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Due Sicilie
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Calabria: estendere il bosco

di Nicola Zitara

Siderno, 16 Luglio 2007

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Negli anni successivi alla guerra, la Calabria interna si presentava come una landa lunare. L’Aspromonte, le Serre, il Reventino, la Catena Paolana, la Sila, il Pollino erano simili a quelle montagne coperte da aridi cespugli che si vedono nei film western. Durante la guerra il bosco era stato la facile e indifesa preda della cantieristica militare o militarizzata. 

Il saccheggio dell’età romana, quello non meno devastante dell’età medievale per approvvigionarsi di legna da ardere e di materiali da costruzione da parte delle ricche Signorie e Repubbliche del Centronord, e poi ancora in età recente il taglio indiscriminato degli alberi più antichi per produrre traversine ferroviarie, si è ripetuto settanta anni fa, con l’avvallo di una patriottica cecità. 

Nel 1943, il manto boschivo era praticamente distrutto. Faggi, abeti, castagni, larici, lecci, pioppi erano stati rasi al suolo. Attraversando quei luoghi, il viaggiare raramente vedeva svettare una cima, o incontrava un ramo pronubo d’ombra, a ristoro della calura. Solo presso gli abitati più importanti era sopravvissuta una plaga boschiva. 

Nei lunghi vuoti di casolari, tra una cittadina e l’altra, dominava (e offendeva l’immaginario) il bruno della terra nuda o un interminabile mare di felci. Eccezionalmente, qua e là, lontani a volte chilometri l’uno dall’altro, s’incontravano dei boschetti di cento, centocinquanta pini o faggi, che, d’estate, davano l’idea dell’oasi nel deserto, e d’inverno offrivano una macchia di colore a fare contrasto con il candore desolante della coltre nevosa.

Dieci o dodici anni dopo, la Calabria montana era verde, e non posso dire nuovamente verde, perché la mia generazione non l’aveva vista verde prima d’allora. Era stato rimboscato quasi mezzo milione di ettari, un terzo di tutto il territorio calabrese era stato riportato a nuova vita. 

Il merito della titanica opera fu in primo luogo dello Stato, che la progettò e la finanziò. A quel tempo il prodotto meridionale non era insignificante per il bilancio nazionale come adesso. Meriti ancora maggiori vanno riconosciuti al Corpo Forestale, che condusse in porto l’opera, sia applicando direttamente i suoi uomini sia dirigendo il lavoro degli avventizi. 

Erano, gli uomini del Corpo Forestale, quasi tutti forestieri: Trentini, Abruzzesi, delle aree appenniniche tra Emilia e Toscana, Lucani. La Calabria, pervicacemente immemore del passato e rozzamente incline a essere poco riconoscente, li ha dimenticati. Peccato, perché il bosco non attiene al conto profitti e perdite annuale, ma alla struttura fisica, ambientale e antropologica della nostra regione, la quale è fatta per più di otto decimi di montagne e colline!

L’opera di rimboschimento si concluse a metà degli anni Sessanta. L’attuale e costosa attività boschiva ha, in astratto, il carattere della mera manutenzione e in pratica quello di una spesa con fini sociali e politici.

Riaprire il discorso del bosco e della sua estensione è un’esigenza che viene dall’esterno, dalla globalizzazione dei mercati. Con l’ingresso dei paesi ex arretrati nella produzione industriale, l’idea del vecchio e consunto meridionalismo, sia di destra che di sinistra, circa un Sud che viene avviato all’industrializzazione dall’intervento dello Stato, o per effetto dell’iniziativa privata, è praticamente archiviata, o comunque da archiviare. 

E’ ormai chiaro che in Italia - semmai nei prossimi decenni ci sarà una crescita del prodotto industriale - essa dovrà tamponare il declino in atto, e quello prevedibile per l’avvenire, della regioni egemoni (fra le quali, per altro, è in svolgimento una forte contesa per il controllo delle risorse nazionali). 

Né si può dare assegnamento di serietà all’idea di una crescita della produzione agraria secondo le vocazioni tradizionali. Nell’Europa unita la sola agricoltura passibile di crescita è quella assistita dall’erario in modo diretto e visibile, o in modo trasversale e invisibile. Le produzioni mediterranee non sono nel paniere benedetto a Bruxelles e immaginare che possano entrarci è o un errore o una mistificazione. 

D’altra parte sta cambiando il clima. L’ulivo e la vite corrono seri pericoli; gli agrumi, che reggerebbero, sempre che ci sia acqua d’irrigazione, non sono remunerativi da tempo. In questo specifico settore reggono soltanto Israele, in virtù degli aiuti finanziari che arrivano dagli Usa, e i paesi n cui i salari sono bassi, o ancora bassi, come in Spagna. 

Resterebbero le colture ortaggere, come la Sicilia e la Puglia mostrano, ma il settore degli ortaggi e della frutta è devastato dal controllo monopolistico della mediazione commerciale. 

Il profitto agrario non va agli agricoltori, sempre più in crisi, ma ai tre o quattro grandi magazzini generali che intercettano le produzioni e al sistema bancario che ci inzuppa il pane e anche le brioches. 

D’atra parte, le tornite (e faticate) frasi del giornalista sono un di più. Infatti basta guardarsi attorno per rendersi conto che i fondi più vasti sono abbandonati alle erbacce, e i piccoli orti familiari, quelle volte che appaiono coltivati, sono un utile e dignitoso modo di impiegare il tempo libero e di dare alla famiglia un prodotto tradizionale e genuino. Forse un passatempo che non attrarrà in avvenire le generazioni formatesi nel mondo urbano.

In materia non abbiamo censimenti e dati numerici, ma si può affermare con sicurezza che la gran parte della collina non ulivetata resta incolta. Anzi è incolta ormai da decenni. Su questi terreni, tecnicamente, economicamente, ambientalisticamente (e turisticamente) sarebbe doveroso estendere il bosco, particolarmente il querceto. Il turismo del livello ‘piccola produzione mercantile’ è quello che porta veramente soldi, solide affezioni, rispetto della persona, franco riconoscimento della cultura altrui. Da non dimenticare, poi, è ( sarebbe) la ricostituzione della macchia mediterranea, che era vitale ancora una sessantina d’anni fa.

Meno agevole è il discorso giuridico, o meglio proprietario. E non perché manchi un sistema di norme, ché anzi esso è antico e collaudato da almeno due secoli di esperienze legislative, ma perché viviamo fra i trionfalismi individual-privatistici in tutto e per tutto, chi possiede qualcosa vuole il massimo del guadagno e in subiti contanti. Comunque, le basi istituzionali esistono, la volontà politica di rianimarle è tutto. La difficoltà è culturale, ambientale, per impiegare un termine prediletto da Di Pietro quando faceva parte del pool di Mani Pulite.

Ripeto un vecchio ritornello: il bosco accumula acqua piovana e la ridistribuisce, aiuta l’ascesa dell’umidità verso l’alto e le precipitazioni; regola il corso dei torrenti, ossigena l’aria, rende bella la terra che abitiamo. 

Forse produce altri benefici che un profano in materia non ricorda. A tutto ciò si può aggiungere che al tempo degli Italici (e dei primi Greci), e poi in appresso in età ellenica e magnogreca, comunque prima della devastazione romana del bosco, gli attuali torrenti rovinosi erano fiumi navigabili almeno in prossimità della foce.






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