L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Italia

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L’Italia a cui vorrei accennare non è quella che si estende dalla Catena alpina alla Sicilia, di cui tutti conosciamo non solo quel che abbiamo studiato a scuola, ma anche le vicende quotidiane, alle quali partecipiamo. Uso il nome antico d’Italia per parlare di quella terra che va da Reggio alla Piana di Metaponto, dove è situato Scanzano Jonico, la più recente pattumiera/designata della Repubblica Italiana. Questa volta si tratta di una pattumiera ufficiale (anche se officiosamente in via di ritrattazione, in seguito alla resistenza degli abitanti e alla minaccia dei loro esponenti politici di voltare il culo a Forza Italia e a Berlusconi).

In questo nostro Stato si celebra tutto e s’inneggia a tutto, dai piccioni alimentati dai turisti in Piazza San Marco, alla costata di manzo prodotta in Val di Chiana, dagli affreschi di Raffaello nella Cappella degli Scrovegni al balcone di Giulietta, dalla Lupa Capitolina alla Torre degli Asinelli, da Milano, capitale dell’Impero d’Occidente ed ex sede vescovile del Cardinale Colombo, a Pavia capitale del Regno longobardo. Ciò di cui non si parla mai è dell’Italia pre-romana, della sua civiltà non imperiale ma civile, imperialmente distrutta dai civilissimi predetti, e del suo nome antico, che dovette essere considerato da questi stessi Romani così connotante con la realtà più vitale del paese che l’estesero fino a comprendervi Roma e le colonie fondate nella Pianura padana.

L’"umile Italia" di Virgilio, al tempo del poeta e dell’imperiale Augusto), era ancor più umile in questa sua parte finale, in queste regioni che avevano ceduto il loro nome primigenio a favore di tutta la Penisola, e a cui i Romani dettero rispettivamente il nome di Lucania, terra poco luminosa a causa dei fitti boschi, e di Bruzio, regione abitata dai loro indomiti nemici, appunto i Bruzi (nella loro grafia, Brutti), e che noi calabresi e lucani odierni abitiamo. I Romani ne distrussero l’originaria identità. A partire da quella civile distruzione , cioè da ben duemila e duecento anni, queste regioni hanno un volto dimesso. La loro storia politica si confonde con quella delle più forti regioni vicine: la Sicilia, Napoli, Taranto. Non così la storia umana e sociale. Serrate tra impervie alture e una lunga costa, durante il Medioevo le popolazioni riscrissero la loro identità, dettero vita a nuove tradizioni, elaborarono nuovi miti, venerarono la Madonna più che gli altri santi, fondarono una nuova economia.

Sarà simpatico, ad esempio, sapere (o ricordare) che fino al tempo dei Borbone, nessun altro italiano e solo pochi europei consumavano altrettanta carne dei calabresi e dei lucani. Non si trattava, sicuramente di bistecche provenienti da Val di Chiana, ma di poco illustri maiali e di volgari agnelli allevati in loco, nonché di prodotti della caccia; un’attività in cui i nostri antenati erano dei veri maestri. La penuria di carne, "la carne la si vedeva, sì e no, una volta all’anno", è una conquista, una narrazione poetica che appartiene alla patriottica storia dell’Italia unita.

Le castagne oggi costano molto care, ma un tempo vi era una produzione abbondantissima nei boschi demaniali. Il prezzo di un tomolo di castagne stava tutto nella fatica che si faceva a raccoglierle e a sbucciarle. Diversamente che in Campania, in Puglia e in Sicilia, vi era scarso il grano. Produrre grano costava molta fatica e comportava molti rischi. L’unica zona felice, da tale punto di vista, era il Marchesato di Crotone, dove le colline ricevevano piogge invernali e vapori umidi primaverili per merito della retrostante Sila.

La marineria era particolarmente attiva nello Stretto, a causa dei commerci tra l’Isola e il Continente. Il porto di Messina era un punto nevralgico nelle rotte mediterranee per l’esportazione della seta e per il rifornimento di limoni, la medicina dei marinai del tempo per premunirsi contro lo scorbuto. Era così attiva l’antica marineria che la flotta della Cristianità, in procinto di salpare da Messina per affrontare la flotta turca (per quella che fu poi la celebre battaglia di Lepanto, anno 1571) accettò l’offerta delle Bagnarote di partecipare alla battaglia con le loro barche. Le quali, evidentemente, non dovevano esser così piccole come noi potremmo immaginare, se da Messina viaggiarono fino in Grecia e consentirono alle nostre amazzoni marinare di combattere con grande ardore.

I pescatori, le barche, il pesce erano presenti lungo tutta la costa. I borghi marini dovettero essere abitati da gente agile e franca, perché, fino a metà del Settecento le incursioni saracene furono una minaccia incombente. L’inoltro del pescato verso i centri collinari è dovunque segnalato da borgate minori disposte lungo i tratturi che salgono dalla costa verso la collina e la montagna. D’altra parte il mare era l’unica grande via di comunicazione del tempo antico. E tal proposito non va dimenticato che l’Italia calabrese e lucana esportava parecchia roba. Per esempio legna da ardere, legnami per navi, fichi, olio, vino e principalmente seta e zucchero.

In un rigurgito di autonegazione l’Italia posteriore progetta d’insozzare e d’inquinare - più di quanto non lo sia già - l’Italia primogenita. Sicuramente l’assalto governativo sarà respinto. Però ci sono cose che inquinano più delle scorie di uranio. Fra queste, l’inconsulta accettazione di valori che non collimano con la nostra peculiare identità. Noi abbiamo interiorizzato l’idea di periferia, che l’Italia e l’Europa capziosamente fomentano. La risposta che va data non sta nell’essere più europei, ma più noi stessi nel tentativo di ricostruirci dopo la distruzione unitaria, similmente a quel fecero i nostri avi.

Nicola Zitara

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