L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


Il blocco dello sviluppo

di Nicola Zitara

(scarica l'articolo in formato RTF o in formato PDF)


Siderno, 20 aprile 2005

In passato, la conquista e l’asservimento di una nazione da parte di un’altra nazione avvveniva a mano armata. Pensiamo, ad esempio,  all’Impero romano o alla conquista normanna del Sud italiano. Certo, qualche eccezione ci fu. Per esempio la colonizzazione fenicia e quella greca prima di Alessandro.

Neanche l’espansione dei fenici e dei greci avvenne in modo pacifico, però, una volta acquisito il territorio, greci e fenici fondavano una “colonia”, che non era una colonia, ma una Polis parificata alle madrepatria (Cartagine, Siracusa, Reggio, Locri, etc.).

L’età moderna parte dalla conquista dei territori americani e dal genocidio degli amerindi. Prosegue con la colonizzazione militare di tre continenti da parte degli europei. Ma già nel corso di questo tipo di colonizzazione va emergendo un sistema incruento di dominazione, in base al quale  l’economia occidentale cresce rapidamente, mentre il resto del mondo ristagna, o arretra del tutto. 

Non è facile riassumere la complessità del duplice processo. Contentiamoci dell’essenziale. Diciamo che in Occidente nasce e si afferma il processo industriale di produzione, mentre altrove non si verifica la stessa cosa. Un telaio mosso da una macchina a vapore, già alla partenza, fa il lavoro di centinaia di telai a mano. Una volta perfezionato, fa il lavoro di migliaia e di decine di migliaia di tessitori.

Un bene e un male allo stesso tempo. In effetti, il prodotto industriale costa di meno, e di ciò beneficia l’Occidente che lo produce, ma i tessitori di cotonine - storicamente gli abitanti dell’India - perdono il lavoro artigianale e rifluiscono nelle campagne, dove il lavoro agricolo non avrebbe bisogno di altre braccia.

Se lo avesse avuto, non sarebbe fiorita la tessitura. Infatti l’esistenza dell’artigianato, della classe operaia e dei produttori di servizi presuppone che gli agricoltori producano a sufficienza per sé e per coloro che, pur lavorando,  non producono alimenti. 

Espropriati della loro antica manifattura, gli indiani, se comprano della cotonina  per cucirsi un sahari, ne pagano il valore all’Inghilterra. L’industria inglese del cotone  fa splendidi affari e cresce ininterrottamente. Produce  cotonine in misura sempre maggiore e a un prezzo sempre più basso.

Il caso esemplificato viene definito “blocco dello sviluppo”, una materia che in Italia è ipocritamente esclusa dai corsi universitari. L’India, che produceva cotonine, non le produce più. Inoltre, le campagne indiane non riescono a valorizzare la manodopera che vi è nuovamente affluita. Le tecniche agricole tornano indietro e si ha il sottosviluppo. 

Quando, nel 1860/61, si arrivò alla nascita dello Stato italiano, il paese non era poi tanto avanti all’India di metà ‘700. Anzi, in qualche modo indietro, perché l’India, sin dal tempo di Atene e di Roma, accumulava oro, e nel ‘700 da sola ne aveva più del mondo restante. La cosa in cui le varie regioni e i vari ex Stati della penisola italiana erano avanti all’India era il commercio. Infatti solo la Lombardia e il Veneto ubbidivano a una potenza straniera, l’Austria, la cui dominazione non era per altro assimilabile a quella inglese sull’India.

Il commercio italiano era in mano agli italiani, una parte considerevole del commercio estero italiano si svolgeva con naviglio nazionale; cose che sommandosi permettevano di concentrare i risparmi in banche nazionali e al Regno di Napoli addirittura di proiettarsi in qualche forma d’industrializzazione. 

Dal 1860 al oggi, lo Stato italiano, appoggiandosi alla truffa psicologica e morale d’essere lo Stato di tutti gli italiani, ha imposto al Sud  una serie interminabile di blocchi dello sviluppo, che hanno propiziato un’inconfutabile condizione di sottosviluppo e il riflusso dei lavoratori meridionali verso il nulla. In parole esplicite la sovrappopolazione, l’emigrazione, l’inoccupazione, con la coda dell’imperio mafioso e degli altri disastri sociali noti e non noti; tali che, per enumerarli, ci vorrebbe un libro di 3000 pagine.

Spesso ho scritto dell’espropriazione bancaria, che sta al centro della sopraffazione toscopadana. Non ho mai scritto del disprezzo. In origine, diffuso ad arte  per negare i meriti dei Borbone e additare come briganti i partigiani duosiciliani, in appresso  si è trasformato, ad opera del Corriere della Sera e di altre invereconde pubblicazioni, in un sentire comune delle popolazioni toscopadane. Si dice: chi disprezza vuol comprare.

Ovviamente pagando il minimo possibile.  Ma non ho la competenza del sociologo e non saprei trattare l’aspetto ciampico dell’essere Italia e italiani mercé la sola fanfara dei bersaglieri. Cercherò invece di mostrare come lo sviluppo del Nord imponga pacificamente (nel senso di un non ulteriore uso delle armi) il sottosviluppo del Sud. Potrebbero sembrare carezze e invece sono cazzotti da k.o. 

Calabria. Intorno al 1955. A quel tempo gli agrumi erano una delle più  importanti produzioni ed esportazioni italiane, come nei quattro decenni precedenti. Le tecniche in uso   pretendevano la zappatura degli agrumeti una o due volte all’anno, questo su decine di migliaia di ettari. Mediamente occorrevano cento giornate lavorative a ettaro.

Di conseguenza il bracciantato agricolo era diffuso. Per il bracciante c’era  la possibilità dell’occupazione  per tutto l’inverno. Diciamo per cento giornate. (Il guaio era di altro tipo. Infatti in un anno le giornate lavorative sono 310/320. C’era quindi una parte dell’anno in cui i braccianti rimavano disoccupati.) 

Questo assetto venne sconvolto dall’arrivo del motocoltivatore, che è un piccolo aratro capace di fare in un giorno il lavoro di cento braccianti. Nel caso della Calabria e della Sicilia la manodopera espulsa dalle campagne venne valorizzata altrove, dall’industria, verso cui si rivolse  l’emigrazione dei braccianti.

Se non ci fosse stata quella valvola di sfogo, in Calabria il Terzo Mondo sarebbe in atto già da cinquant’anni. Ma lasciamo stare i lamenti e  facciamoci i conti sociali. Sarà noioso, ma potrebbe essere istruttivo. Per il produttore agrumario, con l’arrivo del motocoltivatore, il costo di produzione si abbassa notevolmente, però i braccianti perduto il lavoro, emigrano. Infatti, né la Sicilia né la Calabria offrono lavoro industriale.

Potremmo supporre anche l’inversione delle cause: i braccianti emigrano, e il motocoltivatore li rimpiazza, ma la somma non cambia. L’emigrazione deprime l’intera economia. Le famiglie diminuiscono di numero, il commercio langue, le entrate comunali derivanti dai consumi si riducono.

Le città decadono. Palermo, Messina, Reggio divengono delle casbe. In campagna, i camion e le moto Ape crescono di numero a danno dei carri e dei carretti. Anche il numero dei massari diminuisce a favore dei meccanici. I quali, però, impiegano pezzi di ricambio provenienti da fuori e non biade e fieno prodotti in loco. Il lavoro dei braccianti si trasferisce agli operai che fabbricano i piccoli trattori. I loro consumi aumentano, con vantaggio di tutte le nuove attività fiorite nelle Città dei motocoltivatori. Le quali crescono due volte: per via dell’emigrazione e per effetto dei nuovi record di vendite.

In sostanza, in questa città si lavora per agrumeti che stanno in un’altra parte del mondo e si lucra in conseguenza del fatto che si è tolto il lavoro a gente che sta in un’altra parte del mondo. Considerando il cambiamento a livello di formazioni sociali (e non di una sola aziensa o di un solo padrone), il vantaggio del produttore agrumario non compensa la perdita subita con la fine del bracciantato agricolo e l’esodo delle famiglie contadine. (Ciò, ovviamente, non vuol dire che si rimpiange quell’assetto produttivo, o che se ne invochi la resurrezione).

La formazione sociale produce la stessa quantità di agrumi, ma una quota rilevante del valore aggiunto viene realizzata da un’altra formazione sociale, che incassa il valore aggiunto dagli operai della fabbrica dei motocoltivatori.

 

Questi operai, poi, hanno una paga maggiore di quella che lucra (o lucrava) il bracciante agricolo. Vivono in un luogo dove il minimo vitale è parecchio più elevato che nell’emarginata Calabria. Pertanto non lavorerebbero se non guadagnassero almeno tale minimo. Ma proprio il fatto che essi lavorano innalza di livello il minimo vitale. Un bel giorno avverrà che essi otterranno una paga maggiore.

A questo punto, il prezzo dei motocoltivatori aumenterà e il produttore agrumario perderà il vantaggio ottenuto sostituendo la macchina ai braccianti. In conclusione, l’adozione del motocoltivatore non farà crescere il valore aggiunto nella zona agrumaria, anzi lo abbasserà. Infatti, adesso a produrre sono come sempre gli alberi, più il manovratore del motocoltivatore, più gli operai forestieri che lo hanno fabbricato.

Alla fine anche gli sperati guadagni dell’agricoltore che si è modernizzato, andranno in fumo. Tirando le somme, la modernizzazione ha solo nuociuto alla formazione sociale agrumaria. Ha bloccato l’economia sociale e avviato il sottosviluppo.

E non si venga a dire che, a causa del suo basso livello tecnologico, la Calabria non era neanche pensabile produrre macchine agricole, perché non è vero. Infatti, un tempo, le officine dell’hinterland napoletano e persino le Officine di Mongiana  le producevano (insieme alle macchine ferroviarie e ai motori navali, fin dal 1845, mentre Milano, Genova e Torino erano ancora al palo).

   

Facciamo un altro esempio, questo attuale. In un Nostro Posto circolano 1000 automobili che, avendo fatto ciascuna 150.000  chilometri, i proprietari hanno deciso di sostituire con macchine nuove, costo 10.000 euro cadauna. In tale decisione vengono favoriti dal fatto che possono pagare a piccole rate di 100 euro al mese. Insomma un grosso incentivo per il rinnovo del locale parco macchine, attenuato quasi invisibilmente dal fatto che le case costruttrici scontano l’usato uniformemente per 1.500 euro.

  

A Nostro Posto  ci sono anche mille persone che ancora non posseggono un’auto e che ambirebbero acquistarla. Qualche anno prima si sarebbero accontentate di una macchina di seconda mano, per acquistare la quale avrebbero speso 2.500 euro, in contanti o a rate.

Adesso, incoraggiati dall’incentivo, decidono di acquistare una nuova. Bello, bellissimo. Solo che il Nostro Posto non solo spende 10.000 x 1000 = dieci milioni di euro, invece di 2.500.000, ma ci rimette un altro milione di euro (2500 – 1.000 x 1.000) sulla valutazione dell’usato, che i produttori hanno abbassato onde compensare la lunga dilazione di pagamento.

   

Facendo i conti, non comprando auto nuove, il Nostro Posto  avrebbe conservato nel suo grembo 8.500.000 (10 milioni pagati, meno 1,5 incassato versando la vecchia auto),  che avrebbero potuto essere destinati a produrre di più. Che, all’opposto, vanno alla Città delle auto. Ma indirettamente ne beneficia  pure la Città dei Motocoltivatori, perché, adesso, chiunque voglia zappare un orto, si rivolge  a chi lavora con il motocoltivatore per conto terzi. 

  

Si dice al mio paese: “Per i fessi, non c’è riparo”. Voglio dire che, o provvediamo a produrre da noi le modernità che servono, o ci ridurremo peggio di come stiamo. Ma per farlo ci vuole uno Stato nostro, e non quello di Bossi o di Prodi.          


Nicola Zitara
 

Ciampiche


In Emilia non c’è soltanto il Mulino Bianco, ma anche un secondo mulino, per la precisione la casa editrice il Mulino, che poi è il più prolifico degli editori italiani in materia di storia e di altre scienze umane.

In verità un editore molto serio e sempre aggiornato. Fra le tante collane c’è una che si chiama Universale Paperbacks e offre libri importanti a un prezzo accessibile alle tasche dei non ricchi. Una delle sezioni dell’Universale Paperbacks riguarda la storia. L’elenco è lungo e non intendo ricopiarlo. In testa stanno i libri di preistoria, poi quelli delle prime civiltà, in appresso la Grecia con cinque titoli.

Si passa quindi all’Italia: Etruschi, Roma con sette o otto titoli. La Magna Grecia non c’è, è scomparsa dalla storia.

Passiamo al Medioevo. C’è parecchio, quasi tutto. Per quel che concerne, però, la penisola Italiana, essa  ha perduto il Meridione. Volendo saperne qualcosa si può suggerire qualche testo riguardante la Spagna.

Segue Italia unita. E’ preferibile attingere ad altre collane dello stesso editore. Qui ci sono soltanto due libri padanisti, o suppongo tali dal nome degli autori. Anche in questo caso il Sud e la sua diversa storia sono un incognita che va riempita con l’immaginazione. Al contadin non far sapere…

***

Si graziano i signori cardinali per non aver eletto a papa il cardinale milanese Martini. Di spocchie padane, sia quelle tamarre e maleducate di Bossi e dei suoi accattoni, sia quelle arlecchinesche di Berlusca, sia quelle zuccherose di un Martini, abbiamo le tasche piene. Cattolici al Biffi? Libera nos, Domine!

*

In provincia di Napoli sono stati incriminati, per attività di tipo mafioso, un capitano e parecchi carabinieri.

Giusto, doveroso da parte del magistrato. Ma personalmente vorrei vedere prima di morire incriminato qualche bancario, per lo stesso motivo. Infatti, sebbene capisca parecchie cose, non ho ancora capito cosa facciano al Sud tutti questi sportelli bancari che ci vediamo attorno, se non incettare danaro proveniente dai traffici illeciti.

Banche, legibus et mafibus solutae!

Certo, il danaro non puzza, ma le banche sì. 

Nicola Zitara

 

Torna su

 

Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del materiale e del web@master.