L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


I padroni toscopadani

di Nicola Zitara

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Siderno, 4 Aprile 2003

E' insorta una diatriba tra il museo torinese di artiglieria e le associazioni neoborboniche avente per oggetto un'antica colubrina che, chissà se per ignoranza o se per fare bottino, i piemontesi confiscarono a Cittadella del Tronto, insieme a cannoni veri, quando la piazza borbonica si arrese, dopo una lunga e nobile resistenza, al fulgido generale piemontese Mezzacapo, che piemontese non era, ma napoletano; uno dei tanti passati al nemico per trovarsi dalla parte del vincitore, secondo il millenario italico costume.

I piemontesi portarono la colubrina a Torino, che allora fungeva da capitale, e la misero nel museo che andavano allestendo con i soldi dei nuovi italiani. Niente di nuovo sotto il sole. Come ogni nobile capitale europea - Londra, Parigi, Berlino, Pietroburgo - ha sempre fatto con i reperti archeologi e le opere d'arte trovate sulla spianata di Troia, in Grecia, in Egitto, a Babilonia, in Cina, in Africa e naturalmente nel Sud italiano (ma solo dopo che i Borbone furono disarcionati, prima no), anche Torino voleva mostrare qualche oro ai diplomatici accreditati presso il fulgente nuovo sovrano; un tanghero sconoscente della lingua italiana, che amava le osterie e le ostesse e scialacquava i soldi delle tasse come se fosse lui l'imperatore delle Indie.

Al tempo di Mezzacapo (napoletano) in Piemonte solo una metà dei piemontesi, quelli che vivevano sulle sponde del Ticino, parlavano un dialetto italiano. Gli altri si esprimevano in un dialetto provenzale. Le classi istruite parlavano il francese e scrivevano in francese persino gli atti notarili e i documenti ufficiali. Chi è andato a scuola sa delle torture fisiche a cui, trentenne, si sottopose Vittorio Alfieri per imparare l'italiano. Lo statuto albertino, divenuto poi la costituzione italiana, non fu redatto in italiano - i giuristi piemontesi lo ignoravano - ma in francese.

Conquistata l'Italia, i provenzali si autoproclamarono i veri italiani, e i veri italiani furono chiamati meridionali, passati per le armi, come facevano gli inglesi e i francesi nelle loro colonie, pigliati a pesci in faccia, sfruttati, derisi, umiliati in mille modi, portati a vergognarsi di sé. Solo alcuni patrioti, come Mezzacapo, Fazzari, Stocco, Nunziante, si assicurarono delle vaste tenute e una buona pensione, giusto frutto del loro amor di patria.

Sarebbe sbagliato, però, fare d'ogni erba un fascio. La povera gente del Piemonte, della Liguria, della Lombardia perverrà alla conquista del Vello d'oro soltanto dopo che nel Triangolo sarà arrivata l'industria e un lavoro pagato meglio che al Sud, cioè a partire dal 1900 circa. In verità l'unità non fu realizzata a loro favore, ma a favore dei banchieri e usurai di Genova e Firenze, che usarono le bajonette dei bersaglieri per spogliare tutti gli italiani. Per dirla con Gramsci, la nascente borghesia toscopadana prima fece l'Italia e poi la divorò.

Il Veneto, l'Umbria, le Marche, il Lazio, le cui classi dirigenti non avevano contribuito - o avevano poco contribuito - alla passeggiata militare dei bersaglieri verso il Sud italiano, non furono coinvolte in detto nobile moto. In queste regioni la passione unitaria - quando c'era - non aveva le motivazioni degli usurai genovesi e dei loro accoliti. Le carte sono state truccate a tal punto che, quando si parla del rapporto Sud/Nord, è necessario raccontare tutto d'accapo.

Durante il cosiddetto risorgimento, l'ideale unitario era diffuso, ovunque, fra le persone che avevano studiato. Costoro si sentivano come oggi si sentono gli arabi: un antico, grande popolo che gli spagnoli, i francesi, gli austriaci, gli inglesi avevano calpestato e calpestavano. Ma questo versante del moto risorgimentale collezionò un insuccesso dopo l'altro, fino all'infelice spedizione di Sapri. I resti del cosiddetto Partito democratico, di cui Mazzini era stato l'apostolo, confluirono nel cosiddetto Partito moderato, diretto da Cavour.

Era, questo, il partito dell'avida borghesia in formazione che, secondo la migliore liturgia capitalistica, progettava di arrivare al capitale fregando l'argent des autres (i soldi degli altri). Dopo la Rivoluzione francese e dopo Napoleone la proprietà nobiliare raggiunse la fase finale della sua decadenza secolare. La logica economica su cui essa si basava risiedeva nel possesso delle terre e nel tributo in natura del colono. Il barone, rivendendo i prodotti, faceva soldi, che consumava nei piaceri del lusso.

Come si legge nei libri di storia, il secolo XIX fu il tempo del trionfo della borghesia, della gente che i soldi non se li sprecava in lussi, ma li impiegava a pagare un salario a chi lavorava per lui. Quanto più bassi erano i salari, tanto più elevati erano i profitti. In sostanza il trionfo del capitalismo, nelle campagne come nell'industria, venne pagato dai lavoratori sottoposti a una forma di morte civile, che si affiancò alla morte per fame, già ampiamente nota. I nuovi padroni, oltre a comandare nella società civile, volevano anche il controllo dello Stato, al fine di varare leggi a proprio favore e per disporre del governo nazionale.

La bandiera agitata dalle varie borghesie nazionali era il libero parlamento e il governo parlamentare; cose enfaticamente (ma bugiardamente) chiamate libertà. A partire invariabilmente dalla Sicilia, le agitazioni si susseguirono lungo i decenni della restaurazione post-napoleonica (1814-1854) . Molto significative quelle che si ebbero tra il 1829 e il 1831. Poi, dopo un'altra insurrezione di Palermo, tutta l'Europa, da Parigi a Vienna, da Napoli a Milano, da Venezia a Berlino, s'incendiò. Fu il celebre Quarantotto. I socialisti sognarono di cambiare il mondo, di cancellare i padroni dalla faccia d'Europa, Marx scrisse il famoso Manifesto del Partito Comunista, ma dovettero rassegnarsi a lasciar fare ai padroni borghesi.

Nell'Italia toscopadana, l'ascesa economica della borghesia - nella vera sostanza, l'esigenza d'imitare anche in Toscopadana la rivoluzione industriale inglese, come stavano facendo la Francia e la Germania - e il moto nazionale s'intrecciarono. Cavour seppe galleggiare su queste istanze alquanto disparate. Capì che per modernizzare il padronato piemontese era necessaria una nuova dimensione geografica del mercato, che bisognava portare il regno sabaudo fino a Venezia e alle sponde dell'Adriatico. Le nuove province avrebbero fornito le risorse economiche che la borghesia più intraprendente avrebbe usato per modernizzare la progettata nazione.
Al contrario, il Sud italiano, il Regno delle Due Sicilie, era già uno Stato sufficientemente grande. Il commercio e la finanza non avevano bisogno di altri spazi, né di altre risorse.

La capitalizzazione finanziaria era quattro o cinque volte maggiore che quella sabauda. Per questo motivo, mentre gli intellettuali continuavano a suonare la fanfara della (presunta) libertà, i mercanti e i finanzieri si disinteressarono della cosa, come di un fatto che non li riguardava. Ma quando, nel 1859, Napoleone III, sceso con il suo esercito in aiuto di Cavour, sconfisse l'Austria, i proprietari fondiari, i baroni, si convinsero che i Borbone non avevano né la forza né la voglia di difenderli dalla rivoluzione nelle campagne. Cosicché li tradirono e passarono al nemico.

Anche quel che avvenne dopo è pervicacemente mistificato. Il gruppo cavourrista, uscito trionfatore da una guerra che nessuno aveva combattuto, s'impadronì del governo nazionale, modellò lo Stato sui suoi interessi ed, essendo la cosca a corto di mezzi, trovò utile usare le risorse del Sud. Il paese meridionale, perduta l'indipendenza, perdette anche la libertà e la visione dei propri interessi.

La fiorente borghesia mercantile, la poderosa flotta commerciale, la banca solida e ultramoderna, le industrie di Stato, vennero rapidamente annientate. Ma una palese colonizzazione mal si sarebbe conciliata con il principio nazionale. L'Italia era una sola e tutti i suoi abitanti erano italiani per un sacro principio e per legge. Per non intaccare il principio (cosa che avrebbe giustificato l'insurrezione dei colonizzati), bisognò svuotarlo di reali contenuti operativi.

Al Sud, non solo venne distrutto ogni potenziale produttivo, ma si procedé a umiliare in tutti i modi i meridionali, in modo che essi interiorizzassero un'idea di inferiorità castale; in modo che non avessero la forza morale di addentare la mano che li opprimeva. I Borbone, la più civile, intelligente, tollerante, popolare oltre che popolaresca dinastia nazionale, divennero "la negazione di Dio". Napoli era un paradiso, ma i napoletani erano diavoli. I siciliani erano tutti mafiosi, i calabresi briganti per natura.

Qualche esempio dei risultati raggiunti su questo specifico terreno: se Lino Banfi avesse un accento milanese, nessuno riderebbe per le sue gag; nessuno in Italia si chiederebbe dove si trova il Mar Jonio; se Siracusa è in Lucania o in Sardegna; nessuno chiamerebbe l'italianissimo paese di Ardore, Àrdore, come ho sentito fare alla televisione italiana. Lasciamo stare, poi, Mike Buongiorno, il maestro Riccardo Muti e tanti altri illustri milanesi nati da queste parti. Purtroppo il guasto è molto più grande. Non c'è figlio di emigrati in Piemonte, in Lombardia, in Emilia, che non vorrebbe un cognome diverso, affinché non si vedano le sue origini meridionali.
Bé, dico, dopo averci sgraffignato tutto, la sciateci almeno le vecchie colubrine!

 

Nicola Zitara

 

 

 

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