L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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La storia negata: Ferdinando II

di Nicola Zitara

Siderno, 15 Maggio 2007

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Il 24 prossimo, il busto metallico di Ferdinando II di Borbone, fuso a intorno al 1850, sarà collocato nel Municipio della Città di Locri.

Prima che il regno delle due Sicilie fosse invaso e colonizzato dai Toscopadani, il busto campeggiava in un pubblico edificio di Gerace, città sede della sottintendenza regia. Salito in trono il re nemico, il busto fu riposto in un nascondiglio. Recentemente ritrovato dallo storico geracese, Enzo Cataldo, è stato e accuratamente studiato per stabilire la provenienza dalla professoressa Maria Carmela Monteleone. È stato poi restaurato e ripresentato al pubblico nell’estate 2005, con una riuscita manifestazione tenutasi nella Villa Capogreco a Moschetta di Locri.

Sono trascorsi quasi 160 anni dalla morte di Ferdinando II e finalmente qualche brandello della nostra storia spezza le insultanti catene dell’oblio. In questi 160 anni i meridionali sono emigrati fisicamente per il pane, la loro storia è invece stata deportata nella bolgia più tetra della negazione di Dio e coperta da una coltre di vergogna. Nessun paese civile rinnega il proprio passato, né innalza a sua identità il disprezzo del vincitore, padrone e saccheggiatore, come ha fatto e fa il popolo meridionale. 

Quando chi scrive faceva le scuole elementari, fra gli altri eroi e martiri dell’Italia una e indivisibile c’era Pietro Micca. Tre secoli fa questo umile torinese si fece saltare in aria con il bastione in cui prestava servizio, per ritardare all’esercito francese la conquista di Torino. Non ci riuscì, tuttavia il suo sacrificio è positivamente ricordato dai libri di storia unitaria. 

Qualche secolo prima (1495), allorché il re di Francia, Carlo VIII, che si dirigeva alla conquista di Napoli, minacciò di far suonare le sue trombe, nel caso che i fiorentini si fossero opposti al suo passaggio per le loro terre, il gonfaloniere Piero Capponi gli rispose che i fiorentini avrebbero fatto suonare le campane a martello.

Per la storiografia italiana, chi invade la Toscopadana è un nemico, e la resistenza a questo nemico è considerata giustamente un fatto nobile e spesso eroico. Però incongruamente il valore positivo si trasforma in negativo allorché sono i meridionali a resistere all’invasore. Nel 1799 l’esercito francese invase Napoli. 

Chi parteggiò per l’invasore, aprendogli le porte della città e bombardando dall’alto del castello di San martino il popolaccio, che si accingeva alla difesa, è considerato un patriota e un grande eroe. Viene considerato, invece, un vile, un retrogrado, chi non si oppose ai francesi e li contrastò nel saccheggio, che era il nobile scopo che prefiggevano quando occupavano le altrui nazioni. 

Vile, retrogrado, reazionario e sanfedista è considerato Fabrizio Ruffo, il famoso Cardinale Rosso. Questi sollevò i contadini calabresi in nome della fede, della fedeltà al loro paese e alle loro tradizioni e con loro marciò contro i francesi e li costrinse ad abbandonare frettolosamente Napoli. In questa occasione la patria sabauda, con seguito di maestri e professori, condanna a lui e ai suoi briganti sanfedisti. Li descrive come selvaggi, come dei feroci carnivori. Loro sarebbero stati gli infami saccheggiatori non certo i francesi, civilissimi rivoluzionari che strappavano l’orecchia insieme con l’orecchino, che davano alle fiamme il cascinale dove s’erano rifugiati le donne i vecchi i bambini.

Contro questo stravolgimento dei valori è necessario affermare che Fabrisio Ruffo è giudicato dagli storici militari il miglior generale che l’Italia moderna abbia avuto, cento volte più abile e concreto di Garibaldi, il quale avrebbe dovuto reimbarcarsi per Genova dopo la battaglia del Volturno, se l’esercito piemontese non fosse arrivato in suo soccorso e per sostituire la bande garibaldine nel saccheggio del Sud. 

La retorica toscopadana ci nega un passato dignitoso, il masochismo della nostrana classe politica, brillantissima come nemica delle popolazioni che la esprimono, ha compiuto il miracolo di farci perdere onore, storia e dignità.

Ferdinando II di Borbone è stato l’ultimo uomo di Stato che il Sud abbia avuto. Nacque a Palermo nel 1810 e salì sul trono delle Due Sicilie a ventuno anni, nel 1831. Dopo il decennio francese il paese meridionale versava in condizioni tutt’altro che prospere. 

Non ha gran senso ricordare che il suo primo passo fu ridursi la paga di re e di contenere le spese di corte. Esser virtuoso non è sinonimo di esser capace. Neanche ha grande importanza il fatto che rinunziò a farsi promotore dell’unità d’Italia per lealtà verso gli altri sovrani. E neppure il fatto che egli fece impiccare un solo liberale, Agesilao Milano, che aveva attentato alla sua vita, mentre il suo contemporaneo Carlo Alberto, re del Piemonte sabaudo e nostro liberatore, solamente nell’anno 1831 condannò alla forca ben 44 patrioti. Il vero, grande merito dell’uomo di Stato sta nell’aver capito che la Francia e l’Inghilterra avrebbero fatto strame dell’economia meridionale se il paese non fosse passato al contrattacco. 

Siamo in una fase della storia in cui, a livello mondiale, si diffondono le industrie, le ferrovie, le navi a vapore. Le merci industriali valicano ogni frontiera e portano dovunque per il vecchio artigiano alla disoccupazione e alla fame; con il ribasso del prezzo del grano, che diventa poco costoso importare da altri continenti la morte arriva anche nelle campagne. Ferdinando difese il suo paese creando una grande flotta mercantile, la seconda (ribadisco la seconda) del tempo a livello mondiale, subito dopo quella inglese, inaugurò la più importante officina meccanica d’Europa continentale, costruì la prima ferrovia italiana, varò le prime navi a vapore, assecondò la fine del baronaggio, incoraggiò ogni tipo di manifattura. 

Sotto il suo governo, dagli Abruzzi alla Sicilia il paese rifiorì, si aprirono scuole, l’università di Napoli era la più grande d’Italia, insieme a Palermo, Catania e Messina, aveva il doppio (11.000) degli studenti di tutta l’Italia restante (meno di 5.000), ed era una delle più prestigiose del mondo. Napoli ospitò il primo convegno scientifico tenutosi in Italia; alla Mostra Universale di Parigi, l’industria napoletana si collocò al secondo posto mondiale. 

Tutto questo in meno di venti anni. L’uomo di stato trovò un magico sostegno nell’armonioso funzionamento del Banco delle Sicilie, una banca di stato che faceva circolare cinque o sei volte più di tutta la carta bancaria circolante dell’Italia restante, pur tenendo una modesta riserva aurea del 20 per cento. Merito della fiducia che il governo ispirava alle popolazioni.

Ferdinando II fu un grande italiano. La retorica unitaria ha fatto girare la storiella dei Borboni, dinastia straniera. Niente di più falso. Il fondatore della dinastia meridionale, Carlo III, era figlio di secondo letto del re di Spagna e di Eleonora Farnese che, come indicano nome e cognome, era italiana. 

Fu la madre a volere che il figlio avesse un trono indipendente dalla Spagna, cosicché, nel 1734, la Sicilia e il Napoletano riebbero l’indipendenza che avevano perduto nel 1264 con la sconfitta e la morte di Manfredi. Il figlio di Carlo III, il futuro re Ferdinando I, crebbe come uno scugnizzo napoletano, si sentiva italiano e soleva pernacchiare agli ambasciatori francesi e toccare ferro dietro le spalle di suo cognato, l’imperatore d’Austria. Stranieri i Borboni di Napoli! L’Italia non ha mai avuto re più italiani di loro! Sicuramente non i Savoia, francesi per cultura e lingua, traditori per carattere di famiglia.

Il sud borbonico scontava cinque secoli di baronaggio francese e spagnolo. Nell’intero paese, solo Napoli riusciva a brillare per fasto e ricchezza. La provincia era avvilita e servile. Negli stessi secoli in cui la Toscopadana si era liberata delle scorie feudali, il Sud era andato indietro. I Banchieri genovesi e fiorentini ne avavano fatto il territorio preferito delle loro usure. 

La sua rinascita fu certamente opera delle forze interne, del vigore dei suoi grandi intellettuali (Vico, Giannone, Genovesi, Galiani, Filangieri), e dello spirito fecondo delle sue popolazioni, della loro umiltà e capacità di lavoro. I Borboni di Napoli ne assecondarono gli sforzi. Nel 1859, Napoli era l’unica città d’Italia che avesse l’illuminazione pubblica, le famiglie cospicue avevano l’acqua in casa, tutte le strade erano selciate, vi erano ospizi per i poveri, alle ragazze orfane era assegnata una dote. Il regno era considerato ricco e prospero.

Con la fine dei Borboni, finì anche la nostra libertà, lo spirito a progredire. Certo Ferdinando II commise degli errori. Si racconta che nel 1864, a Italia unita, il liberale Luigi Settembrini, professore di letteratura italiana all’università di Napoli, a un discepolo che gli chiedeva quale fosse stato il più grande errore della dinastia sconfitta, rispose: “Di non aver mandato sulla forca i liberali come me”. Ma Settembrini si sbagliava. 

L’errore dei Borboni, ce l’ha spiegato Tomasi da Lampedusa nel “Gattopardo”, fu quello di non aver mandato sulla forca i baroni, coloro per i quali tutto doveva cambiare perché niente cambiasse, i quali si appoggiarono Garibaldi, Cavour e il nuovo Regno per combattere l’aspirazione dei contadini alla divisione delle terre comunali, allora molto vaste, quasi un quarto di tutte le terre coltivabili.

Da sidernese rendo omaggio a Locri per questo primo passo verso la verità.





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