L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
  Eleaml


L’Italia intorno al 500 a.C
Illustrazione 1: L’Italia intorno al 500 a.C
GAETANO BARBELLA
LA PRIMA ITALIA,
CAPANNA DEL CRISTIANESIMO

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Lo zolfo della Sicilia

In tema di «meridionalismo», per il quale molti italiani del Sud sono presi nell’alimentarlo con un fuoco non da poco, è interessante meditare su un fatto del vecchio Regno delle Due Sicilie che non è stato mai esaminato in una certa chiave. Si tratta, sì di storia, ma anche di concezioni che non hanno nulla di incisivo ragionando in modo razionale. Tuttavia per chi è incline a tener da conto mito, leggende ed altro, frammischiati a ingredienti storici, la cosa sembra condurre ad attrattive logiche per capire, nel caso del vecchio Regno delle Due Sicilie, appunto, una incerta intima causa del suo declino, appena sospesa ad un tenue filo. Per arrivare a tanto, si pensi al “fuoco sacro” che le Vestali erano tenute sempre a custodire, pena la loro morte. Ebbene, a tal proposito avvince una mia riflessione su un fatto analogo che sembra coinvolgere, il nostro bel Regno delle Due Sicilie, grazie ad un misterioso “fuoco sacro”, simile ad un Santo Graal.

Ora non vado a rinvangare le leggende a riguardo che vedrebbero il sacro Calice presente in Gran Bretagna e poi trasferirsi in Sicilia (poiché qui si dice che si siano stabiliti re Artù e la fata Morgana), ma qualcosa strettamente attinente la storia di peculiari avvenimenti del Regno in discussione. È una cosa di cui poco o niente se ne parla, ma in relazione al mito cui ho voluto far cenno, e precisamente al “fuoco sacro” riguardante il Regno delle Due Sicilie, ci sono da dire molte cose assai avvincenti.

Per cominciare è interessante far capo a tutto ciò che avvenne a causa delle zolfo siciliano che veniva prelevato sul cratere dell’Etna. Una miniera che a quell’epoca era la più importante del mondo, con una produzione del 90% della produzione mondiale. Si parla spesso, e con vanto, dei primati del Regno in discussione, ebbene non era un primato anche questa produzione dello zolfo, senza sottovalutare la bella nave Ferdinando I, un vero orgoglio da non dimenticare mai, per esempio?

Non occorre che io racconti la querelle sorta nel 1836 fra Ferdinando II e l’Inghilterra per lo sfruttamento del suddetto zolfo che lo comprava con una miseria e lo rivendeva a prezzi salati. Fatto è che il nostro amabile re napoletano, nel tentativo di uscire fuori dalla dipendenza inglese, che non gli fruttava gran ché con lo zolfo venduto, pensò di coinvolgere i francesi con un miglior prezzo.

Non l’avesse mai fatto che si scatenò una disputa legale che finì comme curnut’ e mazziat’, detto in napoletano che si capisce chiaramente. Gli inglesi riottennero il diritto sullo zolfo, e anche i francesi ebbero la loro parte per il guadagno mancato. Non solo, ma gli inglesi, che si erano legati al dito l’affronto subito a causa dello zolfo e poi risolto a termini di legge, non parve loro vero favorire, per esempio, lo sbarco dei Mille a Marsala impedendo, con la presenza della loro flotta, all’artiglieria borbonica di cannoneggiare le barche e così impedirne lo sbarco.

Che strani intrecci, fra quel “presente” borbonico e l’antica realtà mitica, che vedrebbero “magicamente” fondata la leggenda di re Artù all’Etna! Per alludere alla paternità inglese del presunto “fuoco sacro” siculo.

A questo punto non intendendo creare scandalo in seno al mondo cattolico, fedele alla Chiesa di Cristo, dirò alcune cose che mostreranno come sia amabile invece il ricorso al mito allo stesso cristianesimo, poiché gli evangelisti se ne sono serviti per concepire parabole e similitudini.

Su una parabola evangelica in particolare mi soffermerò in seguito per sbaragliare chi volesse rintuzzare tale accostamento col paganesimo.

Ma lo scopo di questo procedere permetterà di ammirare un’Italia alle sue origine mai concepita, quella del suo Meridione, che la vedrebbe quale terra sacrificale per portare a compimento – secondo una mia visione – l’edificazione del Chiesa di Cristo in Roma e di qui su tutta la terra. È un prezzo questo pienamente accettabile, almeno per i fedeli al Cristianesimo, se questo è costato non solo il tramonto del magnifico Regno delle Due Sicilie, ma poi oggi la mortificazione del Meridione stesso che, per le sue irrimediabili defezioni, non trova comprensione e giusti aiuti da parte del benestante Nord.

In quanto poi al dubbio che può sorgere in seno al Cristianesimo, se tener da conto il genere di paganesimo cui ho fatto ricorso in relazione al “fuoco di Sicilia”, è Gesù che chiarisce ogni cosa in questione stesso attraverso i Vangeli di Luca e Marco.

Scelgo il Vangelo di Marco, che ne parla in modo specifico, citando di seguito il passo 9,38-41 relativo alla questione sollevata: «Giovanni (gli) disse: “Maestro, abbiamo visto un tale scacciare demoni nel tuo nome, uno che non ci segue; e abbiamo cercato d’impedirglielo, perché non ci seguiva” Ma Gesù disse: “Non glielo impedite; perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Infatti, chi non è contro di noi, è per noi. Chi vi darà un bicchiere d’acqua in nome mio, perché siete di Cristo, in verità vi dico, non perderà la sua ricompensa”».

Si tratta della tolleranza verso un esorcista estraneo che operava come gli apostoli di Gesù Cristo, dunque nulla che possa scandalizzare ritenere i normali postulanti di dottrine in nome del Cristo, anch’essi come minimo sacerdoti comuni in grado di svolgere lo stesso ruolo dei corrispondenti in seno alla comunità cristiana della Chiesa di Roma.

Ecco che si fa luce, a cominciare sul passato, con la rivalutazione, per esempio, dei famosi cavalieri del Graal che operavano in nome Cristo e la stessa cosa, lungo il percorso del tempo fino ad oggi, con i tanti cavalierati e ordini religiosi o para-religiosi. In questa luce può considerarsi l’attuale «Sovrano Militare ordine di Malta, per esempio.

Resta ora il mondo delle religioni non cristiane da rivedere in chiave di quell’esorcista evangelico. Quindi è quanto basta per capire che il credo per il Cristo è un fatto accertato per tutte le religioni che si sono distaccate dalla Chiesa di Roma, a cominciare da quella Protestante. Dunque non si possono porre dubbi sul loro credo ideologico, almeno sulla fede sostanziale in Cristo, che è ciò che conta prima d’altro per stare in linea con la condizione evangelica in premessa. Di qui ecco che l’Islamismo che vi trova congrua fratellanza perché Gesù è stimato profeta alla pari con Maometto.

C’è poi l’Ebraismo che trova, nelle comuni sacre Scritture, il legame ricercato. Per non parlare di entrambe le religioni e quella cristiana il padre Abramo in comune.

Andando più in là c’è l’Induismo che venera Krisna da considerare il Gesù Cristo degli Indù. E procedendo in questo modo ci accorgeremo che il Cristo è onnipresente in qualche modo, al limite poco incidente, in tutte le religioni della terra.

Ma è vero anche che nel Vangelo di Giovanni Gesù interviene da «Buon Pastore» per tranquillizzare i suoi apostoli, ma anche per annunciare il perfezionamento della sua venuta messianica fra gli uomini. A tal proposito disse: «E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche quelle bisogna che io guidi; ed ascolteranno la mia voce, e ci sarà un sol gregge, un sol pastore» (Gv 10,10). Non c’è altra spiegazione che si possa trattare di tanti altri «ovili» come quelli suddetti, dell’ebraismo, islamismo, induismo, buddismo e via dicendo. Giusta l’assicurazione di Gesù Cristo della «ricompensa» in relazione alla questione sull’esorcista estraneo che operava in nome di Gesù, di cui sopra.


La pecorella perduta e il ritorno del figliuol prodigo

Come premesso in precedenza, per non «creare scandalo in seno al mondo cattolico, fedele alla Chiesa di Cristo, dirò alcune cose che mostreranno come sia amabile invece il ricorso al mito allo stesso cristianesimo, poiché gli evangelisti se ne sono serviti per concepire parabole e similitudini. Su una parabola evangelica in particolare mi soffermerò in seguito per contrastare chi volesse rintuzzare tale accostamento col paganesimo.

Ma lo scopo di questo procedere permetterà di ammirare un’Italia alle sue origine mai concepita, quella del suo Meridione, che la vedrebbe quale terra-agnello sacrificale per portare a compimento – secondo una mia visione – l’edificazione del Chiesa di Cristo in Roma e di qui su tutta la terra.». Si badi, però, che il mio procedere è così labile da non avere pretese di concepire uno studio accademico basate su cose concrete. I reperti di cui mi servo non si discostano, per esempio, dal valore simbolico attribuibile allo zolfo estratto dalle miniere della Sicilia argomentato nel capitolo precedente. Sono simboli, leggende e cose simili non diverse dalle parabole e similitudini ed altro, come anzidetto, degli Evangeli del Cristianesimo.

Comincerò coll’estrapolare dal Vangelo di Luca alcuni passi che, poi, serviranno per confrontarli ad altri attinti, appunto, dal paganesimo, ma di cinque secoli prima.


Dal Vangelo di Luca 15,1-7


«Ora tutti i pubblicani e i peccatori si avvicinavano a lui per ascoltarlo. E i farisei e gli scribi brontolavano, dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”.

Allora disse loro questa parabola: “Chi tra voi, avendo cento pecore e perdutane una, non abbandona le novantanove nel deserto e non va dietro a quella perduta, finché non l’abbia ritrovata, pieno di gioia se la mette sulle spalle, e arrivato a casa, convoca gli amici e i vicini, dicendo loro: rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che s’era perduta!”. Così vi dico, ci sarà più gioia nel cielo per un peccatore che si converte, che per novantanove giusti, che non hanno bisogno di conversione.».


Dal Vangelo di Luca 15,20-24


«Mentre si trovava ancora lontano, lo vide suo padre e ne fu commosso, e corse a gettarsi al suo collo e lo baciò con effusione. Ma il figlio gli disse: “Padre, ho peccato contro il cielo e dinanzi a te; non sono più degno d’essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “presto! Tirate fuori la veste più bella e vestitelo e mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi; e portate il vitello ingrassato, ammazzatelo e facciamo festa banchettando, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato!”. E cominciarono a fare festa.».


La leggenda di Italia calabra

Il nome latino Italia ha origine dal corrispondente osco Viteliu (non si sa se altro nome di Corfinio o della Italia) che deve essere giunto ai Romani attraverso una parlata greca del sud, data la perdita di -v- e il mutamento subito da -e-. Gli antichi si formarono diverse opinioni sull’origine del nome.

Presso Antioco di Siracusa e Aristotele troviamo una delle solite leggende a schema eponimico; il nome sarebbe derivato da quello di un principe enotrio Italo, che avrebbe dominato l’estremo della penisola.

Ellanico invece raccontava che Eracle, mentre attraversava l’Italia, per condurre in Grecia il gregge di Gerione, perdette un capo di bestiame, che si diede a ricercare affannosamente; avendo saputo che, secondo l’idioma indigeno, la bestia aveva nome vitulus, chiamò Ouitalia tutta la regione.

Anche altri, da Timeo a Varone, misero in connessione Italia con il lat. vitulus «vitello» (affine all’osco vitluf accus.pl.). Si legge per es. in Festo: «Italia dicta quod magnos italos, hoc est boves habeat; vituli enim ab italis itali sunt dicti» («Italia è detta così perché possiede grandi itali, cioè buoi; infatti i vitelli dagli Itali son detti itali»). Questa interpretazione è stata accettata da alcuni studiosi moderni e corretta in parte: Italia non significherebbe «terra di vitelli» piuttosto «terra degli Itali», e Itali sarebbe forse il nome totemico di una popolazione italica che aveva per totem il vitello.

L’Italia intorno al 500 a.C
llustrazione 1: Moneta incusa di Sibari. Circa 550-510 a. C.. Immagine del totem del toro.

Comunque sia il nome designava in Ecateo l’estremità meridionale dell’odierna Calabria, per Erodoto si estendeva fino a Metaponto e Taranto, mentre per Antioco di Siracusa e Tucidide indicava la regione compresa fra lo stretto di Messina, il fiume Lao e il territorio di Metaponto.

Nel 3° sec. a.C. il nome si estese alla Campania, e quando, poco dopo, la penisola a sud dei fiumi Arno e Esimo fino allo stretto di Messina fu amministrativamente e politicamente unficata sotto la dominazione romana, il nome Italia l’abbracciò per l’estensione indicata.

Le successuve conquiste romane a nord dei fiumi Arno e Esimo estesero il termine fino alla catena alpina (e già Polibio e catone sono il significato più largo del nome, molto vicino a quello odierno). La sanzione ufficiale del nome si ebbe con Ottaviano nel 42 a.C.; ma l’unione amministrativa delle isole si ebbe solo con Diocleziano (diocesi italiciana). Molteplici le vicende del nome Italia dagl’inizi del Medioevo alle soglie dell’età moderna: le fonti mostrano contraddizioni e oscurità, che si spiegano distinguendo tra il significato largo, geografico, della parola, che non si spegne, e un significato più limitato, di denominazione riferentesi a un organismo politico-amministrativo. In questo secondo senso, il nome subisce vicende varie, secondo gli eventi politici, e scompare nel Medioevo sommerso da quello da quello di alcune grandi regioni (Lombardia, Romagna, Tuscia, Ecc.).1 


Riflessioni

Ora non importa se il “buon mandriano”, fosse Italo o Eracle, una concezione che sembra celare una certa rivendicazione fra siracusani e greci sulla nostra bella Italia calabra delle origini. Ciò che conta in modo superbo è la straordinaria aderenza della leggenda sul vitello ritrovato con la parabola della pecora evangelica, anch’essa cercata affannosamente e poi ritrovata dal «buon pastore».

La concezione, poi del «buon pastore» è ampiamente trattata dall’evangelista Giovanni, guarda caso confinato a Samo, lo stesso confino dello storico Erodoto che doveva sapere della leggenda del vitello assimilato al nome della terra calabrese, Italia. Notizie, queste, per Giovanni apostolo, che erano anteriori di ben cinque secoli, e che presumibilmente gli servirono per allegorizzare il suo Evangelo come pure quello di Luca apostolo citato in precedenza.

Già questa visione, da sola, fa immaginare come se l’Italia calabra odierna, ora, quale mistico Graal, idealmente giusta capanna cristica, fosse posta su un ideale moggio e spandere d’intorno, il suo solfureo potere calorico perché ne benefici la gente dell’Italia tutta e poi il mondo intero.

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 1 - Lessico Universale Italiano, XI volume, Preistoria Italia. Enciclopedia Treccani. Per gli approfondimenti vedasi l’appendice dedicata alle antiche città calabresi di Sibari e Turri ed ai Siculi

A proposito del «Buon pastore», trattato dall’evangelista Giovanni di cui sopra, forse trova chiarimento una cosa che viene detta da Gesù agli apostoli per annunciare il perfezionamento della sua venuta messianica fra gli uomini. Disse: «E ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche quelle bisogna che io guidi; ed ascolteranno la mia voce, e ci sarà un sol gregge, un sol pastore» (Gv 10,10).  Che si tratti del “bestiame” caro a quel principe Italo o Eracle della leggenda sul vitello ritrovato?

Però, per dissipare ogni dubbio su questa ipotesi e quella precedente vale come un monumento il passo 9,38-41 già citato in precedenza, e relativo alla questione sollevata dall’apostolo Giovanni sull’esorcista estraneo.

Lo ripeto: «Giovanni (gli) disse: “Maestro, abbiamo visto un tale scacciare demoni nel tuo nome, uno che non ci segue; e abbiamo cercato d’impedirglielo, perché non ci seguiva” Ma Gesù disse: “Non glielo impedite; perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Infatti, chi non è contro di noi, è per noi. Chi vi darà un bicchiere d’acqua in nome mio, perché siete di Cristo, in verità vi dico, non perderà la sua ricompensa”».

Prima di tutto il vitello ritrovato della leggenda in discussione, ossia l’Italia calabra, a questa luce appare come radice della parabola della pecora smarrita. E stimando solida questa concezione  vi deriva che chi ne ha fatto uso, come chiaramente risulta dal Vangelo di Luca e anche da quello di Matteo, è come se si fossero gemellati al passato pagano, stabilendo un solido legame.

Potrebbe valere l’implicazione derivante dall’episodio evangelico dell’esorcista estraneo, solo che in tal caso sono gli apostoli di Gesù a risultare gli esorcisti che operano in nome del paganesimo in virtù del simbolo. Ma questo vale anche per la simbologia presa a prestito dal paganesimo dai primi cristiani per sfuggire alle persecuzioni romane.2 (2)

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2 - I simboli: I primi cristiani vivevano in una società prevalentemente pagana ed ostile. Durante la persecuzione di Nerone (64 dopo Cristo) la loro religione fu considerata “una superstizione strana ed illegale”. I pagani diffidavano dei cristiani e li tenevano a distanza, li sospettavano e li accusavano dei peggiori delitti. Li perseguitavano, imprigionavano, condannavano all’esilio o a morte. Non potendo professare apertamente la fede, i cristiani si servivano di simboli, che dipingevano sulle pareti delle catacombe e, più spesso, incidevano sulle lastre di marmo che sigillavano le tombe. Come gli antichi, i cristiani amavano molto il simbolismo. I simboli richiamavano visibilmente la loro fede, il termine simbolo indica un segno concreto o una figura, che nell’intenzione dell’autore, richiama un’idea o una realtà spirituale. I simboli principali sono il Buon Pastore, l’orante, il monogramma di Cristo e il pesce. Il Buon Pastore con la pecora sulle spalle rappresenta Cristo salvatore e I’anima che Egli ha salvato. Questo simbolo è con frequenza presente negli affreschi, nei rilievi dei sarcofagi, nelle statue e si trova pure sovente inciso sulle tombe. L’orante: questa figura rappresentata con le braccia aperte è simbolo dell’anima che vive già nella pace divina. Il monogramma di Cristo è formato da due lettere dell’alfabeto greco, la X (chi) e la P (ro), intrecciate insieme. Sono le prime due lettere della parola greca Christòs, cioè Cristo. Questo monogramma, posto su una tomba, indicava che il defunto era cristiano. Il pesce. In greco si dice IXTHYC (ichtùs). Disposte verticalmente, le lettere di questa parola formano un acròstico: Iesùs Christòs Theòu Uiòs Sotèr = Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore. Acròstico è una parola greca che significa la prima lettera di ogni riga o paragrafo, è un simbolo diffuso di Cristo, emblema e compendio della fede cristiana. Altri simboli sono la colomba, l’Alfa e l’Omega, l’ancora, la fenice, ecc. La colomba, con il ramoscello d’olivo nel becco, simbolo dell’anima nella pace divina. L’Alfa e l’Omega sono la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco. Significano che Cristo è l’inizio e la fine di tutte le cose. L’ancora è il simbolo della salvezza, simbolo dell’anima che ha felicemente raggiunto il porto dell’eternità. La fenice, mitico uccello d’Arabia, che, secondo la credenza degli antichi, dopo un dato numero di secoli risorge dalle sue ceneri, è il simbolo della risurrezione. Le tombe dei martiri, i cubicoli e anche gli arcosoli potevano essere talvolta decorati con pitture eseguite con la tecnica dell’affresco. Gli affreschi rappresentano scene bibliche dell’Antico e del Nuovo Testamento, alcune con stretto significato simbolico. I simboli e gli affreschi sono come un Vangelo in miniatura, un sommario della fede cristiana. [https://www.catacombe.roma.it/it/symb.html]

Non solo, ma poi, seguendo in questo modo la questione, si aggiunge l’implicazione che deriverebbe dall’atto sacrificale del vitello grasso che ricorre nella parabola del ritorno del figliuol  prodigo, trattata  nel Vangelo di Luca, sopra citato.

Per festeggiare questo ritorno suo padre ordina di ammazzare il vitello grasso. Di qui la concezione dell’agnello sacrificale, ossia Gesù Cristo, intravisibile quale corpo fatto di terra, l’Italia calabrese. Infatti leggendo il capitolo di appendice, si capirà che il vitello, (meglio due tori dispersi e poi trovati da Eracle o Italo) sembrerebbe che vogliano simboleggiare due città calabre, Locri e Crotone che rinnegavano l’adorazione del totem del toro.

Che dire? Che l’affermazione del Cristianesimo in Italia è stato possibile in virtù del sacrificio del vitello Italia? Però vedremo che l’affermazione del Cristianesimo nel mondo, è stato possibile anche in virtù di un altro sacrificio, il “declino” dell’impero romano, non senza a monte della cacciata dei siculi dalla Calabria, la prima Italia, ancor prima della conquista di essa da parte dei romani.

In relazione alla parabola evangelica del ritorno del figliuol prodigo, e anche l’altra parabola della pecora ritrovata dal buon pastore, sembra combaciare il fatto straordinario dell’affermazione del Cristianesimo grazie all’imperatore romano Costantino. Questi non sembra costituire il figliuolo e/o la pecora evangelica in questione?

Comunque mi piace un altro percorso dei ragionamenti che è questo. Le leggende, simboli, parabole, frammischiate da reali avvenimenti storici, che a prima vista farebbero credere ad una contrapposizione del Paganesimo con il Cristianesimo, invece non lo è, se si esaminano le cose sfrondandole da elementi umani-animici carichi di sentimentalismi ed altro del genere. Insomma si tratta di ridurre gli elementi in questione a strutture matematiche.

Ecco che ragionando in termini di topologia,3 il racconto di Eracle che rincorre due tori, che sembra riferirsi alla questione delle due città calabre indisposte a seguire la religione dionisica dell’adorazione del toro, diventa un’espressione allegorica di due punti geometrici, ossia una linea, un’entità nuova di grado superiore al tutto della superficie calabra, concepibile come composta da infiniti punti geometrici. Come a voler indicare un processo evolutivo in atto per la generazione di nuove realtà vitali riferito al piano calabro. E sappiamo che le due città relative agli estremi della linea in questione sono centri di attività che vedono il proliferare delle nuove concezioni del maestro Pitagora, guarda caso, un matematico veramente speciale.

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La topologia è la scienza matematica che può essere di aiuto là dove si presentano paradossi, per esempio, quello evangelico del giovane ricco che chiedeva al Signore come perfezionarsi per «avere la vita eterna». (Mt 19,16-26; Mc 10,17-27; Lc 10,18-27) Si conosce la conclusione di Gesù sulla impossibilità degli uomini «ricchi» di risolvere la propria perfezione per giungere a Dio: «è più facile a un cammello entrare per la cruna di un ago che a un ricco nel regno dei cieli». Un amico matematico, rinomato docente universitario di questa materia, col quale mi sono intrattenuto molto spesso a ragionare su simili cose astruse, convinto che io nutrissi dei dubbi su simili argomentazioni dei cammelli e crune d’ago mi disse cosi: «Perché ti fai prendere dai dubbi? Immagina d’essere il cammelliere dei due cammelli (il dialogo riguardava due cammelli) e il costruttore della cruna d’ago. La topologia è scienza esatta! Potremmo far passare, volendo, qualsiasi coppia di cammelli attraverso qualsiasi cruna d’ago, agendo in topo-logia, invece che in geo-metria. Cosi l’amicizia cresce, afflato comune, sforzo che unisce.». Ecco senza volerlo, proprio per bocca di un matematico non da poco, quindi di una Scienza cui affidarsi, ci vengono delle rassicurazioni, non tanto sulla buona volontà degli uomini, bensì sulla stessa Scienza che ha in sé quanto basta per non lasciarsi mettere il cappio al collo dai suoi presunti padroni umani.


Sappiamo che più linee identificano forme sul piano, ma questo non basta per generare volumi che hanno bisogno di un terzo punto fuori dal piano, in alto o in basso. E qui ora entra in ballo il Cristianesimo con la parabola della discussa pecora perduta che, a differenza delle leggenda di Eracle o Italo calabri, inserisce il nuovo concetto, anch’esso matematico, una pecora su cento, che è una divisione, ma che è anche un certo tasso comunemente noto come «per cento», come a voler far capo a incidenze strettamente relative al valore attribuito dai cristiani al simbolo pecora che era l’anima. Ecco, per collegarci alla geometria pitagorica supposta legata alla vecchia leggenda calabra, che si sviluppa forma, sostanza e di conseguenza peso, cose che riguardano l’anima umana in modo consapevole.

Resta però il perfezionamento del Cristianesimo, e di conseguenza del Paganesimo in atto nella vecchia Italia calabra, che riguarda l’incarnazione del nuovo Evangelo capace di svincolare il popolo dall’eccessivo attaccamento ai beni terreni dipendenti da deità, come quella dionisiaca del toro da adorare. Occorreva una forza capace di disciplinare il vivere quotidiano tale da elevare l’anima al rango che le competeva. E qui inizia un nuova storia per il mondo in cui l’antica Calabria trova collocazione in un territorio di grandi proporzioni tenuto insieme ferreamente dal potere dei Romani.

Sappiamo che ad un certo momento storico il Cristianesimo vi si intrufola non senza un prezzo da pagare con il martirio di tanti  che trova la risposta a quel «per cento» di prima e alla parabola del «figliuol prodigo», col sacrificio del «vitello grasso» (ossia una “bestia infera” non più toro ma rabbonita e priva di bellicosità, ravvisabili nell’uomo cristianizzato di allora). In cambio alfine trova in Costantino imperatore chi issa sui labari del suo esercito, il segno cristiano per vincere, secondo un sogno fatto. E il Cristianesimo fu da quel momento in poi.

Ma la storia ha il suo corso e la Roma dei Cesari, cui Gesù riconosce il tributo distinto da quello a Dio con l’evangelica moneta, intendo col “metallo” e col pesce dalla cui bocca viene estratta per legare le due cose, “passa a miglior vita”. Ovviamente il legame trova riferimento al pesce, che per i Pagani si riferisce alle deità dell’acqua, a Poseidone in particolare, e per i Cristiani all’ICTYS preso come simbolo della prima cristianità. Come a significare che è sempre col ferreo ragionamento mentale che si deve cercare di mantenere uniti due certi “contrari”, Dio e Mammona, cosa che fino ad un certo momento sembra possibile. Ma poi è la falce della morte che ha bisogno di mettere in pari lasciando in vita ciò che deve portare, poi, a nuovi stadi il processo evolutivo umano.


Appendice

SIBARI E TURII DELLA CALABRIA E I SICULI4

Riassunto:

Rispettiva situazione delle due città. - La emigrazione pelasgica nell’Italia meridionale. - religione dei Pelasgi - Enotrii, Oinotros ed Italos. - I Siculi e l’introduzione dell’agricoltura. - Sikelos e Saturno, dio nazionale dei Siculi. - I Siculi scacciati dall’Italia. - Stato delle popolazioni della penisola italica nel l’VIII secolo a.C. - Fondazione delle colonie greche.


È vicino al mare, nella parte più depressa del bacino di cui abbiamo delineata la topografia nel capitolo precedente, il sito nel quale Sibari fu edificata. Essa occupava il fondo della vallata tra i due fiumi Crati e Sibari, che scorrevano allora separati fino al mare, invece di riunirsi, come attualmente. Turri, che successe a Sibari, fu fondata un po’ più in alto, su di una collina, ma sempre nella stessa zona.

Turii durò più lungo tempo di Sibari, ma non ne raggiunse mai lo splendore, né la potenza. La grande città, fondata dagli Achei, non visse che due secoli sino alla catastrofe che la cancello dalla storia, e ne fece perire fin le rovine. Il grado di progresso, di ricchezza e di prosperità, al quale era pervenuta in una così breve esistenza, costituisce un vero fenomeno storico. Per essere compreso, esige che, prima di analizzare i fatti principali della storia di Sibari, si getti un rapido sguardo sulle più antiche vicissitudini dell’Italia Meridionale, e sulle popolazioni che vi trovarono le colonie greche nella epoca della loro fondazione.

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4- La Magna Grecia di Francesco Lenormant, vol. I, capit. V. Ediz. Frama Sud S.p.A. (CZ).

Molto tempo prima della guerra di Troia, e più di duemila anni prima della nostra èra, seguendo le tradizioni indigene che i Greci raccolsero e riordinarono per armonizzarle con quelle della loro patria d’origine, il sud della penisola italica vide giungere per mare una doppia corrente di emigrazione pelasgica, che fu il primo insediamento di popolazione, il cui ricordo si sia conservato. Peuketios ed Oinotros, figli di Lykaon e nipoti di Pelasgos, conducevano questa doppia colonia, che si pretende sia partita dall’Arcadia. I compagni di Peugezio si stabilirono nei paesi che gli antichi chiamarono Apulia e Calabria, perché nulla v’è di più singolare dello spostamento che subì nel medioevo il nome geografico di Calabria. Per l’antichità essa non designava in alcun modo la regione alla quale oggi si dà, bensì l’attuale Terra d’Otranto, onde il verso dell’epitafio di Virgilio, morto a Brindisi e seppellito a Napoli:

«Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope».

I Peugezi, i Dauni, i Messapi e gli Iapigi furono i discendenti di questa colonia. Quella di Oinotros si stabiliì nel paese che fu più tardi il Bruttium, e al quale essa dette il nome essenzialmente pelasgico di Argessa, che ricorda le numerose città di Argo e sopratutto Argissa della Pelasgiotide tessalica. Che i Pelasgi di questa contrada, venuti certo dal mare, seguendo la consuetudine di ogni emigrazione della stessa gente, abbiano avuti il Peloponneso per punto di partenza, è geograficamente e storicamente probabile. Ma vi sono, per contro, grandi probabilità per rendere che i popoli massapici siano piuttosto passati dall’Illiria all’Italia, come vorrebbero altre tradizioni.

Comunque sia, gli Enotri, i soli di cui noi dobbiamo occuparci qui, si estesero rapidamente; invasero il paese di Choni, altra popolazione pelasgica che sembra venuta dall’Illiria, e si associarono intimamente; impadronendosi di tutte le montagne che i Lucani occuparono in seguito, si estesero anche più a nord lungo il litorale della Campania, e fino alle sponde del Tevere. Infatti lì ancora, noi troviamo alle prime origini il ricordo della colonia dell’ercade Evandro e della sua città di Pallanteo, fondata sulla collina che fu più tardi il Palatino, e chiamata secondo il nome della città di Pallantion in Arcadia.

La religione di questi Pelasgi stabiliti in Italia, doveva avere uno stretto rapporto con quella dei Pelasgi della Grecia, che fu il primo substratum delle religione ellenica. Il duca di Luynes, con la scienza archeologica e col profondo acume che lo distinguevano, dimostrò che fu questa doppia emigrazione quella che produsse in Apulia il culto del dio delle acque, analogo al Poseidon greco, il cui simbolo era anche il cavallo, divenuto il tipo più abituale delle numismatica apula, mentre gli Enotri adoravano precipuamente un dio ctonio, distributore delle ricchezze del suolo e produttore dei fiumi che zampillavano dal seno della terra, dio del quale il toro era l’emblema e l’animale sacro. È questa antica divinità pelasgica che si identificò, al contatto dei greci, con il loro Dionisio ctonio e tauromorfo. Da,ciò, per conseguenza di tale innesto del dio ellenico su di un antico dio indigeno, proviene il successo e la diffusione della religione dionisiaca presso i popoli del Mezzogiorno d’Italia; da ciò, anche, l’adozione del tipo religioso del toro, qualche volta munito d’un viso umano, nella monetazione antica di quasi tutte le città della Magna Grecia e della Campania, ove per associazione di idee quasi impossibile a risolvere, esso risulta il rapporto nel tempo medesimo  col culto degli dei dei fiumi e con quello del loro autore comune, il Dionisio infernale. A questo si sono amalgamate le leggende sul passaggio dei buoi di Gerione, condotti dalla Spagna da Eracle attraverso l’Italia. Secondo Ellanico, il nome d’Italia, la cui forma indigena era Vitulia o Vitelia, e che in origine fu per lungo tempo limitato alla estremità sud della penisola, fra lo stretto di Messina e l’istmo di Squillace, proverrebbe da uno dei tori di Gerione, che si sarebbe allontanato dal branco e che Eracle avrebbe inseguito fino alle vicinanze di Reggio. Vi è anche qualche cosa degna di attenzione nel fatto che due soltanto, fra le città della Magna Grecia, non adottarono il tipo monetario del toro, e che queste sono precisamente le sole località, ove la tradizione pretendeva dopo che il semidio non era stato accolto con favore, cioè Locri e Crotone.

È probabile che i nomi eroici di Oinotros e d’Italos, posti alle origini dell’esistenza e della civiltà degli Enotri, conservino il ricordo dei nomi del loro dio nazionale ad immagine di toro. Da tempo si è rilevata l’analogia del nome Oinotros con la concezione fondamentale di Dioniso come dio del vino. Italos, come notarono i Greci Ellanico e Timeo di Tauromenio, e presso i Romani Varrone, è la forma ellenizzata di un nome italico Vitulus, vale a dire di un nome che significava «il vitello, il bue». Che vi sia stato un dio Vitulus divenuto l’eroe Italos nelle leggende scritte degli Elleni, non si può dubitare quando s’incontra fra le vecchie divinità italiche una dea Vitellia o Vitula, perché ella è manifestamente la sua compagna omonima, come fauna è quella di Faunus, e Libera  quella di Liber. È  dai Greci che i Romani presero la forma del nome geografico Italia; i popoli sabellici, durante quel tempo, avevano conservato la vecchia forma indigena Vitelio, in cui l’antica V iniziale era rimasta, seguendo le leggi fonetiche delle lingue italiche, mentre essa veniva a mancare nella trascrizione greca. Questo nome Vitelio è quello che i Sanniti scrissero al lato della testa dell’Italia personificata, sulle monete che coniarono al tempo della Guerra Sociale. E la tradizione del legame di questo nome geografico con quello del toro era così viva allora, che i confederati italici adottarono il toro come simbolo nazionale, e lo raffiguararono sulle loro monete nell’atto di atterrare sotto le sue corna la lupa romana. Era una nozione ammessa universalmente che il nome Italia voleva dire terra dei buoi o terra del dio toro.

Gli Enotri erano pastori, ci dice Aristotile nelle sua Politica; Italo fece di essi degli agricoltori. In effetti, come nota il D’Arbois de Jubainville, a cui si debbono dei dotti ed ingegnosi studi su Les premiers habitans de l’Europe, la leggenda raffigura Oinotros che parte dall’Arcadia prima dell’istituzione dell’agricoltura nel paese. Italo personifica così una fase storica di un’importanza capitale: il passaggio della popolazione allo stato di coltivatori sedentari. Ma per Tucidide, per Filosto di Soracusa e pei diversi scrittori, da cui Servi attinse per il suo commentario su Virgilio, Italo è un re dei Siceli o Siculi. Bisogna, dunque, collegare la rivoluzione operatasi presso i popoli dell’Enotria all’introduzine di un nuovo elemento etnografico. Verso il XX secolo prima dell’èra cristiana, i Siculi, o uomini ramati di falce (in latino sicula), ramo della grande razza ariana dei Liguri, occuparono l’Italia centrale dalla foce del Tevere ad Ancona, e dalle bocche del Po al confine dell’Apulia. Essi estesero la loro dominazione sui Pelasgi Enotri, iniziandoli alla coltivazione della terra, perché ne avevano portato seco il segreto. Nel XIV secolo, vediamo i Siculi, che gli Egiziani chiamano Shakalash, all’apogeo della loro potenza e in possesso di una marina, confederarsi con gli altri popoli del Mediterraneo, e prendere parte agli attacchi che costoro dirigono contro l’Egitto sotto Menephtah I e Ramesses III. Essi aggiunsero le loro navi a quelle dei T’ekkaro o Teucri, degli Akaiuash o Achei, dei Pelesta o Pelasgi di creta, dei Tursha, cioè Tursani o Pelasgi Tirreni, degli Uashasha, che sono forse degli Ausoni, e dei Shardana o genti dell’isola di Sardegna. Essi avevano respinto i Sicani di origine iberica, costringendoli a rifugiarsi nell’isola di Thrinacria, che fu più tardi la Sicilia.

Il carattere essenzialmente agricolo dei Siceli o Siculi si riflette nei nomi di quei loro principi che si fanno regnare sugli Enotri. A Italo succede Morgete, «l’uomo dei covoni», (merges); viene in sèguito Sicelo, «l’uomo della falce», che porta il nome stesso del popolo. Come tutti gli eroi collocati alle origini delle nazioni, come per il suo predecesspre Italo, la sua storia è un mito complesso, in parte religioso, in parte storico e mitico. Sicelo è scacciato da Roma e viene a rifugiarsi presso Morgete; la sua fuga, al pari della sua origine e del suo nome, l’assimila a Saturno, sempre armato della falce. E, in effetti, Saturno, sembra che sia stato in origine il gran dio nazionale dei siculi. Furon essi che ne stabilirono il culto in Italia; furon essi che dettero alla loro fortezza del Campidoglio il nome di Saturnia. Sotto la loro dominazione, l’Italia fu designata col nome generale di Saturnia, che sostituì quello di Argessa che le davano i Pelasgi Enotri.

«Saturnia è terra dei Siculi», diceva un antichissimo oracolo della Zeus di Dodona. D’altra parte, la fuga di Sicelo è anche in relazione con il fatto storico indubbio della storia d’Italia, fatto che dovrà avvenire verso il XII secolo prima dell’era cristiana, cioè la graduale espulsione dei Siculi dal Lazio e dalla Campania per opera dei popoli Umbro-Latini, Opici o Ausoni. La Saturnia divenne allora l’Ausonia. Questi popoli, ai quali si è presa l’abitudine di dare specialmente il nome, assia mal giustificato, d’Italioti, discendevano allora, forse sotto la pressione di una nuova ondata d’immigrazione che veniva dal nord, quella dei Raseni o Etruschi, dalle grandi pianure del bacino del Po, ovve avevano fatto una lunga dimora, ed ove le terremare dell’Emilia ci hanno conservato delle vestigia incontestabili del loro soggiorno e del loro stato di semi-civiltà. I Siculi, del resto, dovevano essere molto più in parentela con loro di quel che non ammetta l’opinione comune attuale. Il loro idioma sembrerebbe che appartenesse decisamente alla famiglia italica; i rari vocaboli che ci sono stati conservati, sono quasi latini, come gela, «gelata» (gelu); kybiton, «angolo» (cubitos «gomito»); rogos, «mucchio di grani» (rogus, «mucchio di legna»); unkia, «oncia» (uncia); litra, «libbra» (libra).

Sicelo, accolto da Morgete, dicevano gli storici greci dell’Italia meridionale e della Sicilia, si creò uno Stato a spese del suo ospite. Più tardi, sentendosi in angustia in questo stato e premuto dalle popolazioni vicine, passò con la maggior parte del suo popolo nell’isola, che ricevette da lui il nome di Sicilia. I Siculi finirono cacciati d’Italia dagli Opici e dagli Enotri, dice Antioco di Siracusa; dagli Umbri e dai Pelasgi, dice Filisto della medesima città. Le due maniere di esprimersi sono esattamente sinonime e bisogna dare un valore di prim’ordine alle testimonianze dei due scrittori siracusani del V secolo a.C. i quali avevano avuto agio di consultare le tradizioni nazionali dei Siculi, che esistevano ancora al grado di popolo indipendente nel grembo delle montagne della Sicilia. Tucidide, loro contemporaneo, non meno esatto nella scelta delle sue informazioni, parla anche del passaggio dei Siculi dal continente all’isola di Trinacria, e lo pone intorno all’anno 1034. È quindi, manifesto che dopo che grande potenza dell’impero dei Siculi fu distrutta dall’invasione opica o ausonica, gli Enotri ripresero la loro indipendenza e li respinsero nell’estremità meridionale della penisola, donde essi guadagnarono la Sicilia attraversando lo stretto di Messina. Ma non passarono tutti in questa patria: i siculi conservarono sul continente il possesso del paese situato a sud dell’istmo Scilletico, dell’Italia nel senso speciale e ristretto del nome. È nel loro territorio che Locri fu fondata, e Teucidide, nel V secolo, li mostra ancora colà nelle parti più inaccessibili delle montagne.

Nel X secolo, la costituzione dell’impero degli Etruschi venne a compromettere gravemente la situazione degli Umbro-Latini nell’Italia centrale. Avvenne a loro spese l’estensione del nuovo popolo, la cui supremazia andò sempre crescendo fino al principio del V secolo. Ma non prima del VI secolo gli Etruschi oltrepassarono il Lazio dal lato sud. Nell’VIII secolo, quando la Grecia, invasa da un moto di espansione verso l’esterno, che non doveva più rinnovellarsi nella stessa misura, trovò nell’esuberanza della sua popolazione gli elementi delle numerose colonie che essa inviò dovunque, e delle quali le più importanti coprirono allora il litorale dell’Italia meridionale e della Sicilia: ecco a grandi tratti qual era la distribuzione dei popoli indigeni nella penisola italica. Nel bacino del Po, in cui i galli non avevano ancora fatto la loro apparizione, abitavano i Liguri, degli Umbri, degli Etruschi e dei Veneti di origine illirica, avanzi di copiose emigrazioni che nei secoli anteriore avevano attraversato queste contrade. Nel nord della parte peninsulare, pure Etruschi e Umbri; nel massiccio centrale dell’Appennino, designato ora col nome di Abruzzi, i popoli sabellici, che dovevano più tardi espandersi fino al mar Jonio sotto i nomi di Sanniti, di Lucani e di Brutii, e mostrarsi così terribili guerrieri contro i Greci e contro i Romani; sulla costa dell’Adriatico, al piede di queste montagne, i Liburni illirici. Dal Tevere al Silaro, lungo il mar Tirreno, vi era l’Opikia, come dicevano i Greci. Colà abitava la folla delle tribù ausoniche, ricacciate dagli Etruschi dei paesi del nord del Tevere. Le più importanti erano nel nord i Latini, presso i quali si fondava Roma in quel momento (754), e nella Campania gli Oschi e gli Aurunci, ai quali era commista qualche colonia di Dauni. Nell’Apulia e nella Iapigia, dal monte Gargano al promontori Iapigio, si estendeva il dominio della razza iapigio-messapica, divisa in Peugezi (Capitanata attuale), Dauni (Puglia), Messapi (versante della Terra d’Otranto sull’Adriatico), e Salentini (stessa regione sul golfo di Taranto). La Enotria, con la sua popolazione di Pelasgi, abbracciava ciò che fu più tardi la Lucania ed il nord del Bruttium, vale a dire le provincie attuali di Basilicata e di Calabria Citerione, coi paesi della Calabria Ultra a nord dell’istmo di Squillace. I Choni occupavano l’angolo, nord-est di questo territorio, discendendo a sud fino verso Crotone, ed estendendosi ad est, sotto il nome di Cramoni, nella pianura che va verso Taranto. Infine, i Siculi, abitatori dei due lati dello stretto di Messina, erano i padroni dell’estremità più meridionale della penisola, dalla sua ultima strozzatura tra i golfi di Santa Eufemia e di Squillace fino al punto ov’essa finisce nel mare.

In mezzo a queste ultime popolazioni si stabilirono le colonie greche. Sibari fu una delle più antiche: essa era stata preceduta solamente da Locri e da Cuma, quantunque non si possa ammettere storicamente la pretesa della grande città dei Calcidesi in Campania, di essere stata fondata fra il 1051 e 1035, mentre l’Helbig ha recentemente dimostrato che essa non rimontava al di là dell’VIII secolo.

Nota:

La cartina geografica dell’Italia è stata tratta da: Lessico Universale Italiano, XI volume, Preistoria Italia. Enciclopedia Treccani.

Brescia, 25 dicembre 2006







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