L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Mafia, banche e buchi nell’acqua

di Nicola Zitara

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Siderno, 24 Dicembre 2002

Sotto l’egida dell’Amministrazione Comunale, il 29 novembre u.s., si è svolto al Centro Polifunzionale di Siderno un convegno sulle banche e l’ordine pubblico, presenti alti gradi della burocrazia ministeriale, funzionari di banca e un docente d’economia.

Altro tema, non tanto aggiuntivo, l’accesso al credito; argomento caro al presidente della Provincia di Reggio, il quale ha voluto mostrare quanto egli sia interessato a risolvere lo spinoso problema di un tasso bancario, qui, al doppio che a Milano. Ora, tutte queste questioni non stavano assieme, e nel convegno si sono accavallate senza toccarsi. Per mettere chiarezza in un pasticcio simile non basterebbe la razionalità di San Tommaso. Tutto quello che so fare è di riesaminare le problematiche una per una.

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Secondo me (l’ho scritto più volte su questo giornale), la mafia costituisce un problema d’ordine pubblico solo come alibi politico e sociale per chi ha interesse ai suoi soldi, particolarmente per chi, da Milano, sovrintende su ogni aspetto e atto della nostra vita economica. Ora, per Milano, la mafia è prima economia e poi delitto. Quanto all’economia è la benvenuta. Quanto al delitto, si fa finta che la cosa che riguardi soltanto i meridionali.

Volendo salvare il buon nome dei verginei padroni d’Italia, si è fatto in modo xdax di degradare a problema d’ordine pubblico quello che prima era considerato un problema sociale. Così Milano fa quello che vuole, l’economia nessuno la tocca, qualche mafioso va in galera, qualche altro si pente, e la faccia del sistema è salva.

L’ipocrisia regge. Le forze dell’ordine e i magistrati non possono che allinearsi, combattono la mafia, aiutano i pentiti a pentirsi e incriminano chi possono incriminare. I banchieri sono tabù per legge, e sarebbe un vero delitto quello dei magistrati e della polizia se andassero contro la legge. Tutto questo al convegno di Siderno non è stato detto, sebbene il sottofondo fosse ben noto agli uomini dell’ordine pubblico. E allora perché perdere tempo e danari per un convegno assolutamente inutile? A questa domanda risponderò alla fine dell’articolo. Dobbiamo prima considerare il lucro della mafia e il suo collegamento con la banca. Il Sud si tiene la mafia, ma a trarre frutto dai danari che arrivavano e arrivano illecitamente in Italia non è il Sud mafioso, e neppure la stessa mafia, ma le banche, e con esse le città e le regioni dove le banche hanno le loro sedi centrali e il loro cervello strategico.

Fin quando i dati relativi ai depositi e agli impieghi bancari e postali sono stati resi pubblici, il drenaggio del risparmio bancario e postale dal Sud al Nord stava sui 90 mila miliardi. Sia la Banca d’Italia, che pubblicava i dati, sia i dirigenti bancari sapevano bene che quei 90 mila miliardi di risparmio non venivano da me e neppure da voi. Chiudevano gli occhi, li utilizzavano e basta. Il danaro non ha mai puzzato. (Quanto sia attualmente il trasferimento di risparmio Sud/Nord io non lo so, ma immagino tocchi i 100 miliardi di euro). Sul finire degli Anni Settanta, Piero Bassetti, presidente della Regione Lombardia, temendo che i mafiosi, con i loro danari, sottomettessero i capitalisti milanesi, denunziò sui giornali e in televisione il massiccio afflusso di danaro dal Sud.

Essendo Bassetti un tipo fastidioso, fu mandato in pensione e i giornali e la televisione poterono smettere di occuparsi delle sue allucinazioni. Oggi un altro allucinato è il vescovo Bregantini. Questo fantasioso trentino, arrivato qui a rompere le uova nel paniere, va sostenendo che la disoccupazione alimenta gli organici mafiosi. Ma i grandi giornali che si occupano della sua opera missionaria in terra infidelium questo concetto lo omettono. Ricordano soltanto che le cooperative promosse dal Vescovo subiscono danni e distruzioni ad opera della mafia. In buona sostanza dicono solo quel che conviene al Nord: la mafia e brutta e ci vogliono i carabinieri. Insomma vale sempre la regola che il danaro non puzza. L’altro concetto di Bregantini, secondo cui, dove non c’è produzione, c’è anche disoccupazione, e che la mafia è una conseguenza della disoccupazione, i grandi giornali se lo tengono nella penna.

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Spero di tornare a parlare dell’operare della banca al Sud, perché la più grande piovra della vita meridionale non è la mafia, ma, sin dal tempo di Cavour e dell’unità nazionale, è la banca. Per evidenti motivi di spazio, qui ricordo soltanto che oggi le cose stanno in un modo molto diverso dal tempo in cui l’Ingegner Primerano tentava una generosa battaglia dalle colonne de "Il Gazzettino del Jonio". A quel tempo l’interlocutore dell’impresa meridionale era il Banco di Napoli, il quale fondava la sua forza sulle rimesse degli emigrati e su una diffusa rete locale di sportelli. Allora Banco e imprenditore si fronteggiavano senza mediazioni. La posta in palio era il rischio d’impresa, che l’imprenditore non aveva sufficiente forza per affrontare da solo e che il Banco non intendeva assumere su di sé, temendo il suo stesso fallimento. Infatti con la riforma di Mussolini del 1932/1938, il sistema creditizio italiano risultava ben oliato. Il rischio industriale non era caricato sulle banche, ma era lo stesso Stato ad accollarselo. E lo Stato, che aveva dovuto salvare (ovviamente con i soldi dei cittadini) tutte le banche padane dal fallimento, sul cui orlo erano state condotte dall’allegra finanza delle industrie padane, dall’Ansaldo alla Fiat, non aveva soldi per l’industria meridionale. Attraverso le banche locali e il Banco di Napoli il Sud faceva il suo dovere: trovava i soldi per acquistare le merci della parassitaria industria padana. Niente di più poteva fare, né gli era richiesto.

Oggi le cose stanno in un modo completamente diverso. L’enorme quantità di risparmio che si forma al Sud ha spinto le banche padane a mettere in liquidazione le vecchie banche locali e lo stesso Banco di Napoli. Di conseguenza l’impresa meridionale interloquisce direttamente con il sistema bancario padano, che ha dietro di sé la Banca d’Italia, da cui ottiene una larga ed efficiente copertura dei rischi. Ed in effetti rischia largamente. Per non parlare dei danari dati alla Fiat, senza che gli Agnelli si impegnassero con una sola firma di avallo, basterà ricordare che Tronchetti Provera ha comprato la Sip con il danaro avuto in prestito dalle banche: ufficialmente 120 mila miliardi, effettivamente Dio solo sa quanti. Quindi concetti come "il rischio Calabria" o il "rischio Sicilia" sono specchietti per le allodole, anzi delle autentiche barzellette. Il vero rischio è al Nord, dove la banca fa la banca, e non al Sud dove la banca padana viene per incettare risparmio e quel poco di danaro che investe (al Sud) in loco – una metà circa dei depositi – viene concesso a professori e pensionati previo (dietro) l’accredito dello stipendio in banca.

Ho usato l’aggettivo parassitaria rispetto all’industria padana. La cosa è alquanto evidente proprio in questi mesi, con il caso Agnelli. Se la Fiat guadagna, gli Agnelli incassano e portano all’estero gli utili; se la Fiat perde, è lo Stato (cioè i cittadini) a pagare. E'sempre stato così. I profitti e i superprofitti di guerra gli Agnelli li hanno fatti sparire per ben tre volte, la prima dopo la Prima Guerra Mondiale, la seconda dopo la Seconda Guerra Mondiale, adesso qualche tempo prima di fottere la General Motors). Ma c’è di più. Anche quando le cose vanno magnificamente, i grandi padroni non cacciano una sola lira di tasca propria. Girano e voltano, e i soldi li fanno mettere alla banca, la quale rivende le azioni ai piccoli risparmiatori. Qualche anno dopo le azioni crollano, e gli stessi padroni comprano a dieci quello che il cliente bancario aveva pagato a cento. Ora queste cose si fanno a Milano, dove c’è la borsa. Invece l’industriale, il commerciante, l’appaltatore meridionale va in banca tenendo il cappello in mano ed ha di fronte a sé dei funzionari periferici ai quali è stato detto quel che possono e quel che non possono fare. Peraltro gli imprenditori meridionali non possiedono giornali, o comunque quei giornali che fanno e disfanno i governi, come il Corriere, la Stampa, la Repubblica. E se possiedono un qualche giornale regionale, regolarmente la stampa settentrionale è patriotticamente obbligata a considerarli dei mafiosi. In questo sfascio più che coloniale, solo la Banca d’Italia potrebbe fare qualcosa. Volendo, potrebbe, per esempio, imporre al sistema bancario padano di effettuare qui le operazioni ad elevato rischio, invece che con figuri tipo gli Agnelli e compari, da cui la nazione non ha mai tratto un sia pur minimo beneficio senza doverlo pagare tre o quattro volte.

Ma neanche queste cose sono state dette. Allora qual era la ragione del convegno?

Semplice. All’ingegner Fuda serviva una passerella per dirci che aveva salvato la Provincia di Reggio Calabria, addossando all’ente provincia una parte degli interessi pagati dalle aziende. In sostanza l’ingegnere Fuda, esporto d’idraulica, ha fatto un buco nell’acqua. Invece dei calabresi reggini, pagano i reggini calabresi. Ma il Sud non ha bisogno di far buchi nell’acqua. Avrebbe, invece, bisogno di gente capace di contestare i soprusi, anche quelli degli illustri signori delle grandi banche e dai governatori della Banca d’Italia

Le banche e le finanziarie padane svolazzano sui campanili dei nostri paesini come i corvi de "La peste" di Camus. Fanno le leggi, le cambiano, le ricambiano, le ridettano, ci raccontano che siamo brutti e inaffidabili. Intanto il risparmio meridionale, frutto più della parsimonia delle famiglie che di autentica ricchezza, e parecchio di più frutto dei profitti del narcotraffico, contribuisce in modo più DECISIVO di quel che si potrebbe immaginare alla formazione del capitale d’esercizio delle banche padane, perché le banche fanno in modo che una parte di tale consistente cifra rimanga inutilizzata qui e venga utilizzata nelle regioni dominanti del paese. Peraltro la parte che rimane qui, non rimane qui per noi. Attraverso il finanziamento dei commercianti e dei privati serve all’acquisto di merci. E le merci che vengono acquistate al Sud sono al 99 per cento prodotte nel paese di Bossi. In buona sostanza il prestito che le banche fanno ai meridionali, con i risparmi degli stessi meridionali, serve a prefinanziare gli sbocchi dell’industria padana e bossista. Distrutto l’intero sistema bancario meridionale, anche i profitti bancari hanno preso una stabile residenza a Milano. Da piangere non sono soltanto i guadagni e il lavoro perduti, ma anche l’enorme perdita di competenze e professionalità. Ma il Sud è un asino cieco che porta due carichi, quello del padrone che lo ha accecato e quello del garzone che lo tira per la cavezza.

Persino le colonie africane della Francia e della Gran Bretagna erano meno intrappolate di quanto si ritrovi ad essere il Meridione dalla fosca fratellanza padana. E la cosa più divertente è che il maggior artefice della distruzione del sistema bancario meridionale è stato proprio quel Ciampi che lacrima alle note dell’Inno di Mameli.

Insomma, un fiume di parole dette per dovere d’ufficio, un politico che, invece di contrastare lo sfruttamento, pesta acqua nel mortaio; per chi scrive una mattinata perduta e pure un’incazzatura. Insomma tanto rumor per nulla. L’unico a dire qualcosa di serio è stato il professor Daniele, con le sue statistiche comunali e provinciali. Ma si tratta di nozioni che, ai politici meridionali e ai loro attaché, da un orecchio entrano e dall’altro escono.

 

Nicola Zitara

 

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