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"l'aggettivo attribuisce ai Borbone un noto difetto dell'amministrazione piemontese"

Borbonico

di Nicola Zitara

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Siderno, 20 Giugno 2003

Non più di una settimana fa, leggendo il Corriere della Sera, mi sono imbattuto per l'ennesima volta con l'aggettivo borbonico, ovviamente usato in senso dispregiativo. A usarlo non era uno qualunque, ma un pubblicista considerato un esperto sui problemi della scuola.

Ciò mi ha portato a dedurre che non la parola non era stata buttata lì per ignoranza, ma probabilmente ubbidendo a un impulso denigratorio. Infatti l'aggettivo è stato coniato più di un secolo fa non tanto in disprezzo ai Borbone, che ormai avevano perduto il regno, quanto per confezionare un alibi ideologico e culturale a copertura delle crudeltà belliche e delle malefatte politiche che i toscopadani andavano compiendo ai danni delle popolazioni meridionali. Fra i tanti significati di cui l'aggettivo è stato caricato, uno riguarda l'inefficienza e la macchinosità della pubblica amministrazione. Si tratta di un falso in piena regola. Anzi peggio: l'aggettivo attribuisce ai Borbone un noto difetto dell'amministrazione piemontese.

Quando ero ragazzo, c'era in paese una prosperosa popolana che non faceva alcun mistero circa il suo mestiere. Si trattava di una persona generosa e impulsiva che, secondo l'usanza del tempo, trasformava in un comizio, tenuto sulla porta di casa, i litigi familiari. Quando bisticciava con il marito, lo picchiava, lo cacciava di casa, e mentre il poveretto si allontanava arrancando, lei, dalla soglia, gli urlava dietro: "Cornuto!….Cornuto!…Cornuto!…" Allo stesso modo fanno i toscopadani con noi meridionali.

Ecco la relazione scritta nel 1853 dall'onorevole Giuseppe Farina (da privato: banchiere in Torino) per far rilevare alla Camera dei deputati del Regno di Sardegna (Piemonte, Liguria, Valle d'Aosta, Savoja e Sardegna) la macchinosità della pubblica amministrazione.

"L'ingegnere provinciale, il quale riconosca l'opportunità di un'opera nuova lungo una strada regia, che percorre la provincia nella quale esercita il suo ufficio, ne informa l'ingegnere capo e l'Intendente provinciale, che ne avvertono l'Intendente della divisione, il quale rassegna la cosa all'Azienda generale dell'Interno, che, o direttamente, o previa comunicazione al Ministero dei lavori pubblici, ordina di formare il relativo progetto.

Questa previdenza è partecipata all'Intendente generale ed all'ingegnere capo, che trasmettono le occorrenti disposizioni all'Intendente della provincia ed all'ingegnere che deve compilare il progetto formale dell'opera. Il progetto preparato è riveduto e corretto dall'ingegnere capo, e, o per il canale dell'Intendenza generale, o direttamente viene trasmessa all'Azienda dell'Interno la quale promuove su di esso il parere del Congresso permanente di acque, ponti e strade, che lo approva o prescrive modificazioni o variazioni per l'inserzione delle quali è il progetto nuovamente rimandato alla Azienda dell'Interno, e da queste, o per la trafila dell'Intendenza, o direttamente trasmesso all'autore con invito di conformarsi ai suggerimenti e alle prescrizioni del Congresso permanente medesimo. Il progetto dell'autore emendato è, per il consueto canale, nuovamente trasmesso al Congresso permanente, che approvandolo lo invia all'Azienda generale dell'Interno, la quale previa autorizzazione del Ministero inserisce la spesa nel bilancio".

Andiamo a Napoli e facciamo parlare un conquistatore piemontese, il Cav. Vittorio Sacchi.

Questi, amico di Cavour, era il direttore dei tributi e del catasto nel Regno di Sardegna. Cavour, ben sapendo quanto valevano i luogotenenti del re, lo stesso re Vittorio e i suoi generali da operetta, spedì il cavaliere a Napoli come uomo di sua fiducia, per capire come erano ordinati i tributi e le finanze duosiciliani. Da Napoli, Sacchi spedisce una lunga lettera al mandante. Comincia con l'annotare che era partito per la grande metropoli, che allora era Napoli, con forti prevenzioni. Ricorda a Cavour come dubitasse se accettare, o no, e come fosse stato proprio Cavour a insistere. Scrive F. S. Nitti, da cui traggo il racconto: "Il Sacchi fu segretario generale delle finanze in Napoli dal 10 aprile al 31 Ottobre 1861 e l'opera sua consacrò in una relazione, che costituisce un documento importantissimo.

" Nel 1862 i consuntivi (del bilancio piemontese) non giungevano che al 1853: il disordine nella esazione delle imposte e nelle spese era notevole e mancano ancora adesso (siamo nel 1896) molti elementi di giudizio.
Invece" la finanza napoletana, organizzata da un uomo di genio, il cavaliere Medici, era forse la più adatta alla situazione economica del paese. Le entrate erano poche e grandi e di facile riscossione.
"Base di tutto l'ordinamento fiscale era una grande imposta fondiaria. Ed era così bene organizzata che rappresentava un vero contrasto con il Piemonte, dov'era assai più gravosa e di difficile riscossione: "Il sistema di percezione della fondiaria ? dice il cavaliere Sacchi, nella sua relazione ? la prima e la più importante delle risorse dello Stato, era incontrastabilmente il più spedito, semplice e sicuro, che si avesse forse in Italia.

"Lo Stato, senza avervi quella minuziosa ingerenza, che vi ha in Francia e nelle antiche Province (Regno di Sardena, ndr), ove si fece perfino intervenire il potere legislativo nella spedizione degli avvisi di pagamento, avea assicurato a periodi fissi e ben determinati l'incasso del tributo, colle più solide garanzie contro ogni malversazione per parte dei contabili".
"Non vi era quasi alcuna imposta sulla ricchezza mobiliare. Poiché questa si andava formando, il cavaliere Medici e i suoi continuatori aveano ritenuto che vi fosse pericolo grande a colpirla con imposte. Il commercio interno avea ogni agevolezza: "la ricchezza mobiliare, ed il commercio in ispecie, (era) esente in Napoli da ogni maniera d'imposizione diretta … " .

"Le tasse del registro e del bollo, gravissime in Piemonte, erano assai tenui nel Reame di Napoli. L'ordinamento delle fedi di credito del Banco di Napoli, mirabilmente semplice sotto questo aspetto, rendeva inutili le registrazioni. "Al mirabile organismo finanziero delle Province Napoletane " dice il cav. Sacchi, si vedeva soprattutto in quanto riguardava il funzionamento del Banco. Il Banco ? scriveva il Sacchi ? riceve il danaro contante da chiunque voglia deporvelo, lo custodisce a sue spese e lo restituisce ad ogni richiesta del deponente in moneta equivalente.

L'ordinamento finanziario e quello tributario istituito dai Borbone "era (no i più adatti) allo sviluppo della ricchezza nel Sud. In Piemonte viceversa l'ordinamento finanziario, che poi fu esteso al resto d'Italia quasi integralmente, era gravosissimo. (…) tutte le imposte antiche furono aumentate, molte nuove furono introdotte e il prezzo delle polveri e dei tabacchi e della carta bollata fa accresciuto, aumentate le successioni, le manimorte, le tasse sui trasferimenti di proprietà, create nuove imposte sulle industrie, ritenute sulle pensioni: tutto fu aumentato.

"Vedendo così enormi le differenze fra le imposte del Piemonte e di Napoli, lo stesso segretario generale delle finanze nel 1861 riputava difficile assoggettare il popolo meridionale ai tributi piemontesi: bisognava studiare lungamente perché il salutare sacrifizio si compiesse.

"Dell'amministrazione finanziaria, in cui il personale inferiore era scadente, ma il personale superiore ottimo, il segretario generale per le finanze…dava alto giudizio: trovava il Sacchi meno costoso che in Piemonte il sistema tributario, ammirava la semplicità dei mezzi di riscossione; lodava il sistema di tesoreria; la direzione del debito pubblico gli pareva così buona che voleva "modellarvi il servizio del debito pubblico nazionale". Le aziende finanziarie "ottime dal lato del meccanismo amministrativo, lasciavano ben poco a desiderare dal lato del personale". In generale nella finanza napoletana, secondo il Sacchi "molte belle intelligenze vi si facevano rimarcare. E checché voglia dirsi in contrario vi si trovavano uomini di grande istruzione.

Le scienze economiche, altrove generalmente sconosciute alla classe degli impiegati, erano qui generalmente professate. Facili e pronti i concetti, purgata ed elegante la lingua, si scostavano le scritture degli uffici da quello amalgama di parole convenzionali che altrove rimpinzano le corrispondenze ufficiali.
"In una parola, nei diversi rami dell'amministrazione delle finanze napoletane si trovavano tali capacità di cui si sarebbe onorato ogni qualunque più illuminato governo".

Malgrado tutto questo, la prosperosa comare, con in testa l'elmo di Scipio, mentre noi affanniamo sotto le sue farraginose leggi, continua a urlarci in faccia: borbonici!… borbonici!…borbonici!

Nicola Zitara

 

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