L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


S'è rotta a pazziella

Prime riflessioni su una rivoluzione probabile
© 1997 Nicola Zitara
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A causa dei tempi alquanto lunghi con cui le idee degli avversari del sistema raggiungono il pubblico, credo che questa nota vedrà il sole dopo che la Bicamerale avrà portato a completa cottura la sua indigesta ciambella; sicuramente una ciambella senza buco. Tempo e denaro sprecati senza ritegno. Non starò a soffermarmi sul tema se è il disordine mentale a rendere disordinata la vita in Italia, o se è il disordine sociale a impedire alle italiche teste di ragionare.

L'interrogativo ha troppe risposte. Per arrivare a qualche conclusione è consigliabile, quindi, enucleare le domande. La scaletta segna tre piani: l'europeo, il nazionale, il regionale. Sul piano europeo, nonostante molte difficoltà, tutto sembra portare al medio traguardo della moneta unica. Le probabilità che l'Europa ci arrivi, e che l'Italia arrivi con gli altri paesi, sono alte. Il grande padronato e i signori delle banche certamente non amerebbero di ritrovarsi con la valuta nazionale sedotta e abbandonata, che corre dietro il forte Euro. E poi tutto il notabilato politico europeo e i maggiori partiti di ciascun paese associando stanno giocandosi la propria credibilità e il proprio futuro elettorale su questa carta. Ma varato l'Euro non è detto che tutti i giochi siano fatti e che la Luna Nera non venga fuori quando meno ce lo aspettiamo.

Ma dov'è la trappola che potrebbe trasformare il castello così faticosamente costruito in una Torre di Babele? Di regola, sopra la moneta non c'è Dio, come vorrebbero farci credere, ma un comando, sia esso del Re, del Presidente, del Parlamento, del Governatore. Non avendo molta fiducia l'uno nell'altro - e al fine di essere tutti uguali come i Cavalieri della Tavola Rotonda - i Quindici, al posto del Re, hanno messo un automatismo, una specie di termostato al mercurio. "Tu hai freddo? Metti il cappotto. Tu hai caldo? Togli il cappotto". Ora, nessun economista ama assumersi il ruolo di Cassandra, inascoltata profetessa di sventure, eppure c'è una domanda centrale che resta appesa alla volta celeste: premesso che l'occupazione e il benessere dei popoli europei dipende dal settore industriale; premesso ancora che detto settore non può sopravvivere senza il servizio (servizievole) di un suo sistema finanziario e bancario (non ricordate con quanta foga si diceva, ancora due anni fa, Azienda-nazione?); premesso altresì che questo servizio (servizievole) è stato sempre nazionale e che le Aziende-nazioni restano al plurale nonostante la moneta unica: tutto ciò detto e premesso, non potrebbe per caso accadere che, per via del mercurio, qualche industria nazionale (per caso francese) venga a trovarsi con la schiena finanziaria scoperta?

E se ciò accadesse, le infauste estati del 1914 e del 1939 sarebbero vicine o lontane? Ma non occorre pensare al peggio per avere argomenti di riflessione. Che il Sud stia scomodo nel sistema europeo, solo i politici e i giornalisti italiani non lo dicono. Come è a tutti noto, l'Unione Europea è un sistema commerciale integrato al suo interno, ma fortemente protezionistico verso l'esterno, sia per quanto riguarda le merci industriali, sia specialmente per i prodotti agricoli. Da questo sistema il Sud non riceve che danni. Infatti scambia - anzi è costretto a scambiare - prodotti agricoli scarsamente protetti, come le arance, il vino e l'olio, con prodotti agricoli, i cui prezzi sono innaturalmente e favolosamente innalzati per effetto della protezione, come il latte, i formaggi, il burro, la carne.

Ci martellano con la minaccia che se il Sud perde l'appuntamento con l'Europa precipita fra le sabbie del Sahara. Personalmente penso che è già caduto in una trappola da bracconieri e che se per un evento fortunato ci liberassimo dall'obbligo di finanziare il benessere dei contadini tedeschi, padani e olandesi, qui il prezzo dei beni essenziali si abbatterebbe a un terzo dell'attuale; una cosa che non sarebbe senza ripercussioni sul livello dei salari; a sua vola argomento fortemente convincente quando si parla di sviluppo. In conclusione, la prospettiva europea è densa di difficoltà che vengono saltate con troppa leggerezza dalla classe politica nazionale. Comunque i gravi danni che gli italiani del Sud stanno subendo impongono che il governo italiano vada alla rinegoziazione degli accordi agricoli (si spera, ad opera di negoziatori che non debbano passare dallo studio di Gianni Agnelli, prima di recarsi a Bruxelles).

Piano nazionale.

La frivolezza con cui in Italia vengono affrontati i problemi nazionali non può essere spiegata altrimenti che con il totale fallimento della classe politica presente in scena. Le smodate speranze che l'effetto Europa ridisciplini le nostre cose interne è antica. Ricordate Dante? "O Alberto tedesco (l'imperatore) che abbandoni costei (l'Italia) che ormai è fatta indomita e selvaggia..." Siamo intorno al 1300 e dalla pressante invocazione di Dante sono passati la bellezza di settecento anni, ma è come fossimo ancora allo stesso punto. Come le speranze di Dante, anche le nostre sono infondate. Ma non per colpa dei tedeschi, che ci abbandonano. Con tutta la sua buona volontà, il bagnino Helmut non potrebbe trarci in salvo, se, agitandoci scompostamente nel mare per la paura o per altro, facciamo sì che la stazza del nostro corpo raddoppi. Quando i giornalisti italiani - evidentemente su richiesta della Confindustria (che evidentemente ama non tanto la pronta cassa, quanto la cassa pronta... alle richieste dei suoi grandi associati) - cominciarono a parlare di debito pubblico avevo ancora i capelli scuri e trentuno denti su 32. Oggi non ho più i capelli e, aimé, neppure i denti hanno retto. E' passata un'intera stagione della mia vita.

Ero solamente anziano e adesso sono vecchio. Eppure il problema è ancora lì, anzi, per la gente del Sud, si è trasformato in un disastro epocale. Esistono due milioni di miliardi di debito pubblico - una cifra impressionante. Cominciamo con il dire che nessuno può tirare la prima pietra. L'indebitamento del tesoro è essenziale alla vita di uno Stato moderno (e non solo moderno) e alla vicenda economica nazionale, quanto i carabinieri, i giudici, i palamidati uscieri posti a guardia sui portoni dei sacri palazzi del potere, le borse-valori, le banche, le cambiali, ecc. Nella storia del debito pubblico bisogna distinguere il singolo rapporto (io compro un Bot da un milione, lo Stato mi restituisce il milione, in più mi ha pagato un certo interesse) dalla questione generale di finanza pubblica. Salvo qualche tristissima eccezione, gli Stati hanno sempre rimborsato il debito pubblico, perché in effetti non lo pagano (il milione che ha restituito a me lo ha avuto in prestito da un altro). Il marchingegno dello Stato che paga non pagando sta tutto nell'inflazione, che di regola corre tranquilla come un fiume verso la foce, ma che nel corso di un secolo scatta due o tre volte.

Nella fase normale, lo Stato quietamente rinnova il debito, poi, quando sopraggiunge l'evento liberatorio, si purga. E una volta purgato, ricomincia. Mia madre possedeva 300.000 lire di Buoni del tesoro 1925. Diceva sempre che quella cifra era l'equivalente di 300 tomolate di ottimo oliveto. Con la rendita di quei titoli campava la famiglia. Questo fino al 1942/43, allorché, come tutti avranno sentito raccontare, cominciò l'inflazione. La quale andò avanti. Quando lei morì, nel 1961, noi figli andammo alla Banca d'Italia a farci pagare le cartelle. Lo Stato non tergiversò. Messe le debite firme, il cassiere ci dette il danaro. Con quel denaro noi figli comprammo chi un vestito e chi un paio di scarpe.

L'inflazione ci aveva fatto perdere (o donare allo Stato) l'equivalente di 300 tomolate di oliveto, meno quattro paia di scarpe. Colui che mise, o coloro che misero, ultimamente, lo Stato sulla strada del forte indebitamento erano andati ovviamente a scuola e avevano imparato le cose che vi ho bene o male raccontate. Immaginavano che prima o poi l'inflazione avrebbe aggiustato i conti del tesoro, come era già avvenuto ben tre volte in Italia. Invece, tra il capo e il collo degli italici ministri del tesoro è arrivata prima l'inconvertibilità del dollaro e poi una teoria dello sviluppo capitalistico avversa ai deficit di bilancio (inflazione più o meno pilotata), in quanto i capitali finanziari privati debbono potersi muovere tranquillamente di qua e di là, senza l'assillo che un qualche governo indisciplinato giochi loro un brutto tiro. Effettivamente l'unica misura del valore di una moneta rimasta in vita è la sua quotazione sul mercato internazionale dei cambi. Tradotto in termini pratici (e politici), ciò vuol dire, in primis, che gli Stati Uniti non possono più inondare il mondo di biglietti inconvertibili, anche se muniti dell'imperiale profumo del dollaro, e in secondo luogo che il diritto di giudicare le monete è riservano ai grandi finanzieri internazionali - quelli che fanno lavorare le borse - signori tipo quel Soros che nel 1991 mandò a gambe levate la lira.

Questi signori, come gli antichi accaparratori di merci (i quali, però, sono trattati in termini durissimi da tutti i libri di storia), possiedono tali quantità di ogni moneta che possono determinare improvvise abbondanze o penurie. Conoscendo le carte, giocano sulle varie borse, magari facendosi aiutare dal computer, e di solito vincono. A pagare poi provvede la gente, come ben sanno gli italiani, i quali hanno sborsato (cioè fisicamente bruciato, mandato al rogo) in sei anni ben 500 mila miliardi, per ripuntellare la lira (e il dolor ancor m'offende). Mutata radicalmente la prassi, né l'illustre economista Ciampi, né il meno illustre economista Dini, né tantomeno l'impacciato economista Fazio annunziano i loro progetti. Che fanno? Aspettano un mutamento della filosofia macroeconomica e monetaria, di modo che l'inflazione possa dissolvere anche questa volta il debito? Giocano a Gratta e Vinci, mettendo le vincite in un salvadanaio, per pagare quando avranno messo assieme due milioni di miliardi?

Una classe politica rispettosa dei cittadini avrebbe già dato una risposta. Sia una risposta generale, sia alcune particolari. Per esempio, io non sono riuscito ancora a capire se chi governa vuole lo Stato impotente, tale essendo uno Stato paurosamente gravato da interessi passivi, oppure se i governanti italiani ritengano doveroso, per il buon andamento della società, remunerare con alti interessi la liquidità (trasformata ovviamente in Bot) delle banche e delle società d'assicurazione, delle grandi industrie e dei cittadini più ricchi, o infine se siano veramente incapaci di far pagare le tasse dai cittadini. Le logiche economiche attualmente imperanti, di cui, peraltro i signori Ciampi, Dini e Fazio sono assertori, o per tali si presentano al pubblico, sono per il pagamento. In tal caso il ripiano fiscale del debito pubblico è in teoria a portata di mano.

Al Centronord l'entità dei redditi privati è tale da rendere attonito il resto del paese. Anche al Sud le categorie fortunate non mancano, invero. Enorme è il dato complessivo e statistico, grande si suppone la parte nascosta. Non occorre, infatti, svoltare l'angolo o allungare il naso. L'evasione è alla luce del sole, diffusa come i raggi del sole. A occhio e croce essa supera i 500 mila miliardi all'anno. I capitali che gli italiani, sospinti da insane paure, nascondono in Svizzera hanno fatto di questo paese, un tempo cantato dagli anarchici e dai perseguitati politici di ogni colore, un'appendice bancaria del Lombardo-Veneto. * Con tutto questo grasso in giro non si capisce perché lo Stato abbia bloccato il calendario sul Venerdì di magro. O si capisce molto bene.

La verità è che la classe politica tace perché ha paura della secessione del Nord. E alla diffusa voglia che i settentrionali mostrano di non pagare le tasse provvede con l'elargizione d' indulgenze, invece che con la comminazione di penitenze. Certo, essa non vorrebbe perdere né il Sud né il Nord perché, storicamente, non ha una funzione di guida politica, ma solo quella di mediare sotto banco i patti segreti che intercorrono tra la Confindustria e i poteri che di volta in volta hanno voce in capitolo a Roma e nel Sud. Ma le conseguenze di questa classe - dico i De Mita, i Casini, i Berlusconi, i D'Alema, i Fini e quant'altri - le sta miserevolmente pagando il Sud strapiombato nella disoccupazione. Tutt'al più - e solo in alcune regioni - nell'occupazione tetra di cui Luca Meldolesi mette in luce l'esistenza. Ma noi, i nostri figli, nati non fummo a vivere come bruti. Disoccupati e male occupati, qui è stata bruciata sull'altare delle impotenze e castrazioni politiche un'intera generazione; per essere precisi una classe d'età, quella compresa tra i 25 e 35 anni, e si prepara il falò per la successiva, quella che adesso sta tra i 14 e 24 anni.

Un altro anno come i cinque trascorsi e qui ci ritroveremo tutti affiliati alla mafia, nella speranza che ci procuri qualche occasione di lavoro, sia pure illecito. Sul piano regionale iataliano è bene dirla chiara e tonda: per il Sud il federalismo è un bidone, il quale si presenta come il seguito del mal congegnato governo dei banchieri, a sua volta fomentato dall'arlecchinata bossista. Nell'attuale assetto dei rapporti di proprietà e di produzione, al Sud uno Stato federale significherebbe la consegna del paese e del popolo meridionale alla borghesia parassitaria che si produce e riproduce nella corruzione romana, cioè alla peggiore classe di malfattori che si possa immaginare - peggio, molto peggio, dei cortigiani angioini e dei baroni spagnoli, gentaglia che ci porterebbe a un Sud più vile, più volgare, più disperato dell'attuale.

L'alternativa che il Sud Sud (quello che ancora conserva l'uso della testa e del resto) pone è netta. Se l'Italia si rompe, si rompe anche il mercato nazionale delle merci, dei surplus e degli uomini. Per noi, la strada è indicata dalle necessità che la storia addita, in primo luogo dall'esigenza improrogabile di lavorare, produrre, commerciare. Una svolta che, sicuramente, non potrà essere concepita a Roma, né diretta da Roma. La rottura comporterà sicuramente un costo per le classi impiegatizie, ma probabilmente gioverebbe moltissimo al resto delle classi. D'altra parte, siccome il nostro grande passato si è sviluppato nel Mediterraneo, mentre alla presenza dell'Europa ha sempre corrisposto una nostra sudditanza, è certo che il nostro avvenire non è l'Europa, ma il Mediterraneo. E se si rompe, il passato ha il diritto e persino il dovere di riaffiorare sulla ribalta della storia, nella quale i 137 anni di unità saranno classificati come una nefasta parentesi.

L'altra ipotesi è la conservazione dello Stato centrale italiano e una politica di sviluppo industriale. In tal caso il resto d'Italia finanzierà, come è sua precisa obbligazione di fronte alla storia e agli uomini, le opere necessarie, la cui direzione sarà affidata a persone di provata capacità e di retti costumi, preferibilmente di provenienza non politica e non meridionale, possibilmente a esperti di cittadinanza tedesca e inglese. IL comune sentire degli Anni Sessanta Non ho mai soverchiamente creduto a quell'adagio che dice "l'abito non fa il monaco". L'articolo precedente continua, ma lo rompo deliberatamente perché un giornalista sa che i testi lunghi annoiano il lettore. Voglio, con questo dire, che nel momento in cui finalmente il popolo meridionale si rende conto dei pericoli che incombono e percepisce che grandi cambiamenti sono possibili anche a brevissima scadenza, la voglia di parlare e di dire cose pensate in quarant'anni di solitudine sarebbe tanta, eppure va trattenuta in omaggio al mestiere. Non vi offenda l'immodestia, ma quando ce vo, ce vo. Tra Bossi, separatista, e il sottoscritto, anche lui separatista da trent'anni, c'è di mezzo non una questione di stile, ma la diversa statura umana e culturale.

L'Italia è uscita dalla barbarie ordalica a partire dal sesto secolo avanti Cristo. Quindi neanche a Bossi e ai suoi dovrebbero far difetto gli elementi della civiltà. Tuttavia, siccome gli italiani del Nord hanno paura di perdere, nello scontro con la concorrenza industriale europea e a causa dei gravami fiscali che dovrebbero giustamente ricadere sui redditi, una condizione che essi credono miracolosamente raggiunta, o comunque raggiunta per meriti propri - e che invece è in larga parte frutto del flusso a basso prezzo, nei due decenni trascorsi, dei narcodollari investiti o ivi portati per la ripulitura dalle cosche mafiose meridionali, nella misura certamente di milioni di miliardi - questo ignobile e losco soggetto, ignorante e per giunta vanesio, più spesso sbronzo che sobrio e probabilmente finanziato sottobanco dall'industria d'Oltralpe, uno che, se Alberto da Giussano è veramente esistito, ora sta rimorendo di vergogna nella tomba, si è erto a capo tribù di un'imbufalita orda di pessimi cittadini e di italiani inediti (perché a tutto si erano piegati gli italiani, persino a fingersi degli imperiali imbecilli con Mussolini, finché non venne il 10 Giugno 1940, il giorno fatale della verità, ma mai ad assecondare i cani arrabbiati, come oggi pare stia accadendo).

Qust'ignobile beone, resosi conto che sarebbe stato l'ultimo fra le persone civili, ha finto d' imbarbarirsi, d'impazzire: ha messo il cappello a sonagli; come dice Nino Taranto s'è fatta a faccia do pazzo. Diversamente da Bossi, anzi da persona che si reputa civile - e come tale volendo seguire, finché le cose lo permetteranno, procedure civili - credo mio dovere non omettere la verità (quantomeno quello che credo sia la verità), anche se enunziarla potrebbe apparire un atto contrario agli interessi dello schieramento a cui appartengo. La verità a cui mi riferisco riguarda l'atteggiamento degli italiani del Centronord, al tempo della politica cosiddetta dell'intervento straordinario.

Sul finire degli Anni Cinquanta, ancor prima che il miracolo economico italiano raggiungesse l'apogeo, una parte della classe politica chiese al paese di intensificare l'opera di rinascita del Sud, con interventi pubblici nel settore della produzione industriale. Anche se la sinistra comunista e i sindacati nicchiarono, le regioni settentrionali del paese - quelle più dense di popolazione operaia - non sollevarono obiezioni. Bisogna intendere che acconsentirono a un maggior peso tributario, in nome dell'unità e della pari dignità nazionale. Espressero, invece, una fiera opposizione sia la Confindustria sia il sistema bancario, il quale è da sempre al servizio delle grandi famiglie. Ma quando capirono che i loro giornali - e i grandissimi giornalisti al soldo - non ce l'avrebbero fatta a sollevare l'opposizione popolare, cambiarono tattica: italianamente si infilarono nel gioco per scassarlo e trarne il massimo profitto.

In effetti, l'industrializzazione nel Sud, un anno dopo l'altro, raggiunse i livelli della pagliacciata. A profittarne fu principalmente il settore industriale, naturalmente padano, anche se l'ignobile farsa fu tutta rappresentata dalla classe politica nazionale, specialmente da quella meridionale, fra cui non pochi santoni e santini oggi venerati in paradiso. Allora la gente giustamente pensò che negli affari un pizzico di disonestà poteva essere perdonato. Altrettanto giustamente pensò che chi operava in politica avrebbe dovuto limitarsi all'inganno del vaniloquio, senza sforare nella corruzione e nel bengodi del pubblico danaro (che in teoria - ma solo in teoria - è di tutti).

Quei comportamenti politici pesarono - giustamente - sulla prosecuzione dell'intervento, il quale si arenò. Come se fosse una nota a piè di pagina, qui vorrei far notare che la spavalda cuccagna seguita al terremoto in Irpinia non si lega alle imprese precedenti. Infatti, negli Anni Ottanta, il consociativismo e il craxismo aggiunsero ai caratteri somatici della classe politica connotati che essa non aveva ancora negli Anni Sessanta. Fra questi, sicuramente, l'arroganza e il disprezzo della pubblica opinione.

Fin qui la premessa. Ora debbo spiegare perché - tolta la Confindustria e la banca - la nazione italiana accettò la politica cosiddetta dell'intervento straordinario e il relativo peso economico. Risposta estremamente semplice: Perché, in quegli anni, il Nord per la prima volta poté toccare con mano che il disagio occupazionale del Sud si riproduceva con il riprodursi degli esseri umani. Anche chi non si era addentrato nello studio della questione meridionale cominciò a capire che il Nord troppo aveva (o aveva avuto) per non dover dare (o restituire) almeno in parte; quantomeno ciò che era indispensabile per sollevare da quel malanno sociale le future generazioni del Sud.

I più acculturati percepirono che gli interessi meridionali, sacrificati per oltre un secolo in nome del comune risorgimento, non potevano essere cacciati né dalla porta né dalla finestra. Certamente era un comune sentire, assai diverso dagli strafalcioni che ci somministra in TV quel Rigoletto di Bossi, che ha per nome Miglio; un sentire ormai disperso, e non solo per colpa delle legioni di svogliati impiegati postali e di insegnanti impreparati che il Sud ha spedito per quarant'anni oltre il Volturno, ma anche a causa del complesso d'inferiorità che i capitani d'industria padani avvertono verso i loro colleghi tedeschi, inglesi e francesi. Il debito degli italiani Il vero e grosso debito dello Stato italiano - e di tutti gli Italiani - al quale la Confindustria vorrebbe sottrarsi con l'aiuto di Bossi, non è costituito dai famosi due milioni di miliardi di Bot improvvidamente emessi dal tesoro, ma dall'obbligazione che il resto del paese ha contratto con il Sud.

Quando l'Italia aveva ancora qualche pudore, la cosa veniva chiamata impropriamente questione meridionale. Oggi, chi più se n'è dimenticato, meglio si sente. Proveremo restituirgli la memoria. Cos'era, dunque, la cosiddetta questione? La sconfitta di Napoleone (1814) e il successivo patto di mutuo appoggio tra le tradizionali potenze dinastiche non ebbero la forza di cancellare l'idea, allora nuova, di Stato-nazione, con cui venticinque anni prima la Rivoluzione del 1789 aveva sostituito "lo Stato sono io" di Luigi XIV: il soppresso potere assoluto e divino dei re. Presa coscienza del cambiamento, dove le nazionalità possedevano una qualche forza militare, le potenze dinastiche si astennero da offese flagranti a quel principio. Non così con le nazionalità storicamente soggette.

Fra queste l'Italia, debole, però, solo diplomaticamente, come dire solo sulle scartoffie delle cancellerie imperiali. L'Italia, infatti, agli occhi degli intellettuali italiani ed europei era non solo la più antica nazione d'Europa - l'unica nazione nata prima delle invasioni barbariche - nonché fonte e culla riconosciuta della civiltà occidentale, ma , per le sue dimensioni geografiche, per il numero degli abitanti, per il grado di civiltà, per la sua ricchezza potenziale e in atto, in pectore, anche una grande nazione. Il moto nazionale italiano, il Risorgimento - in buona sostanza una lunga rivoluzione contro l'Austria, il papato e le dinastie regionali, ivi compresa quella sabauda - investe l'intero periodo che va dal 1815, data del proclama di Rimini e della fucilazione di Gioacchino Murat, al 1860, anno in cui insorge la Sicilia e Garibaldi, dopo essere sbarcato incolume a Marsala, compie una specie di passeggiata militare fino a Napoli (Venezia sarà liberata nel 1866, Roma nel 1870, Trento e Trieste lo saranno nel 1918).

Per capire quel che avvenne dopo il 1860, a unità fatta, è necessario ricordare che il Risorgimento cade nella fase in cui le grandi potenze europee sono a copiare l'Inghilterra, onde arrivare a costruirsi anch'esse un grande apparato industriale. Pertanto, in Italia la parola Risorgimento assume il doppio significato di unità nazionale e di modernizzazione industriale. E' già noto, infatti, che la prosperità e la civiltà di un paese sono indissolubilmente legate alle nuove tecnologie. Gli economisti si battono per l'unificazione del mercato nazionale. Sanno, infatti, che si tratta di una pre-condizione dello sviluppo. Gli eredi dell'illuminismo settecentesco, i Ferrara e gli Scialoja, approdati dal Sud a Torino, a sostenere Cavour; a Milano Cattaneo, Correnti, Maestri, Casati, che continuano la pregnante opera di Romagnosi con Il Politecnico, avviano gli italiani ai problemi della nuova vita economica.

Le idee di Cavour sono lucide e pratiche. Unico fra gli statisti ed economisti del tempo, capisce che l'Italia ha una grossa carta da giocare con le sue produzioni agricole quasi monopolistiche - la seta, l'olio, il vino, la frutta - che tutta l'Europa sviluppata chiede e paga bene. Non si sbaglia. In effetti, le produzioni mediterranee, nei decenni a venire, pagheranno la costruzione del paese italiano. Ma l'Italia, nazione sin dai tempi di Orazio e di Virgilio, nazione anche nel Medioevo nonostante le scorribande e le occupazioni barbariche, nazione per Dante, nel 1300, e per Machiavelli, nel l500, crolla sotto il dualismo sabaudo, proprio quando era finalmente divenuta un solo paese politico. * Al momento dell'unità molte aree e regioni del Centronord erano realmente povere, più povere di quanto in effetti fosse il Sud, ma nel complesso niente appariva più povero e arretrato del lontano Sud, incuneato in quel mare che l'Europa aveva disertato da tre secoli. Qui i punti di modernità e prosperità non erano diffusi, ma non mancavano.

Specialmente dove il paesaggio era dominato dall'ulivo in piantagione, le relazioni commerciali con l'Europa, con l'Italia restante e l'America erano vivaci; le entrate dei proprietari consistenti. Proprio nell'ultimo scorcio della fase pre-unitaria, si erano andate sviluppando anche la viticoltura e l'agrume, sicuramente ad opera di un settore più moderno della classe agraria. Tuttavia l'immagine complessiva del Sud agricolo era quella di un paese appena uscito dal medioevo e dai rapporti feudali. I governi senza amore di sovrano e le esternazioni a favore della corte spagnola avevano lasciato profondi segni nella vita di queste popolazioni, specialmente in campagna (dove, solo da ultimo l'attenzione dei due Ferdinando, nonno e nipote, fu ripagata con insolita devozione, talché, parafrasando o integrando Carlo Levi, potremmo dire che i contadini meridionali riconobbero due sole sovranità, quella dei Borbone e quella dei presidenti USA, la terra della sperata libertà); una situazione resa ancora più pesante dal fatto che, crollata l'aristocrazia, la classe proprietaria era divenuta enormemente più numerosa - e anche più esosa, per effetto della nefasta combinazione tra il disprezzo castigliano per il lavoro fatto in vista di un profitto e il continuo rinnovarsi ed elevarsi dei bisogni di consumo e di quelli, altrettanto spagnoleschi, di fasto familiare.

Nonostante lo squallido panorama pubblico e privato, l'Azienda-nazione Regno delle Due Sicilie è solida, quantomeno rispetto agli altri Stati regionali. Un po' perché le colture mediterranee a quel tempo non hanno gran concorrenti e i mercanti napoletani vendono all'Inghilterra, alla Francia, all'Austria, alla Russia profittando di una condizione di quasi monopolio mondiale, un po' perché un artigianato arretrato, ma diffusissimo, provvede ampiamente ai bisogni che la popolazione ha di manufatti, un po' perché i Borbone non spendono, un po' perché la grande partecipazione al commercio mondiale ha esteso enormemente la marineria, il lavoro e i profitti connessi - il Regno si presenta all'appuntamento unitario delle regioni italiane come la componente più danarosa, più ricca di circolante e di risparmi. . Dopo la dissanguante guerra con l'Austria, Cavour e la sua anima nera, Farini, non hanno scelte: o il Piemonte spoglia Napoli o i Savoia saranno costretti a lasciare, poveri e bastonati, il tavolo su cui hanno puntato tutto.

Il martirio del Sud - che sarebbe stolto immaginare in termini attuali come il disagio popolare per un sistema tributario elevato - comincia subito, appena appare la camicia rossa dei garibaldini. Il paese è prima razziato nelle sue pubbliche proprietà e poi affogato in un alluvione di tasse e balzelli. Garibaldi non ha il tempo di rifugiarsi scontento e scornato nel suo ritiro di Caprera che l'insurrezione popolare - il brigantaggio politico - è già scoppiata. Essa dura otto anni, ma il governo torinese non demorde: Mors tua, vita mea. La cosiddetta questione meridionale comincia in questo momento. E solo in questo momento. Tutti gli Stati incassano e spendono. Anzi di solito spendono prima d'incassare.

Nel caso italiano non bisogna tanto vedere come ma dove. Mentre, a livello centrosettentrionale il fiscalismo dei governi sabaudi può essere spiegato facendo ricorso al concetto di scontro di classe (i contadini pagano e i profittatori del nuovo regime arricchiscono), al Sud le entrate fiscali non hanno una ricaduta nella spesa pubblica. Il fiscalismo impoverisce tutti, sia i già poveri sia i ricchi. Siccome munge l'intero assetto sociale, senza beneficio per nessuno, il fenomeno va inquadrato sotto una luce diversa e definito con altro nome. Sul personale politico piemontese era grande l'influenza parigina. La Parigi di Napoleone III fu incredibilmente corrotta. E quando si dice Parigi, si dice la Francia.

A simiglianza dei loro vicini d'Oltralpe e loro mentori in tutto, al tempo di Cavour i governanti piemontesi annegavano nella corruttela. Chi scorra gli atti parlamentari dell'epoca, vede insorgere un caso a ogni seduta. A Confronto la Tangentopoli milanese sembra quasi opera di persone perbene. Anche il danaro che fugge dalle casse dello Stato sotto forma di peculato o altro è un investimento sociale (sia pure illecito). Difatti, nel momento in cui era necessario far germogliare una ricchezza capitalistica, in vista di un futuro industriale, le larghe maglie dell'erario sabaudo (larghe persino con il re, ché - anche lui - s'impossessò illecitamente di venti milioni) la fondarono partendo da zero. La corruzione fece da rosa dei venti dello sviluppo; si mosse al seguito dei ladri di regime. Un caso esemplare di arricchimento all'italiana, è quello del bancario livornese Pietro Bastogi, che per le sue indiscusse capacità Cavour elevò prima a direttore della Banca Nazionale e poi a ministro delle finanze.

Morto il Conte, l'abile Pietro fece il resto da sé. Una delle sue attività più proficue consisteva nel prestare allo Stato italiano, ovviamente a tassi salatissimi, i soldi che lo Stato gli aveva prestato. In questo modo rivaleggiò nientemeno che con i Rothschild, in occasione delle concessioni ferroviarie. Non essendo però un Rothschild, ottenne soltanto le Ferrovie Meridionali, che secondo i calcoli avrebbero fruttato di meno. Invece fruttarono tanto che, a partire dagli Anni Novanta, Bastogi, promosso intanto conte per i proficui consigli dati in materia di mazzette alla casa regnante, fu alla testa dell'elettrificazione del paese. Ai suoi eredi il Sud piacque tanto, che fissarono i loro affari a Napoli, quali proprietari della Società Meridionale di Elettricità, SME, i cui meriti non sono eguagliati neppure dai miracoli di San Gennaro. Invece al Sud, la micragnosità della spesa statale è ben lontana dal favorire la formazione di una classe di nuovi ricchi, anche se non sempre perbene - come in Piemonte, in Lombardia, nel Veneto, a Firenze, a Roma - anzi la debolezza della lira annienta la fiducia di cui la mercatura napoletana godeva nelle maggiori piazze commerciali, da Odessa a New York e fa abortire i solidi germogli capitalistici che nella Napoli borbonica spuntavano intorno agli affari commerciali.

Questo sistema fiscale, fondato sul prendere senza restituire l'equivalente in spesa pubblica, è stato definito da Nitti un drenaggio di capitali dal Sud al Nord. E tale fu in effetti, anche se forse è più pertinente definire il fatto un'espropriazione di surplus economico di tipo (autenticamente) coloniale. La cosa significa che, in una prima fase, la fiscalità annientò la possibilità di rinnovare compiutamente il ciclo produttivo (esempio, il grano necessario alla semina, o gran parte di esso, fu venduto per pagare le tasse, oppure, per lo stesso motivo, un orticoltore non poté dotare il suo campo di un pozzo). Nelle fasi successive, l'azione espropriatrice incontra una realtà già priva di normali eccedenze, ma dà egualmente un risultato in quanto il gettito fiscale viene dall'astinenza. I proprietari s'indebitano per pagare le tasse (Nitti registrò l'alto numero delle esecuzioni forzate richieste dall'erario, regione per regione. Dovunque nel Sud altissima, essa riguardava in Sardegna circa il 90 per cento dei proprietari).

I contadini, a cui nessuno fa credito, stringono la cinghia, se non peggio, e vanno in America. Gli artigiani, indebitati, vendono la casetta avita ed emigrano come operai comuni. A questo modo, il Sud già non ricco, s'impoverisce ulteriormente e a ritmo esponenziale. Ciò nonostante si verifica un inatteso miracolo. Le esportazioni di vino, di agrumi si moltiplicano per due, tre, quattro, dieci, venti volte. Quelle di olio crescono anch'esse. Con la valuta che incassa, Roma riesce a portare in pareggio la bilancia italiana dei pagamenti internazionali. Il paese è salvo, i Savoia pure. Il capitalismo italiano è fatto. L'olio pugliese vale quanto gli zuavi di Napoleone III, e il pareggio del bilancio quanto dieci San Martino e venti Solferino. Infatti...(Infatti contiene le cose che, patriotticamente, sono tenute nascoste). Infatti, quei crediti di Francia, che tanto assillavano Quintino Sella e le altre degnissime persone che in quel periodo governarono l'Italia e tuttora dominano - su cavalli di bronzo - le nostre piazze, a loro dedicate, non erano poi tutti francesi. In buona parte erano ducati napoletani che, finiti non si sa come in tasche piemontesi, erano stati spesi per comprare alla borsa di Parigi le svalutate cartelle del tesoro italiano, dove (diciamo per comodità) un Bot da 100 lire-oro si comprava anche per il corrispondente in franchi di 21 lire.

Chi comprava faceva una scommessa, ma la scommessa adesso risulta vincente. E' da credere che molta parte del valore delle esportazioni venga intascato da quei finanzieri toscopadani più vicini al governo, magari interni alla Banca Nazionale, e dagli stessi uomini piemontesi di governo, che erano riusciti a incassare oro dal Banco di Napoli in cambio di biglietti della Banca Nazionale, la quale, poi, aveva la lodevole consuetudine di fare doppie, triple e quadruple tirature della stessa serie di biglietti (come dire tre illecite su una autorizzata). Dalla tomba, Cavour reclamava il riconoscimento d' aver avuto ragione: se il valore della seta era caduto per l'arrivo di quella giapponese, le esportazioni meridionali tiravano il paese dal fango (almeno da quello finanziario). Come in quella degli individui, vi sono anche nella storia dei popoli momenti favorevoli, che poi non si ripetono. Se, tra il 1860 e il 1914, il Sud avesse avuto un suo Stato - se per caso fosse rimasto borbonico - il quasi monopolio delle produzioni mediterranee gli avrebbe permesso di camminare velocissimamente all'inseguimento di quel sistema industriale, al quale tutta l'Europa e gli Stati Uniti tendevano.

Caduta la Destra, erede del sabaudismo cavouriano, morto il piemontese Depretis che ne fu - nonostante ogni contraria declinazione d'identità - il più navigato dei continuatori, i truffatori di regime, coloro che erano cresciuti sotto l'ala protettrice del grande ministro e che si erano arricchiti con i soldi dei contribuenti, una volta fatte e rifatte le ferrovie e le strade, intendono che lo Stato provveda a rigenerare le fonti d'arricchimento. E qual fonte migliore dell'industria? Bismark, che vuole tirare l'Italia dalla sua parte, dà una mano. L'Italia, che è vissuta d'esportazioni in Francia, rompe con la sorella latina e inaugura il protezionismo industriale (e anche quello granario, per compensare i latifondisti).

Pronubo Francesco Crispi (dopo 30 anni d'unità, il primo meridionale a essere presidente del consiglio, ma evidentemente scelto non a caso, perché basteranno solo 200.000 lire per corromperlo), nasce in Italia una grande industria, la quale si dice moderna, ma che in effetti è gracilissima. Infatti riuscirà a presentarsi sul mercato mondiale, dopo qualche sporadico episodio come il raion (Anni Trenta) e la Vespa (Dopoguerra), soltanto intorno al 1960, mercé lo sfondamento operato dagli elettrodomestici leggeri. Intanto, per 70 anni e più, mentre i governi nazionali dirottano la valuta rimessa dagli emigranti - e si tratta di cifre favolose - al finanziamento e rifinaziamento del Tesoro, di lor signori e delle banche, che essi (appunto lor signori) hanno il garbo di far fallire una dietro l'altra, gli italiani pagano le automobili, i concimi, le macchine da scrivere e quant'altro due, tre, quattro, dieci volte il loro prezzo sul mercato mondiale. E si ripete qui la sceneggiata già vista con le tasse: i meridionali pagano la mazzetta ai signori dell'industria, e non hanno contropartite. Anche la gente del Nord paga la mazzetta, ma almeno i lavoratori settentrionali hanno il beneficio che l'industria protetta dissemina lavoro all'interno del Triangolo industriale.

* Ho detto l'essenziale della storia lontana. Lo scandalo del Piano Marshall e dei dollari intascati esclusivamente dalla FIAT, nonché il contributo dato dal lavoro meridionale all'industria del Triangolo (che fu l'ultimo uovo della Gallina dalle Uova d'Oro), una vera Befana salariale per gli Agnelli, sono nozioni troppo recenti perché qualcuno l'ignori. Ma quanto è costato al Sud tutto questo? E' arcinoto: più di venti milioni di emigrati. Un altro Sud disperso per il mondo. Ma oggi questa nozione patetica non basta più. Bossi ha cominciato a parlar di denari. Era un argomento da non toccare da parte di un padano. Accortamente, nessuno l'aveva fatto prima di lui, e ciò dimostra ancora una volta (se ce n'è bisogno) che abbiamo a che fare con un asino sbronzo. O voi che sostenete di lavorare e produrre, anche noi sappiamo fare i conti. E non per celia. Per sapere quanto costano a un paese 20 milioni di emigrati, definite la cifra che si spende ad allevare un ragazzo, sommatela con il valore che un uomo genera nel corso della sua vita lavorativa.

Ciò fatto moltiplicate - appunto - per 20 milioni. La cifra che viene fuori compra le città di Roma, Milano, Firenze, Genova, Bologna messe assieme, con le loro vie e i loro palazzi, nonché interamente le terre e le fabbriche delle regioni di cui sono capitali. Ma il risarcimento del danno è solo una parte del credito. Dal punto di vista patrimoniale uno Stato non è che un' associazione, le cui norme vanno estese al caso Sud/Nord . Quando una associazione si scioglie e l'attivo supera il passivo, dovunque nel mondo civile l'attivo si ripartisce fra gli associati, nel nostro caso 57,7 milioni di italiani. Ma quant'è, oggi, la quota di attivo che dovrà essere restituita al Sud? Il conto può esser fatto in vari modi. Per esempio calcolando il capitale fisso sociale istallato. Oppure facendo un conto dei profitti e delle perdite; risommando, cioè, le entrate e le uscite pubbliche, più le incidenze del protezionismo industriale, più lo spostamento di manodopera, più la crescita a ritmo geometrico dell'improduttività per l'esaurimento dei surplus, ecc.

Un modo sicuramente più economico per chi deve restituire considera il prodotto netto annuale nazionale, di cui l'ISTAT ci dà anche la media pro capite. In tal caso i meridionali, che stanno sotto la media nazionale di 8 milioni a testa (20.500.000 teste), vanno rimborsati di altrettanto per il presente e per il passato. 164 mila miliardi per 137 anni. In totale 22, 5 milioni di miliardi. Come è facile capire, il debito italiano verso il Sud è nell'ordine di centinaia di volte il debito in Bot. Con cifre del genere, il campanile di San Marco, più che conquistarlo, i serenissimi se lo debbono vendere, insieme con tutte le Ghirlandine, le Torri e i Torrazzi, di cui è felicemente ricca la Padania bossista, nonché con tutti i Duomi e le Piazze e i Palazzi, ma anche i quadri del Mantegna e di Tiziano, le statue di Michelangelo e magari anche i manoscritti di don Lisander, di Montale, di Carlo Cattaneo e di Gianfranco Miglio, nonché le aste tracciate da quel somarello di Bossi l'ultima volta che andò a scuola. Se proprio arriveremo a un pagamento in natura, io chiedo una fresca valle del Trentino per l'estate, magari la stessa dove un mio zio ci lasciò la pelle per liberare Trento.

Fuor di celia, i conti si faranno - certamente bene - e il Nord, padano o austroungarico che sia nel frattempo divenuto, pagherà il dovuto. Pagherà sicuramente, nonostante i ringhi di Bossi e il salmodiare di Miglio. * Tiriamo le conclusioni. Uno. Di un Sud federale abbiamo le preimmagini. Basta guardare la faccia e ascoltare qualche frase dei discorsi di D'Onofrio, di Mastella, di Mattarella per sapere ciò che ci capiterebbe. In un paese interamente da ricostruire è necessario un potere che rispecchi gli interessi prevalenti e non il vaneggiare dei quaquaracquà. Due. Potremmo dire sì a un'Italia che proceda da subito all'industrializzazione del Sud e la porti avanti a marce forzate. A sacrificarsi sull'altare degli equilibri monetari o di bilancio, come adesso è di moda, saranno altri, per esempio i professionisti, gli operatori autonomi e le società che realizzano superprofitti, ordinariamente scialacquati alla Seychelles o altrove.

L'opera deve comunque andare rapidamente avanti fino al traguardo di un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro. Sebbene l'Europa abbia un volto poco simpatico, potremmo dire sì a un'Italia che, in sede comunitaria, proceda immediatamente alla ricontrattazione dei prezzi agricoli e alla revisione della politica mediterranea. Se no, no. Di gente che vuol vendere, oggi ce n'è tanta; a scarseggiare sono invece i compratori. D'altra parte siamo un popolo forte e più giovane degli altri, e abbiamo una voglia di nuovo che altri non hanno. Dovunque arrivi, uno di noi fa presto ad affermarsi e a farsi amare. Alla fin fine, da soli faremo sicuramente prima. Tre. I latini dicevano le cose con molta efficacia. Uno dei loro detti più famosi si usa ancora. Dice: Si vis pacem, para bellum. Se vuoi la pace, sii pronto a far guerra. Purtroppo la vita, anche quella dei popoli, non si svolge su un prato di margherite in fiore.



Nicola Zitara




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