L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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L'agricoltura meridionale

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La rivista Indipendenza (Roma, Via Carlo Alberto, 39) mi ha posto alcune domande. Pubblico le risposte anche su Fora…man mano che le scrivo.

Domanda: Hai sempre sostenuto l'uscita dal mercato comune europeo che "ci costringe a sovvenzionare gli agricoltori e allevatori continentali, nello stesso momento in cui i nostri produttori vengono saccheggiati dal protezionismo industriale, granario, latteario e allevatorio". Puoi meglio circostanziare alla luce dei meccanismi indotti dalla moneta unica?


Quel che dice un meridionale incazzato può essere considerato, cinicamente, il solito lamento. Trascrivo, perciò, tre apprezzamenti non miei; per la precisione dell'economista agrario Roberto Fanfani (L'agricoltura in Italia, il Mulino, 1998). Primo: giudizio relativo al momento precedente alla riforma della cosiddetta Politica Agricola Comunitaria (Pac): "Il sostegno effettivo dei prezzi e dei mercati non è stato però uniforme ma ha privilegiato in modo particolare i prodotti tipici delle agricolture continentali, a partire dai cereali e seminativi, al latte e alla carne bovina e suina. Al contrario alle colture mediterranee, che rappresentano circa il 25% della produzione agricola dell'Unione europea, va ancora oggi solo il 12% del totale della spesa per il sostegno dei prezzi (Feoga-garanzia, Fondo europeo orientamento e garanzia agricola, un fondo attraverso cui vengono erogati i finanziamenti dell'Ue).

Questa caratteristica che è rimasta una costante della Pac ha provocato non poche disparità a vantaggio delle regioni e delle aziende maggiormente interessate alle produzioni continentali"(pag.60). Secondo: giudizio relativo a un momento posteriore alla riforma: "… i maggiori benefici si sono avuti per le regioni dei paesi continentali, dove vastissima è la produzione di cereali; latte e carne, che hanno rappresentato da sempre i settori di maggiore intervento. Oggi, secondo i dati del bilancio 1996, ai seminativi vanno oltre il 44% delle spese totali per il sostegno dei prezzi agricoli, pur rappresentando queste produzioni poco più dell'11% del valore della produzione agricola dell'Ue" (pag.62). Terzo: "Nel settore del latte le riduzioni di prezzo originariamente previste (del 15% per il burro e del 5% per il latte in polvere) sono state sostanzialmente annullate e di fatto limitate al solo burro (-5%).

La validità delle quote del latte viene prolungata fino al 2000, mentre la regolamentazione definitiva del settore lattiero caseario viene rinviata" (pag.64) sine die. Ovviamente per i governi comunitari, e in particolare per il governo italiano, gli agricoltori meridionali dono dei figli di puttana. Sui risultati di quarant'anni di mercato unico europeo si potrebbe dire, ricorrendo a un'espressione del Codice Civile: lucro cessante e danno emergente. Ma si può ricorrere al linguaggio comune, che è più incisivo: il danno e lo scorno, o anche all'efficace motto napoletano: cornuti e mazziati. In questa materia bisogna essere chiari e precisi.

Non è il fatto che gli agricoltori meridionali ricavino un introito minore, e neppure l'altro che debbano sostentare quelli continentali - i poverini, quelli che marciano in trattore, anzi in Trattore, su Roma, Parigi e Buxelles, perché non amano pagare le tasse, sebbene guadagnino ogni anno cento volte ciò che guadagna un lavoratore meridionale. No, non è per giocare in borsa che i contadini meridionali dovrebbero essere sostenuti. Né è in ballo il pane quotidiano.

Qui è in gioco la dignità dell'uomo. Cittadino solo nelle carte fondamentali - in effetti sberleffi costituzionali - e quando si tratta di votare, per giustificare la congrua parlamentare di gente inutile, impotente e per giunta nemica acerrima dei suoi stessi elettori. Quando fu convenuta l'Europa, quelle carogne dei padri immaginavano che l'esercito industriale di riserva, tenuto in congedo illimitato, senza soldo e senza rancio, sarebbe stato allevato in eterno dai paesi del Sud: il Meridione italiano, la Spagna, la Grecia, il Portogallo, la Turchia. Pertanto vollero che l'agricoltura meridionale continuasse a produrre disperati.

Per ottenere tale risultato bastava non fare: l'incompatibilità economica tra l'alto costo della vita - quella di un paese industriale - e il basso valore di mercato delle produzioni, deliberatamente esposte alla concorrenza dei produttori extracomunitari (a basso costo della vita) avrebbe provocato l'auspicata disoccupazione. A distanza di qualche decennio, gli eupatridi si sono resi conto, però, che si sbagliavano. I morti di fame, non era necessario allevarli, arrivavano spontaneamente da altri continenti.

L'Inghilterra, madre di ogni sapere capitalistico, era già zeppa di gente colorata. Così hanno cambiato politica. Aiuti allo sviluppo a piene mani. L'Irlanda, la Spagna, la Germania Est, il Portogallo vi attingono - come è giusto - a piene mani e vanno ristrutturandosi. L'Italia no! L'Itaglia è sempre figlia di Cavour. Se al Sud giova qualcosa, si decide di farla solo se prima giova al Nord. Facciamo gli acquedotti, le strade, gli ospedali? Sì, certamente, i cementieri e i tondinari ci lucrano.

Facciamo le scuole? Si, certamente. Se no la Zanichelli e la Paravia vanno a gambe levate. Gli mettiamo anche il telefono? Ma certo, anche loro debbono contribuire a pagare gli ammortamenti. Gli diamo i soldi per coltivare? Ma sei pazzo! Ci farebbero concorrenza, diamogli meglio i soldi per una casa. Ci guadagniamo tutti. Più grande è la casa, più interessi pagano in banca e più consumano detersivi. Lo Stato italiano è lo Stato di un altro paese. Con i meridionali non ha misura né pudore. Letteralmente è uno Stato stronzo, amministrato da stronzi del Nord e del Sud, in accordo con stronzi francesi, tedeschi e britanni.

A mia memoria, lo stronzo più grande è stato l'onorevole Emilio Colombo, potentino. Ma non è detto che oggi manchi chi lo pareggi in volume. Quale agricoltura? Come in numerose altre terre del mondo, al Sud convivono colture per il mercato mondiale (che danno surplus spendibili di grandezza nazionale) e colture autarchiche, rivolte all'autoconsumo e al mercato locale. Fino al tempo di Mussolini, la coltura principale fu il grano. Le terre del Sud non hanno, però, una gran vocazione per i cereali. I contadini li coltivavano perché, affamati. Cercavano, con il superlavoro, di sottrarsi al fabbisogno di moneta; i proprietari invece per il bisogno opposto, quello di acquisire entrate monetarie. Ma, dopo la grande trasformazione e la conseguente fuga dei lavoratori, produrre ancora grano è un non senso. Tranne, forse, il grano duro, che costituisce una produzione molto richiesta, oggi produrre grano è, al Sud, la stessa cosa che riprodurre l'improduttività.

Tanto per dirne una, sulle colline meridionali, prima dell'antica produzione granaria, c'era il bosco - querce principalmente - e a bosco esse dovrebbero tornare. Ciò darebbe una produzione dal valore economico sicuramente maggiore, e dal valore ambientale incalcolabilmente maggiore, perché renderebbe più fertili le zone vallive e le cimose costiere. Ma, il bosco, mai è stato opera dei contadini, dei piccoli privati agricoltori, che si applicavano a produzioni che maturano nell'annata.

Storicamente è opera: o della natura, o del feudatario, o dello Stato. Ma questo Stato, del Sud, non sa niente. Neppure la storia e la geografia. Né la sua sapienza negativa può essere colmata da una sapienza positiva delle classi dirigenti locali, che non avendo proprie fonti di reddito (ma solo entrate provenienti dal centro romano), si applicano a rubare coscienziosamente allo Stato. Niente al bosco, niente all'uva, ben poco all'olio, zero agli agrumi - le colture classiche alla vocazione delle terre sudiche - lo Stato continua a regalare 12 o 13 mila lire a chi produce - o fa finta di produrre - un quintale di grano. Insomma alimenta una coltura contraria alle vocazioni ambientali, e per giunta in una fase economica in cui non è utile; dimenticando poi che, qui, grano vuol dire stoppie, che le stoppie, qui, vogliono dire fuoco, che fuoco, qui, vuol dire migliaia di miliardi in fumo ogni anno. *

La moneta comunitaria, l'euro, essendo meno esposta della lira alla vocazione inflazionistica e svalutazionistica dei signori industriali italiani, non nuoce all'agricoltore meridionale, che oggi come oggi non ha niente da esportare in America, tranne un po'di formaggio pecorino. Semmai è la filosofia agricola comunitaria che non va, per i maltrattamenti che ha inflitto e infligge agli agricoltori meridionali (e non solo per questo, come vedremo). In sede di reddito pro-capite, neanche il protezionismo agricolo comunitario sarebbe da avversare, essendo in generale diretto a colmare il divario tra produttività in settori esposti alla concorrenza dei paesi poveri e settori industriali protetti dai loro stessi standard tecnologici.

Basterebbe combattere la politica dei due pesi e delle due misure fra agricoltori continentali e agricoltori mediterranei, e rispettare la vocazione dei terreni (la terra s'intristisce quando viene trattata da fabbrica); sicuramente una cosa non tale da portare a rotture definitive. Ma il problema è diverso: l'agricoltura meridionale, delibetamente distrutta dall'attiva contraria della Comunità, va ricostruita, mentre la politica comunitaria tollera appena l'esistente agricolo, e solo per finalità demografiche. Figurarsi se si piglia la pena d'investire in strutture agrarie! L'ipotetica azione dovrebbe rispettare la logica dualistica dell'assetto fondiario meridionale nata ad opera del mercantilismo borbonico e sviluppatosi poi, pienamente, sotto il governo della Destra Storica (al fine di estrarre dal Meridione il surplus occorrente alla costruzione dello Stato nordista). Tale dualismo si fonda su colture rivolte a produrre un surplus nazionale e colture per il mercato locale.

La storia agraria del Sud conosce parecchie colture d'esportazione. Al grano ho già accennato. Un tempo ci fu il gelso, in connessione con la produzione serica, ma i baroni genovesi, venuti qui come usurai, mandarono quell'arte a gambe levate. C'è ancora l'olivo che, pur essendo stato una costante dell'agricoltura italiana, domina - tranne alcune aree - le terre del Sud a partire dal Settecento. C'è ancora il vino, ma da una produzione altrove magnifica, al Sud sappiamo ottenere soltanto un semilavorato, il vino da taglio. La coltivazione del gelsomino è stata abbandonata da tempo, e quella del bergamotto è fra color che stan sospesi. Prospera è invece la coltura dell'uva da tavola.

Ci sono infine gli agrumi e gli ortaggi, che nella prima metà del secolo XX ebbero una notevole fortuna, e che non mi pare possano superare le attuali difficoltà. In Sicilia e in Calabria occupano la superficie irrigata, estendendosi su 349 mila ettari (185 + 164). L'impegno profuso dagli agricoltori meridionali tra il 1835 e il 1950 non è ripetibile. Accadeva, allora, che la quota di surplus provenienti dall'esportazione olearia non intascata dal fisco venisse - in parte - reinvestita dai padroni nelle piantagioni agrumicole e nell'orticoltura d'esportazione. Ma oggi, al Sud, non esiste più un surplus agricolo ( e neanche un surplus fondato sulla produzione in generale, ma esiste solo del risparmio da lavoro subalterno effettuato al Nord, o anche effettuato qui, alle dipendenze dello Stato o di imprese nazionali) e manca qualunque vocazione all'investimento privato. Nella sua faccia meridionale il sistema non dà la necessaria fiducia.

Al Sud l'agricoltura è vista come un'attività marginale rispetto all'impiego nei servizi pubblici e nelle filiali meridionali di aziende private settentrionali, o anche nella libera professione e nel commercio di distribuzione di merci settentrionali.

Ora, la stessa ipotetica attività tecnologica necessaria per portare nuovamente alla produttività le terre meridionali presenta un carattere rivoluzionario. Infatti la filosofia comunitaria prevede interventi di orientamento (recte: di sostegno all'iniziativa privata) e mai un'opera d'intervento (che sarebbe peccaminosa). Ma, ammesso e non concesso che l'Unione Europea prenda a cuore i problemi del Sud, quale mai orientamento potrebbe rianimare la libera iniziativa di atomistici produttori la cui fiducia è spenta ormai da quarant'anni? Quale privato piccolo capitalista s'impegnerebbe in attività così perdenti - e perdenti a livello continentale?

Eppure la prima cosa che il Sud dovrebbe fare è riuscire a formare dei surplus permanenti che gli consentano di pagare le importazioni di grano e di carni vaccine. E se tale risultato si vuole ottenere è necessario ridare una nuova destinazione produttiva alle cimose costiere, rese irrigue dall'opera secolare dell'uomo; le terre in cui, attualmente, è insediato l'agrume, non più competitivo. Si tratta di una scelta non facile che, se lasciata ai singoli, impiegherà cinquant'anni a farsi chiara. Solo gli studiosi possono selezionare le opportunità economicamente vincenti tra le tante vocazioni geo-colturali. Bisognerebbe perciò fondare dei centri-studi della grande statura che ebbero in passato l'università di Portici e il Centro agrumario di Catania.

***

Fin qui ho presentato un'esigenza che in teoria non contraddice l'impianto capitalistico dello Stato cosiddetto nazionale. Il discorso diventa irrazionale (ovviamente per la logica capitalistica) se aggiungo, all'istanza di produrre, una del tutto diversa, quella che attiene alla qualità della vita. Sulle rive del Mediterraneo l'agricoltura è così antica da essere l'estensione più importante della cultura privata e collettiva. Direi che è amore, un amore simile a quello che gli uomini hanno per i cani e i gatti, che continuano a vivere con noi sebbene le case posano essere difese dai topi con mezzi chimici e sebbene le stesse possano essere difese dai ladruncoli con strumenti elettrici o elettronici.

Gli storici di scuola francese credo abbiano ragione d'insistere sui caratteri di lungo periodo che coinvolge popoli e terre. Nella storia economica del Sud - non solo italiano - la base sociale dell'agricoltura è l'orto, che non è fatto solo di agli e cipolle, ma anche dell'albero da frutta. L'orto non è antieconomico. La storia mostra come esso si coniughi bene con la mercatura e il commercio. Se il piccolo commercio funziona, anche le aziende atomistiche danno risultai accettabili. Se ci si guarda attorno, non è difficile capire che il lavoro nell'orto può ben essere una specie di part-time, o forse è meglio dire un dopolavoro economicamente proficuo. Il podere mediterraneo, come si ebbe in Attica e in Palestina duemila e cinquecento anni fa, esiste tuttora e ovunque nel Meridione, sebbene indicato con nomi diversi.

Oggi viene condotto specialmente da pubblici dipendenti, donne e pensionati. Di regola la produzioni non è orientata dalla domanda di mercato, ma è rivolta al consumo familiare. Ma qualche eccedenza, complessivamente non insignificante, arriva sul mercato. Ed essendo solitamente genuina, viene premiata. Ora la logica dominante sconsiglia che nelle piccole aziende si facciano investimenti di qualche serietà. Invece, l'impiego di più capitale e il corrispondente risparmio di fatica individuale porterebbe sia a una crescita di questo tipo di conduzione, sia alla crescita della massa prodotta.

L'impegnato impiego del tempo libero gioverebbe, poi, a migliorare la generale qualità della vita. Le famiglie avrebbero un radicamento più sano, non convulso, e i giovani crescerebbero conoscendo meno la TV pistolera amerikana e più la natura. Quello che imparano a scuola - specialmente le scienze - non resterebbe conoscenza astratta e inutile ai più. Con il doppio lavoro - e il doppio interesse - paese e campagna potrebbero unificarsi esistenzialmente, come un tempo. La campagna non sarebbe più un deserto messo a produzione e la città un'isola congestionata di abitatori motorizzati e alienati. Ne guadagnerebbe anche la salute alimentare, perché i prodotti agricoli sarebbero meno appestati di concimi, diserbanti e anticrittogamici. In effetti la prima regola di una buona agricoltura è rappresentata dal rispetto della naturale vocazione dei terreni, o per dir meglio, del particolare assetto ecologico.

Torna così, inevitabilmente, il discorso politico. L'agricoltura meridionale - direi la stessa vita dei meridionali - soffre della logica delle grandi dimensioni, su cui si sono orientati gli Stati perché essa è funzionale all'industria, che sostiene di aver bisogno di sbocchi sufficienti, onde raggiungere le tanto vincolanti dimensioni di scala. Ora noi abbiamo di fronte due esiti diversi della grande scala in agricoltura, quella trionfale dell'America del Nord e quella fallimentare della Russia sovietica. Applicata in Europa, nei settori dell'allevamento bovino, del grano e della barbabietola, mi pare che abbia prodotto più disastri che utili. Infatti la qualità dei produzioni se n'è andata a ramengo; quanto al conto profitti e perdite, è visibile a tutti che non ci sarebbe una sola azienda non fallita, se la Comunità non si fosse accollati gran parte dei costi.

Credo che l'esigenza di grandezza, oggi, sia più supposta - per nascondere fini di classe - che vera. E' probabile - e adesso ne abbiamo anche qualche prova - che piegando la macchina all'uomo si ottenga un miglior risultato che piegando l'uomo alla macchina. Resiste a tale deriva la speculazione finanziaria, la quale sa giocare solo con i grandi bilanci e con i titoli di aziende la cui proprietà o i cui debiti circolano sotto forma di milioni, decine e centinaia di milioni di pezzi di carta. Cosicché, per rianimare il Sud, non basta uscire dall'Italia Stato e dall'Europa- mercato unico dei prezzi e della moneta.

Il Sud italiano dovrebbe uscire da una cultura economica e morale alla quale è subordinato, nella quale però non s'è mai veramente integrato, che viene dall'utilitarismo inglese e americano, e dal liberismo gran-proprietario, duro da digerire fra gente d'antica civiltà (mi piace ricordare la civiltà con cui contadini e proprietari - fra cui abbazie e conventi -convivevano sulla terra, giuridicamente separando il dominio utile dal dominio eminente; civiltà che si scontrò ferocemente con la concezione anglosassone e giacobina della proprietà borghese, in una lotta secolare bastardamente chiamata brigantaggio.

Vorrei anche aggiungere che, senza rivoluzioni francesi e senza risorgimenti, i contadini sarebbero arrivati pacificamente a inghiottire il dominio eminente un secolo prima della legislazione democristiana che riporta tutti i contratti agrari all'affitto). Portare l'Europa a noi - come vorrebbe la proposta di Franco Cassano - implica una rivoluzione al centro continentale del sistema europeo. Troppo per le nostre forze. E troppo per la morale ordalica su cui sono cresciuti gli spiriti animali. A noi tocca prendere coscienza che l'Europa inglese, tedesca, francese, e adesso anche quella spagnola, guarda al Mediterraneo centrorientale - al quale in Sud italiano appartiene - con gli occhi smarriti del consumatore di petrolio e contemporaneamente con gli occhi cupidi del venditore di macchine.

Altro Mediterraneo, per la cultura europea, non c'è.

 

Nicola Zitara

 

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