum sit invenire. Siquidem ceterae artes aut opiniones hominum cupiditatesque respiciunt vel ad generationes et compositiones, vel ad culturam earum, quae generantur et componuntur. Reliquae vero, quas diximus verarum rerum quoquo modo participes esse, geometria scilicet ejusque comites, circa ipsam essentiam quodammodo somniant, syncere autem quicquam ab illis cernere impossibile est tantisper dum suppositionibus haerent, easque ratas, immobiles adeo servant, ut illarum rationem reddere nequeant. Nam ubi principium quidem ponitur, id quod est, ignotum, finis autem et media ex ignoto tracta, invicem connectuntur; collectam inde assertionem quonam parto scientiam vocemus? Nullo. Dialectica vero sola, sublatis suppositionibus. omnibus ad ipsum principium, ut compertum habeat, pergit, ac revera animi oculum coeno barbarico obrutum, paullatim sursum trahit ac ducit, tanquam adjutricibus ac ministris quibusdam, utens bis artibus, quas narravimus. Eas porro nos saepe scientias propter consuetudinem nominavimus. Indigent autem alio nomine, etc.»

(239) Allorché esponemmo le nostre idee relative all’arte di definire nell’ultimo Articolo del Capo XXV di questo IV libro.

(240) Vedi il capo XI di questo IV libro.

(241) Per poter conoscere i particolari mali che si dovrebbero togliere, e i particolari beni che si potrebbero a quelli sostituire in ciascheduna parte dello Stato.

(242) L’editore dovrebbe, quando l’autore volesse nascondere il suo nome, farsi dare da lui de' documenti, che in qualunque caso potrebbero attestare, e convincerlo d’essere l’autore di quello scritto che vuol pubblicare senza il suo nome.

(243) Che si vegga, più d'ogni altro, ciò che da noi si è detto su’ delitti contro la Divinità, contro il Sovrano, contro l'ordine pubblico, contro il costume pubblico e contro l’onore de' cittadini, e particolarmente quelli che riguardano le pubbliche detrazioni e i libelli famosi, e si vedrà come tutti i delitti, che per mezzo della stampa si possono commettere, sono in queste classi valutati e compresi. Non voglio trascurare d’osservare a questo proposito, che la libertà della stampa, ben lungi d’essere una cosa fatale per la riputazione del cittadino, ne è anzi il più sicuro baluardo. Quando non vi è alcun mezzo di comunicazione tra l’individuo ed il pubblico, ognuno è esposto, senza difesa, a' colpi segreti della malignità e dell’invidia. L’uomo vede diminuita o distrutta la sua riputazione, senza sapere né i suoi inimici, né le loro trame. Colla libertà della stampa questo male è meno frequente ed è più riparabile. Il timore di veder manifestata al pubblico la sua iniquità frenerà il detrattore, e la facilita di pubblicare i fatti, che manifestano l’innocenza, renderà impotente la detrazione e la calunnia.

(244) Nisi philosophi civitatibus dominentur, vel hi qui nunc reges potentesque dicuntur, legitime sufficienterque philosophentur, in idemque civilis potentia et philosophia concurrant, neque, quod nunc fit, a diversis duo haec tractentur ingeniis, non erit civitati vel ut mea fert opinio, hominum generi requies ulla malorum, neque prius haec respublica, quam verbis exposuimus, orietur prò viribus, et lumen solis aspiciet. Hoc est quod ego jam diu dicere vereor, quasi sii incredibile dictu. Vedi Plat., De Repub., dial. V.

(245) Il lettore potrà consultare il citato Capo, per vedere che tutto quello che potrebbe in questo desiderare, si trova già prevenuto, risoluto e stabilito in que’ pochi principii generali, ne' quali la teoria de' premii è stata da me interamente compresa.

(246) Vedi il Capo XXXI di questo libro.

(247) Coloro che sono versati nella lettura degli antichi, non accuseranno sicuramente di stranezza queste mie idee. Essi le troveranno uniformi a ciò che l’antica filosofia aveva di meno contrastato; essi le troveranno uniformi a' principii di Pitagora e di Talete, di Platone e di Aristotile. Essi le troveranno confermate dalle leggi di Licurgo, e da' fatti. rapportati dagli Storici più accreditati. Essi troveranno in Polibio gli effetti della musica presso gli Arcadi, e quelli della sua assenza presso gli abitatori di Cineto. Essi troveranno in Ateneo, che tutte le leggi divine ed umane, l’esortazioni alla virtù, la cognizione di ciò che riguardava gli Dei e gli uomini, la vita e le gesta delle persone illustri, erano scritte in versi e cantate pubblicamente da un Coro al suono di varii istrumenti.Essi troveranno in alcuni popoli l'uso de' Cori de' musici durante la battaglia. Essi troveranno i diversi effetti che Timoteo produceva in Alessandro col modo Frigio e col Lidio e quelli che Plutarco ci narra prodotti dal musico Terpanter in Lacedemonia. Essi troveranno nell'istoria celebre di David Hume, ch'Eduardo re d’Inghilterra, dopo aver conquistato il Principato di Galles, per conservare il popolo sotto la sua schiavitù, condannò a morte i poeti, fece bruciare i loro scritti, e proibì quelle feste, nelle quali i loro canti, accompagnati da una musica maestosa e guerriera, elevavano l’animo, e vi destavano sentimenti opposti a quelli che convengono all'usurpatore ed al tiranno. Essi conosceranno finalmente, che se presso i moderni popoli non si ottengono più dalla musica I medesimi effetti, bisogna attribuirlo a due cause: all’ignoranza de' legislatori, che non ne conoscono né l’importanza né l’uso che converrebbe farne; ed all’alterazione dell’arte, l’antica semplicità della quale è stata, per tanto tempo, e lo è ancora quasi universalmente, sostituita da una musica complicata e difficile, priva di semplicità e di logica, contaminata da tutti i vizii del secolo, e guidata soltanto da alcune regole meccaniche, e da un estro più bizzarro che solido.

(248) Spero che il lettore non mi opporrà alcuno de' fatti dell’istoria, nei quali si vede la perfezione delle belle arti combinata colla corruzione de' costumi, dopo che io bastantemente ho prevenuta questa obbiezione nel Capo XLIX, nel quale ho esaminata l’istessa questione riguardo alle scienze. Se le belle arti si sono incontrate colla corruzione de' costumi d’un popolo, molto lontano d'esserne la causa, ne hanno forse ritardati i progressi. In mezzo alle tante e si potenti concause di corruzione, che potevano esse produrre? che potevano operare? Che si combinino colle altre concauSe della virtù, e si vedrà allora in qual modo esse vi coopereranno, in qual modo ne diverranno una delle concause, ed in qual modo questa concausa sarà mollo lontana dall’essere tra il numero di quelle che meritano l ultimo luogo.

(249) Vedi il Capo XXXI di questo libro sul Collegio per le belle arti.

(250) Vedi il Capo X sull'educazione morale della seconda classe.

(251) Vedi il Capo XXV sull’educazione scientifica del Collegio de' magistrati e de' guerrieri, ed Il Capo che Io segue.

(252) Vedi il citato Capo sull’educazione morale della seconda classe.

(253) Orazio, Odi, IV, 9.

(254) Ne’ Collegi da noi proposti nel piano di pubblica educazione.

(255) Capo L di questo IV libro.

(256) Capo XLVIII di questo IV libro.

(257) Capo XLVII di questo IV libro.

(258) Temporale.

(259)Vedi ciò che poc’anzi si è detto nel Capo della libertà della stampa.

(260) Veggasi il Capo XXV del III libro di quest’opera, dové mostrando il contemporaneo sviluppo del sistema penale con quello delle civili società, ho manifestamente dimostrato ciò che per brevità non so qui che accennare. Si avverta che nelle napoletane edizioni è incorso un errore sull’enumerazione di questo Capo, che si è corretto nell'indice. Questo Capo, che nel testo è numerato come il trentesimo sesto, dovrebbe essere, come infatti lo è nell’indice, il trentesimo quinto. Quest'errore per altro non influisce niente sull'ordine de' Capi, giacché il Capo è ne) luogo nel quale dev'essere, lo sbaglio è nel solo numero dell'epigrafe.

(261) Il poc'anzi citato Capo XXV del libro III.

(262) Vedi anche il Capo VII del I libro, ed il Capo IX del III libro.

(263) Io prego colui che legge, di non dividere nella prima lettura di questo Capo la sua attenzione tra ’l testo e le Note giustificative de' fatti ma di riserbare queste ad una seconda lettura.

(264)Io intendo sotto questa espressione di parlar dell'uomo che ba smarrita l’originaria tradizione, e che non ha partecipato ai divini lumi della Rivelazione.

(265) Vedi le Note giustificative de' fatti al num. 1.

(266) Esiodo, Teog., verso 160 fino al verso 187.

(267) Vedi le Note giustificative de fatti al num. 2.

(268) Idem, idem, al num. 3.

(269) Idem, idem, al num 4.

(270) Vedi le Note giustificative de' fatti al num. 5.

(271) Veggasi ciò che su quest’oggetto ha più distintamente e più diffusamente ragionato il celebre M. Buffon nell'Istoria naturale dell'Uomo, tomo li, parte I, dové parla del senso della veduta.

(272) Vedi le Note giustificative de fatti al num. 6.

(273) Idem, idem, al num. 7.

(274) Idem, idem, al num. 8.

(275) Idem, idem, al num. 9.

(276) Idem, idem, al num. 10.

(277) Vedi le Note giustificative de fatti al num. 11.

(278) Idem, idem, al num. 12.

(279) Idem, idem, al num. 13.

(280) Vedi le Note giustificative de fatti al num. 14.

(281)Idem, idem, al num. 15.

(282) Idem, idem, al num. 16.

(283) Idem, idem,al num. 17.

(284) Idem, idem, al num. 18.

(285) Idem, idem, al num. 19.

(286) Idem, idem, al num. 20.

(287) Vedi le Note giustificative de' fatti al num. 21.

(288) Idem, idem, al num. 22.

(289)«Eadem necessitas, dice Seneca, et Deos alligat, irrevocabilis, divina pariter et humana, cursus vehit: ille ipse omnium conditor et rector scripsit quidem fata, sed sequitur; semel scripsit, semper paret.»

(290) Vedi le Note giustificative de' fatti al num. 23.

(291)Omero, Iliade, lib. XXIII.

(292) Vedi le Note giustificative de' fatti al num. 24.

(293) Esiodo, Teog., ver. 940, 1021.

(294) Vedi le Note giustificative de fatti al num. 25.

(295) Vedi le già citale Note giustijìcative de' fatti al num. II, dové vi è pienamente illustrato questo universale fatto.

(296)Vedi la Teogonia di Esiodo, v. 154, 158.

(297) Esiodo, Teog, v. 160, 182.

(298) Vedi Esiodo, Teog. V. 482, 187.

(299) Idem, idem, V. 188, 306.

(300) Idem, idem, V. 214.

(301) Esiodo, poema Delle Opere e de' giorni, v. 11,26.

(302) Idem, Teog. V. 336, 338. Vedi anche per le altre passioni ed affezioni le Note giustificative de' fatti al num. 5.

(303) Vedi Esiodo, Teog. v. 629, 868.

(304) Vedi le Nule giustificative de fatti al num. 26.

(305) Idem, idem, al num. 27.

(306) Idem, idem, al num. 28.

(307) Vedi le Note giustificative de' fatti al num. 29.

(308) Idem, idem, al num. 30.

(309) Idem, idem, al num. 31.

(310)Vedi le Note giustificative de' fatti al num 32.

(311) Idem, idem, al poc’anzi indicato num. 32.

(312) Ecco perché l’antichissima greca tradizione riportata da Erodoto (lib. II, cap. LII) c'insegna che l’essenza del culto de' Pelasgi, di questi primi selvaggi abitatori della Grecia, consisteva nelle preghiere; ed ecco perché in varii selvaggi posteriormente conosciuti i viaggiatori non sono d’accordo tra loro, alcuni affermando ch'essi abbiano qualche idea di religione, ed altri negandolo, poiché i primi gli avran sorpresi in qualche momento di terrore e per conseguenza di preghiere, e gli altri non avendoli trovati in simili circostanze, non han potuto discoprire in essi alcun vestigio di religione e di culto.Riguardo a' Pelasgi, si rammenti ciò che da me si è detto nella prima tra le Note giustificative de fatti, appartenenti al precedente Capo, per provare ch’essi erano adoratori dell ignota forza.

(313) Tura nec Euphrates, nec miserat India costum,Nec fuerant rubri cognita fila croci.Ara dabat fumos herbis contenta SabinisEt non exiguo laurus adusta sono.

Ovid., Fast., lib. I, 341.Platone ci conferma in questa idea in due luoghi delle sue opere, nel lib. VI Delle Leggi, e nell’Epinome; come fa anche Porfirio, che rapporta su questo oggetto l’autorità di Teofrasto. Veggasi il suo libro De Abstin., apud Euf., Praep. Evang., lib. I, cap. IX.Le Relazioni de' Viaggiatori che han visitati i popoli dell’America, ci fan vedere che ne' luoghi ove gli uomini vivevano ancora nello stato del quale qui si parla, si è trovata l’istessa semplicità di culto.

(314) Vedi Esiodo nel suo poema Delle Opere, e de' giorni, v. 446, 449 e v. 481, 488; e Virgilio, Georg., lib. I, v. 361 e 361 e segg.

(315) Io intendo per civile servitù quello stato, nel quale la forza pubblica, cioè la forza della legge, ha trionfato di tutte le forze individue; e questo è il vero stato, nel quale si può dire che la società è giunta al termine del suo sviluppo.

(316) Veggasi su questo stato della società ciò che da me si è detto nel Capo XXV del IH libro di quest'opera.

(317) Questo fatto universale non sfuggi agli sguardi profondi di Platone. Nel III libro, Delle Leggi, egli dice che la comunicazione de privati riti accompagnò il principio della società.

(318) Lex Regìa.

(319) Virgilio, £neid., lib. IX. Veggasi anche Dionigi d’Alicarnasso, Antiq. Rom., lib. II. e ciò che da me si è detto nel citato Capo XXV del III libro di quest’opera.

(320) Vedi quanto da me su ciò si è detto nel più volte citato Capo XXV del III libro.

(321) Vedi le Note giustificative de' fatti al precedente Capo, appartenenti al num. 25, dové si è provato colle istorie di varii popoli questo fatto. Qui aggiungeremo che negl’isolani dell’Emisfero Australe, recentemente conosciuti, si è anche trovato il Sacerdozio universalmente composto da individui del corpo dei patrizii; e si è trovato che i Re di questi eroici Governi sono i capi del Sacerdozio come primi sacrificatori. Veggasi il Terzo viaggio del capitano Cook.

(322) Tutte le feste più antiche de' popoli c'indicano infatti queste commemorazioni. Le antichissime feste che si celebravano sulla montagna dell'Isola di Samotracia; quelle che si celebravano dagli Arcadi sul Monte Liceo, e le antichissime feste de' Rodiani, delle quali parla Pindaro; quelle che si celebravano ogni nove anni in Delfo per la vittoria d’Apollo sul serpente Pitone; quella che si chiamava in Roma l'optili fu gium, e della quale parlano Dionisio di Alicarnasso e Plutarco; quelle che da immemorabile tempo si celebravano nel Giappone e nelle Coste di Malabar, e quelle che si trovano nelle varie nazioni dell’America, e che si sono oggi osservate nell’isole recentemente scoperte del Mare del Sud, non indicavano, e non indicano altro, che queste commemorazioni. Seldeno ha provato che i Persiani chiamavano memoriali le antiche loro feste. Coloro che conoscono i riti che si praticavano nelle Cronie, nelle feste delle Lampe, in quelle di Cerere e di Proserpina, e nelle feste dette Antisterie e Boedromie de Greci, non potranno non vedere le commemorazioni che avevano per oggetto. Veggasi Meursio sotto questi rispettivi titoli nel suo trattato De Graecor. Fer.In tutte queste feste ed in tutti i misteri che, come vedremo da qui a poco, da queste feste nacquero, se il fine presenta lo spettacolo del giubilo e della contentezza, si vede costantemente questa preceduta dal timore e dalla mestizia. In molte di esse si veggono delle fughe, de pianti, de gemiti, degli urli, de' digiuni, delle veglie di cerimonia; in altre delle ricerche di alcune Deità, o sia di alcune potenze fisiche deificate, come il Sole, la Luna,ec., che rammentavano la loro occultazione ne' fisici disordini; in altre si veggono presentare ghiande, radici selvagge, erbe o secchi frutti: in poche parole tutto ciò che può rammentare il passaggio dal terrore o dalla miseria alla sicurezza o all'abbondanza.Nelle Apollonie, che si celebravano a Sicione, si cercavano da sette Giovani e da sette Vergini Apollo e Diana, cioè il Sole e la Luna, per indicare la loro occultazione in qualche catastrofe. Per una simile ragione si cercava in Egitto Osiride piangendo; e si celebrava in Delfo l’arrivo di Apollo, e da' Siri la morte ed il rinascimento d’Adonis, il quale, come si sa, non altrimenti dell'Osiride degli Egizii e dell’Apollo de Greci era il Sole de' Siri.Una commemorazione simile si celebrava in ogni anno dagli Americani della Florida, e dagli Apalachi, da Caraibi dell'isola di San Domingo, da popoli del Perù e dagli abitanti dell'Isole Mariane nel tempo delle fasi della Luna. Ateneo parla di un antico ballo che si chiamava Incendio del Mondo, Kosmu ekpurosij: Aten., lib. XIV, cap VII. Vedi Meursio, lib. I; Plutarco, De Iside et Osiride; Luciano, De Dea Svria, § 55; Cerimonie religiose, tomo VII; Istoria generale de' viaggi tomo XII; Conquista del Perù, tomo I; Laffiteau, Costumi de' selvaggi, tomo I; Lettere edificanti, tomo XVIII.Le ghiande, le corone di quercia, le erbe selvagge, le radici, alcuni frutti, alcuni legumi, digiuni, veglie, selvaggi abbigliamenti ed altre commemorazioni dell’anteriore miseria del selvaggio stato degli uomini, della scoperta dell’agricoltura, de' beneficii della società, formavano una parte de' riti delle feste di Cerere, e della festa delle stagioni in Atene, di quelle di Pessinunta, e di altre feste degli Egizii, de' Persiani e de' Giapponesi, presso i quali ancor oggi sono in vigore. Diodoro Siculo, lib. 1; Dionisio d’Alìcarnasso, lib. I, cap. 18, e lib II, cap. 8; la quinta Orazione dell'imperador Giuliano, in honor. Matr. Deor.; Virgilio, Georg, lib. I, v. 349; Varrone presso Sant’Agostino, De Civit. Dei, lib. VII, cap. 20; Cicer., De Legib, lib. II; Plut., De Iside et Osiride, Kempfer, lib. III, cap. 6.Nelle feste nuziali della Grecia un fanciullo coronato di spine e di rami di quercia portava in mano un crivello pieno di pani, pronunciando queste parole: eψugon kakon,euron ameion,Ho fuggito il male ed ho trovato il meglio. Vedi Suidas in queste voci.

(323) Cook, Forster, e gli altri loro compagni, che avevano fatti molti progressi nella lingua de' Taitani, e di varii altri isolani dell’Emisfero Australe, e che comprendevano benissimo il loro linguaggio familiare, non potettero mai comprendere il loro linguaggio sacro. Vedi Rinaldo Forster nel suo Viaggio, parte IV, cap. X.

(324) Vedi ciò che da me si è detto nell’indicato Capo XXV del III libro di quest’opera.

(325) Il capitano Cook, che nel suo Terzo viaggio si trovò presente alle celebrazioni di alcune feste di varii popoli dell isole del Mare del Sud, dice che i soli Capi o Patrizii, coi Sacerdoti e col Re, potevano partecipare a' più solenni riti di esse, e che il resto del popolo non vi era ammesso. La descrizione che ci dà di queste feste non ci permette di dubitare che sieno dell'istessa natura delle feste commemorative, delle quali si è parlato, e che si son trovate presso tutti i popoli della rimota antichità. Che si combini ciò coll antichissima greca tradizione rapportata da Strabone, la quale insegnava che i Dactili Ideensi, i Cureti, i Cabiri, i Coribanti furono gli antichi ministri e i primi partecipanti a' misteri, e che si rifletta con quello spirito filosofico che dee dirigere queste ricerche, alla figura che questi personaggi fanno nella favola: che si aggiunga a questa riflessione quella che ci somministra la notizia, che noi abbiamo del Sacerdozio di varii misteri dell'antichità, esercitato per un immemorabile dritto ereditario da alcune antichissime ed illustri famiglie esclusivamente; e vi si aggiunga anche ciò, che universalmente si praticava in questi misteri al pari di quello che si pratica nelle indicate feste degl’isolani del Mare del Sud, cioè che vi erano, oltre i riti segreti; i pubblici, cioè quelli ne' quali tutto il popolo interveniva; e si troverà, che ciò che oggi si pratica da segregati isolani, de' quali parliamo, si era praticato ugualmente ne' corrispondenti periodi della società presso i popoli della più rimota antichità. Vedi Strabone, lib. X,e la tradizione de' Tebani rapportata da Pausania su i Cabiri in Beot., cap. XXV; Seneca, epist. XVC, dové ci parla di questa distinzione tra i più augusti riti, che erano i segreti ne misteri, e quelli eh erano pubblici, ed a' quali il popolo era a parte; e Meursii Eleusina. Veggansi finalmente le indicate Relazioni de viaggi del capitano Cook.

(326) Ogni delitto pubblico si fe’ credere un delitto religioso, si fe’ considerare come un’offesa recata a quella Deità, che di quell’oggetto del pubblico bene prendeva cura. Bisognava placare questa Deità: la pena era la preghiera pubblica, supplicium; la vittima era il delinquente, sacer esto. Noi abbiamo di tutto ciò parlato nel citato Capo XXV del III libro di quest'opera. Le prove ivi prodotte vengono oggi confermate dalle Relazioni del capitano Cook, il quale ha trovato l’istesso uso d’immolare agli Dei i delinquenti presso i popoli che abitano le Isole della Società, come si può vedere nella Relazione de' suoi viaggi, ed in quella di Rinaldo Forster, parte IV, cap. X.

(327) Noi leggiamo in Plutarco, che Orfeo acquistò una grande influenza coll’istituire nuove religiose pratiche, e così persuadere ch'egli aveva trovato il mezzo d'espiare i delitti, di purificare i colpevoli e di placare lo sdegno degli Dei. (Plutarco, Boetic., cap. XX.) Or i tempi d Orfeo corrispondono perfettamente al periodo della società, del quale parliamo, ed è notissimo il suo Sacerdozio.

(328) Tali furono gli aruspici e gli oracoli, che dovunque vi è stato o vi è Politeismo, si son trovati e si trovano, e che il capitano Cook ha ritrovati in quei popoli, che la natura pare che abbia gittati nell’immenso Mare del Sud sopra isole da spazii immensi dal Continente separate. I Taitani, e gli altri isolani delle Isole della Società, hanno anche i loro oracoli che si prendono dal sacerdote ne' Morai, interrogando a bassa voce l’Etooa, o Deità, che in quel tale luogo si crede che si ritrovi. Il Nume risponde a voce ugualmente bassa, in modo che niuno, fuor del sacerdote, può sentirne la risposta. Il sacerdote poi proferisce l’oracolo che ha dall’Etooa ricevuto, e lo comunica agli astanti. Veggasi la Relazione de' viaggi del capitano Cook, e Rinaldo Forster nel suo citato Piaggio, parte IV, cap X.

(329) Da ciò derivò il costume degli Egizii rapportato da Erodoto, i quali, sacrificando una vittima, pregavan gli Dei che facessero cadere sul suo capo tutti i mali che sovrastavano alla loro patria, e quindi vendevano agli stranieri l’esecrato capo, acciocché l'ira del Cielo su di loro piombasse. Erodoto, lib. II.

(330) Vedi ciò che su questo oggetto si è detto nelle Note giustificative de' fatti, all’antecedente Capo, appartenenti al num. 20.

(331) Vedi il Capo XI del libro III di quest’opera, dové ho parlato de' giudizii di Dio de' tempi barbari.

(332) Vedi il tante volte citato Capo XXV dell'istesso III libro di quest’opera.

(333) Gli Sciti, i popoli della Tauride, i Galli, i Lusitani preferiscono i prigionieri a' cittadini, e la voce hostia de' Latini sembra derivata da hostis, cioè dall’inimico che s’immolava. (Erod., lib. V, cap. LI; Diod. Sic., lib. Ili; Lucano, Phars., lib. IV e V; Strab., lib. VI. )I Moabiti, gli Ammoniti, i Cartaginesi, i popoli dell’Acaia, gli abitanti di Tenufa, i popoli della Florida, che son vicini alla Virginia, i Messicani, e molti altri popoli dell’America, e gl’isolani, de' quali parla il Padre De Hald, sacrificavano i fanciulli, i giovanetti o le vergini. (Vedi il capo X del Levitico; Pausania; Diodoro di Sicilia, lib. X; Plutarco nel Trattato della superstizione; Gemello Carreri, tomo VI, e la Relazione del signor Le Moine de Morgues.)Strabone, Tacito, Dionisio d’Alicarnasso, Porfirio, Macrobio, Sant’Atanasio, Procopio e le Prelazioni de Viaggiatori ci mostrano l’universalità di queste abominazioni sulla terra.Vedi Strab., Geog., lib. I; Tacit. in Agrip., cap. Il; Macrob., Salar., lib. I,cap. X,e lib. V, cap. XIX; Sant’Atanasio, Orat. contra gentes; Piscopio, dové parla dell’ingresso de' Franchi in Italia, e Fleury nell’Istoria ecclesiastica dell'VIII secolo, dové ci fa vedere questi sacrificii ancora in uso nell’indicato secolo presso i Frigioni.Finalmente per quel che si è detto su’ figli e le figlie de' Re, è noto il sacrificio di Aristodemo, che immerse colle sue proprie mani il coltello sacro nel cuore della sua figlia per salvare Messene; è noto quello delle figlie di Nerele dall'Oracolo prescritto, ed è noto quello d’Ifigenia, figlia di Agamennone, prescritto da Calcante in nome degli Dei.

(334)E’ nota l'umana vittima che gli abitanti di Pei la immolavano a Peleo, e quella che s immolava in ogni anno a Diomede nell’isola di Cipro. Porfirio, De Abstin., lib. II

(335)Basta riflettere al poc’anzi indicato periodo, nel quale s’introdussero, per convincersi di questa verità. Uomini poco meno che selvaggi potevano essi esser depositarli di qualche ignoto principio, di qualche ignota verità, potevano essi prender tanta cura per occultarla, e trasmetterla sotto simboli e cerimonie si ricercate?

(336) Da qui a poco, che avremo nuova occasione da ritornare a quest’oggetto, si conoscerà meglio la verità di quanto si è detto.

(337) Varrone distingue queste tre Religioni co' nomi di muqikh,cioè favolosa, politikh, cioè civile, e fusikh,, cioè fisica o filosofica. La prima, secondo lui, era formata dalla teologia de' poeti, cd era la religione del volgo; la seconda era quella del Governo, e non aveva per oggetto che l’esteriore del culto; la terza era la teologia dei filosofi, che Varrone non disapprovava, ma che credeva che si dovesse restringere nelle scuole, perché discuteva con molta libertà sulla natura degli Dei. Vedi il luogo di Varrone presso Sant’Agostino, De Civit. Dei lib. 1, cap. VIII.

(338)«Denique, dice Seneca, in haec omnia Diis attribuuntur, quae non modo in hominem, sed etiam contemptissimum hominem cadere non possunt.» Varr. apud S. August., De Civit. Deit vedi anche Cicer.. De Nat. Deor.

(339) Vedi le Note giustificative de' fatti al Capo IV, appartenenti al num. 5.

(340) Vedi le Note giustificative de' fatti al Capo IV, appartenenti al num. 13.

(341) Omero, Iliade, lib. IX, v. 495.

(342) Presso i Greci, i Troiani e varii altri popoli dell’antichità. Vedi Ateneo, lib. II, capo VI, dové parla del modo, col quale Achille si espiò dell'omicidio di Strambelo, re de' Lelegi. Virgilio, AEneid, lib. II, ed Ovidio, Fasti, lib. II.

(343) Così Apollonio fa espiare Giasone e Medea da Circe per l’assassinio commesso nella persona d’Absirte, fratello di Medea Vedi Apoll., Argonauta lib. IV, dové descrive tutti i riti di quest’espiazione, alla quale succede un banchetto, che indicava il termine dei rimorsi. Veggasi anche per quest’oggetto Apollodoro, lib. II, cap. V, e Diodoro, lib. IV.

(344) A Tinagogo, nazione popolata e ricca. Vedi la Relazione di Pinto nell’Istoria generale dei viaggi, tomo IX.

(345) Nel Regno di Congo, d’Angola e di Matambola. Vedi le Relazioni d’Ogilby, di Pigafetta e di Pourchais.

(346) Noi vediamo, infatti, che ne tempi istessi di Silla la vergognosa malattia, colla quale terminò i suoi giorni, fu da' Romani attribuita alla violazione da lui commessa degli asili; e noi vediamo che in Sparta, in mezzo della perfezione istessa delle sue leggi, bisognò tollerare che il tempio di Pallade fosse un asilo inviolabile per gli stessi rei, ch'erano stati alla morte condannati. In altri popoli della Grecia nell’epoca non solo della sociale perfezione, ma anche della maggior cultura, si trovano conservati gli stessi riguardi per gli asili, le immunità e le tregue religiose. (Vedi Polluce, lib. IV; Pausania in Cor.; Cicerone in Verrem, lib. IV. )

(347) Vedi la Relazione del Giappone nella Raccolta de' viaggiche han servito allo stabilimento della Compagnia dell'Indie, e le Memorie di Forbin.

(348) Livio, lib. V, cap. XXII; lib. VII, cap. VI; lib. VIII, cap. X, e lib. X, cap. IX; Cicerone, Tuscul., lib. 1; Varrone. De lingua latina, lib. IV. La formola che si doveva proferire in queste consecrazioni dal Pontefice, e ripetere da colui che s’immolava, è stata da me rapportata nel Capo XLIII del IV libro di quest'opera.

(349) Vedi Svetonio in Caligola e Spanheim in Adriano.

(350) Vedi Diodoro di Sicilia, lib. II. L’influenza che il Sacerdozio aveva per questo istesso riguardo nell’Egitto, ne' tempi istessi della maggior cultura di questo popolo, non era inferiore a quella del Sacerdozio de Caldei. Vedi l’istesso Diodoro, lib. I; Erodoto, lib. II; Strabone, lib. XVII.

(351) Diodoro, dové parla di questo antico popolo Etiope.

(352) L’istesso Diodoro, e veggasi anche il Trattato dì Economia di Senofonte, dové ci fa vedere l’osservanza di queste augurali pratiche ne' tempi della maggior cultura della Grecia, ne' bei giorni di Socrate e di Platone.

(353)Vedi Cicerone, Orat. prò Murena; l’istesso, De Divinatione, lib. II; Livio, lib. IX, Decade I; Aulo Gellio, lib. VI, cap. IX; Macrobio, lib. I, cap. VI. Veggasi anche Livio, dové parla della partenza di Postumio Albino una volta, e di Fabio Pittore un’altra, impedita per questi motivi. Claudio Pulchiero fe’ gittare nel mare i polli sacri che non avevano voluto mangiare, dicendo: Se non vogliono mangiare beveranno; e le sue disgrazie furono attribuite a questo disprezzo degli aruspici.

(354) Meursio nel suo trattato De Gracorum Feriis, e Pottero nella sua Archeologia Greca Ovidio ne' suoi Fasti, e Rosino nella sua Antichità Promana ci danno una sufficiente idea dell’estensione, alla quale era giunto il numero delle feste di questi due popoli.

(355) Questo sacrificio, che ordinariamente consisteva in cento tori, e qualche volta in cento montoni, allorché era imperiale, doveva a quelli unire cento leoni e cento aquile. Tale fu, al riferire di Capitolino, l’ecatombe offerta dall’imperatore Balbino dopo la sconfitta di Massimino. Veggasi Capit. in Balb.

(356) Senofonte attribuisce l'origine. di questo sacrificio al voto fatto dagli Ateniesi di sacrificare a Diana soprannomata Agrotere altrettante capre, per quanti Persiani sarebbero stati da essi uccisi; ma la strage essendo stata sì grande da non poter soddisfare in una sola volta al voto, si stabilì di permutarlo in quest'annuo sacrificio di 500 capre soltanto per volta.

(357) Livio rapporta l’indicato sacrificio detto ver sacrum, praticato in Roma nell’anno ab U. C. 558, nell'occasione della sconfitta che il romano esercito ricevé da' Cartaginesi, e della morte del console C. Flaminio in quella battaglia ucciso.

(358) Nell'anno ab U. C. 390, nell’occasione della peste che desolava Roma, vi si ebbe ricorso per la seconda volta, giacche l’epoca della prima creazione d’un Dittatore a quest’oggetto destinata ci è ignota. Nell’anno 410 vi si ebbe un’altra volta ricorso nell’occasione di quella lapidea pioggia, che spaventò tanto i Romani; e vi si ebbe un’altra volta ricorso nell’occasione del veleno, che si somministrava da quella Società di Romane Matrone nellanno 422. Veggasi Livio, lib. I, Decade I, e lib. VII.

(359) Nella celebrazione delle latine ferie, che si solennizzavano nel Monte Albano, nel sacrificio di una delle tante vittime che s’immolavano, il Magistrato di Lavinio trascura di pregare pel Popolo Romano; nel ritorno da queste feste il console Cn. Cornelio viene attaccato da una paralisia, e muore; se ne attribuisce subito la causa all'indicata omissione. Si esamina l’affare nel Senato, e Se ne rimette la decisione al Collegio de' Pontefici, i quali decidono che si ricomincino di nuovo le ferie, a spese del solo popolo di Lavinio. (Veggasi Livio, lib. X, Decade V. ) La numerosa famiglia Polizia si estingue, e questo disastro si attribuisce all'avere impiegati i suoi servi in un privato sacrificio fatto ad Ercole. (Livio, lib. IX, Decade I. ) La sconfitta del romano esercito, accompagnata dalla morte di Flaminio, per la quale si ordinò il ver sacriim, di cui si è parlato, fu attribuita alla sua precipitosa partenza prima della celebrazione delle latine feste, ed all’omissione de' consueti voti che si dovevan fare nel Capitolino. Livio, op. cit.Nel Capo IV e nelle Note giustificative de fatti a quelle appartenenti al num. 27, noi abbiam rilevata la remota origine di questi errori.

(360) L’incontro di un cadavere richiedeva un’espiazione come la richiedeva l’omicidio, ecc. Vedi Luciano, De Dea Sjria, § 52, 53.

(361) Esiodo, nel poema Delle Opere e de giorni, Terso 704 fino a 758.

(362) Luciano, De Dea Sjria.

(363) Ateneo, Deipn., lib. XIII.

(364) Meursio, De Graecorum Feriis.

(365) Id., op. cit, 46.

(366) Varrone presso Sant’Agostino, De Civit. Dei, lib. VII, cap. 27; Clemen. Alexand., Cohortatio ad Gentes. E’ noto il Lingam degl’indiani dell’lndostan, ch'è la rappresentazione delle parti pudende de' due sessi insieme accoppiate, e che si portano dalle donne devote del Dio Ischurem sospeso al collo.

(367) Viaggi per lo stabilimento della Compagnia olandese nell'India.

(368) Veggasi Livio, lib. IX, Decade I. Il discorso tenuto dal console Sp. Postumio al Senato, nell’occasione della riforma Baccanali avvenuta nell’anno ab U. C. 566, contiene le seguenti espressioni: «.... Primum igitur mu lierum magna pars est, et is fons mali hujusce fuit: deinde similiimi feminis mares, stuprati et constupratores, fanatici vigiles; vino, strepitibus, clamori, busque nocturnis attonitis, etc. etc.... Quidquid bis annis libidine, quidquid fraude, quidquid scelere peccatum est, ex ilio uno sacrario scitote ortum esse, etc. etc.» Vedi l’istesso Livio, lib. XXIX, cap. XV e XVI. Veggasi anche Cicerone, De Legib., lib. II, dové dice che Diagonda aveva aoche proibite in Tebe queste infauste feste di Bacco. Veggasi finalmente Vitruvio, lib. Il, cap. Il, dové parla de' templi che si dovevano costruire fuori le mura della città.

(369) Veggansi le sue due famose commedie, l’una intitolata II Pinta e l'altra Gli Uccelli. Le più amare derisioni contro gli Dei si contengono in queste due commedie, onde Sant’Agostino prese occasione di dire: Nec aliì Dei ridentur in theatris, quam qui adorantur in templis, nec aliis ludos exhibetis, quam qui bus vietmas immolatis. De Civit. Dei, lib. VI, cap. VI.

(370) Nella tragedia, intitolata Jan, dice questo personaggio ad Apollo: «Perché sedurre bellezze mortali, ed abbandonare i loro figli alla morte? Pensate ch'essendo Dei, voi dovreste darci esempi di virtù.... Se voi soccombete ad inique passioni, non bisogna più accusar gli uomini, bisogna a voi attribuirne la colpa. Essi non sono che gl imitatori de' vostri vizii, voi siete i loro maestri.» Veggasi l'atto 1. Nell'Ifigenia in Tanride, nell'occasione d’un sogno, Ifigenia dice: «Voi Genii che chiamano sapienti, la vostra scienza non è meno vana de' sogni. Io lo veggo, l'errore è il patrimonio de' Numi, come degli uomini. Eurip., Ifigenia in Tauride, atto III. — Nell’Oreste egli fa attribuire ad Apollo il parricidio da quell’Eroe commesso. Ubbidendo a lui, egli dice, «io uccisi mia madre; prendete lui polluto, uccidetelo; egli peccò e non io., Simili tratti s incontrano frequentemente negli antichi tragici.

(371) Si sa da tutti che il delitto di Anassagora fu d’aver insegnato che il Sole non era animato, e che non era altro che una lamina di acciaio della grandezza del Peloponneso; e quello di Aristotile, fu d’aver detto che il Sole era tutto altro che Apollo sulla quadriga.

(372) Vedi il frammento della sua tragedia dejCabiri presso Ateneo, lib. X. L’istesso fa Euripide presentando Ercole ora furioso in Herc. Furent.) ed ora chro (nell'diceste), facendogli proferire da ebro assurdi ed insani detti.

(373) Stanleii, Historice Philosoph.

(374) Nec pueri credunt, nisi qui nondum cere lavantur. Giovenale, Sat., II.

(375) Egli adopera l'esempio degli Dei per incoraggiare al delitto «Essi l'han fatto, ed io misero mortale non Io farò! Ego homuncio hoc non facercm» Enutic, atto III, scena V.

(376)( )Apul., Metam., lib. VI. Non si può dubitare che il Poeta abbia adoperato la formola, ell'effettivamente si proferiva in questa occasione. Jamblic., De vita Pithagorae.

(377)( )Apul., Metam., lib. VI. Non si può dubitare che il Poeta abbia adoperato la formola, ell'effettivamente si proferiva in questa occasione. Jamblic., De vita Pithagorae.

(378)Chi non iscorge l’Uno e Trino di Platone in questa dottrina? Varrone presso Sant’Agostino, De Civit. Dei, lib. VII, cap. XXVIII. Forse a questo istesso allude quel luogo di Cicerone, dové fa dire ad uno degl'interlocutori: «Preetereo Samothraciam, eaque, quae Lanini nocturno aditu occulta coluntur sylvestribus saepibus densa: quibus explicatis, ad rationemque revocatis rerum magis natura cognoscitur quam Deorum. Cicer.,»De Nat. Deor., lib. II.

(379) Questo si conteneva nell'Inno cantato dal Jerofanta. Vedi Athèn., lib. XI, cap. XIII; Clement. Alexand., Cohortatio ad Gentes, cap. VII, e Meursii Eleusina.

(380) Plutarco in ejus Vita.

(381) Apud Etym. Magn. in voce teleth.

(382) Stat., Thea, lib. IV, v. 316.

(383) Platone, De Legib., lib. VII.

(384) Che si combini questo fatto con quello, che poc’anzi si è rapportato sui misteri di Samotracia.

(385) Eunopius in Maximin.

(386) Plutarco, De Oraculis.

(387) Id., Consol. ad uxor.

(388) Cicer., De Legib. lib. II.

(389) Isocrate in Panegyric.

(390) Vedi Plutarco, De Lect. Poetarum.

(391) Celso, apud Orig. lib. VIII.

(392) Aristoph. in Ranis.

(393) Eschine il Filosofo, Axioch. sive de mor.

(394) Luciano nel Dialogo della barca.

(395) Strabone, lib. X.

(396) Meursii Eleusina.

(397) Sacra Acherontia.

(398) Platone in Phaedon.

(399) Tram, di Stvge, ap. Stob., Eclog. Phvsic., lib. I.

(400) Porphvr., ap. Euseb., Praparat.

(401) Nel Capo I di questo libro, e particolarmente nella nota a pag. 340.

(402) Prochis ad Plat. Polit. Veggisi anche Jamblic., De Mjrit. tomo I, cap. XI; Julian., Orat. V.

(403) Orig. contro. Cels., lib III.

(404) Aristoph. in Ranis.

(405) Svetonio in Vita Neron., cap. XXIV.

(406) Philostrat. in Vita Apoll., lib. lV, cap. XVIII;Euseb. contra Hierod.

(407) Aristoph. in Ranis.

(408) Plutarco, De Lect. Poetamm.

(409) Id., op. cit.

(410) Id., op. cit. Veggasi anche Platone in Phed.; Diogene Laerzio, lib. IV, cap. II, § VI.

(411) Nel Capo I di questo libro.

(412) Basta riscontrare nel vol. I della Biblioteca Greca di Fabricio tutte le autorità ch'egli produce, per dimostrare che non vi è alcun avanzo delle poesie del vero Orfeo, e che tutte quelle che portano il suo nome, non sono che del supposto Orfeo, che alcuni credono Onomatrite contemporaneo di Pisicrate, ed altri qualche altro poeta incognito, che si servi del nome di Orfeo per persuadersi, che l’indicato inno, che porta il nome di Orfeo, è di un’epoca molto posteriore a quella, nella quale quest’eroe viveva.

(413) Nel suo Trattato d’Iside e d Osiride,

(414) Mere. Trismeg., Pcemand. in princip.

(415) Apoll, Mclep. Dial.

(416) Si sa che il Filangeri non giunse al fine della sua opera.

(417) Lib. II, cap. L.

(418) Lib. I, cap. XIII.

(419) Lib.V.

(420) Saturn., lib. I, cap. IX.

(421) Vedi M. De Guignes nel Chou-Kiug, Discorso preliminare, e parte III, cap. III.

(422) Vedi Laftìteau, Costumi de' Selvaggi, e le Osservazioni di Rinaldo Forster sul suo Viaggio nell Emisfero australe, parie IV, cap. X.

(423) Coloro che dall’erronee ed imperfette relazioni di Cesare su questa religione potrebbero essere indotti a dubitare di questi fatti, son pregati a leggere l’Istoria della Religione de Galli, dì Domenico Jacques Martin, pubblicata nel principio di questo secolo, nella quale quest’erudito scrittore ha raccolto tutto ciò che poteva riguardare questa religione, e ci ha mostrato con ciò il giudizio che si dee formare delle indicate relazioni.

(424) Istoria generale de' viaggi tomo LIV.

(425) Istoria generale de' viaggi tomo XLVIII.

(426) Teogonia, verso 133 fino al verso 135, e verso 124.

(427) Ovidio, Metani., lib. I, Fab. 3.

(428) Ciò che Visdelou osserva sull’idea del Fato de' Chinesi, ci fa manifesta mente vedere esser dipesa dall’istessa origine, e aver ricevuto l’istesso progressivo sviluppo di quella de' Greci. Veggasi Visdelou nelle sue Osservazioni dell’Y-King. pag. 428, in seguito del Chou-King.

(429) Lib. I.

(430) Lib. XV.

(431) Lib. I.

(432) Lib. I.

(433) Chou-King, partei, cap. II, ed io varii altri luoghi; Notizie dell’Y-King, pag. 428; Ckircher, China illustrata, parte III, cap. I.

(434)De Bello Gallico, lib. VI.

(435)De Moribus Germanorum.

(436) I Taitiani, al riferir di Forster, oltre il Gran Dio del Sole, hanno una Dea della Luna, un Dio de' Venti, e tredici Divinità del Mare. La loro Dea Cotepapa, moglie dell’antico Nume, e colla quale nella loro Teogonia la generazione degli Dei ebbe principio, sembra esser la Terra; perché al riferir dell’istesso viaggiatore questa voce significa una rupe. Vedi Rinaldo Forster, Osservazioni sul suo Viaggio nell’Emisfero australe, parte IV, cap. X.

(437) Vedi la preghiera che i preti Egizii facevano a' parenti del defunto in suo nome, rapportata sull’autorità di Eufanto da Porfirio, De Rost., lib. IV; Diod. Sic., lib. I; Socrate presso Euschio, Praip. Evang., lib. I; Strab., lib. XV; Fortunato e Lattanzio, De Diis et mundo; Stazio, Theb. Lib. I infine; Macrob.; Satura.., lib. I, cap. II; Servio nella seconda Eneide. Vedi anche Plinio, lib. XII, cap. XIX, e Solino, cap. XXI, dové parlano del Cinamomo che gli consecravano gli Etiopi. Vedi anche pe’ popoli dell'America Garcilasso, lib. I, cap. I, e le Relazioni del sig. Movne De Mourgnes su’ popoli che abitano quella parte della Florida, che è vicina alla Virginia: Rochefort, Istoria dell Isole Antille; e Laffiteau, Costumi de Selvaggi, tomo I; e Rinaldo Forster, Osservazioni sul suo Viaggio nell’Emisfero australe, parte IV, cap. X.

(438) Veggasi Vossio, De Origine et progressu Idolatria:., lib. Il, cap. III, e Seldeno dové parla della voce Ileliogabal, che significa Sacerdote del Sole.

(439) Lib. I.

(440) Lib. XII.

(441) Erodoto, lib. I; Diodoro, lib. II.

(442) Veggasi la citata Istoria della Religione de Galli, e pel Tuiston de Germani Vossio, De Orig. et progr. Idol., lib. Il, cap. XV.

(443) Vedi la citata Istoria della Religione de Galli, tomo II, lib. IV.

(444) Istoria generale de viaggi, tomo XVIII, pag. 81 e seg.

(445) Macrob., Satura., lib. I, cap. IX.

(446) Ciò che la Tavola ci dice del Dio Vertunno, e l’etimologia istessa del suo nome, ci fa credere che questo antico Nume etrusco fosse stato l’antico Dio del Tempo di questo popolo, come Giano l’era de Latini; ed ecco la ragione per la quale si trova da molti autori confuso con Giano stesso. Veggasi Ovidio nelle sue Metam., lib. XIV, e Properzio, Eleg. lib. IV. Le metamorfosi, che questi due poeti attribuiscono a questo Nume, non c indicano altro che le successive tracce del tempo nelle diverse stagioni.

(447) Teogonia, versi 45 e 46.

(448) Ibid, versi 206 e 207.

(449) Ibid., verso 188 fino al verso 206.

(450)Teogonia, verso 183 fino al verso 185.

(451) Euripide pone la Dea Lissa tra il numero delle Furie, perché questa Dea ispirava il furore e la rabbia (Eurip. in Herc. Furente), Virgilio vi pone anche la Discordia {Eneide, lib. VIII, verso 702).

(452) Verso 11 fino al verso 26.

(453) Lib. II.

(454) Verso 264 fino al verso 270.

(455) Verso 930 fino al verso 936.

(456) Verso 195 e 463 fino al verso 466.

(457) Iliade, lib. IV.

(458) Lib. XI.

(459) Lib. XV.

(460) Ibid.

(461) Livio, lib. II.

(462) I Chinesi avevano anche essi gli Spiriti o Deità, che alle passioni ed affezioni dell animo presiedeano. Veggasi il Trattato sopra alcuni punti della Religione della China di Longobardi, nel IV volume delle Opere di Leibnitz, pag. 104 e seg.

(463) A questo alludono i tre versi d'Omero rapportati da Pausania, ne' quali si dice: «E voi, Ninfe, ritiratevi nelle vostre profonde caverne, un vecchio fortunato sotto le onde vi aspetta: andate a rivederlo, ed a brillare alla sua corte.»

(464) Virgilio, Eneide, lib. VIII, verso 314.

(465) Laffiteau, Costumi de Selvaggi, tomo I.

(466) Notizie del Veking., pag. 428.,

(467) Vedi l’Introduzione all Istoria di Danimarca, tomo II.

(468) Lib. X.

(469) Lib. III.

(470) De Propriet. sermon.

(471) Varrone, lib. I, De Kit. P. R.

(472) Odissea, lib. XI.

(473)«….Salvete recepti Nequicquam cineres, animaeque umbraeque paterme.»

(AEneid., lib. V.)

(474) «Et nunc magna mei sub terras ibit imago.»

(AEzeid., lib. IV. )

(475)Lucrezio, lib. I

(476) Veggasi ciò che su questa dottrina degli Egizii si troverà indicato tìel VII Capo di questo libro.

(477) Dove descrive l'apparizione dell'ombra d’Anchise ad Enea in Sicilia nella notte, che segui all’incendio delle navi, e dové fa dire all’ombra che l’Oriente, o sia il Sole suo inimico, l'obbliga a ritirarsi. Vedi Eneide, lib. V, verso 711 fino al verso 740.

(478)Properzio, lib. IV, Elegia dové dice: Nocte vagee ferimus, nox clausas liberat utnbras,…………………………………………………………………….. Luce jubent leges Lethsea ad stagna reverti, etc.

(479) Vedi Rinaldo Forster nel suo Viaggio nell’Emisfero australe parte IV, cap. X.

(480) Teogonia t verso 148 fino al verso 153.

(481) Ibid., verso 713 fino a 716.

(482)Ibid., verso 734 fino a 737.

(483) Teogonia., versò 815 fino a 820.

(484)Ibid., verso 820 fino a 868. Si rifletta anche che, secondo l’istesso Esiodo, questo Gigante è figlio del Tartaro e della Terra. Teogonia, verso 820.

(485) Ovidio, Fasti, lib IV; Metam., lib. V. Vedi anche Pindaro, Pyth., I; Eschilo in Promet; Hygin., fab. 151; Nonnus, fab. 152.

(486) Diodoro, lib. V.

(487) Apollodoro, lib. I.

(488) Pausania in Arcad.

(489) Plutarco in Iside et Osiride; Idem, De Oraculis; Erodoto, lib. III.

(490) Plutarco in Iside et Osiride. Vedi anche Diodoro, lib. I.

(491) Vedi le Favole 2, 4, 16,17, 31.

(492) Vedi Kempher, lib. III, cap. I; Charlevoix, Istoria del Giappone, Libro preliminare, cap. XIII.

(493) Vedi l’Autore delle Cerimonie religiose, tomo IV; l’Istoria generale de viaggi tomo X; le Lettere edificanti, tomo XII e XIII, e M. Dellon, Delle Divinità che adorano i popoli dell India tomo III.

(494) Vedi ciò che il Padre Laffiteau ne dice nella sua opera Sopra i Costumi de' Selvaggi tomo li.

(495) L'Autore d un inno che si attribuisce ad Omero, dice che Giunone, irritata contro di Giove, discese sulla terra, donde essa fece uscire de' vapori che formarono lo spaventevole Tifeo.

(496) Teogonia a verso 185 fino al verso 187.

(497) Cicer., De Natura Deorum, lib. II, ecc.; Orat. pro Murena; Plutarco, De Fort. 'Rom.; Dionisio d Alicarnasso, lib. IL

(498) Esiodo, Teogonia versi 901-906 Opere e giorni, versi 256-274. Veggasi anche l’Inno a questa Dea d'Orfeo, ed Euripide nella tragedia De’ Fenicii, dové ci fa vedere questa Dea scolpita nello scudo di Polinice con queste parole all’intorno: fo ti ristabilirò. Vedi finalmente il citato Frammento di Sane cullatone presso Euschio.

(499) Cicerone, De Legib. lib. II; Plin., lib. VII; cap. XXVI; Servio in Fili, Aen.

(500) Esiodo, Teogonia, versi 886-887.

(501) Pindaro, Olimpiache, ode 10.

(502) Esiodo, Teogonia versi 397-400, e versi 775-807.

(503)Livio, lib. X, cap. XXV. Il nome di questa Deità era Aidwj presso i Greci. Vedi Esiodo, poema Delle Opere e de' giorni, versi 197-198.

(504) Numa Pompilio regolò il culto di questa Dea in Roma sotto il nome di Tacita. La sua festa si celebrava nel tempio della Dea Volupia. Macrobio, Satur., lib. I, cap. X.

(505) Tito Livio, lib. V, cap. V; Cicer., De Divin., lib. I et II; Aul. Gellio, lib. XVI; Macrobio, Satur;, lib. III, cap. IX.

(506) O sia la Memoria. Essa era figlia di Giove, e madre delle Muse, che coll’istesso padre Giove aveva generate. Esiodo, Teogonia, versi 53, 60, 915, 917.

(507) Vedi Esiodo, Teogonia, versi 75-103, dové e da’ nomi di queste nove Muse che egli rapporta, e dagli oggetti della loro influenza, si rilevano i diversi talenti, a' quali si credeva che esse presedessero.

(508) Esiodo, Teogonia, verso 937.

(509) Id., op cit., versi 907910; Pindaro, Olimpiache, ode XIV; il Piscorso sulla riconoscenza di Crisippo presso Seneca, lib. II; De benefìciis, e Demostene, Orat. pro Corona.

(510) Veggasi il Prometeo d Eschile. Esiodo lo chiama per questa ragione l'industrioso ed astuto Prometeo: Teogonia, versi 510-911.

(511) Esiodo, Opere e Giorni, verso 73; Pausania in Bceot. et in Corinth.; Cicerone, De Cl. Or.

(512) Veggasi il Frammento, di Sanconiatone presso Euschio; Erodoto,lib. I; Diodoro, lib. I; Esiodo nella Teogonia, versi 938939, e nelle Opere e Giorni, verso 80, Tito Livio, deca IV, lib. VI, cap. XLIV, e l’Opera di Giovanni Nifi., Traci. de Mercnr.

(513) Plutarco ne' suoi Problemi, dové parla del culto che i Samji rendevano ad Ermete.

(514) Platone la chiama col primo nome nel Timeo; ma gli altri antichi scrittori si servono degli altri due, ed Eschilo adopera per questa ragione il nome d Onka Pallade per indicare la Minerva Tebana, nella tragedia De Sette innanzi Tebe.

(515) Esiodo, Opere e Giorni, verso 64 e 72, e nello Scudo d'Ercole, versi 197-200, 325-340.

(516) Veggasi la citata Istoria della Religione de' Galli, dové parla di questa Dea.

(517) II Frammento di Sanconiatone presso Euschio.

(518) Veggasi l’Istoria della Religione de' Galli, dové parla della Dea Arduina, e dell'antica Foresta, che aveva preso da questa Dea il suo nome.

(519) Deità che a' talenti medici presiedevano.

(520) Vedi l’istesso Frammento di Sanconiatone presso Euschio.

(521) Omero nell'Odissea, dové rapporta il discorso di Menelao a Telemaco, e Virgilio, Georg., lib. IV, dové parla della perdita delle Api di Aristeo.

(522) Veggasi il lib. IV De Re, cap. XLVIII, ed il Commento del citato Padre. Grozio sul capo XLVIII d’Isaia parla anche di questo Dio come d’una delle più venerate Deità de' Babilonesi.

(523) Esiodo le fe nascere dall'odiosa Notte: Teogonia, verso 224.

(524) Macrobio, Satur., lib. I, cap. X, dove parla della Dea Volupia.

(525) Questa Deità si chiamava da' Latini Coalemus.

(526) Filostrato nella dipintura del Dio Como: Imag., III. — Ebano Var., Histor., lib. I, cap. XXVII, e parla d’una Dea Adesagia invocata come la Dea della Ghiottoneria in Sicilia.

(527) Esiodo, Teogonia, versi 229-230.

(528) Festo nella voce Murcea, S. August, De Civit. Dei, lib. IV, cap. XI.

(529) Ne poc'anzi citati Problemi,

(530) Festo nella voce Murcea, S. August, De Civit. Dei, lib. IV, cap. XI.

(531) Noi troviamo nella commedia di Plauto intitolata la Cornicularia la seguente preghiera di un ladro: Mihi, Laverna, in furtis celtraffis manus. Laverna, rendi le mani agili al furto.

(532) La porta Lavernale era così chiamata in Roma per l'ara di questa Dea, che l’era d’accanto. Varro, De Lingua lat., lib. IV.Nella via Salaria vi era anche un bosco a questa Dea consecrato, come si può vedere in Acrone, Comment. in Horat, lib. I, epist. XVI.

(533) Laverniones quod sub tutela Dea Lavernce essent. Festo in questa voce.

(534) Come si può rilevare dal seguente frammento di Lucilio:

Si versus facies, Musis; si vendis, Lavernat.

(535) Lib. I, epist. XVI.

Cinesi ebbero altresì gli Spiriti o Deità cosi delle virtù, come de' vizj. Vedi il citato Trattato di Longobardi, nel IV volume delle Opere di Leibnitz, pagina 104, e seg.

(536) Esiodo, Teogonia, versi 384-385.

(537) Pausania in Bceot. et in Corinth.

(538) Pausania et Corinth.

(539) Esiodo, Opere e Giorni, versi 762-763; Pindaro, Olimpiache, ode XIV; Ovidio, Metam., lib. XII.

(540) Vedi la descrizione che ne dà Ausonio.

(541) Esiodo le chiama figlie di Giove, ed Omero ne fa Una bella dipintura nel lib. IX Iliade.

(542) Esiodo, Teogonia, verso 902.

(543) Omero,Iliade, lib. XIX, dové parla della nascita d'Ercole.

(544) Esiodo, Teogonia, versi 214, 225 e 232, dové parla di tutte queste Deità. Veggasi anche la bella enumerazione che ne fa Virgilio, allorché parla delle Deità che risiedono nel vestibolo, e nelle prime foci dell Orco. Eneide, lib. Vi, versi 273 e 280.

(545) Sofocle nell'Edipo, atto I, il Coro chiama questo Genio un Dio più spaventevole di quello della guerra.

(546) Euripide nell'Elettra, atto IV.

(547) Vedi la citata descrizione che ne fa Ausonio.

(548) Cicer., De Natura Deorum, lib. II; Id., Orat. pro domo sua; Plinio, lib. XXIII, cap. I; Virgilio Eneide., lib. IV, verso 173 e seg.

(549) Questa Dea fu quindi onorata come la Dea delle vacanze in generale, giacche la vacanza delle belliche fatiche è cagionata dalla Vittoria, Ovidio,Fasti, lib. VI, verso 307.

(550) Veggasi per queste diverse Deità Dione, lib. III; Valerio Mass., lib. II, cap. I; Tito Livio, lib. IV; Varrone, De Lingua lat., lib. IV e VI; Plinio, lib. XXV, cap. IV; Arnob., lib. IV, e S. August., De Civit. Dei, lib. IV.

(551) Cicer. De Nat. Deor., lib. III, e Arnob., lib. IV.

(552) Lib. XI, cap. V.

(553) Varrone, De Lingua lat., lib. IV; Festo in questa voce; Virgilio Eneide, lib. V.

(554) Ovidio, Metam., lib. I.

(555) Aulo Gellio, lib. V, cap. XII, e Cicer. De Nat. Deor., lib. III.

(556) Si avverta che questa voce significa in greco danno, danneggiamento.

(557) Vossio, De Idol. lib. I, cap. XVI; Erod., lib. V, cap. L.

(558) I Romani, secondo la testimonianza di Varrone rapportata da Clemente Alessandrino, rappresentarono anch'essi il loro Dio della guerra sotto l’emblema d'una lancia, prima di saper dare alle statue la figura umana.

(559) Essi si servivano de' due primi nomi per indicare questo Dio ne' due opposti stati di guerra e di pace: Gradivo per la guerra, Quirino per la pace. Nell’apoteosi di Romolo gli fu quindi dato il nome di Quirino per la favola, che lo faceva figlio di Marte. Servio, Eneide, lib. III.

(560) Varrone, De Lingua latina.

(561) Macrobio, Satura., lib. VI, cap. XIX.

(562) Strabone, lib. VII.

(563) Chou-King., parte III, cap. III; Dubald, tomo III.

(564) Esiodo la fa nascere da Forcis e da Ceto s Teogonia, verso 273.

(565) Virgilio, Eneide, lib. VIII, verso 703 e seg.; Silio Italico, Punte., lib V, verso 221.

(566) Varrone De Lingua latina, lib. IV, cap. X.

(567) Veggasi ciò che da me si è detto su quest’oggetto ne' Capi XI e LII del terzo libro di quest’opera.

(568) Il Frammento di Sanconiatone presso Euschio.

(569) Seldeno, De Diis Svriis Svnt., II, cap. I.

(570) Istoria generale de viaggi, tomo XLIV, pag. 394.

(571) Chou-King, parte III, cap. IV.

(572) Tutte le Relazioni de' Missionari! europei presso questi popoli sono uniformi su quest'oggetto.

(573) Vedi la Relazione de' viaggi del capitano Cook, e Rinaldo Forster nel suo Viaggio nell’Emisfero australe, parte IV, cap. X. È da osservarsi che l’indicato rito d’invocare una Deità fischiando si trovava in tempi ed in paesi tanto da questi remoti, quanto lo sono quelli degli Egizii. Vi erano alcuni casi, ne' quali i loro Sacerdoti ricorrevano al fischio per invocare alcune Deità. Vedi Nicomaco Garaseno, Harm. mariual., lib. II, in Meibonii auctoribus antiquae musica: vol. I, pag. 73.

(574) Ovidio, Fasti, lib. VI, verso 2il; Tito Livio, lib. XXIII, cap. XXI. Lattanzio e Sant'Agostino rapportano entrambi la citata testimonianza di Varrone.

(575) I trattati d’Apuleio e di Plutarco sul demone di Socrate non ci permettono di dubitare dell'esistenza di questa opinione.

(576) Vedi Renaldo Forster nel suo Viaggio nell'Emisfero lustrale, parte IV, cap. X. E vero che questo viaggiatore pretende, che questi Techees sieno nell’opinione de' Taitiani le anime degli uomini, ma basta osservare tutto il complesso de' fatti che egli rapporta in questo Capo per vedere le contradizioni che s’incontrerebbero se si volesse adottare la sua congettura.

(577) Veggasi il Trattato sopra alcuni punti della Religione de' Chinesi di Longobardi nel IV volume delle Opere di Leibnitz, a pag. 118 e 121.

(578) Pausania in Corinth.

(579) Pausania in Lacon.

(580) Vedi la Relazione del terzo viaggio del capitano Cook..

(581) IlFrammento di Sanconiatone presso Euschio.

(582) Plutarco, De Iside et Osiride.

(583) Esiodo, Teogonia, verso 455 e 720814, dové fa la descrizione del Tartaro, ed il poema Delle Opere e de giorni, versi 151153 e 166171, dové parla delle Isole Fortunate.

(584) Teogonia, verso 223.

(585) Ex abdita quadam aeternitate, sono le parole d’Ammiano Marcellino, lib. XIV, cap. XI. Veggasi anche Callimaco, Inno in Cererem, e Pausania m Arcad.

(586) Veggasi l’Edda o Mitologia degli Scandinavi.

(587) Veggasi il Padre Du-Halde, e Navarretta, Viaggio alla China. Malgrado il materialismo introdotto da qualche tempo nella classe de' letterati cinesi, il popolo onora ancora questo Dio sotto questa idea.

(588) Essi la considerano come un inesorabile Deità, la quale sedendo su d'un ponte, pel quale debbono passare le anime de' morti, vi esercita il tremendo giudizio delle loro azioni, al quale seguono poi le pene o i premii.

(589) Veggasi Esiodo, Teogonia, verso 123, dové parla della Notte e dell'Erebo sia dell oscurità o tenebre, e versi 211212, dové fa nascere dalla Notte la Morte e il Sonno. Veggasi anche Omero, Iliade, lib. XIV, dové il Dio del sonno esige un giuramento da Giunone. Veggasi finalmente Ovidio, Metam., lib. XI, dove descrive il palazzo del Sonno, e Pindaro, Olimp., ode II, e Virgilio, Eneide, lib. II, dové parlano della Dea della Morte.

(590) Omero, Iliade, lib. IV; Esiodo, Teogonia, versi 755-759.

(591) Esiodo, Teogonia, versi 720-766.

(592) Esiodo, Teogonia, verso 202.

(593) Omero, Odissea, lib. XIX; Virgilio, Eneide, lib. VI, verso 893.

(594) Ovidio, Metam., lib. XI.

(595) Chou-King, parte I, cap. II; parte III, cap. Ili e V; parte IV, cap. I e XVI. Ckircher, China illustrata, parte III, cap. II; Trattato sopra alcuni punti della Religione de Chinesi di Longobardi, nel IV volume delle Opere di Leibnitz, pag. 118.

(596) O Rufina, Sant’Agostino, De Civitate Dei, lib. IV.

(597) Idem.

(598) Servio nel libro I delle Georgiche.

(599) Sant'Agostino, op. cit., lib. IV.

(600) Ovidio, Metani., lib. XIV; e Festo, dové parla del Sacerdote di questa Dea detto Flamen Pomoualis.

(601) Arnob., lib. IV, Sant'Agostino, De Civitate Dei, lib. IV e V.

(602) Seia, Nodutus, Volutina, Patellana, Hostilina, Lacturcia, Matura, Segesta, Puntina, Naduterensis, Deverroua, Tati lina Robigo o Rubigo e Mola, erano i diversi nomi di queste Deita alle loro ispezioni corrispondenti. Veggasi Varrone, De Re Rustica e De Lingua latina., lib. V; Macrobio, Saturn., lib. I; Plinio, lib. VIII, cap. XII, e lib. XVIII, cap. II; Arnob., lib. IV, Sant'Agostino, De Civitate Dei, lib. IV e V.

(603) Tali erano le Dee Collina o Collatina, secondo Sant'Agostino, e Vallonia. Veggasi Sant'Agostino, Conf., lib. IV, cap. VIII.

(604) Puta, Intercidana e Spineusa erano i nomi di queste tre Deità. Arnob., lib. V, Sant'Agostino, De Civitate Dei, lib. IV.

(605) La Dea Edulica, Sant'Agostino, op. cit., lib. XI.

(606) Mellona presedeva alle Api, Pales alle Greggi, Bubona a' Buoi, Hippoua o Epona a' Giumenti. Vedi Plutarco in Parall. Apul., De Asin. Aur., lib. III; Sant’Agostino, De Civitate Dei, lib. IV; Tertulliano, Apologia, cap. XVI; Arnob., lib. IV, e Cicerone nel lib. Il, De Divinatione, dove rapporta l’antica tradizione, che Roma fosse stata da Romolo fondata nel giorno, nel quale i popoli del Lazio celebravano le feste dette Palilia dal nome della Dea Pales, alla quale erano consecrate.

(607) Veggasi Servio nel lib. VIII dell'Eneide, nel verso ove Virgilio parla del Dio tutelare di Socrate.

(608) Negl’isolani del Mare Australe si sono trovate l’istesse idee. Ciaschedun’isola intorno a Taiti ha la sua particolare Deità tutelare, alla quale il gran Sacerdote di ciaschedun’isola si dirige nelle preghiere che egli va facendo nel gran Marai o cimiterio del Principe dell'isola. Il Dio tutelare di Taiti è Orua-Attoo; quello di Huahoine è Tane; quello di Maiedea è O-roo; quello di Otaha è Orra; quello di Balabola è Taootoo; quello di Maurooa è O-too, e quello di Tabuamanoo è Taroa. Vedi le Osservazioni di Renaldo Forster sul suo Viaggio nell'Emisfero australe, parte IV, cap. X.

(609) Plinio, lib. XXVIII, cap. II.

(610) Macrobio, Satur., lib. XXVIII, cap. II.

(611) Il Tribuno della plebe Valerio Sorano per averlo proferito fu punito di morte. Veggasi Plinio, lib. III, cap. V. Questo fatto viene anche attestato da Varrone.

(612) Romani Deum, in cujus tutela urbs Roma est, et ipsius urbis latinum nomea ignotum esse voluerunt. Macrobio, Satura., lib. III, cap. IX. Il vero nome della Città di Roma era Valentia.

(613) Veggasi Tito Livio, dové rapporta l’arringa di Fulvio Camillo nella fine del suo quinto libro. Veggasi anche quella di Quinto Falario nell'occasione dell’incendio cagionato in Roma da' figli di quei Patrizii Capuani, a' quali egli aveva fatto troncare il capo. Parlando del tempio di Vesta, egli dice: Vestae aedem petitam, et aeternos ignes, et conditum in penetrali fatale pignus imperii. — Veggasi anche Cicerone nell’undecima Filippica, dové uguaglia l’importanza di conservare questo fatale pegno nel tempio di Vesta custodito. — Veggasi Macrobio nel poc’anzi citato luogo, dové rapporta le differenti opinioni che vi erano su questo tutelare Nume. Chi credeva che fosse Giove, chi la Luna, chi Angerona o la Dea del silenzio, e chi Opis; prova manifesta dell’ignoranza, nella quale era la maggior parte di questo segreto anche ne' tempi, ne' quali doveva sembrare meno pericoloso il rilevarlo, perché ne' tempi della maggiore estensione dell’Impero.

(614) Pausania in Lacon.

(615) Plutarco, Quinto Curzio e Diodoro di Sicilia l'attestano nell'occasione che la città di Tiro era da Alessandro assediata.

(616)Pausania, loc. cit.

(617) Sotto il nome della Dea Antia o Antea.

(618) Sotto quello della Dea Ferentia.

(619) Tacito, lib. XVII.

(620) Sotto quello della Tenes. Cicerone in Verrem, e Servio in II Aeneid.

(621) Sotto il nome del Dio Alabandus. Cicer., De Nat. Deor., lib. II.

(622) Plutarco, Parali.; Cicerone in Verrem.

(623) L’istoria della Religione de Galli, tomo II, lib. IV.

(624) Tacito, Annali, lib. IV, cap. XXVII e LVI; Tito Livio, lib. XLIII, cap. VI; Apul., Asin. Aur., lib. VIII. Ma la Dea Roma, o sia il Genio di Roma, era ben diversa da quella arcana Deità che ne era la principale protettrice e della quale si nascondeva con tanta gelosia il nome ed il simulacro, come si nascondeva ancora il vero nome della Città, perché si credeva che bisognasse conoscer l’uno o l’altro per evocarla,

(625) Esiodo, Scudo d'Ercole, verso 274.

(626) Esiodo, Teogonia, versi 405-408.

(627) Eileiquia. Esiodo, Teogonia, verso 922, ed Omero, Iliade, lib. XIX, dové parla della nascita dErcole.

(628) Esiodo, Teogonia, versi 449-452.

(629) Plinio, lib. XXIV, cap. VIII, e lib. XXV, cap. XI.

(630) Esiodo, Teogonia, ed Erasmo negli Adagi.

(631) Teocrito, ldyl, IV.

(632) Forse per questa ragione nel ratto delle Sabine si proferì gridando questa voce. Questa fu un’invocazione del Dio Coniugio. Veggasi su di ciò l’autorità di Sestio Silla rapportata da Plutarco in Rom.

(633) Sant’Agostino, De Civitate Dei, lib. IV, cap. IX.

(634) Id., op. cit., loc. cit.

(635) Festo in questa Voce.

(636) Cicer., De Nat. Deor., lib. III.

(637) Varrone in libris Rerum divinarum apud Gellium, lib. XVI, cap. XVII; Sant'Agostino, De Civitate Dei, lib. IV, cap. II.

(638) Varroapud Gellium, lib. XVI, cap. XVI.

(639) Festo ed Ovidio, Metam., lib. IX, verso 585.

(640) Tertulliano, De Anima, cap. XXVII.

(641) Varrone presso Nonuio, cap. IV, num. 319.

(642) Cai. Rhod., lib. XXV, cap. XX; Sant’Agostino, De Civitate Dei, lib. VII, cap. II.

(643) Plinio, lib. XXIX; Sant'Agostino, De Civitate Dei, lib. IV, cap. XI.

(644) I Latini non altrimenti che i Greci avevano l'opinione del Demoneo Genio che di ciascun uomo prendeva cura. Maior (dice Plinio, lib. II) coelitum populus etiam quam hominum intelligi potest, cum singuli quoque ex semetipsis totidem Deos faciunt Junones, Geniosque adaptando sibi.

(645) Sant'Agostino, De Civitate Dei, lib. IV, cap. XI.

(646) Varrone presso Nonnio, cap. II, num. 756.

(647) Ovidio, Fasti, lib. VI, verso 101. Questa Dea veniva anche chiamata Corna, Cardinea e Cardea, ed era anche invocata per conservare o restituire in buono stato le viscere dell'uomo.

(648) Varrone, De Re Rustica, lib. Il, cap. XI.

(649) Io l'indicherò coll'istesso ordine, col quale ne ho indicate le funzioni. Siccome il nono giorno, della nascita era destinato a dare con un certo prescritto rito il nome al fanciullo, così la Deità che a questa funzione presedeva, si chiamava Nundina; le altre erano Edusa, Potina e Cuba; Ossilaga, Ossipaga o Ossipanga; Statanus o Statilinus e Statina; Jabulinus; Fascinus e Paventia; CatiuSj e Juveutaso Juventus—Veggasi per queste diverse Deità Cicerone, De Natura Deorurn, lib. I, e Tusc., lib. J, cap. XXVI; Plinio, lib. XXVIII, cap. IV; Varronepresso Nonnio, cap. XII in fine, e Pistesso Nonnio, cap. II, num. 310; Macrobio, Saturn., lib. I, cap. XVI; Tertulliano, De Anima, cap. XXIX; Arnobio, lib. Ili e IV; Sant’Agostino, De Civitate Dei lib. IV, cap. XI e XII.

(650)Introduzione all Istoria di Danimarca, tomo II.

(651) Istoria de viaggi, tomo LVII; Costumi de selvaggi americani, tomo I.

(652)Il Dio Afvode o Mvagron. Plinio ci dice che tutte le volte che si celebravano i giuochi Olimpici non si mancava mai di sacrificare al Dio Myode per timore che le mosche non venissero a turbarne la solennità. Veggasi Plinio, lib X, cap. XXVIII. — L’istesso Plinio ci fa sapere che i Cirenensi avevano un simile Dio cacciamosche sotto il nome di Achor (loc. cit. ). Il Beel-Zebut degli Accaroniti, del quale più volte parlano i sacri Libri, era il Signore o Principe delle mosche, come l’indica il suo nome. Veggasi Sant'Agostino, Trad. in Joan.

(653) Il Dio Tarakippo. Questo Dio veniva sovente invocato ne' giuochi, ne' quali si facevano le corse de' cavalli. Veggasi Pausania, lib. VI, cap. XL.

(654) Il Dio Agonius., onde le sue feste eran dette Agonalia. Veggasi Festo in questa voce.

(655) La Dea Abeona. Sant'Agostino, De Civitate Dei, lib. IV, cap. XXI.

(656) La Dea Vibilia che garantiva dagli errori delle strade. Arnobio, lib. IV.

(657) La Dea Deverrà. Arnobio, loc. cit.

(658) La Dea Nenia. Veggasi Festo in questa voce.

(659) Il Dio Lateranus. Arnobio, lib. IV.

(660)La Dea Haeres, alla quale si sacrificava, dice Festo, dopo aver ricevuta un’eredità. Veggasi Festo in questa voce.

(661) Ovidio, Fasti lib. II, verso 525.

(662) Sant’Agostino, De Civitate Dei, lib. IV, cap. IX.

(663) Sant’Agostino, op. cit, loc. cit., ed Arnobio, lib. IV.

(664) La Dea Mena e gli Dei Crepitus e Stercutius o Sterculius. Veggasi Sant'Agostino, De Civitate Dei, lib. VII, cap. II, e lib. VI, cap. IX? e per ultimo veggasi Plinio, lib. XVII, cap. IX, e Lattanzio, lib. I, cap. XX. — Il tempo ci ba conservata una figura del Dio Crepito, che rappresenta un giovanetto messo nella positura la più acconcia a scaricar dei peti e ad indicare in questo modo il ministero di questa ridicola deità.

(665) Esiodo, Teogonia, versi 43-49.

(666) Id. op. cit., versi 453-458.

(667) Id. op. cit., versi 467-468.

(668) Id., Scut. Herculis, versi 27-56.

(669) Id. op. cit., versi 53-54.

(670) Id. op. cit., versi 132-135.

(671) Id. op. cit., versi 467-496.

(672) Inno d Orfeo a Saturno, verso 1.

(673) Inno d'Orfeo a Saturno, verso 6.

(674) Omero, Iliade, lib, I, verso 578.

(675) Esiodo, Teogonia, versi 390396, 624-670, 717-885; Apollodoro, lib. I.

(676) Esiodo, Teogoniat versi 358, 388, 504, 506; Id., Scut. Herculis, verso 53.

(677) Veggasi questa favola in Plutarco, De Iside et Osiride.

(678) Veggasi le Note giustificative de fatti al num. 1.

(679)Veggasi le Note giustificative de fatti al num. 4.

(680)Erodoto, lib. II, cap. CXLIV.

(681) Veggasi l’indicato Frammento presso Euschio.

(682) Vedi Erodoto, lib. V, cap. LI.

(683) Esiodo, Teogonia, versi 36-38.

(684) Id., op. cit., verso 219.

(685) Omero, Odissea, lib. I.

(686) Platone, De Republ., lib. IX e X.

(687) Aristotile, De Mundo, lib. IV.

(688) Cicerone, De Nat. Deor., lib. I.

(689) Vedi più d'ogni altro quel luogo del quinto libro dell’Eneide, dové Venere conchiude così la sua preghiera a Nettuno per ottenere il felice arrivo alle sponde del Tebro delle navi d’Enea:

....Liceat Laurentem attingere Tybrim,

Si concessa peto si dant sa moenia Pareas Eneide, lib V, verso 796 e 798. Vedi anche Ovidio, Metam., lib. VIII.

(690) Nel citato verso 28 della Teogonia.

(691) Teogonia ne' citati versi 36-38, e ne' versi 25, 52-62, 916.

(692) Teogonia versi 904-906.

(693) Pausania in Eliac.

(694) Pausania, ibid. e in Phocicis.

(695) Pausania in Arcad.

(696) Esiodo, Teogonia, versi 535-561.

(697)Veggasi le Note giustificative de' fatti al numero 3.

(698) Esiodo, Teogonia, versi 888-894.

(699) Virgilio, Eneide, lib. I, versi 256295.

(700) Id., op. cit., lib. IV, verso 110, e nel verso 611 ove dice:

Et sicfata Jovis poscunt: hice terminus heeret.

(701) Nel Capo XXVI del libro III di quest’opera.

(702) Esiodo, Omero e gli antichi tragici ce li hanno come tali trasmessi.

(703) Virgilio, Eneide, lib. VI, verso 90.

(704) Id., op. cit, lib. I, versi 272-273.

(705) Eliodoro, Historia Ethiop.

(706) Veggasi la Relazione del signor Le Moyne De Mourgues.

(707) Virgilio, Eneide, lib. V, verso 38 e 711.

(708) Aristotile, Politica, lib. III. Vedi anche Omero nel libro I dell'Iliade, dové parla del solenne sacrificio fatto da Agamennone all’occasione del duello da farsi tra Paride e Menelao.

(709) Demostene, Orat. in Noceram: veggasi anche Apollodoro, lib. III.

(710) Diodoro Siculo , lib. II.

(711) Veggasi ciò che da noi si e detto ilei poc'anzi citato Capo 'XXXVI del libro terzo di quest'opera.

(712)Veggasi ciò che ha su di ciò pensato il gran Platone nel suo Cratilo, dové considera quest'età eroica come un’età amatoria.

(713) Esiodo, Scudo d'Ercole, versi 157.

(714) Esiodo, Teogonia, versi 1008-1010; Omero, Iliade, lib. XX.

(715) Pausania in Corinth; Ovidio, Metam, lib. III.

(716) Plutarco in Teseo; Diodoro, lib. IV.

(717) Ovidio in Ep. Parici., lib. II, cap. III.

(718) Pausania in Corinth. ed in Boeot.

(719) Boccat., Gen., lib. XII.

(720) Erodoto, lib. I.

(721) Cicerone, Epistola lib. XIII, epist. XLIV.

(722) Plinio, lib. U, cap. XIII.

(723) Cicerone (Orat., in Verr. IV} parla delle religiose feste istituite in Siracusa in onore di Marcello, che si celebravano ancora a tempo suo. Asconio (in Verr. IV) e Cicerone (ibid. ) ci parlano entrambi di quelle istituite nelle città dell'Asia Minore di onore di Quinto Muzio Scevola, che governò questa provincia nell’anno di Roma 654, dette Midia dal suo nome. — Plutarco (in Flaminio) ci parla di quella istituita nella città di Calcide nell'Etolia in onore di Flaminio che aveva un particolare Sacerdote, e che gli si dirigevano sacrificii.Egli ci dice anche che il suo nome fu associato ed anteposto ancora a quello di Apollo e di Ercole nella dedica di due principali edificii di questa città. — Si legga finalmente Cicerone, dové parla del rifiuto che egli aveva fatto del tempio che le città dell’Asia Minore volevano fabbricare in suo onore durante il Proconsolato di suo fratello Quinto Cicerone, e di quello che aveva fatto a' popoli della Cilicia durante il suo stesso Proconsolato in questa provincia Epistol., lib. III, epist. XXI, ad Att.

(724) Svetonio in Octav., e Cicerone, Epist. fam. tìib. Ili; epist. VII e IX, lib. II; epist VI.

(725) Cicerone in Verr. IV.

(726) La legge che si era fatta per frenare l'arbitrio de Proconsoli nell'imposizioni di nuove tasse sotto varii pretesti, eccettuava da questa restrizione quelle che s imponevano per la costruzione degl'indicati templi. Nominatimque, dice Cicerone, lex exciperet ut ad Templum capere liceret. Cicerone, Epistol., lib. I, epist. I, ad Q. F.

(727) Platone, De Repub., lib. II.

(728) Ovidio, Metam., lib. I.

(729) Erodoto, lib. VII.

(730) O sian cavallette che i nostri villani chiaman bruchi

(731). Così dette dal verbo aprazein che significa rapire, perché rapiscono e divorano le produzioni del terreno, ove piombano.

(732) Vedi Esiodo, Teogonia, versi 869-880, e ciò che su questo Gigante si è detto nelle Note giustificative de' fatti al num. II.

(733) Esiodo non ne nomina che due, cioè: Ocipete ed Aello; ma Omero nomina anche l’altra. Vedi anche Esiodo, Teogonia versi 265-269. Vedi anche Clerico, Biblioteca universale, tomo II.

(734) Perché Dea dell'aere.

(735) Esiodo le dà l’epiteto di wkeia, velox: Teogonia, Verso 266.

(736) Esiodo, poema Delle Opere e de' giorni, versi 238-245.

(737) Questa tradizione fornisce la materia alla celebre tragedia dell'Edipo Tiranno.

(738) Omero, Iliade, lib. I.

(739) Vedi Giustino, lib. XXIII.

(740) Omero, Iliade, lib. X. Egli aveva in Troia violata Cassandra nel tempio di questa Dea.

(741) Omero, Iliade, lib. IX.

(742) Sthesic. apud Schol.; Euripide in Orest.

(743) Euripide nella tragedia intitolata Fedra.

(744) Ovidio, Metani., lib. IV.

(745) Virgilio, Eneide, lib. IV, versi 494-585.

(746) Euripide in Supplicib., atto IV.

(747) Vedi Euripide nell'istessa tragedia. — Forse dall'istesso modo di vedere comune a tutti i popoli che si trovano nella barbarie, derivò in Roma l’antico uso, del quale parla Plinio, di non bruciare i cadaveri di coloro che erano stati percossi da fulmini. Cremari fas non est; condi terra Religio tradidit. Plinio, lib. 11, cap. LIV.

(748) Platone, De Republ., lib. II e III.

(749) Cicerone, De Natura Deorunt, lib. I.

(750) Infatti, allorché si discoprì che tra le Deità de' Galli vi era un Eroe simile all'Ercole Greco sotto il nome di Ogmion e che tra quelle de Sabini ve ne era un altro sotto il nome di Senio Sangus, si disse che cosi l'uno come l’altro era l'Ercole istesso, il quale ritornando da Spagna e coi buoi di Gerione era passato per le Gallie e Per l'Italia vicino a! monte Aventino e si era fatto conoscere per quel che era in quelle regioni.

(751) Erodoto, lib. II.

(752) Pausania, lib. V, cap. VII.

(753) Diodoro, lib. IV.

(754) Cicerone, De Natura Deorum; lib. III.

(755) L’Egizio si chiamava Orocoro Con; il Fenicio, Defanao; il Tirio, Tasio; l’indiano, Dorasne; quello de' Sabini, SemoSangus, e quello de’ Galli, Ogmion.

(756) Vedi Luciano nel Dialogo del due volte accusato. La nota iscrizione trovata in Spagna ove sta scritto: Herculipatrio Endovellico, mi pare che indichi la cosa istessa.

(757) Erodoto (lib. Il) distingue tre Bacchi de' quali egli dice che l'Egizio ed il Fenicio erano anteriori al Greco. Diodoro (lib. Ili) ne distingue anche tre, nati in diversi luoghi e in tempi diversi; Cicerone ne nomina cinque, e fino a quest'ultimo numero fanno alcuni mitologi giungere anche gli Orfei. Vedi oltre i citati autori Strab., lib. IH, ed Arriano, Hist. Ind., n. 320.

(758) La discesa, per esempio, di Orfeo negl’inferni, non altrimenti di quelle di varii altri Eroi, de' quali ci parlano i poeti, non eran altro che evocazione dell’ombre de' morti, evocazioni che ne' tempi a quelli degli Eroi corrispondenti, sono state da per tutto frequentissime, perché analoghe a quelle universali opinioni che debbono in quelle universali circostanze regnare. Orfeo evocando la morta Euridice, oppresso dal dolore, penetrato dall'estro, era facil cosa che credesse di sentirla e di vederla. Ma l’immaginosa illusione dové ben presto cedere al difetto della realità, e dové Euridice sparire. Ecco il fatto che ha dovuto dare occasione alla celebre favola che questo soggetto riguarda. Chi non vede quanto ne sia verosimile l’origine?

(759) Vedi Esiodo, Teogonia, versi 338 e 339.

(760) Vedi Teodoro Siculo, lib. I, cap. XXVI.

(761) Veggasi le autorità a quest'oggetto relative rapportate da Vossio nelle sue Osservazioni sul trattato di Maimonide riguardo all'idolatria. Vedi anche Euschio, Praeparat. Evqug. cap. VI e IX; Lattanzio, De Fals. Relig., lib. II. Si ridetta che quando dico I mitologi, non intendo tutti i mitologi, ma la più gran parte di essi.

(762) Pausania dice che in Atene vi furono fino a quattro templi innalzati ad Iside Egizia e Pelagiana, cioè protettrice della navigazione. Pausania iti Att.

(763) Pars Suevonum ì dice Tacito, et Isidi sacrifìcant: unde causa et origo peregrino sacro, parum comperi. — De tnorib. Germanorum.

(764) Vedi le Note giustificative de' fatti al num. 4.

(765) Luciano infatti in un suo Diàlogo fa dire a Mercurio che egli non sa come invitare gli Dei de' Galli, perché non conosce i loro nomi e non sa il loro linguaggio. E vero che Cesare, allorché parla delle Deità ch’egli trovò da' Galli adorate, si servì de' latini nomi per esprimerle; ma sappiamo che in questo Cesare non fece altro che imitare l’esempio degl'istorici e mitologi, i quali bastava che trovassero la somiglianza nell’oggetto del culto di un popolo, per darle il nome che nella loro lingua esprimeva quella Deità. Cosi dovunque trovavano adorato il Sole dicevano che si adorava Apollo, dovunque trovavano adorata la Luna dicevano che si adorava Diana, ecc.; ma rare volte essi si prendevano la pena di rapportare i veri nomi, coi quali erano queste Deità in questi popoli invocate: ciò che non ha contribuito poco ad estendere e prolungare il combattuto errore. Erodoto, quantunque fondatore di questa scuola di mitologi, fu più esatto di loro. Parlando della religione degli Sciti, egli dice che essi onorano Vesta, Giove, la Terra, Apollo, Venere, Urania, Nettuno, ecc.; ma soggiunge che essi chiamano Vesta Tabiti, Giove Papeo, la Terra Api, Apollo Estosiro, Venere Urania Artimpesa e Nettuno Tamismade. Erodoto, lib. V, cap. LLEgli conservò per lo più l’istesso metodo nel parlare degli Dei degli altri popoli.

(766) Tacito, De morib. Germanonun.

(767) Veggasi Laffiteu ne' Costumi de' Selvaggi.

(768) Veggasi Laffiteu ne Costumi de Selvaggi.

(769)Id., loc, cit.

(770)Id., loc, cit.

(771) Pausania, lib. IV, cap. XXI.

(772) Vedi lo Scoliaste di Pindaro in Gram. Menil., pag. 532.

(773)Tauroj; o è il nome d'un fiume in Sofocle. Tairioj è l’antico nome del fiume Ilico. Tauroj è il canale dell'uretra. Vedi Suida.

(774) Con questi fatti è facil cosa Io spiegare anche per qual ragione Nettuno si denominasse anche Taureus e Tauriceps; per qual ragione Euripide nell'Ifigenia dice che Nestore portava per insegna sul suo vascello il fiume Alfeo a' piedi del Toro, e per qual ragione gli antichi scultori solessero rappresentare i fiumi sotto la figura de' Tori. Vedi Eliano, lib. II..

(775) Non si deve dir l’istesso della generazione degli Eroi deificati. Questa dipendeva dalle tradizioni de' pretesi commercii de' mortali colle immortali, o degl'immortali colle mortali, de' quali si è parlato nelle Note giustificative de' fatti num. 25, ed i poeti non fecero riguardo a ciò che ornare queste tradizioni di queste pretese celesti origini.

(776)Erodoto, lib. II, cap. LXIX.

(777) Esiodo, Teogonia, versi 200, 1885.

(778) Omero, Iliade, lib V, verso 570.

(779) Vedi Esiodo nella Teogonia, ed Omero, Iliade, lib. I, verso 578.

(780) Vedi Esiodo nella Teogonia, verso 820 e la collezione degl’indicati Inni.

(781) Esiodo, Teogonia, versi 907911; la collezione degl'Inni Orfici, ed Omero, Iliade, lib. XVIII.

(782) Esiodo, Teogonia, verso 185.

(783) Licrofrone in Alex,

(784) Eschilo in Eumeaid.

(785) Sofocle, In OEdipo.

(786) Nel poema Delle Opere e de' giorni.

(787) Esiodo, Teogonia, verso 217.

(788) ld., op. cit., verso 904.

(789) Esiodo, Teogonia, versi 886-900.

(790) Id., op. cit., versi 901904.

(791) Id., op. cit., versi 211224; e nel poema Delle Opere e de' giorni, versi 1126, dové parla dell'Invidia.

(792) In Omero Oceano è l’aggregato di tutte le acque, ed il suo significato è molto più esteso di quello di Mare; egli infatti fa nascere non solo i fiumi e i fonti, ma il mare anche da Oceano. Vedi Iliade, lib. XXI.

(793) Esiodo, Teogonia, versi 116-127.

(794) Vedi ciò che si è su di ciò detto nel testo, e nelle Note giustificative do fatti al num. I ed al num. 23.

(795)Il poeta Pisandro fu il primo a moltiplicare queste teste. Pausania, lib. II, cap. XXVII.

(796)Eschilo nel Prometeo.

(797) L’istesso Eschilo, loc. cit.

(798) Pindaro nella X Ode Pitica.

(799) Id., loc. cit.

(800) Id., loc. cit.

(801) Omero nel libro secondo dell'Odissea, dové parla delle mura di Tebe costruite da Anfione, non dice cosa alcuna delle pietre che egli chiamava col suono della sua lira. Questa fu un’aggiunzione de' poeti posteriori, come l’avverte l’istesso Pausania, il quale parla anche di un poema sopra Europa, nel quale si diceva che Anfione aveva appreso da Mercurio a suonar la lira, e che ci era si ben riuscito che le fiere e le pietre istesse lo seguivano, allorché suonava. Vedi Pausania in Corinth.

(802) In Omero, come si sa, i Centauri non son altro che uomini selvaggi e fieri.

(803) Pausania in Baiot.

(804) Si compari ciò che ne dice Omero con quello che ne dice Sofocle.

(805) Vedi le Note giustificative de' fatti al num. 6.

(806) Vedi Euripide in Bacchis.

(807) Eschilo nel Prometeo.

(808) Euripide in Plaedra.

(809) Così si chiamavano gli antichi fittaiuoli del Tavoliere.

(810) Come avvenne in una locazione dell’anno 1778 in 1779, e come può avvenire sempre che i locati di una locazione convengono tra loro.

(811) Secondo il piano, col quale il Consiglio ha risoluto che si regoli il quantitativo del contratto, il fisco verrebbe ad introitare 21,000 ducali di più, oltre il prodotto della dispensazione, la quale io credo sicuramente che oltrepasserebbe i ducali 13,000 annui.

(812) Le terre, le foreste, i dazii, ecc., che formavano la rendita della Corona d'Inghilterra, supplivano alla maggior parte delle spese del Governo. È una fortuna pei popoli britannici, che quel dominio sia stato alienato dall’amministrazione inglese, poiché dall’esistenza di esso ne sarebbe ben presto risultata l’indipendenza della Corona. Ma in America un tal demanio diverrebbe una proprietà continentale, che potrebbe essere utilmente impiegata al bene pubblico, sotto la direzione dei rappresentanti del popolo.

(813) Un soldo impiegato al 5 per 100 all’epoca dell'era cristiana, e combinato coll’interesse dell’interesse, produrrebbe ai nostri giorni una somma maggiore di quella che potrebbero contenere dugento milioni di globi, grossi quanto il nostro,supposto di oro massiccio; ma, calcolato col semplice interesse, non avrebbe prodotto che 7 scellini e 6 soldi. I Governi che alienano i fondi destinati a rimborsi, sacrificano, per far profittare il loro danaro, il primo di questi mezzi al secondo.


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Vita ed opere di Gaetano Filangieri [Life and works of Gaetano Filangieri]

Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

1772 - NOTIZIE DE' LETTERATI - Della Morale de' Legislatori di Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1782 - Giuseppe Grippa - LETTERA al Cavaliere Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1784 - Giuseppe Grippa - Scienza della Legislazione sindacata HTML ODT PDF
1785 - Dissertazione politica di Giuseppe Costanzo in risposta a Grippa HTML ODT PDF
1787 - GIUSTINIANI - Memorie Istoriche degli Scrittori Legali del Regno di Napoli HTML ODT PDF
1798 - Le Spectateur du Nord: Don Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1804 - Scrittori classici italiani di economia politica - Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1813 - Biografia degli Uomini Illustri del Regno: Filangieri (Martuscelli) HTML ODT PDF
1817 - La Scienza della Legislazione del Cavaliere Gaetano Filangieri (GINGUENE’) HTML ODT PDF
1819 - BIANCHETTI - Memorie scientifiche e letterarie - FILANGIERI HTML ODT PDF
1822 - Oeuvres de FILANGIERI - ELOGE de FILANGIERI (Salfi) HTML ODT PDF
1826 - Sopra l'opera del Cavalier Gaetano Filangieri di Pietro Sghedoni HTML ODT PDF
1828 - Comento sulla Scienza della Legislazione scritto da Beniamino Constant HTML ODT PDF
1834 - Biografia degli Italiani Illustri nelle scienze, lettere ed arti HTML ODT PDF
1836 - LOMONACO - Vite degli eccellenti Italiani - FILANGIERI HTML ODT PDF
1840 - Notizie di alcuni cavalieri del sacro ordine gerosolimitano (Marchese di Villarosa) HTML ODT PDF
1844 - Vite e ritratti di illustri italiani (Filangieri di E. Carnevali) HTML ODT PDF
1852 - FILANGIERI - Delle leggi politiche ed economiche (FRANCESCO FERRARA) HTML ODT PDF
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1863 - Discorso genealogico della famiglia Filangieri (ERASMO RICCA) HTML ODT PDF
1864 - Intorno ai tempi ed agli studi di Gaetano Filangieri (PASQUALE VILLARI) HTML ODT PDF
1873 - Gaetano Filangieri o l’idea dello stato nella filosofia italiana del secolo XVIII HTML ODT PDF
1774 - GAETANO FILANGIERI - Riflessioni politiche su l'ultima legge del sovrano HTML ODT PDF
1820 - GAETANO FILANGIERI - 01 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1822 - GAETANO FILANGIERI - 02 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
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Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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