L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Inter-Reggina 6 a 0

di Nicola Zitara

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Siderno, 1° Dicembre 2003

Credo che la nostra mente funzioni come un computer. Scrivi il titolo di un file già salvato, e il file si apre tutt’intero. Se s’impiega una parola diversa, anche se dice la stessa cosa, il file non si apre. Se per esempio dico "Stato del Meridione" la mente si ferma a considerare la condizione in cui versa il Meridione. Ma se dico "Regno di Napoli", anche la persona di pochi studi capisce che si tratta del Sud prima dell’unità italiana.

L’espressione "Regno di Napoli" è più antica della parola Stato. Infatti risale al tempo dei Vespri Siciliani, in conseguenza dei quali la Sicilia e Napoli si separarono per qualche tempo. Siamo intorno al 1300. In seguito alla loro cacciata dalla Sicilia, in mano agli Angioini rimase soltanto la parte napoletana del paese meridionale, che venne chiamata l Regno di Napoli, mentre la Sicilia, che si consegnò nelle mani del Re d’Aragona, conservò il nome di Regno di Sicilia. Dopo qualche tempo un matrimonio riunificò le due parti del paese, ma i Regni rimasero formalmente due fino al 1818, allorché Ferdinando IV li unificò proclamandosi Ferdinando I, re delle Due Sicilie.

La parola "stato", che corrisponde al latino status – condizione sociale di una persona, assetto politico di una comunità, oltre che portamento personale e simili - ha aggiunto l’attuale significato giuridico e politico a quello precedente, intorno al 1450. Si è affermata nell’uso corrente per merito di Nicolò Machiavelli, nei primi anni del 1500. Il grande storico napoletano, Pietro Giannone (1676-1748), e il suo continuatore, Pietro Colletta (1775-1831), non la usarono nel titolo dei loro libri. Ricorsero alle vecchie espressioni "Regno di Napoli" e "Reame di Napoli".

Ho fatto la digressione per ricordare che il Sud e il Nord della penisola italiana rimasero divisi per ben quindici secoli: dalla caduta dell’Impero Romano (574 d.C.) alla conquista sabauda del Sud (1860); una circostanza che qualche volta viene ricordata anche dagli storici e dai politici unitari, ma con il perfido intento di colpevolizzare il Sud per i suoi trascorsi di "non colonia dissimulata" della Toscopadana. Uso l’aggettivo "perfido" non a caso. Infatti soltanto due o tre libri in tutto, fra quelli dedicati alla storia dell’Italia unita, parlano del Sud con riguardo e amicizia. E'quasi che il Meridione sia colpevole di non essere Settentrione e di non aver dato i natali a Cavour, a Vittorio Emanuele e a tutti i ladroni che hanno eretto questo mostro che si chiama "Italia unita", nelle sue tre versioni di Regno d’Italia, Regime fascista e di Repubblica Italiana. E in tale singolare scrittura della storia i più perfidi sono proprio gli storici nati al Sud; gente che parla con lo stesso accento vostro e mio, ancorché si vergogni di non avere l’accento toscano.

E'bene ribadirlo: tranne la breve fase successiva al Vespro, il Sud fu uno Stato unitario per millecinquecento anni. Invece il Centronord, tranne le brevi parentesi del Regno longobardo e (dopo mille anni) di quello napoleonico, rimase diviso (per gli stessi 1500 anni) in una moltitudine di municipi. Al momento dell’unità sabauda c’erano sei aggregati politici nel Centronord. Al Sud, invece, c’era soltanto "l’antico e vasto Regno" (come lo definì Carlo Cattaneo), reso indipendente e pienamente sovrano ad opera di Carlo di Borbone-Farnese, che sconfisse l’esercito speditogli contro dall’Imperatore d’Austria.

Al momento della conquista sabauda, a nord del confine napoletano vivevano complessivamente circa 16 milioni di abitanti (in parte ancora sotto l’Austria e il Papa); a sud, nelle Due Sicilie, poco più di nove milioni di sudditi borbonici, in tutto 25 milioni di italiani, tali non politicamente, ma per lingua e per tradizioni religiose e sociali.

Prima che sulle disperse e deboli realtà politiche italiane calassero Napoleone III con i suoi 120 mila soldati, le mene e i danari inglesi, il moto liberista e filoeuropeo della massoneria, l’Italia era quel che sosteneva Metternich, un’espressione geografica. Anche se poi il grande uomo di Stato sbagliava a proposito del sentimento unitario dei colti, che si sentivano tutti figli del padre Dante e degli altri grandi scrittori e poeti venuti dopo di lui. L’Italia, un aggregato politico unitario non lo era mai stato, né al tempo di Roma, né nel corso del Medioevo e dell’Età moderna, e neanche al tempo dell’imperatore Federico II o al tempo dell’imperatore Carlo V, perché nessuno dei due aveva soppresso il Regno di San Pietro, e perché – ancorché unificata quasi tutta la penisola sotto un unico signore - le individualità politiche regionali erano rimaste in vita come distinte province dell’Impero Romano-Germanico.

L’Italia precavourrista era soltanto geografia fisica, sociale e culturale; certamente non storia politica unitaria. A questa coinè, solo una regione era largamente estranea, il Piemonte, quantomeno la parte confinante con la Francia, e la stessa Torino. Sicuramente francofono e francodipendente Camillo Benzo, il quale non si fece legare alla sedia, come Vittorio Alfieri, per imparare l’italiano, né rimase serrato in casa per trent’anni, come Alessandro Manzoni, per "risciacquare in Arno" la lingua corrente.

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Ciò chiarito, in questo articolo si chiamerà in causa, oltre all’oggetto "Stato" e all’oggetto "Regno", l’oggetto "Formazione sociale", che è stato analizzato qualche decennio or sono da Samir Amin, il più autorevole fra i marxisti della mia generazione. L’espressione sta a designare sia un aggregato sovrano e militare, sia un aggregato non sovrano e non militare, il quale viva una sua specifica condizione economica e sociale, a prescindere dalla sua indipendenza giuridica e militare.

Le formazioni sociali che non corrispondono a uno Stato militare e sovrano sono il frutto di eredità premoderne e/o della sopraffazione operata da un altro Stato militare. Il caso più evidente è dato dalle colonie. Ma ci sono casi meno eclatanti. Per chi ama i romanzi un esempio classico fu la Scozia. Gli Inglesi (gli abitanti della regione londinese e di alcune altre regioni vicine) e gli Scozzesi lottarono a lungo, i primi vogliosi di conquista, i secondi per difendere l’indipendenza del loro paese e la religione cattolica. Da qui la guerra in famiglia tra Maria Stuarda (un celebre poema di Federico Schiller e l’argomento di non meno di cento romanzi e di parecchi film), e la sorellastra Elisabetta, e poi tra il figlio del figlio di Maria, Carlo Stuart, e Cromwell, conclusasi con la decapitazione del re ad opera della nascente borghesia londinese.

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Un caso attuale di formazione sociale a sé stante, benché deprivata di sovranità giuridica e militare è il paese che un tempo si chiamava Regno di Napoli e oggi chiamiamo Mezzogiorno, Meridione, Sud.

Che il Sud e la Toscapadana siano due ben distinte formazioni sociali è un fatto evidente a tutti. Ciò mi esonera da qualsiasi obbligo di dimostrazione. Il fatto è acquisito a livello accademico, politico, legislativo; appartiene anche alla coscienza comune ed è celebrato in decine di migliaia di libri e in milioni di articoli giornalistici. Come se ciò non bastasse, oggi ci sono anche gli scimmieschi vocalizzi di Bossi e i gargarismi dei suoi adepti, che hanno trasformato un paese, che già stava attaccato faticosamente e dolorosamente assieme con gli spilli, in un fucile che spara per ammazzare e nel conseguente inefficace e svogliato rinculo.

L’unità d’Italia ha provocato nel Regno di Napoli, già da secoli lacerato al suo interno dalla questione contadina e della proprietà delle terre, una fossato incolmabile tra la classe dei colti, che la Toscopadana ha corrotto per legarla a sé, e la restante collettività. La cosa si vede nei comportamenti parlamentari degli ascari mandati a Roma dagli elettori meridionali. Un esempio facile: i sussidi alla disoccupazione sono disciplinati da leggi dello Stato, anzi della Repubblica Italiana. Ebbene, l’operaio disoccupato ne ha diritto, chi nasce e vive una vita da disoccupato no. Grandioso! Ultimamente, a collaudo di tanta eguaglianza, è in arrivo il sistema din-bossista delle pensioni, in base al quale un veneto andrà in pensione a 58 anni, con quarant’anni di lavoro e di marche, conseguendo un certo gruzzolo, mentre un calabrese andrà in pensione a 65 anni, con vent’anni di disoccupazione, e se tutto gli è andato bene, con vent’anni di marche e un terzo o un quarto del precedente gruzzolo.

Si potrebbe aggiungere che l’unità ha introdotto lo strano sistema in base al quale il risparmio dei meridionali viene amministrato dai milanesi. Il che significa che il Sud può prodursi in un investimento produttivo solo e quando lo decide Milano. Si potrebbe dire ancora che noi ci teniamo la mafia e che la Toscopadana ne incassa i soldi. E si potrebbero dire altre mille cose ancora, che peraltro sono arcinote a tutti. Ma il tema è altro, e precisamente se a una data formazione sociale può giovare l’avere un proprio Stato, giuridicamente e militarmente indipendente.

Personalmente non oso dare una risposta di principio, ma non ho dubbi circa la formazione sociale ex "Regno di Napoli".

Lasciamo stare il fatto documentato che l’unità d’Italia ha interrotto il cammino del maggiore e del più ricco Stato presente nella penisola italiana a conclusione del moto risorgimentale, che non fu solo politica, ma principalmente economia e diritto. Parliamo di oggi. Parliamo di un Sud ridotto a straccio e a pattumiera della Toscopadana. E chi vuole la prova vada a passare mezza giornata nella provincia di Siracusa. Nonostante tale riduzione ai minimi termini, l’ex Regno di Napoli è ancora una realtà considerevole. Nello scacchiere militare mondiale è oggi - per concessione unilaterale dei governi toscopadani - la base militare più importante che gli USA abbiano in Europa; dopo la caduta dell’URSS, più importante della Germania, e credo più importante della malfida Repubblica Turca. Del tutto un avamposto contro la possibile sollevazione del mondo arabo.

Ciò conta. Conta anche il fatto che il Sud dispone di una classe lavoratrice di prim’ordine, se utilizzata altrove quando assume i connotati dell’emigrato. Conta il fatto che il Sud debba esportare cervelli, cioè personale professionalizzato d’avanguardia. Conta anche il fatto che il Sud accantona una quantità di risparmio maggiore dei suoi investimenti correnti.

Conta soprattutto il fatto che il Sud esprime una domanda di mercato molto consistente e alquanto evoluta. E chi sa solo un pò di economia keynesiana, sa anche che la domanda incentiva l’offerta, cioè la produzione. Che poi il Sud è capace di fare a meno della Toscopadana si vide chiaramente, durante la guerra, quando l’Italia rimase felicemente divisa in due. Chi, a quel tempo, aveva occhi capaci di discernere il grano dalla pula, capì quali e quante operazioni correttive tocco fare, finita la guerra, a Luigi Einaudi per riportare il Sud all’obbedienza padana e per impedire che i meridionali impiegassero la loro sovrabbondante liquidità per sottomettere la Toscopadana. Insomma, nel dopoguerra si ripeté la situazione del 1860, allorché gli epigoni di Cavour dovettero annichilire con mille imbrogli e truffe i ducati borbonici, per non ritrovarsi sottomessi dai capitalisti meridionali.

Una domanda evoluta sollecita un’offerta adeguata. Ma oggi, purtroppo, accade che appena cresce la domanda meridionale, cresce nella stessa misura l’invasione delle merci toscopadane. E l’ex Regno di Napoli persiste nella sua storica e patriottica sterilità produttiva.

Venti milioni di consumatori sono quattro volte la Svizzera, una volta e mezza l’Olanda, due volte il Belgio, quasi il doppio della Grecia. Se anche mancassero gli uomini e i soldi per ritrasformare l’ex Regno di Napoli in un grande produttore (ma non mancano né gli uni né gli altri, lo prova il fatto che una parte delle imprese milanesi o canadesi o australiane o statunitensi è guidata da meridionali), i soldi e gli uomini verrebbero da fuori e i forestieri si radicherebbero nel paese, come accadde, prima dell’unità, a uno dei fratelli Rothschild e a decine di altri imprenditori inglesi, francesi e svizzeri, i cui cognomi fanno parte ormai dell’onomastica locale.

Ma uno Stato meridionale sarebbe decisivo per una ragione primaria. Se si pensa che, negli Stati moderni, la spesa pubblica ammonta a una percentuale che va dal 35/40 per cento del Reddito Nazionale inglese a circa il 55/60 per cento di quello italiano, tedesco e francese, ci si rende conto di quel che noi meridionali ci giochiamo allegramente al gioco padano delle tre carte. Una sola domanda retorica: la Milano del 1860 era un quarto di Napoli da tutti i punti di vista, specialmente da quello economico, bancario e commerciale, oggi vale cento volte Napoli. Chi ne ha pagato la smisurata e "nazionale" crescita?

A partire dall’unità, al Sud una quota di popolazione lavorativa è inutilizzata a causa dell’esternazione fiscale e bancaria. Essa è pari al quaranta per cento degli adulti in età di lavoro. O emigranti, o briganti, si diceva un tempo. Oggi, o emigranti o spacciatori di droghe, o killer a pagamento, o estorsori, o sequestratori di persona. La più bella, la più grande, la più moderna, la più pulita, la più decantata, la più umana città italiana del tempo che fu, Napoli, ridotta a giungla di sfrenati camorristi; Palermo, la signora splendente, la perla del Mediterraneo, la culla antica dell’attuale civiltà europea, consegnata mani e piedi legati a gente disperata e corrotta: questo ha fatto l’Italia unita!

Sono a nostra disposizione i mezzi occorrenti e gli uomini giusti per portare il Sud fuori dalla sudditanza norditaliana. Bisogna avere soltanto il coraggio di ragionare. La nostra umiliazione storica è interamente scritta e descritta dalla clamorosa sconfitta della Reggina ad opera dell’Inter. Se i vivai meridionali non fossero insistentemente saccheggiati dalle squadre più ricche, il Sud avrebbe dei club sufficientemente forti e potrebbe persino mettere in campo una solida Nazionale. Se i club disponessero degli stessi fondi che il sistema mette a disposizione della Juventus e del Milan, la Reggina, la Salernitana, il Potenza etc schiererebbero in campo degli Undici aggressivi, vincenti, e non formazioni attaccate con gli spilli.

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