L'unita d'Italia e una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
  Eleaml


Cosenza è rock, Reggio è lenta

di Nicola Zitara

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Siderno, 5 novembre 2005

Mariano Meligrana,  ahimè  prematuramente scomparso, era uno  dei più perspicaci e coraggiosi intellettuali del Sud. Della mafia siciliana ha disegnato l’evoluzione (l’involuzione) dalla sua preistoria ottocentesca – allorché stava con un piede negli androni dei palazzi baronali e l’altro sui tratturi di campagna - all’attuale fase d’imperio. La storia della mafia si svolge dentro la storia del mondo occidentale. Il punto di partenza è la condizione del contadino ottocentesco: una solitaria scheggia di vita posta tra Dio, la terra e la zappa; unico fine il pane e la sopravvivenza. Il punto di arrivo una condizione che apre all’immaginario umano traguardi incommensurabili di potenza. Oggi la ricchezza è anonima. La connessione tra chi la produce e chi la usa resta nascosta, dissimulata; un percorso riconoscibile solo dall’esperto.

Per Meligrana,  la mafia di oggi è profondamente penetrata dalla cultura del profitto, dagli  “spiriti animali” su cui si regge il capitalismo. I nomi restano, le situazioni cambiano. Il male a volte viene estirpato, a volte diventa cancrena. Inutile chiedersi ancora una volta perché “i bravi” non aduggiano più la vita dell’operaio comasco e perché il viaggiatore non incontri più fra le bassure emiliane il brigante che l’uccide per spogliarlo. Ne abbiamo parlato e riparlato. La Lombardia, l’Emilia, le altre regioni dell’Europa industriale non sono, tuttavia, società appagate. Vivono tuttora conflittualità vivaci, ma i loro conflitti interni si svolgono in forme irripetibili nel nostro ambiente, dove le strutture della produzione, i rapporti conseguenti, la cultura dello scontro di classe sono totalmente diversi. E non possono essere che diversi.      

Volendo riprendere un termine del passato – esausto nella parte “nobile” del paese italiano – potremo dire che la mafia siciliana e, sulla sua falsariga, la ‘ndragheta  calabrese  sono brigantaggio capitalistico.  Ciò dicendo, diciamo anche che la mafia di oggi e la mafia del 1930 sono due cose socialmente diverse. Il brigante stava fuori della società civile. S’imboscava ai suoi bordi con lo scopo di saccheggiare i ricchi. Lo stesso fa l’odierna mafia. Non così la vecchia mafia, che era un satellite della società civile, alla quale  aderiva in funzione di milite del barone (tale e quale “i bravi” di Manzoni).

    Se posso aggiungere una mia interpretazione a quelle ispirate da Meligrana, direi che la  mafia conserva le sue radici contadine, ma si sviluppa nel dopoguerra proprio sulle ceneri  del mondo contadino e su quelle del conflitto sociale per la terra e per la formazione della proprietà coltivatrice. A determinare la fine del mondo contadino è, di regola, il trionfo dell’industria. Ma qui la regola non è stata osservata. In sostanza, l’odierna mafia è la continuazione delle lotte sociali per la terra, vanificate non da una sconfitta politica, ma dalla fine, in Meridione, della centralità  della produzione agricola e dal mancato sorgere di una diversa centralità produttiva.    

La sollevazione ex contadina contro l’ordine vigente ha, infatti, intenti nuovi. Non ha più il carattere politico e sociale che ebbe nell’immediato dopoguerra. e tanto meno dà luogo a epifenomeni come la Repubblica rossa di Caulonia. Ha un profilo brigantesco, da taglieggiatori, di chi si appropria di ricchezza altrui, senza voler cambiare niente del mondo e delle leggi vigenti. La mafia non vuole il comando politico, altrimenti si comporterebbe come i rivoluzionari, i ribelli, i terroristi. Uccide per soldi. E uccide anche i politici, gestori del capitale pubblico, quando non le permettono di lucrare, o di lucrare a sufficienza. Lo Stato finge d’intervenire, e lo fa nella forma della repressione del delitto. Ma in effetti non interviene. Il delitto continua e s’ingrandisce. Anche un cieco vedrebbe che  l’intervento (almeno quello più impegnativo) dovrebbe avere natura diversa.  E qui dobbiamo toglierci i paraocchi cavallini. Lo Stato, qualunque Stato, non obbedisce ai comandamenti dettati da Dio sul monte Sinai. Lo Stato osserva una sola legge, che è quella di continuare a esistere con i contenuti e le leggi al momento vigenti. La mafia non minaccia lo Stato. Anzi, per l’esistenza dello Stato italiano, la mafia è un punto di forza; un alleato su cui può contare per governare il Sud. Lo è fin dalla sua nascita, e se proprio non vogliamo ripescare i picciotti di Garibaldi, basterà ricordare gli amori tutt’altro che segreti tra DC, PSI, PRI e mafia in Sicilia, in Calabria, nella città di Napoli,  nell’ultimo cinquantennio. Si è parlato di Andreotti, forse a sproposito, ma potremmo ricordare quella vestale del liberismo e dell’europeismo a nome Ugo La Malfa e quel discoletto milanese a nome Claudio Martelli, persino ministro di grazia e giustizia.

Ciò mi basta a concludere che l’arrivo in Calabria di altre forze di polizia, il miglioramento   della giustizia, qualche pentito in più, sono tutto quel che può accadere. La sollevazione televisiva seguita all’assassinio del povero Fortugno somiglia a “tuono di caldo”, come qui si diceva, un tempo, dei tuoni a cui non seguivano procelle. Passerà qualche settimana ancora, poi tutto si placherà. 

Fra gli studiosi, della mafia si sa tutto. Però la gente qualunque la si vuole disinformata. Lo si è visto lunedì, 30 ottobre in televisione, nel programma del presentatore Augias, che passa per essere un giornalista insolitamente colto. Il suo sforzo mentale è arrivato a immaginare che le persone più titolate da intervistare sul tema “mafia” fossero il sindaco di Cosenza e il governatore della Calabria. Loiero ha detto le cose che dice da un mese,  parlando con il tono di chi vuole convincere l’uditorio che in Calabria la politica ha una funzione “politica”; cosa che non sta né in cielo né in terra. Inedito  invece l’intervento del sindaco di Cosenza. 

La signora Catizone ci ha spiegato che “Cosenza è diversa”, che lì si respira un’altra aria. Ho l’impressione che volesse dire che Cosenza è un prolungamento di Cuneo e che lei stessa si sente più cuneese che calabrese. La signora Catizone parla sciò sciò ed è una bella donna: occhi scintillanti e civettuoli, seni sicuramente non cuneesi, vita stretta e i fianchi forti di Persefone. Più che un sindaco sembrerebbe una modella (taglia Canova) a una sfilata di moda. Ma non lo è. E’ invece il bravo sindaco di Cosenza, che ha ragione a dire che Cosenza è diversa… (ovviamente da Reggio).  E’ vero, ma ciò non  salva né il sindaco né parecchi in quella Città. Anzi ciò è il peggio del peggio. Personalmente ricordo l’on. Gennaro Cassiani, felice memoria. Proconsole bruzio dell’Italia miracolata, che fu il primo padrino della corruzione elettorale calabrese. Ricordo Riccardo Misasi, felice memoria. Fu il massimo beneficiario del voto di mafia a Locri. Potremmo persino dire che fu lui che la promosse. Ricordo Giacomo Mancini, felice memoria. Fu lui a scassare alla radice la federazione socialista di Reggio, la più forte in Calabria, per affermarsi come leader maximo dei socialisti calabresi. Non contento del trionfo, insieme a Misasi e a qualche spicciolo di deputato catanzarese malmenò talmente la città di Reggio da portarla alla rivolta…fascista si disse. L’Università a Cosenza, la Rai a Cosenza, l’ex Ente Sila a Cosenza, l’autostrada a 2000 metri d’altezza, affinché attraversasse Cosenza, fanno parte dei suoi interventi nel quadro di una  politica “diversa”. 

Cosenza è rock, Reggio è lenta. Nell’antico vocabolario dei toscani, lombardi e piemontesi, che litigavano fra loro a chi spettasse spolpare l’Italia, cose del genere erano definite municipalismo, e qualche volta anche peggio. Ma, a quel tempo, al fottisterio nazionale mancavano ancora i Comitati di Liberazione Nazionale.

Quanto a Loiero, bisogna che ci chiarisca “chiaramente” se dopo la morte di Fortugno si è convertito. Perché l’attuale giunta regionale è una strana società politica tra ex comunisti ed ex democristiani: i comunisti, che non vogliono a ché sapere di mafia sin dal  tempo di Cavallaro, 1945, e i democristiani, che ci stanno comodamente a fianco da cinquant’anni.

Adamo? Loiero? I carabinieri? Lo Stato? La mafia? Nella mia lunga vita, ho conosciuto centinaia di mafiosi. Sin da quando ho raggiunto l’età della comprensione, so  che sono uomini come me; uomini con i  problemi, gli interessi, le speranze e le paure comuni alla gente della mia terra. Qualcuno è persino allegro e divertente (quantomeno fuori del suo lavoro). Sono d’accordo con il vescovo Bregantini quando dice (e lo fa. Solo lui, purtroppo!) che questa gente va salvata. Sono però in disaccordo con lui su un punto. L’Italia (cioè il paese degli italiani) non lo farà mai, e non per cattiveria, ma perché non sente sua la gente meridionale. E perché, dall’inserimento dei meridionali nella normalità,  non  ricaverebbe altro che dei veri e democratici ribelli verso la politica che essa detta. L’Italia è lombarda, toscana, romana, magari veneta, mai calabrese o napoletana.

Dopo l’alluvione del 1953 fui  capolista dalle sinistre alle elezioni di  Africo Nuovo. Zanotti Bianco mi spiegò che era un errore strappare quegli uomini e quelle donne alla Montagna. L’Italia doveva andare ad Africo (vecchia) e non gli africoti all’Italia. In effetti essi  rivolevano le loro capre, nonostante il divieto di pascolo. Ma chi mai li ascoltava? Era una pretesa non italiana. Le sinistre rivolevano il voto, volevano che non andasse  a  don Stilo. Agli alluvionati lo Stato dava le case – case vere a chi era vissuto in un tugurio. Dava anche un sussidio; poche centinaia di lire al mese, ma era quanto essi non avevano mai guadagnato con il loro lavoro.

I segretari di federazione del PSI e del PCI mi guidarono in prefettura: “Eccellenza, se quella gente non ha un lavoro, impazzisce. Espropriate della terra intorno al paese. Sovvenzionate almeno un allevamento di mucche, di maiali”.

- “Amico mio, lo Stato non fa l’allevatore!”

E invece sì. Alleva briganti.      

Forse un giorno questo paese tornerà libero. Se ciò  sarà, i calabresi potranno recuperare il ricordo d’un tempo, quando erano considerati gli uomini più intrepidi e leali d’Europa.

Nicola Zitara

Il partito separatista degli Italici 

proclama il 4  Novembre 

“Giorno dell’ingratitudine”

  

Il 4 Novembre dell’anno 1918, con la sconfitta epocale dell’Impero austro-ungarico, le città toscopadane conclusero il percorso militare del loro Risorgimento, che era cominciato sessant’anni prima, nel 1859, con la calata in Italia dell’esercito francese e l’annessione della Lombardia, ceduta dall’imperatore Napoleone III al Piemonte sabaudo.

Dal novembre 1818 anche le città di Trento e Trieste entrarono a far parte del Regno d’Italia.    

La Prima Guerra Mondiale, a cui l’Italia intese partecipare, sebbene l’Impero austro-ungarico si fosse dichiarato disponibile a cedere le due Città irredente, si svolse sulle Alpi venete, durò più di tre anni  e comportò, per la parte italiana, più di mezzo milione di caduti sul campo e più di un milione di mutilati e di invalidi.

All’immane e inutile guerra, e alla connessa carneficina, i contadini meridionali dettero un contributo decisivo. Per la prima volta, dopo molti secoli, la Toscopadana riusciva a vincere una guerra. Il sacrificio di sangue meridionale fu decisivo e percentualmente superiore a quello delle popolazioni toscopadane. Ma ciò non bastò a superare la condizione di inferiorità e colonialismo che aveva contrassegnato l’ingresso del Napoletano e della Sicilia nell’Italia unita.

L’ingratitudine, lo sfruttamento, l’ipocrisia sono i non valori con cui il Sud partecipa alla retorica nazionale.

E’ doveroso porre fine all’inganno.

L’alleanza è rotta nei fatti.

 Torniamo alla nostra indipendenza e alla dignità con cui, nell’Ottocento, i cosiddetti briganti combatterono contro i francesi e i piemontesi invasori.



















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