L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Disoccupazione e strumentalizzazione

di Antonia Capria


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Siderno, 10 novembre 2005

La questione meridionale è sorta con la nascita dello stato italiano, nel 1859/60. Nel Sud, il primo atto del nuovo stato fu la distruzione dell’industria. Gli operai che tentarono di resistere alla chiusura delle fabbriche subirono l’assalto dei bersaglieri di Cavour. Le Officine di Pietrarsa a Napoli erano la più grande industria italiana del tempo, avevano un migliaio di operai e vendeva locomotive e motori navali a tutti gli altri stati esistenti nella penisola, compreso il Piemonte. Gli operai napoletani andavano a istruire i macchinisti del luogo. Gli ingegneri inglesi che venivano a Napoli per impiantare nuove macchine e attrezzature d’avanguardia giudicavano gli operai napoletani i migliori d’Europa, naturalmente subito dopo i loro.

A Pietrarsa l’esercito piemontese uccise molte decine di operai e di loro congiunti. Stessa cosa avvenne alle Ferriere e Officine di Mongiana.

“O emigranti, o briganti”. La questione meridionale ha un suo permanente fondamento nella disoccupazione. Il Piemonte conquistò il Sud promettendo libertà e progresso. Ma non ha saputo o non ha voluto mantenere l’impegno. Tra il 1883 e il 1970 il Meridione ha dovuto registrare ben 30 milioni di partenze, più di quanto sia l’attuale popolazione, che è di  20 milioni di abitanti, tra giovani, vecchi e bambini.   

La mancanza di lavoro e di avvenire ha alimentato la dissoluzione sociale. Al momento dell’unità nazionale una malavita meridionale esisteva soltanto intorno a Palermo e nei bassifondi di Napoli. Contava in tutto mille o duemila elementi. Nel complesso meno che a Roma, a Milano e in Emilia. Oggi la malavita organizza centinaia e centinaia di migliaia di persone, ed è una vera potenza economica e militare. 

Nell’ultimo dopoguerra, la mafia è uscita dalle campagne meridionali sulla scia del mercato nero, che portava rifornimenti alimentari a Napoli e Roma. Per assecondare una volontà americana, che la vedeva come una forza attiva dell’anticomunismo, i governanti italiani l’hanno accettata e strumentalizzata. Strumentalizzata più sul versante elettoralastico che su quello politico. I partiti politici, ansiosi di raccogliere voti e preferenze, l’hanno avvicinata agli appalti e a ogni forma di spesa pubblica dello stato e dei comuni. Hanno anche aperto ai mafiosi le porte del pubblico impiego, specialmente nel settore della sanità nazionale.

In Calabria e in Sicilia gli affari della mafia avvolgono e coinvolgono tutto. Non solo il commercio e gli appalti, dove la penetrazione è ben visibile, ma anche le libere professioni. Migliaia di avvocati, di notai, di ingegneri, di commercialisti producono servizi leciti a persone della malavita; migliaia di burocrati lucrano buste e bustarelle per favorire persone della mafia e le loro attività di copertura. Le imprese settentrionali negoziano affari con gente che sanno mafiosa. Si può del tutto supporre che preferiscano avere affari con i mafiosi anziché con la gente perbene. 

Nei  giorni tristi, seguiti all’assassinio del medico Fortugno avremmo voluto sentire qualche accento di pentimento, un qualche rimorso da parte dei faccendieri politici, invece proprio i signori che hanno alimentato per cinquant’anni l’affermazione e la diffusione delle mafie locali si sono eretti a vittime.

Tanta ipocrisia si era vista soltanto dopo il 25 luglio del 1943, quando, caduto Mussolini e crollato il fascismo, tutti coloro che portavano la camicia nera si affrettarono a bruciarla e a procurasi una camicia rossa.

Il presidente della Repubblica, supremo rappresentante della nazione, invece di chiedere scusa per le colpe che lo stato italiano ha verso le popolazioni meridionali, ha voluto incitare a resistere, a collaborare con gli organi di polizia. E qui bisogna dirlo chiaramente. Sono i politici a dover resistere. A dover dare l’esempio. I supremi rappresentanti dello stato non dovrebbero ignorare che molti onorevoli, molti sindaci, molti assessori, non sarebbero tali senza i voti della mafia. Credo che meglio avrebbe fatto il Presidente della Repubblica a riunire in Quirinale deputati, senatori presenti in parlamento, e sindaci e governatori, che vanno e vengono da Roma, per metterli di fronte alle loro responsabilità. E avrebbe potuto estendere l’invito ai dirigenti delle grandi banche e agli amministratori delle grandi aziende che assumono gli appalti delle opere pubbliche a non usare un occhio di riguardo verso i clan mafiosi.

Il primo nemico della mafia sarebbe il lavoro, la sicurezza delle famiglie, la speranza di un felice avvenire per i giovani. Ma su questo punto lo stato latita. I fatti suggeriscono che a chi governa il paese vada bene che qui circoli danaro sporco e che questo alimenti le spese di lusso e i depositi bancari.

La manifestazione giovanile del 4 novembre, a Locri, contiene una rivolta morale che parte dal basso. Ma contro la mafia soltanto, o contro tutto il sistema in cui quei ragazzi sono costretti a vivere? Forse essi avrebbero voluto parlare, dire cosa non va, e cosa essi si aspettano dalla società e dallo stato. I politici, i  grandi e i piccoli, si sarebbero potuti silenziosamente aggregare, volendo. Invece hanno fatto irruzione di campo ed hanno strumentalizzato la manifestazione per uno squallido fine elettoralistico. Si sono disposti in prima fila, con labari e stendardi, quasi che non avessero colpe, che non avessero mai trescato con le cosche per controllare il voto e le preferenze.

La richiesta di cambiare il presente è stata abilmente trasformata in una riaffermazione dello squallido presente. Uno spettacolo bello e dignitoso è stato trasformato dai faccendieri regionali in una strumentalizzazione politica pre-elettorale. Non è necessaria la zingara per capire che la signora Catizone, sindaco di Cosenza, è arrivata a Locri per fare da pupo alla giunta regionale e che l’onorevole Iervolino, sindaco di Napoli, ci ha onorato con la sua presenza su mandato di chi sta più in alto del sindaco di Napoli nelle gerarchie dell’antiberlusconismo.     

Il Meridione non ha bisogno di lacrime d’occasione né di sfilate di vecchi stendardi, che nella condizione di avvilimento coloniale in cui il Meridione versa,  appaiono l’impudico tentativo di crearsi consenso strumentalizzando una tragedia.

E’ probabile che la nuova amministrazione regionale riuscirebbe bene se si mettesse a vendere tortellini, ma, quanto alla capacità di sentire e di affrontare i veri problemi calabresi, lasci stare. Ha già mostrato che non è affar suo. I consiglieri si godano pure l’indennità d’ufficio fino alla prossima legislatura, ma senza atteggiarsi a eroi e a martiri. Costano di più!




Borotalco

Quando passeggio per le strade di Siderno, specialmente per quelle non propriamente centrali, non c’è una sola volta che io non pensi al mio coetaneo e amico Joseph Lopreato. E’ questi un sociologo noto e stimato negli Usa, dove è (o era) rettore dell’università di Austin, e in Italia, dove i suoi libri vengono puntualmente tradotti e diffusi. Figlio di un contadino-muratore, Joseph  arrivò in America che era ancora ragazzo. Per parecchi anni fece il manovale. Poi, impratichitosi della lingua inglese, studiò e fece carriera. Imparò l’italiano sui libri italiani disponibili presso la biblioteca dell’ateneo in cui lavorava.  Però conosceva bene il dialetto vibonese nonché gli usi e i costumi dei contadini del paese natio, fra i quali, per altro,  continuava a vivere anche in America. Infatti, come tutti sanno, i nostri emigrati tendono a concentrarsi in città e quartieri cittadini determinati, in modo da darsi, all’occorrenza, una reciproca mano d’appoggio.

Il libro di Lopreato che ho letto per ultimo tratta della collaborazione fra alcune specie animali e degli uomini fra loro, ma il suo lavoro più famoso e universalmente noto riguarda la fine del mondo contadino. Prima di  arrivare a questa opera di molto  pondo, Lopreato scrisse per la rivista ‘Quaderni calabresi’ una bella e gustosa anticipazione di quell’analisi, in un saggio di una quindicina di pagine (Quaderni calabresi, Anno primo, disponibile presso la Biblioteca Comunale di Siderno). Fra le altre cose vi si racconta come i contadini, e specialmente le contadine (evidentemente  emigrati/e), temendo di puzzare, prima di salire su un tram,  si cospargono di borotalco.

Non si lavano. Si cospargono (o si cospargevano) di borotalco. Così fa il nostro benamato sindaco. Non fa spazzare Siderno, ma la cosparge di borotalco. Noi abbiamo due o tre mesi di intensi festeggiamenti. Cantanti, ballerini, orchestre, cani di razza, sgute a Pasqua e abeti di alto pennacchio a Natale, sfilate di moda, risfilate di moda, Gelsomini d’oro, premi letterari, abbiamo anche un giornale, distribuito gratis per la gloria di chi ci scrive. Siamo stati persino incoronati con la classificazione di   Città. Ma le strade restano sporche, al centro, e luride in periferia.  Cosa mai direbbe di noi la signora Catizone, sindaco di Cosenza, se  putacaso -  malmenato Angelino Gerasolo da un qualche energumeno -  Lei venisse qui per mettersi alla testa di un corteo di giovanotti sventolanti i lenzuoli buoni di casa, quelli con i ricami della ponnonna buonanima?

Sindaco, amato Sandrino, il borotalco non basta. Ci vogliono le scope.           





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