L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Siderno: maschere e nudità

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Siderno, 16 settembre 2006

Tre settimane fa, su questo periodico, mi sono rivolto ai commissari prefettizi che amministrano Siderno per chiedere loro, che in teoria avrebbero la legittimazione a farlo, di rivedere i ruoli delle imposte e tasse comunali, le quali puniscono chi è già mortificato dalla catastrofica svalutazione interna.

Ovviamente, parole. Non sono così ingenuo da immaginare che i politici – oggi più arroganti di Dionigi, tiranno di Siracusa - permettano ai funzionari di entrare nei pascoli di famiglia. Intendevo buttare un sasso in piccionaia; parlare a suocera affinché il futuro sindaco – chiunque dei due contendenti lo sarà - sapesse in partenza che ha almeno un “bassotto” alle calcagna. Niente di più.

Nelle more tra quell’articolo e questo, il capo del governo, onorevole Prodi, ha dichiarato che la revisione dei catasti comunali costituisce un problema nazionale e ha annunciato una legge a riguardo. Il presidente, sicuramente, non legge “la Riviera”.

Non posso bluffare dicendo: gliel’ho suggerito io. Ho solo intravisto, dalla prima e anche ultima delle colonie italiane, che qui esiste un problema. Il fatto, poi, che Prodi lo consideri e proclami “nazionale” è soltanto una delle solite beffe della partitocrazia romana.

Accordata questa piccola soddisfazione alla mia vanità strapaesana, passiamo ad altri ragionamenti.

Il mondo cambia, e lo si vede. All’origine del cambiamento - si dice – c’è il succedersi delle generazioni. Si aggiunge che giovani e vecchi hanno, di regola, idee diverse. Ciò provocherebbe un conflitto generazionale. La regola generale è che i vecchi hanno sempre torto.

Chi ostacola il cambiamento, chi lo giudica negativamente, è soltanto un catananno che si piscia addosso. La Repubblica, il Corriere della Sera, la Gazzetta del Sud e naturalmente tutti i canali telepubblicitari trionfano. Descritto il cambiamento come un fatto naturale, la gente si rassegna. “La neve cade/la culla dondola pian piano”, e il popolo, imbambolato, s’addormenta.

Un tempo, il tema del mondo che cambia, e quello simmetrico di chi cambia il mondo, lo si affrontava in piazza, lo si rappresentava in teatro. Piangendo o ridendo sulla metafora rappresentata, gli spettatori avevano lo stimolo a riflettere su quello che c’era sotto.

La storiella del vecchio e del nuovo è antica quanto il cucco. Anzi, fino a qualche tempo fa circolava ancora il suo antidoto. Gli antichi lo chiamavano Dike, la Giustizia. Non è che fosse molto rispettata, tuttavia era lecito invocarla e parecchi lo facevano.

L’inimicizia tra vecchio e nuovo c’è, e si vede anche a Siderno. Ma non è il succedersi delle generazioni a innescarla. A farlo è il cambiamento dei rapporti materiali tra le cose e gli uomini (ed è giusto aggiungere le donne, in quanto è il sesso femminile a essere cambiato, da così a così, nel giro di un cinquantennio).

Il cambiamento, poi, non è stato sempre – e forse neppure oggi lo è - sinonimo di crescita della ricchezza disponibile, di flusso interclassista dei beni d’uso, di progresso materiale. E bisogna aggiungere, come codicillo, che non è obbligatorio che il progresso materiale fruttifichi automaticamente libertà e felicità per gli uomini (o meglio, per “tutti” gli uomini).

L’equivoco non è casuale, nasce invece dal cinismo dei politici e dalla premeditata e prezzolata disinformazione dei mass-media. Chi comanda ha bisogno del consenso. La verità è che il cambiamento sociale è promosso dalla concorrenza fra capitalisti.

Il capitalista che introduce sul mercato una merce più conveniente batte il produttore che offre la vecchia merce. I capitalisti sono la classe politicamente egemone perché con il danaro possono comandare il lavoro di altri uomini, i quali vendono la loro giornata per campare. Conseguentemente il capitalista, piccolo o grande che sia, è come se comandasse un esercito, un reggimento, un manipolo.

Quando gli eserciti si scontrano, uno vince e l’altro perde. Il capo, di regola, fugge per tempo, magari con la cassa del reggimento, mentre sul campo restano i morti, i feriti, i prigionieri di guerra. Tutti nullatenenti, povera gente, degli Eduardo De Filippo che aspettano la fine della nottata.

Il capitalismo è un giocattolo perverso. Finché avrà vita questo sistema (speriamo non molta), il capitalista e i suoi dipendenti staranno nella stessa barca. A Torino lo sanno, e anche qui lo sappiamo, solo che qui la situazione sociale è ancora a mezzaria. Come diceva Marx un secolo e mezzo fa per la sua Renania, soffriamo per danni che il capitalismo apporta, ma anche per la sua assenza.

Siderno è troppo piccola cosa sullo scacchiere mondiale per essere l’oggetto di così alati discorsi? Nel guscio di una noce c’è l’intero universo. (Un’altra citazione è troppo, ma mi è scappata di mano!)

Certo, a Siderno, i capitalisti non mancano, ma la loro espansione non copre la disoccupazione esistente. Peraltro è come se vivessero una specie di transizione verso qualcosa d’impreciso, qualcosa che neppure loro sanno cosa sia e dove stia di casa.

Attualmente la pressione al fare viene dall’esterno, dalla grande distribuzione europea e dalla banca padana, che foraggia l’edilizia. Cosicché la dipendenza dall’esterno pone un limite all’espansione. Il sistema locale può sembrare in fase di crescita autopropulsiva, ma la sua vita dipende da convenienze toscopadane ed europee.

Se e quando tali convenienze venissero meno, a restare sconfitte sarebbero le schiere dei nullatenenti che lavorano per il capitalista locale.

Ma le incognite sono anche endogene. Pesa, fra l’altro, l’enorme nostra impreparazione sui temi attinenti all’origine e alla funzione del capitale, e pesa la questione ambientale, in un’area che, peraltro, non si è inquinata da sé, ma è stata inquinata dagli altri. Tuttavia il problema principale è quello del danaro sporco.

Un problema che è anche una carta d’identità, una targa all’entrata del paese, un messaggio pubblicitario. Che si può affrontare seriamente solo strappando la coltre d’ipocrisia che l’avvolge. Tenterò di farlo con il giusto rispetto per una verità che viviamo quotidianamente.

Per le leggi italiane l’attività mafiosa è un reato. Però, nella pratica corrente i governi nazionali lasciano scorrere i capitali che la mafia lucra. Bisogna aggiungere che, al punto a cui sono arrivate le cose, non potrebbe fare diversamente, perché questi capitali sono di tale dimensione e portata da far impallidire la Ricchezza Nazionale delle più grandi potenze del mondo.

A riguardo, il governo italiano esibisce una specie di machiavellica doppiezza, tentando di contrastare la mafia nel controllo del territorio, ma lasciandole una libertà praticamente illimitata nell’impiego dei capitali.

Per Milano, Torino e Brescia questo va bene. Il danaro non puzza. A noi va tutt’altro che bene, perché il territorio, che la mafia controlla anche nei suoi angoli più insignificanti, è lo stesso in cui si esplica, o vorrebbe esplicarsi, il nostro controllo sociale.

Ancora una volta il Sud è richiesto di pagare, e in effetti paga per la sua condizione di colonia padana, per aver voluto rinunciare alla sua millenaria indipendenza, alla sua sovranità originaria; per il suo autolesionismo. Paga per aver voluto dar credito al mito fasullo della nazione-una, per essersi fatto scioccamente irretire nella truffa unitaria.

Tuttavia i fatti sono consolidati, la realtà è questa. Senza il danaro mafioso Siderno si affloscerebbe. Quindi non c’è altro da fare se non quello che fa lo Stato: far scorrere il danaro e cercare di avere (o ri-avere) il controllo sul territorio.

Solo se ci sbarazziamo dell’ipocrisia imperversante possiamo operare politicamente. La speranza che la situazione cambi in breve è soltanto una pia illusione.

La prima verità da enunciare è che le elezioni comunali tuttora in corso a Siderno non sono – oggettivamente – uno scontro che supera i confini del paese. Lo scontro ha per oggetto il controllo del territorio, in cui non oserei affermare che siano coinvolti, da una parte, la mafia internazionale e, dall’altra, i cittadini perbene.

In realtà, da una parte sta il capitale mafioso locale e quello non mafioso, che però usa sistemi mafiosi per farsi spazio e, dall’altra parte un settore della società che patisce un danno economico a causa dell’espansione del capitale.

Su questo settore si esercita il cinismo delle formazioni politiche nazionali, che sbandierano l’antimafia per beccare voti. Salvo, poi, a non praticarla, anzi chiudendo gli occhi quando un loro esponente predica bene e razzola male.

La mafia è un reale nemico del Sud, ma i meridionali sono oggettivamente resi muti presso il potere, perché il sistema elettorale, consapevolmente, ha accordato alla mafia il compito di selezionare le rappresentanze politiche e parlamentari.

L’ipocrisia nazionale è arrivata al punto che nella commissione parlamentare antimafia siedono dei parlamentari universalmente noti come esponenti o fiancheggiatori di un’organizzazione malavitosa.

I meridionali sono estraniati, castrati, messi in bilico, con un piede di qua e un piede di là. E lo saranno finché non esisterà uno Stato meridionale “naturalmente” poggiato sulla società meridionale. Beffa suprema: dacci i danari e tienti i mafiosi. Le leggi nazionali hanno fatto sì che i grandi capitali mafiosi fuggissero dalla realtà economica meridionale, dove sarebbero diventati visibili. Cosa che è equivalso a dire: portali a Milano in forma liquida.

Se il quadro è questo - ed è questo - tutto quel che oggi si può fare per difendere le libertà civili è d’impegnarsi nel controllo del territorio, particolarmente in quei settori in cui la mafia locale e i suoi succedanei operano sotto la forma di capitale. Traducendo il concetto nel linguaggio del vecchio sindacalismo, la proposizione politica si riduce alla seguente metafora: non buttare via il bambino insieme all’acqua sporca.

Apertis verbis, la mafia è l’unico settore della società locale che bene o male crea posti di lavoro. Gli ex contadini rischiano. Non solo, preferiscono restare, inserirsi in paese, mentre la vecchia borghesia attiva è spenta. Cerca un impiego statale. Nell’ipotesi migliore si radica a Firenze o a Bologna. La lotta alla mafia è solo un’etichetta elettorale.

Bisogna fare in modo che il sangue nuovo, non appassito, che entra nelle arterie della società meridionale assimili i cromosomi della civiltà urbana e non venga inquinato dal clientelismo partitico, come è avvenuto e avviene. Ma è anche giusto e doveroso che i limiti del normale svolgimento del capitale non vengano travalicati. In pratica ciò significa (o significherebbe) mettere insieme e portare in campo le “vecchie” forze della società civile e del sindacato, che si opponevano allo sfruttamento capitalistico e alla stravolgimento delle regole.

Non si tratta di un impegno da quattro soldi. A fare comizi e a scrivere articoli contro la mafia, nessuno rischia niente, anzi si arriva in parlamento. A contrastare la mafiosità locale si mette a rischio la pelle. La mafia opera con una logica negoziale fino a quando le va bene, ma passa alla logica delle armi quando incontra una difficoltà. .

I temi da trattare sono parecchi. Vale la pena di affrontarli d’alzare il tono del dibattito elettorale. Possibilmente di allungarlo agendo in modo che si prolunghi con un ipotizzabile ballottaggio. E c’è da augurarsi che i candidati accettino di parteciparvi dando le loro risposte. La Riviera s’impegna ad accoglierle.

Campagna e città si oppongono. Si tratta di un problema antico, nato prima di Dante Alighieri, come dire quasi millenario in Italia.

Siderno è passata dalla condizione di borgo rurale a quello di centro commerciale intorno al 1825. A scendere dal paese collinare alla marina furono soltanto i possidenti e gli artigiani. Il nuovo paese e la sua campagna rimasero separati, sostanzialmente nemici. L’inurbamento dei campagnoli è avvenuto nel dopoguerra, a partire dagli anni del mercato nero.

In quegli stessi anni, o meglio con lo sviluppo del Settentrione, la vecchia classe attiva del paese si è spenta. Il suo posto è stato occupato da campagnoli inurbatisi. I tre ultimi sindaci del paese, venuti dalla contrada, lo attestano. E’ il sangue nuovo che tiene in vita il paese. Guai se fosse ricacciato.

Allora il problema si restringe alla transizione culturale di detta classe o ceto, dalla regola secondo cui il più forte vince, alla regola della concorrenza disarmata. E’ un problema in cui Roma farà poco e più probabilmente niente, visto e stabilito che il Sud non è stato industrializzato, né lo sarà mai più, e che non ha ottenuto una condizione di piena occupazione, né mai l’avrà.

Elettoralmente, un urbano porta al candidato prescelto il suo voto, un campagnolo porta con sé una filastrocca di voti. Attraverso il meccanismo elettorale italiano la mafiosità vince e dilaga. Il civismo è perdente. Il favoritismo è divenuta una legge della politica.

Il compito di combatterlo spetta all’opposizione consiliare, incalzando gli amministratori in carica. L’opposizione è vera soltanto se finisce di piangere calde lacrime sul povero Fortugno, di innalzare peana all’antimafia, per poi sedersi, satolla e rassegnata.

Lo scontro consiliare dovrebbe scendere (o forse salire) al tema del lavoro. Assumersi il ruolo che fu del sindacato, che pure a Siderno combatté lotte memorabili, a partire dagli scioperi a rovescio per finire, purtroppo, con le lotte delle gelsominaie e alle fornaci D’Agostino. Ormai il sindacato è spento a livello locale. Gli scioperi dei professori, dei postelegrafonici, dei bancari trovano udienza, ma uno sciopero delle commesse e dei facchini occupati nella distribuzione è sommamente scartato, perché anche i sindacalisti hanno paura delle pistole.

Andiamo alla supplenza della politica “nazionale”, ridotta ormai a una pura etichetta per incettare il voto. Se possibile, andiamo a votare sui fatti veri. Altrimenti stiamocene a casa.


Nicola Zitara




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