L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
  Eleaml


Dio guardi

di Nicola Zitara

Siderno, 19 Maggio 2007

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Il 22 aprile del 1838, un martedì dell’Angelo, sin dall’alba il Castello di Pizzo s’era imbandierato di festoni d’ogni colore, sul pennone più alto era stata innalzata l’insegna reale. Colonnelli, generali, alti dignitari, frammisti a funzionari regi e a nobili in calze bianche e scarpini di corte, si affollavano sullo spalto della torre più alta, nonostante che violente raffiche di vento viaggiassero sul mare per abbattersi sulla costa. Sulla poca spiaggia della Marina, tenuta lontana dal Pennello ad opera di un centinaio di Real Cacciatori di Calabria in palandrana rossa, brache bianche e chepì peloso, si accalcava un’enorme folla di sudditi di ogni classe, venuti d’ogni dove, da Maida,, Sambiase, Monteleone, Mileto, Tropea, e fin da Cardinale, Squillace, Serra, Stilo, Grotteria, Jeraci, Radicena. a vedere l’arrivo del re. Provenienti da Gioia, da Bagnara, da Reggio, da Amantea, da Paola, avevano passato la notte in mare centinaia e centinaia di persone, e adesso la rada era piena dei loro schifi, paranze e tarane.. Le campane delle cinque chiese suonavano a stormo.

“U povero re, u patri nostru, che rimase vedovo, appena si spusau ca povera santa”.

Gente povera, vestita di cotonaccio, qualcuno con un gilè di pelle caprina, maddamme con la saja nera, maddamme con la saja a colori vivaci, massari con la giacca di lana, signore con la gonna, il corpetto e lo scialle di seta. Cappelli e coppole. Vertole a tracolla, con pane e formaggio. Gli asini, i muli, i buoi, i cavalli, abbandonati nelle vineie accanto ai muri delle catapecchie più povere e ai palazzi dei signori, le stavano abbondantemente concimando e irrorando.

I balconi dei palazzi sullo Spuntone erano adorni di preziosi damaschi. Gentiluomini in marsina e signore in decolté vi si affollavano in tal misura che l’eventuale crollo di qualche struttura non avrebbe sorpreso nessuno.

In alto al castello, gli ufficiali di marina, muniti di potenti cannocchiali e favoriti dal sole alle spalle, scrutavano l’orizzonte verso Nordovest, che al tempo la Real Marina si chiamava ancora Maestrale. Benché fosse già primavera, il vento freddo faceva rabbrividire i convenuti; i più anziani rischiavano di beccarsi una polmonite; a quel tempo un bel ragionamento con i santi del Paradiso e la grazia della Madonna. I duchi e i conti più titolati e più introdotti alla corte di Napoli, assieme ai vescovi di Mileto, Catanzaro, Stilo, Gerace e agli abati lì convenuti, se ne stavano al riparo, proletariamente seduti sugli affusti dei cannoni nella batteria superiore, quella che ospitava i cannoni a minore gittata. A stare in terrazza, esposti alle raffiche del maestrale, c’erano i loro servitori più svegli e intelligenti, che sarebbero corsi ad avvertirti quando fosse giunto il fatidico momento.

Verso le dieci, un fil di fumo si profilò all’orizzonte. Butterfly era ancora in fasce, così al momento non ci furono suicidi, anzi tutte le gole esplosero un solo urlo di felicità: ‘O Rre!

Con le sue quattro ciminiere, i tre alberi protesi verso il cielo, due enormi ruote sulle fiancate, il Real Ferdinado si avvicinò velocemente, seguito da tre pirofregate. La rada venne inondata di fumo nero. La gente era felice di quella regia dimostrazione di potenza e modernità. Allorché la flotta fu a mezzo miglio dalla costa, le batterie presero a sparare a turno ventun colpi di cannone. Spararono tante 21 salve che, se Garibaldi fosse capitato da quelle parti vent’anni prima, avrebbe rimesso la prua a Nord e sarebbe tornato speditamente dalle parti di Genova, onde salvare la pellaccia e il suo guardaroba di camicie rosse.

Giunte a duecento metri dalla riva, le regie navi accostarono e buttarono l’ancora. Dopodiché anch’esse presero a sparare salve di saluto. Sembrava l’inferno. Pareva che l’intera Calabria stesse per saltare il aria. Tra una cannonata e l’altra, una selva di scialuppe fu calata in mare. Sulla più grande prese posto il re, grande anche lui, sia di statura che di circonferenza. Giovane e vigoroso, rimase in piedi per l’intero percorso. Quando i suoi stivali posarono la suola a terra, molti dignitari s’inginocchiarono, altri si curvarono tanto, che sarebbero stati più comodi in ginocchio. Regalmente, Ferdinando porse la mano destra al bacio dei più vicini. Gli altri li liquidò con un gesto quasi di benedizione. Salutò i vescovi con cortesia e strinse la mano al generale Nunziante.

Le sciabole sguainate del reggimento schierato gli indicavano la via da percorrere, ma Ferdinando deluse il cerimoniale. Preso sotto braccio Nunziante, si diresse verso i Cacciatori, che trattenevano la folla. Oltre la barriera delle baionette, un poveraccio, stupito, fu il primo a inginocchiarsi. “Sacra Maestà…!” Gli altri seguirono. “Tu non eri nei dragoni?… Aspetta, comme ti chiami?… Ah sì, Peppino, Peppinielllo ‘e Sciavonea… E comm’è che stai qua, a Pizzo?”

Ferdinando passò un’ora con il suo buon popolo di Calabria. “Dei calabrisi mi fido”, soleva dire. Poi, mentre tornava sulla via pretesa dal protocollo, chiese a Nunziante: “E vui, Generale, che state qui di guarnigione, che ne pensate del nuovo forno? Trecentomila ducati abbiamo sborsato.”

“Vista Maestà, è la gloria di Vostra Maestà!”

“Generà, io da gloria me ne fotto…Io volevo sapere da voi, che siete un competente, dei cannoni e dei fucili…”

“Vostra Maestà, l’ingegner Hardy è quanto di meglio c’è al mondo… Canne perfette, acciaio che regge a ogni temperatura…Ogni canna viene collaudata…”

“E mo’, fammi a capì, quanta è luntana sta Mungiana? Tu ‘u sai che mo i nobili mi attaccheranno. Mi faranno penare la strada…Chi a vole janca, chi a vole nira. Chi non vuole pagare le tasse e chi vuole il figlio sistemato…E il vescovo…sto jettatore…con quel cacone del nipote, che vole promosso a colonnello ”

“Vostra Maestà, Dio guardi, ha toccato ferro?”

“Ai Nunzià, mi sorprendete. Io so nato in Sicilia….”







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