L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


Articoli di Nicola Zitara pervenuti il 7 marzo 2006



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Siderno, 7 marzo 2006

Circa i prezzi

Martedì, 1 Marzo 2006.  Una trasmissione, si deve dire, completamente disinformativa di Ballarò, la rubrica settimanale di Rai3, nel corso della quale si confrontano la Sinistra, padrona di casa, e la Destra governativa in stato di imputato politico. Tema del giorno, il carovita. La Sinistra ha sostenuto che del guaio è colpevole il governo, il quale ha lasciato che si arricchisse chi poteva, e che tutti gli altri s’impoverissero.


La Destra ha cercato di glissare sull’argomento, imputando la responsabilità  alla malfatta adozione dell’euro. Il quale euro, invece, a detta della Sinistra, sarebbe  l’unico baluardo disponibile contro un prevedibile e  sconvolgente aumento dei tassi d’interesse che lo stato italiano paga su un debito pubblico di 1.300 miliardi di euro, più del Pil  annuo nazionale.


Si dà il caso, tutt’altro che strano, che tanto la Sinistra quanto la Destra siano fortemente reticenti sulla verità. La quale verità, elettoralisticamente, non gioverebbe a chi ha voluto l’euro e neppure a chi trae profitto dalla situazione creatasi con l’euro.


Qualunque studentello di ragioneria sa che tra i prezzi delle merci (e dei servizi) e la quantità di moneta in circolazione (oro o carta, non importa)  esiste una connessione immediata.  (L’equazione del valore della moneta è complicata dalla velocità con cui essa circola in un dato luogo, ma il fatto è ininfluente rispetto al nostro discorso).


Se i prezzi aumentano, non v’è dubbio alcuno che in circolazione esiste una quantità di moneta maggiore del giorno prima. Dal 1940 al 1945, il prezzo del pane passò da una lira a 35 lire. Lo stato stampava carta per affrontare le spese di guerra, i beni disponibili diminuivano, i prezzi salivano.


Al contrario se la quantità di moneta in circolazione diminuisce, sicuramente i prezzi prenderanno a diminuire.


I fatti dicono che la quantità di euro entrata in circolazione, con il cambio delle singole vecchie monete, è maggiore della somma di tutte le merci (e servizi) che le vecchie monete acquistavano.


L’equazione era squilibrata. E non è stato un errore, ma una precisa scelta del banchiere centrale, il quale, piazzatosi nel bel mezzo della scena economica europea, ha voluto un tasso di sconto basso, rispetto a quello praticato dalle vecchie banche centrali d’Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, etc., affinché coincidesse con quello tedesco.


Un tasso di sconto basso  (cioè l’interesse che la banca d’emissione fa pagare alle banche commerciali che si riforniscono di banconote presso da lei) agevola gli imprenditori, i quali vengono stimolati a operare. Infatti, indebitarsi con le banche non costa molto. Nella fase reaganiana del capitalismo, ciò portò a un considerevole sviluppo della produzione, e non solo in America. Ma in economia, ciò che è vero oggi, domani potrebbe essere falso.


Ora, bisogna dire che la Banca d’emissione europea ha commesso un altro gravissimo errore di valutazione, abbassando in modo generalizzato il costo del danaro. Ciò ha provocato un notevole aumento della circolazione e dappertutto un aumento dei prezzi. L’errore più visibile e più rovinoso si è verificato in Italia, e per una ragione precisa.


Negli anni ’90, il passaggio delle grandi banche dalla proprietà dello  stato  a quella dei privati è stato accompagnato dall’abolizione dell’obbligo di tenere una riserva. Cioè tutto il capitale disponibile di una banca (il capitale proprio più i depositi dei risparmiatori, più il danaro preso in prestito dalla banca centrale) è divenuto mutuabile. Anzi la nuova legge bancaria prevede una percentuale di danaro prestabile superiore al capitale disponibile.


In teoria, niente di male in questo. Anzi bene. Solo che in Italia stava avvenendo qualcosa che altrove non avveniva. Cioè il passaggio delle banche e di un’infinità di altre aziende dal patrimonio dello stato al patrimonio dei privati.


Chi comprava si faceva dare in prestito i soldi dalla banche. Da una parte lo stato quasi regalava ciò che possedeva, dall’altra le banche pagavano le proprie privatizzazioni prendendo in prestito danaro fresco a basso prezzo dalla banca centrale. E potevano offrire anche aperture di credito a basso prezzo.


Ovviamente, chi  prende in prestito dei soldi per aprire una bottega d’ortolano, sul prezzo dei pomodori carica non solo il costo del prodotto, ma anche l’affitto del locale, le tasse e molte altre cose, fra cui l’interesse sui mutui bancari. Solo per fare un esempio, Tronchetti Provera, che ha avuto in prestito tra i 200 e i 300 mila miliardi di ex lire per comprare Telecom, sul prezzo della bolletta bimestrale ci fa pagare  anche i suoi interessi passivi.


E badate. E’ anche colui che si sta comportando più onestamente di tanti altri. Insomma, in Italia, gli euro offerti dalla Banca UE non sono andati alla produzione, come in Irlanda e in Spagna, ma alla speculazione, su cui si raccontano infinite favole ma  che, per la verità,  non produce niente. Soltanto prende soldi dalle tasche di tutti e li drena nelle proprie.  


Tutto qui. Ed è anche facile da spiegare. Quando facevo l’insegnate, i ragazzini di sedici anni capivano il meccanismo. Chissà perché, poi, riesce così difficile a ministri, deputati e giornalisti?

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Votocrazia

Una malattia oscura pervade l’animo dei meridionali sin dalla nascita dello Stato italiano.  Si chiama notabilato. Il termine  fu coniato più di cento anni fa, per indicare il risvolto locale del trasformismo parlamentare. Il notabile – per esempio il geracese l’on. Scaglione o il sidernese l’on. Albanese – controllava, attraverso le sue amicizie e i favori che riusciva a fare, gli elettori.


Una volta in parlamento, si schierava con la compagine politica che stava al governo o che aspirava ad averlo, per ottenere a sua volta favori per i suoi elettori e per i comuni del suo collegio. Politica zero. Più chiaramente, era la vanità personale e familiare a diventare politica.


Infatti, agli eletti del popolo, di soldi del governo, a quel tempo,  non ne arrivavano. Non esisteva ancora l’indennità parlamentare e la maggior parte degli onorevoli si sfasciava un patrimonio solamente  “per vanità”, tale e quale il capotribù di Veblen, che ingrassa per far vedere che ha più cibo degli altri. 


In termini di bilancio Sud/Nord, a quel tempo la Padana utilizzava le rimesse degli emigrati meridionali per industrializzarsi. Ai nostri avi lasciava il piacere e la consolazione di “appartenere” al partito di Mileto  o a quello di Albanese; indubbiamente persone degnissime, ma iscritte nei ranghi d’Italia-una e indivisibile come graduati delle truppe di colore.     


Qualcosa di peggio si è avuta dopo la caduta del fascismo, specialmente nel Sud. Il gioco è stato ancora una volta diretto da quella parte della Padana che aveva voluto e prodotto l’unità politica e che adesso si autoproclamava fortemente repubblicana, antifascista e resistenziale.


Le regioni forti – Toscana, Emilia, Lombardia, Liguria, Piemonte, più Trieste e il Friuli – hanno portato avanti i loro programmi particolari – o meglio i progetti della concentrazione capitalistica egemone – creando intorno a sé non solo una  maggioranza parlamentare, ma anche un consenso ideologico, che al Sud altro non è se non retorica.


In questo gioco delle parti, alle partitiche e resistenziali code meridionali dei partiti nazionali è stato assegnato il compito di portare in parlamento uomini disciplinati e obbedienti alle direzioni nazionali; i quali uomini, sicuramente antifascisti, democrtico-resistenti e costituzional-repubblicani, per effetto di osmosi politica, diventavano i notabili politici di un dato collegio.


L’elettoralismo del partito padano ha generato al Sud una spirale politica perversa. Il sistema ricatta i migliori, mettendoli a gareggiare con mezze calzette dotate di un seguito clientelare. La cospicua indennità parlamentare fa il resto. Lo stesso strapotere mafioso galleggia su questo mare inquinato.

Per fortuna, su questo orizzonte pumbleo s’innalza festoso di patriottici inni l’italico tricolore del presidente Ciampi.


Chiedo scusa per questo mio fare il Grillo Parlante. Lo so, una cosa è dire, cosa ben diversa è mangiare. Prima vivere, e soltanto dopo pensare alle disquisizioni filosofiche. O no? 

Comunque, adesso è tutto in ordine. Il nuovo governatore della Banca d’Italia ha studiato con Modigliani. E quale mai trincea migliore a difesa dal comunismo?


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Torino, gloriosa spugna d’Italia

Torino era in crisi almeno per la seconda volta da quando spedì i contadini piemontesi in divisa da bersagliere, con fanfare e  tricolore a impadronirsi dell’intera Italia. Conseguente le volte che si è rivolta gli altri italiani per “alleggerirli” sono almeno tre.


Superato lo scoglio di dover pagare le ferrovie ai Rothschild, mercé la beneficenza degli italiani, la successiva crisi si ebbe al tempo di Umberto I, cioè all’ultimo ventennio dell’800. Il cretino d’Italia - tale fu infatti universalmente giudicato questo re, detto altrimenti “buono”, come dire un buonuomo, oltreché ampiamente cornuto - amava tuttavia la sua città natale, ed essendo per caso re volle che la  Torino che andava spegnendosi nel confronto con Roma e Milano, tornasse la capitale di qualcosa.


Al di là delle bugie che si dicono, il re costrinse governanti e banchieri a impiantare la Fiat e a fare di Torino la città della metalmeccanica. La retorica sabauda, fascista, resistenziale e comunista  pretende che Torino fosse anche una città operosa, una città tecnologica. In verità, in qualche modo lo è diventata, ma solo da quando è popolata da una maggioranza di campagnoli emigrati; una maggioranza di cui i figli dei contadini meridionali sono la maggioranza.


Caduto il fascismo, il senatore fascista Giovanni Agnelli, beneficiario nel 1929 di un presente di 800 milioni (quando un chilo di pane costava 18 soldi, novanta centesimi) da parte del Duce del fascismo, e il suo luogotenente, ragionier Vittorio Valletta, furono spediti in galera dai partigiani comunisti. Intervenne immediatamente la direzione del Partito comunista, che li fece liberare.


Non basta, democristiani, socialisti e comunisti aderirono entusiasticamente alla richiesta della Fiat di regalare a lei i due milioni di dollari (in quel momento un chilo di pane costava 5 centesimi di dollaro) che l’America regalava all’Italia. Li regalava  in compenso del fatto che nel Sud e a Roma i soldati americani avevano messo in circolazione tra il 1943 (anno dello sbarco in Sicilia) e il 1945 (anno della fine della guerra e del ritiro degli alleati) la stessa cifra in lire di occupazione.


Tra il 1961 e il 1963, il ragionier Valletta (il vecchio senatore Agnelli era morto da tempo e ora alla Fiat comandava lui, non fidandosi gli altri eredi di quello scialacquone e femminiere di Gianni) corruppe non solo tutti i giornalisti d’Italia, a partire da Monatnelli, ma anche i giornalisti francesi, inglesi  e tedeschi affinché dissuadessero il governo dall’idea di industrializzare il Mezzogiorno.


Morto anche Valletta, il potere in Fiat passò a Gianni Agnelli, nipote del senatore Giovanni. Questo garbatissimo signore, volendo impiantare una sua fabbrica in Spagna, fece in modo che le arance spagnole mettessero fuori combattimento le arance siciliane.


Avviata la Comunità Europea, il presidente del consiglio dei ministri, Emilio Colombo, illustre rinnegato di Potenza, tutte le volte che andava in aereo a Bruxelles per contrattare a favore degli interessi italiani, faceva scalo a Torino per prendere ordini da Gianni.


La Fiat s’è mangiata e continua a mangiarsi l’Italia intera. Dal 1900 ad oggi è andata avanti tra grandi successi e crisi fallimentari. Se vogliamo chiederci se si tratta di inefficienza o di altro, la risposta è che si tratta di altro. E’ immancabilmente accaduto, infatti, che i lucri derivanti dal successo industriale venissero imboscati. Accadde così dopo la Prima Guerra Mondiale, accadde così durante la  Seconda Guerra Mondiale, è accaduto così una quindicina d’anni fa.


Adesso, a mangiare non è soltanto la Fiat, ma tutta Torino e mezzo Piemonte. Noi paghiamo commerciando droga e i piemontesi regalano al mondo le Olimpiadi della neve. Ovviamente incassando dell’ottima valuta estera, che sarà impiegata per sostenere le spese necessarie alla dislocazione delle industrie nei paesi a basi salari.


Dice il proverbio: “Signore, aiuta il provveduto, perché il povero ha già imparato” (sottinteso come si vive in penuria).


LA PECE DEL BASENTO

Siamo felici di sentire che in alcuni centri della Valle del Basento, durante una delle notti scorse, sono state coperte di pece le targhe stradali di Via Alfonso Lamarmora, Enrico Cialdini e Raffaele Cadorna.

 

Gli sbandieratori del tricolore saranno sicuramente in lutto. Ma si asciughino pure le lacrime. Il patriottico fottisterio del Sud, con o senza l’avallo degli autonomisti sicul-bossisti, è ben lontano dal vedere la fine.  






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