L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Banca Burocrazia Salotti

di Nicola Zitara

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Siderno, 15 Maggio 2003

La banca è più antica della stessa moneta. Nacque sulle rotte navali e sulle vie carovaniere che dall'area dell'attuale Golfo Persico andavano verso l'India, da una parte, e verso lo Yemen e l'Etiopia, dall'altra. Si sviluppò in appresso con l'espansione fenicia dalle coste degli attuali Libano e Israele verso Cartagine (Tunisia), la Sicilia, la Sardegna, Marsiglia e la Spagna, ricca di rame e di stagno. Lungo queste vie terrestre e navali, i banchieri (ma la parola ancora non esisteva) fornivano le vettovaglie ai vettori, in base a una relazione di dare e d'avere tra banchieri.

Quando nacque la moneta aurea e/o argentea, in Grecia e in Palestina i templi, che raccoglievano donativi come Lourdes e San Giovanni Rotondo, prestavano danaro a interesse ai mercanti e ai governi. Siracusa, che era la New York del mondo ellenico, finanziò Atene e altre polis greche per cifre che farebbero impallidire la Federal Reserve.

L'iterfaccialità tra accumulazione di moneta e il prestito, che ha accompagnato il commercio e la produzione per millenni fino ai giorni nostri, è ormai superata. La svolta epocale si ebbe nel 1971, allorché il presidente Nixon dichiarò che a partire da quel momento il dollaro non sarebbe stato più convertibile in oro. Questo non vuol dire che prima il dollaro fosse convertibile. La moneta (cartacea) americana era ambita da tutti. Correva quindi senza intoppi nelle relazioni commerciali di tutto il mondo, compresi gli Stati (allora) comunisti. Vuol dire soltanto che, prima, le crescenti emissioni di banconote trovavano una remora nel fatto che il metro, con cui veniva misurata la circolazione cartacea statunitense, era l'oro depositato nei sotterranei del famoso Forte Knox.

Negli altri Stati il valore della moneta nazionale veniva misurato in base ai dollari posseduti (e dal credito o debito con gli USA). Dopo la dichiarazione d'inconvertibilità del dollaro, il metro del valore delle monete, quantomeno nei paesi ricchi, si è molto raffinato. Consiste nell'equilibrio tra produzione e moneta circolante (banconote, assegni bancari, cambiali, scritture contabili), con una leggera propensione all'inflazione, al fine di creare artificialmente aspettative di buoni profitti fra i produttori e di tagliare i salari, gli stipendi e le pensioni, che arrancano a recuperare. A livello internazionale, il valore del cambio è legato all'entrata e all'uscita di dollari, che non sempre dipende dal commercio, ma spesso dai prestiti in dollari e dai movimenti di borsa.

Il cambiamento avvenuto nel misuratore della moneta ha cominciato a far cambiare anche la pratica bancaria, ma la novità è forte e non facile da assimilare. Comunque alcune cose sono già avvenute. Per esempio non esiste più un rapporto stretto tra depositi e credito. La riserva legale è stata abolita. Più in particolare è cambiato il profilo del cliente ambito dalle banche, in quanto portatore di danaro. Il vecchio proprietario di terre o di case, che portava i suoi incassi annuali in banca, è una figura sbiadita. In banca è più accetto quel tipo di commerciante che incassa contante e immediatamente lo versa in banca. Quel che l'interessa è il giro di moneta. Perché è sulla massa della moneta incassata giornalmente che essa sviluppa il credito.

Anche nei tempi in cui non si usavano le monete di carta ma l'oro, il danaro depositato in banca raddoppiava. Facciamo l'esempio delle fedi di credito della vecchia Napoli. Una persona portava cento ducati al Banco, e il Banco gli rilasciava una fede dello stesso valore. Il proprietario del titolo aveva del danaro in mano, che tutti accettavano come oro, anzi meglio dell'oro. Intanto il Banco aveva in cassa i cento ducati, che poteva prestare a un commerciante o anche al re. Poteva farlo perché non tutti coloro che possedevano una fede di credito andavano a farsela rimborsare subito. Passavano giorni, mesi, anni a volte, prima che la carta arrivasse allo sportello del Banco. Oggi dal doppio siamo passati a cifre esponenziali.

I progressi verificatisi nel campo monetario sono ricaduti negativamente sulla banca italiana, la quale oggi è notevolmente più burocratica e oserei dire molto più salottiera del tempo in cui era sotto il controllo dello Stato (IRI). Dopo le regalie fatte dallo Stato ai privati, letteralmente scandalose nel caso del Credito Italiano e della Banca Commerciale, la banca italiana (in realtà milanese) cresce soltanto per accorpamento o fusione fra le grandi e per assorbimento delle banche regionali e locali. Il risultato a cui si è giunti è il caos borsistico e l'alleggerimento programmatico dei risparmiatori. Il risultato prossimo venturo sarà presumibilmente una nuova crisi e una nuova nazionalizzazione.

Come meridionali dobbiamo lamentare non solo la scomparsa delle banche locali e regionali, ma anche il fatto che i funzionari periferici delle grandi banche hanno perduto quel poco di autonomia che prima avevano. Le agenzie sparse sul territorio procedono per moduli e per schemi, come se tutte le province fossero simili alla provincia di Milano. Le direzioni milanesi dettano sia le operazioni da fare, sia il modo di farle. Il cervello del funzionario locale non entra più in considerazione, esiste solo il cervello elettronico della celeste direzione milanese, abile soltanto a salvare se stessa dalla rovina a cui ha condotto gli investitori, che in due anni hanno perduto tra il cinquanta e il sessanta per cento del capitale.

Il funzionario periferico deve ignorare la realtà che ha dinanzi agli occhi, e agire a comando. E poi il governatore della Banca d'Italia, gli economisti e i giornali economici si chiedono perché la produzione italiana ristagna! In effetti la liberalizzazione voluta dalla sinistra e dalla destra postconsociativa, che governano dal 1992, ha messo in riga tutti i produttori, quasi che la produzione sia una funzione della banca, e non viceversa.

L'inefficienza cresce. Solo per soffermarsi sui casi più eclatanti, è da chiedersi quali vantaggi avrebbe tratto l'economia nazionale dall'aiuto dato a Gianni Agnelli, che voleva vendere la Fiat. Oppure i vantaggi che sono venuti all'economia italiana nel suo complesso e al singolo utente e consumatore italiano finanziando l'acquisto di Telecom da parte di Tronchetti Provera. O anche quelli che verranno dalla vendita (o svendita alla Prodi) dell'Eni, dell'ENEL, delle ferrovie, delle poste, delle case popolari e forse anche dei templi di Agrigento e degli scavi di Pompei. Con una banca che prende ordini dal salotto buono milanese, il progresso economico, l'industria, costa alle popolazioni italiane tre o quattro volte che ai tedeschi, agli inglesi e agli americani. I precedenti dovrebbero far riflettere.

La grande industria padana è nata tra 1890 e il 1918 ad opera della Banca d'Italia e della Banca Commerciale, che utilizzarono le rimesse in valuta degli emigrati. Durante la Prima Guerra Mondiale, gli industriali fecero affari d'oro. Finita la guerra, per paura che in Italia si ripetesse la Rivoluzione Russa, imboscarono i soldi, facendosi un dovere di non restituire un solo spicciolo alle banche. La Banca d'Italia sarebbe fallita, se Mussolini non avesse risucchiato le riserve valutarie del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia e se non avesse imposto luttuosi sacrifici agli italiani del tempo. Le grandi banche dovettero essere nazionalizzate, e furono rifinanziate a spese della povera gente.

Ero un bambino, ma ricordo come se fosse oggi quando nel negozio di mio padre le patate, che costavano appena mezza lira, rimanevano a marcire invendute. Bisognava portarle sulla spiaggia, dove i netturbini e le guardie di finanza le distruggevano con il fuoco. Da adulto ho, poi, imparato che in quel frangente il solo signor Agnelli si pappò dallo Stato 800 milioni (il valore di 80 mila automobili Balilla), usando il ricatto della chiusura della fabbrica. Le maggiori banche e le maggiori industrie (Breda, Ansaldo, compagnie di navigazione) vennero nazionalizzate. Le risorse necessarie vennero create portando il Sud alla fame (la fame vera, quella del pane).

Il sistema bancario italiano, sin dal tempo di Cavour, fa consistenti guadagni in periferia e poi butta i soldi dalla finestra con la speculazione e con le industrie parassitarie. Le banche regionali e l'autonomia di cui godevano i funzionari periferici, in qualche modo, tamponavano il malanno. Oggi il credito bancario è grandemente impegnato a far passare le aziende nazionali da una mano all'altra. Ma i giochi del salotto milanese sta esaltando i costi e annientando la spinta all'investimento. Personalmente non credo che con Ciampi e con Fazio la storia sarà così benevola come è oggi la stampa torinese, milanese e romana.

Nicola Zitara

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