L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


La mafia e i Rigoletti del Sud disastrato

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Fantasmi


S’ingannavano sicuramente i saccenti maestri del positivismo ottocentesco – qualcuno ingenuamente venerato ancora presso un certo, nostrano pertinismo socialista – i quali immaginavano che la storia umana fosse un processo virtuoso e lineare. Nel vecchio mondo in cui sono nato la mafia c’era, ma era ai margini dell’assetto urbano. C’era nelle province di Palermo e di Trapani, da un millennio il focolaio di tutte le rivoluzioni europee. La Sicilia restante era "babba", buona, ospitale; certo sofferente, ma per ben diversi problemi. C’era anche, ma a un livello propriamente basso, in qualche luogo della Calabria reggina, nei paesini dello Stretto, in qualche centro della Piana e a Siderno, Caulonia, Grotteria, Platì, San Luca. Intorno sopravviveva l’umile Calabria, mite, rassegnata e morta di fame. Oggi la mafia è globale. Su una latitudine e una longitudine mondiale essa vive e prospera dello spaccio di droghe. Dopo gli Stati Uniti, Cosa nostra è la più grande potenza economica del pianeta. La droga sta al centro del mondo civile assieme alle sei flotte che solcano i mari per portare dovunque il comando dei capitalisti USA. Il resto che vediamo non è sostanza, ma accidente.

Il Sud presta alla produzione e allo spaccio degli allucinogeni una legione di militi e anche qualche capitano, tribalmente ordinati nella mafia. Nel planetario impero dei narcotici, la mafia di Platì conta quanto il due di coppe. Ma c’è sempre gente, specialmente fra il servile giornalismo italiano, che ama vedere la pagliuzza nell’occhio dei meridionali e non s’accorge della trave conficcata nell’occhio dei toscopadani. Così va il mondo di oggi, nonostante i Victor Hugo e I miserabili, consunti reliquati della coscienza civile del tempo che fu. Platì è colpevole, il resto d’Italia è civile, virtuoso, immacolato. Buon per loro e male per noi, se i nostrani Rigoletti la vedono così!

Come fasci di luce, che vanno e vengono, emessi da un faro posto lontano, sulla vetta di un promontorio, mi passano per la mente fantasmi di antiche verità frammisti ad allegre menzogne del tempo presente. La fede, il coraggio civile, la pubblica degnità, la lotta per l’emancipazione morale e materiale d’ogni uomo, d’ogni donna, d’ogni famiglia, il bisogno di libertà private e d’eguaglianza sociale s’alternano con le doppiezze, le ambiguità, le truffe, i raggiri, le sopraffazioni, le usure, i misconoscimenti, la smodata importazione dell’etica reaganiana, le beffe, l’ascarismo che segna il nostrano versante della storia unitaria. E fra i fantasmi scorgo un uomo vero, il vescovo di Gerace. Se fossi un credente, mi inginocchierei accanto a lui, a pregare per la salvezza della mia gente, estraniata alla sua umanità.

La costituzione materiale

Il disastro meridionale può essere ricondotto a un unico fattore: sin dal primo giorno dell’unità lo Stato nazionale ha voluto – e impone in tutti i modi possibili ai meridionali - una selezione in negativo della classe politica. Essa è chiamata a salvare la faccia dell’unità nazionale, assecondando con il suo peso elettorale l’efficienza economica delle regioni toscopadane. Se gli interessi del Sud sono aderenti a detta linea, bene. Altrimenti, peggio per il Sud. E'la costituzione materiale vigente da 145 anni. Al Sud soltanto gli imbecilli, i vanitosi, i lazzaroni, chi ha un animo arido e servile ha titolo per accedere alla direzione degli affari pubblici. Si pavoneggiano a uomini, ma sono Rigoletti, buffoni pagati per divertire il padrone, il quale, come segno della sua degnazione, gli pianta anche le corna.

Ma si dirà: con questo stesso sistema l’apparato rappresentativo delle altre regioni funziona bene. E chi dice di no! Il fatto da respingere è che qui debba vigere un sistema che non funziona, soltanto perché altrove funziona. Al di là degli arzigogoli, la discrasia risiede nel fatto che nella Toscopadana l’attività pubblica aderisce alla società civile, mentre al Sud l’ente pubblico è stato impostato nelle forme disegnate a favore della Toscopadana. Quindi in forme non aderenti alla nostra società civile. Inoltre essa è bloccata nella sua spontanea evoluzione dal fatto che le eccedenze (il risparmio complessivo) sono eternamente drenate al Nord da un sistema bancario biunivoco. In questa nostra formazione sociale, condannata alla stagnazione, abbiamo un settore pubblico estraneo, in quanto concepito per una formazione sociale evoluta e ricca.. Presso di noi, esso rappresenta la sola forza economica progressiva, l’unica in condizione di remunerare adeguatamente i dipendenti, a volte l’unica capace di offrire spazi a nuove occupazioni. Tutto ciò carica l’esponente politico di un potere innaturale, altrove sconosciuto. Un potere che dipende dall’"esternità" dello Stato e dalla sua non "internità" alla società civile meridionale. Esternità ed internità al sistema statale rappresentano anche lo spartiacque fra il fan dell’Italia una e indivisibile, e chi non ci crede; tra chi lucra sul lascito di Garibaldi e chi pena a causa di tale lascito; tra figli della povera gente, che muoiono per la "patria italiana" con in mano un fucile innocente, e figli della povera gente, senza né patria né Dio, con in mano un mitra ancora fumante del sangue versato.


Nota vichiana

Questo paragrafo ha carattere scolastico. Chi vuole, può saltarlo.
L’uomo è un essere notevolmente diverso dagli altri viventi. C’è chi crede che ciascun uomo sia frutto di un progetto divino, e c’è invece chi crede che l’uomo sia soltanto più complicato e più intelligente degli altri esseri viventi. Comunque sia, un dato è certo: l’uomo vive in gruppi. "L’uomo è un animale politico", cioè sociale, ha scritto Aristotele 2400 anni fa. Difatti, a partire da un certo stadio della sua evoluzione, ogni gruppo, immancabilmente, si dà una struttura politica, cioè delle leggi, delle regole imposte anche con l’impiego della forza. Nessun gruppo è eterno e nessuna legge è eterna. Quando il gruppo si è ingrandito fino a diventare nazione (e da qui a non molto tutti i gruppi si fonderanno in una nazione globale) le poche leggi di un tempo – le tavole – si sono dilatate fino diventare dei codici; degli immensi codici con centinaia di migliaia e forse milioni di regole. I due movimenti qui ricordati, insieme ad altri movimenti collaterali, costituiscono ciò che chiamiamo storia; una parola che all’origine significava soltanto racconto, e che oggi ridonda di significati complessi e dà luogo a interpretazioni molteplici e spesso divergenti.

Come per gli altri esseri che vivono in gruppo, ciascun gruppo umano tende a occupare stabilmente un territorio, e di regola lo difende a costo della vita dei propri componenti (in quel momento viventi). Alquanto spesso un gruppo aggredisce un altro gruppo al fine di ingrandire il proprio territorio o d’impossessarsi delle risorse altrui, o per sottomettere gli autoctoni e sfruttarli (cosa che gli antichi chiamavano francamente schiavitù e oggi si chiama ipocritamente civiltà, o se vogliamo Civiltà Occidentale).

La lotta fra gruppi o nazioni non sempre si combatte sul campo di battaglia. C’è anche una lotta commerciale. Nello scambio, sia chi compra sia chi vende ottiene il suo vantaggio (teoricamente di pari intensità). Si tratta di un fatto contemporaneamente vero e falso. Se noi blocchiamo, mentalmente e librescamente, il tempo, in modo da ignorare il passato e da escludere il momento successivo, lo scambio appare sempre equo. Se invece osserviamo lo scambio nella sua sequenza temporale, nessuno scambio può definirsi equo. Il contraente, che per un caso qualunque è più forte, detta il prezzo. Il fenomeno sfugge alla nostra mente piallata dal vivere la vita giorno per giorno. Si tratta invece di una costante, riscontrata statisticamente, che attraversa tutta la storia e anche il tempo della vita di ogni uomo.

Non solo oggi, ma da sempre, sicuramente dal tempo in cui le navi fenicie solcavano il Mediterraneo, il gruppo che possiede una tecnologia più avanzata, non solo ricava un premio dallo scambio, ma quasi sempre decreta l’obsolescenza delle produzioni più costose e meno utili di quelle che esso offre allo straniero. Un bidone di plastica è molto meno costoso e molto più pratico degli otri ricavati dalla pelle di capra. Ma una volta che la plastica ha reso obsoleti gli otri, muore anche l’artigianato locale che le produceva. Questa morte è contemplata e ammessa dalle leggi. Il civile Occidente impone con le armi e con il ricatto agli incivili di non limitare la concorrenza delle sue merci, di aprirsi al libero mercato. Dopo di che sono liberi di morire.

La gara internazionale tra prodotti vecchi e nuovi è una delle fonti – credo la principale fonte – dell’antinomia Sviluppo/Sottosviluppo. Oggi, sviluppo vuol dire sicuramente industria. L’industria non ha bisogno di molto spazio, le basta dominare il commercio. Una sola fabbrica di cotonati produce più chilometri di tessuto di quanto producevano le decine di milioni di telai a mano esistenti nell’India di due secoli fa. Chi ha le fabbriche si batte apertamente o sotterraneamente perché altri gruppi non le abbiano. D’altra parte, la concentrazione di capitale necessario per impiantare una moderna fabbrica è possibile soltanto dove già da secoli esistono le fabbriche. C’è poi da mettere in conto il sapere tecnico, il quale non si diffonde se prima non si diffonde la scuola. Insomma l’industria ha generato divari abissali fra i gruppi, ha inoltre arricchito i gruppi ricchi e impoverito i gruppi poveri.

Gli spiriti animali

L’odierna mafia s’iscrive nel paradigma sviluppo/sottosviluppo. Però con un’aggiunta. La penetrazione delle merci nel villaggio preindustriale ha diffuso l’etica del profitto anche nei luoghi in cui una normale produzione di profitto è a livelli bassi o bassissimi. Ciò sicuramente nel Meridione. Il Sud Italiano anela al profitto in misura tanto più intensa quanto minore è la produzione di profitti. L’etica del profitto fu descritta da Joseph Schumpeter e da Max Weber più di un secolo fa. Weber ha paragonato il profitto alla ferinità predatoria degli animali. In sostanza è lo sfrenato desiderio di far soldi anche a costo di passare sopra la morale tradizionale e persino eludendo e anche violando la legge.

Per i gran capitalisti è facile usare i governi e le leggi per far soldi. Sulla loro scia, la voglia viene anche alla gente che sta su un gradino più basso. Tanto più che giornali e televisione, servizievoli con chi li finanzia, hanno fatto l’impossibile per avallare la morale capitalistica. Ma chi non sta in alto non produce leggi a proprio favore né usa il governo come un servitore. La mafia odierna è impotenza politica che ha assunto la forma di capitalismo banditesco.

L’ipocrisia nazionale

Lasciamo stare le origini. Sarebbe superfluo riparlarne. La mafia che noi conosciamo si è sviluppata a partire dall’ultimo dopoguerra. L’antica mafia non aveva un carattere venale, o l’aveva soltanto in misura larvata. Oggi la mafia meridionale è una legione degli animals spirits mondiali, precisamente nel settore finanziario. Da oltre 25 anni essa mette a disposizione del capitalismo toscopadano ingenti risorse. Si può dire, senza tema di smentite, che, dalle Alpi al Lilibeo, lo sviluppo delle nuove attrezzature urbane è riferibile ai danari importati dalla mafia; milioni di miliardi di vecchie lire. Senza i soldi della mafia l’economia italiana sarebbe già alla bancarotta. Questo lo sanno tutti, anche coloro che lo negano. E'come se il potere capitalistico avesse detto al potere politico: "Tu fai pure delle leggi severe, però lascia a noi piena libertà in fatto di danari…"

La mafia produce finanza all’estero e all’interno: Ciò fatto, devolve il ricavato al sistema finanziario nazionale. Questo incassa, ma fa finta di non aver visto. Anzi paga i giornalisti perché additino agli italiani intimoriti l’esistenza di un Sud mafioso e corrotto.

Anche il governo vede. E siccome tutti sanno che ha visto, lui si mette in piazza con il banchetto, e apre il gioco delle tre carte. "Chi la trova…chi la vince…" La carta giusta nessuno la trova. Sta a Milano, sta a Roma, forse a Zurigo o a Francoforte? Chissà! Noi la cerchiamo nei cunicoli di Platì. E'più facile, e anche più giornalistico. La televisione ci informerà che abbiamo vinto. Noi non ci crediamo, e continuiamo a consumare la cena, se no si fredda.

D’altra parte soltanto gli ingenui fanno sul serio. La mafia riversa benessere materiale sulle popolazioni italiane, specialmente su quelle meridionali. Al Sud, inoltre, essa assicura la pace sociale e un’adesione allo Stato nazionale che altrimenti non ci sarebbe. Parliamoci chiaro. Per adesso nessuno è disposto ad ammazzare la gallina che fa le uova d’oro. Quanto al disastro meridionale vale l’antica regola: "Signore, provvedi il provveduto, ché il povero ha imparato".


Nicola Zitara

 

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