L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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'O sorece morto

recensione di Carlo Beneduci

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Vibo Valentia, 11.03.05

Il romanzo ‘O sorece morto è raccontato da un uomo ormai anziano che con una lunga analessi s’immerge nel tempo e legge la propria piccola storia all’interno di una grande storia, quella dinastica della sua famiglia, legata ai destini nazionali e sovranazionali. Romanzo di respiro europeo, dunque, se consideriamo che i fatti, svolti nel Mezzogiorno, sono dipesi stricto sensu dalle grandi scelte o non scelte politiche ed economiche italiane ed europee.

Considerando le memorie dinastiche, il narratore-protagonista Paolino abbraccia con la sua narrazione un arco temporale vastissimo: dai primi dell’Ottocento, in cui operò il suo bisnonno, Padron Gioacchino Alfano, fino ai giorni nostri. Quasi due secoli. Paolino rivisita  con affettuosa inquietudine e civico rammarico la storia della sua dinastia da Padron Gioacchino, appunto, che inaugura un’esaltante stagione di vita produttiva a Paolino stesso, che eredita l’esoscheletro del fallimento dinastico. Questo coincide col fallimento della grande storia del Mezzogiorno. Potrebbero farle da epigrafe le parole di Genso, padre di Paolino, là dove afferma: “Abbiamo cancellato la nostra storia e abbiamo adottato quella degli altri.”

La piccola storia è quella dei numerosi personaggi che si affollano intorno a Paolino ragazzo, giovane e infine anziano. Storia piccola questa, non solo per la breve durata rispetto all’altra, ma perché vissuta su un palcoscenico dalla scenografia amara, scolorita, dagli orizzonti ristretti, da interno, perciò incapace di sogni, capace di incubi, come quello finale della nutella. La nutella, appunto, delimita e separa simbolicamente due mondi, due nazioni, due civiltà, due identità, due storie. Solo l’amore di Paolino e Vitulia, quasi romanzo nel romanzo, iniziazione alla maturità, ha toni delicati e romantici sullo sfondo accidentato della guerra e l’apparente solitudine dell’Appennino calabro. Ma alla fine segna anch’esso il declino e la diaspora, il torpore.

 
‘O sorece morto
è in ordine di tempo il secondo romanzo di Nicola Zitara. Il primo è Memorie di quand’ero italiano, del 1994. Lo ricordo perché credo che non si possa avere un’idea completa del romanzo ‘O sorece morto se non lo si mette in relazione col primo, di cui è completamento, meglio, chiarimento. In Memorie di quand’ero italiano gioca a tutto campo la memoria a impulsi.

L’autobiografismo è quasi esplicito, seppure riservato a chi ha qualche familiarità con il suo Autore. La conclusione è una scrittura largamente segnata dalla protesta sociale, economica, istituzionale. In quest’ultimo romanzo, ‘O sorece morto, l’io narrante è ugualmente interno, ma l’invenzione romanza la storia e le dà un senso compiuto, che alla fine scopro sorprendente, nuovo, originale (ma su questo è doveroso insistere in seguito). Nicola Zitara, utilizzando qui con convinzione la categoria jakobsiana dello straniamento, ripensa con un flash-back lungo quanto tutto il romanzo la storia degli Alfano,  sullo sfondo del tramonto definitivo dell’indipendenza del Mezzogiorno, e la rappresenta con elegante distacco, la giudica con mente severa ma anche serena, come non aveva fatto sinora.

I termini estremi di tale visione rinnovata sono simbolicamente due, a mio avviso: padron Gioacchino in positivo e la nutella in negativo. L’uno predica dell’altra, s’intende, e a far da copula, da termine transitivo è padron Paolo, il nonno del protagonista Paolino, dell’io narrante.

Ma non si può capire cosa simboleggia padron Gioacchino se non si parte da una visione sintetica  della nascita e della fine di un regno, quello borbonico, della nascita e della fine di un’idea di nazione, quella napoletana. Più segni mi autorizzano a supporre che Nicola Zitara abbia pensato il suo romanzo in quest’ottica e due punti fermi in particolare: Padron Gioacchino, per l’appunto, e la nutella.

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Padron Gioacchino, dunque, ha fatto fortuna, come altri imprenditori fioriti a partire dalla seconda metà del Settecento (dall’avvento di Carlo III di Borbone al trono di Napoli in poi, nonostante i Ferdinando e i Francesco), ovvero dalla costituzione della nazione napoletana. Al tempo di Gioacchino, fine Settecento primi anni dell’Ottocento, già diverse generazioni si sono lasciate alle spalle gli ex-sudditi del vicereame spagnolo, anzi della colonia spagnola di Napoli (vedi studi del Coniglio e di Rosario Villari). Alla fine del Settecento il Regno di Napoli ha messo radici come potenza indipendente, autonoma, con un grande potenziale da sviluppare; si connotava come nazione in gara con il resto d’Europa e perciò, nella persistente generale instabilità delle monarchie assolute, tra di loro unite e sempre in guerra per i numerosi vincoli dinastici, come regno da predare alla prima occasione.

Caratteri determinanti della giovane nazione erano, oltre all’indipendenza, l’autonomia culturale, che aveva come antesignano Vico e come degni alfieri i suoi alunni: Genovesi, Pagano, Filangieri, per finire a Grimaldi e a Galluppi. Per non parlare dell’autonomia agricola, mineraria, energetica, della potenza artigianale e manifatturiera, che si avviava ad essere preindustriale, della potenza militare e soprattutto marinara.

Considerate le vaste contraddizioni di fondo rappresentate da un lato dal pensiero illuministico e progressista-liberale o modernista di un Genovesi o del suo allievo, il Pagano, che prospettava la necessità di una costituzione liberale o del Filangieri che reclamava la fine del feudalesimo e dall’altro lato dalle contraddizioni rappresentate dalla miope politica borbonica di conservazione dei propri privilegi istituzionali, ecco individuato il nodo a cui risalire per capire il fallimento della giovane nazione napoletana. Sono state queste forze contrarie, apparentemente inconciliabili, a minare la coscienza dell’unità della patria e a far credere alla borghesia che la soluzione piemontese fosse vincente o ininfluente sulle sorti di intere dinastie mercantili.

Alla patria napoletana, per l’appunto, accenna l’Autore nel passo (pag. 20) in cui racconta l’inizio delle fortune degli Alfano e ricorda la regina Maria Cristina di Savoia “venuta nella ridente Napoli dall’accidioso Piemonte, a partorire l’indeciso re della nostra ultima indipendenza nazionale.”

È in  tale contesto “patriottico” che padron Gioacchino può coltivare i suoi affari e sviluppare il suo vincente acume socio-economico, sollecitato da uno spirito (mi si consenta l’uso di una categoria astratta, ma pregnante, visto che l’intendo come volontà generale) pionieristico, comune a chi sa di vivere una nuova stagione della storia. Ed è il trono stesso che se ne fa mallevadore, finché i suoi interessi non verranno a confliggere con i bisogni di più ampia e libera rappresentanza istituzionale. Un po’ quel che era avvenuto contro Giacomo II nell’Inghilterra di fine Seicento e della cosiddetta “Rivoluzione Gloriosa” e incruenta che, attraverso l’alleanza della borghesia con la nobiltà terriera, disse definitivamente no al potere assoluto, sì al libero parlamento e alla separazione dei poteri teorizzata da John Locke, permettendo a quella nazione di divenire la prima potenza commerciale e capitalistica del mondo.

Come dire che più si allargano i commerci e le industrie ad opera degli imprenditori, più aumenta la necessità che le leggi si pieghino al fervore del nuovo ed assecondino in modo equilibrato i nuovi bisogni della borghesia e del popolo. C’è da credere al nostro Autore: Napoli al tempo di Padron Gioacchino è capitale finanziaria ed è intrisa di una cultura superiore e peculiare, la napoletanità, alla cui fonte a pochi privilegiati era dato dissetarsi. Il protagonista del nostro romanzo, Paolino, chiede a suo padre di indicargli quella fonte. Gli viene risposto molto semplicemente: “A Napoli si parla … la parola è la superiore manifestazione della napoletanità.” E in effetti i mondi della politica e degli affari avevano in comune la nobile e gratificante arte della persuasione a mezzo della dialettica, con tutte le astuzie ch’essa può mettere in gioco, per vincere pacificamente le proprie battaglie.

Purtroppo la stagione di tale esaltante nazionalismo non è stata sufficientemente lunga da permettere un più solido radicamento. Sicché la patria napoletana era ancora fragile quando subì i primi colpi disgregatori a causa dell’invasione francese (la guerra intestina alimentata dalla reazione sanfedista non fece che accentuarne i limiti) e poi esplose definitivamente con la Spedizione dei Mille.

Chi doveva e poteva difendere la nazione non lo fece e l’anello più debole della catena si dimostrò ancora una volta la Sicilia che, pervasa da uno spirito di gelosia e di emulazione rispetto a Napoli, conservava intera la tronfia mania di grandezza della nobiltà di origine normanna, sveva e aragonese. Ed è a questo punto che il romanzo mostra il suo primo importante chiarimento rispetto a Memorie di quand’ero italiano. Chiarimento che sorprende perchè mostra un progresso sostanziale nella posizione ideale di Nicola Zitara. Allorché legge il testamento del nonno, Paolino si rende definitivamente conto che il fallimento degli Alfano come imprenditori e banchieri è seguito all’Unità d’Italia e al protezionismo doganale voluto dai banchieri settentrionali, protezionismo che frenò l’esportazione in Francia dell’olio e del vino prodotti nel napoletano.

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La discesa vertiginosa dei prezzi impoverì il Mezzogiorno e alla fine l’emissione di carta moneta falsa da parte dei genovesi portò anche al fallimento della Banca Agricola di Sconto degli Alfano. Il fatto che nel testamento il nonno di Paolino giustifichi così il fallimento, come in nessun libro di storia è raccontato, fa montare la disapprovazione, meglio il disprezzo, da parte di Paolino. Educato alla scuola del pensiero unico di ascendenza cavouriana egli non può credere che il nonno sia nel vero ed allora paragona l’avo ad un sorcio morto, morto in un buco. Attenzione alla metafora del buco, per cui l’incredulità di Paolino è solo apparente, in realtà è ironia pura.

Due idee gli appartengono, chiarissime. La prima: lo stato italiano ha avallato i falsari. La seconda è sottintesa nel disprezzo con cui giudica il nonno, suo padre e zio Generoso: “Voi non siete i vinti di Giovanni Verga, … Voi eravate pieni di soldi! Ve la siete fifata, questa è la verità! Non vi piaceva Genova? Allora vi armavate, e marciavate contro! … Non avete voluto combattere!” Nicola Zitara non se la prende più con Cavour e con Garibaldi soltanto, ma incolpa i suoi ascendenti, tutti i nostri ascendenti dell’ex regno napoletano, perché dapprima si sono macchiati della grave colpa di non aver preso le armi per difendere la nazione e alla fine si sono anche fatti imbrogliare dai genovesi e dai milanesi. Ecco la seconda verità, la seconda sorpresa. A questo punto la metafora del topo e del buco sono più chiare. Nonno Paolino invece che lottare a viso aperto si è rintanato tremebondo nel suo buco, per non vedere e non sentire e si è fatto poeta, come a dire, in tale contesto, che si è arreso all’evidenza quotidiana dell’aspra lotta per rifugiarsi nella fantasia.

Nel romanzo questo chiarimento interviene a metà della storia a segnare una linea di demarcazione tra le sirene dei fasti della dinastia mercantile, da cui dipendevano le sorti del mondo, e il più modesto Paolino eroe socialista e poi adulto disincantato.

Per giungere a questo chiarimento Nicola Zitara ha usato efficacemente, come ho più su detto, la tecnica dello straniamento: è come se avesse considerato i fatti per la prima volta, fulminato sulla via di Damasco da un’improvvisa rivelazione. Ce ne persuade il ripetuto ricorso alla prolessi, con cui l’Autore lancia i suoi segnali atti a predisporre il lettore ad accettare la verità rivelata e a farla propria.

Annoto cinque prolessi. La prima (pag. 39) è nella domanda relativa al carattere moscio, arrendevole, del nonno Paolino Alfano, giudicato “asino” e “cacasotto” dallo zio Paolino Conforti, per essersi “fatto scippare dai genovesi il commercio dell’olio e la Banca di Sconto.”

La seconda prolessi (pag. 48) è nelle parole di Genso, padre del protagonista, allorché avverte a proposito di Padron Paolo: “Non è compito mio giudicarlo, ma chiunque altro voglia farlo, prima bisogna che conosca la storia d’Italia.” Interviene l’io narrante a commento: “Che c’entrava il nonno con Mazzini e Garibaldi, lui che neppure aveva partecipato alle guerre d’indipendenza?” Ecco un secondo seme di chiara intenzione comunicativa: il nonno era stato neutrale, a guardare, aveva badato agli affari suoi, aveva dimenticato o forse non c’era chi glielo avesse insegnato, che l’appartenenza ad una nazione è unica garanzia per sopravvivere anche nel mondo del commercio, a vivere e morire da soldato. Certamente a non fare la fine del sorcio. Avrò qui forzato la mano al suo Autore ma, se tout se tienne, non vedo come potrebbe rimproverarmelo. In effetti l’accusa è esplicita e vien fuori intera alla fine della lettura, allorché appunto Paolino legge il testamento del nonno ed ha un soprassalto di disgusto.

Altra prolessi (pag. 50) riguarda proprio Paolino, il narratore-protagonista, quando avverte su di sé il peso dell’eredità di affetti e del casato e dice di se stesso: “nei ranghi [allude alla classe sociale di appartenenza] sarei rimasto soltanto se non avessi mai sbagliato: questa era la costituzione materiale della borghesia mercantile, ma ero nato per sbagliare, e non me ne dolgo.” La conclusione, pur amara, ma positiva, sarà per lui nell’accettazione del cambiamento e nella volontà di ricominciare da capo. Diventerà infatti ingegnere navale e si costruirà una identità dorosamente sradicata dall’eredità di esperienza e di finanza, ma capace di prospettargli un futuro, pur nutrendosi di  nutella.

La quarta prolessi (pagg. 62-63) conclude la prima parte del romanzo. Nonno Paolino è morto, Genso e il narratore vanno a pranzo al ristorante di Michele e di donna Elisa. Genso ripercorre la storia degli Alfano e del destino avverso, che fu comune a molte dinastie mercantili, troppe per essere classificate un caso: “Era mai possibile che gli amalfitani cadessero tutti assieme? Nisciuno che si salvasse? … E che! Erano diventati tutti minchioni? Non solo gli Alfano, ma i Cuomo, i Proto, i Gargano, i Lucibello, i Pagliaro, i Panza, i Savo … tutti fessi? Il meglio della Costiera. Gente che navigava da mille anni, che ha tenuto banche, industrie, navi … che ha combattuto contro i normanni e i saraceni… Mercanti, banchieri, capitani, ammiragli, consoli, dogi … Dovunque, a Costantinopoli, ad Alessandria, a Beirut, a Tunisi … All’improvviso tutti fessi. Persone esperte, famiglie millenarie, che all’improvviso si fanno mettere nel sacco! [ … ] No, è stata tutta una questione di banche.” Qui è lo studioso del sistema bancario e monetario che parla, è il Nicola Zitara economista politico che accenna ai risultati delle sue più recenti scoperte. Non ci resta che affidarci alla sua comprovata serietà di ricercatore e attento lettore a trecentosessanta gradi del mondo economico.

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L’ultima anticipazione (pagg. 95-96) evoca la fine della fine di una dinastia mercantile: gli Alfano di San Policarpio per sopravvivere dignitosamente ai duri colpi inferti dalla guerra fascista decidono di acquistare un fondo. Il bilancio che ne fa Genso, padre di Paolino, è impietoso: “È finito un capitolo della mia vita. Adesso anch’io sono proprietario. Che vuoi di più?” risponde al figlio. Poco oltre aggiunge: “Stiamo franando, figlio … È uno scivolone interminabile. Facciamo i passi del gambero, una generazione dietro l’altra [ … ]. Tutto sparito, venduto, distrutto… Pure i ricordi… Le targhe all’angolo delle vie… Abbiamo cancellato la nostra storia e abbiamo adottato quella degli altri…” Abbiamo adottato la nutella, pare suggerire l’Autore, ci nutriamo del frutto peccaminoso generato dall’imbroglio e dalla sopraffazione legalizzata.

Il fuoco è concentrato su nonno Paolino, l’anello debole della catena, ma in parte le responsabilità sono scaricate anche su un ramo infido della parentela, i Surrenti, da cui discende Vitulia, cugina e innamorata di Paolino protagonista. Da Vitulia in poi, cioè nella seconda e terza parte del romanzo, l’analessi intimista si fa microstoria: la guerra fa da filo rosso che lega persone e fatti per tutta la seconda parte: i Surrenti, la Premiata Ditta Cav. Parisi, il mantello, l’inflazione e la svalutazione, il mafioso gentiluomo, i bombardamenti, la rottura simbolica dei vetri della Banca di San Policarpio, le eresie politiche dell’ing. Panaja. Segue nella terza parte il ritorno al socialismo e l’avvento della repubblica, punteggiate da altre contraddizioni: l’opportunismo politico di Totò Surrenti, il mercato nero, la repubblica di Amendolea.

La rinnovata primavera è solo fuoco di paglia, che alimenta microstorie asfittiche. In questo quadro frammentato, ma non frammentario, emerge inequivoca la figura di Vitulia, eroina moderna, intransigente e caparbia, dalla mascolina idealità. Vitulia già col suo nome evocante i nobili natali della primigenia Calabria riverbera fortemente la speranza di riscatto del Mezzogiorno d’Italia, perché simboleggia una donna “altra”, finalmente colta, capace di utopie e non solo di quotidiane concretezze. Ma anch’ella, vittima inconsapevole della nutella, esponente parlamentare del Partito Socialista, camminerà sui sentieri tortuosi del compromesso storico e finirà col disincantare del tutto il nostro Paolino, contestando la sua storia, la storia degli avi che hanno fatto San Policarpio, giustificando l’intestazione della piazza già del Caricatoio a celebrazione di suo nonno, l’on. Ferdinando Surrenti. E dice a tal proposito: “Ma vuoi mettere la storia di San Policarpio con la storia d’Italia? Un uomo di stato! … il governo del paese! …” L’ironia dell’Autore suona beffarda a ricordarci che la nutella ha vinto.

È così che da Padron Gioacchino si è passati alla nutella, metafora della negazione e della separazione. Tra Padron Gioacchino e la nutella vi sono tre generazioni decadenti. “Decadenti” nel senso originario, non in quello letterario: la generazione di Padron Paolo, di suo figlio Genso, di Paolino. Su di essi la nutella esercita un malefico influsso. In assenza di forze votate al martirio, ogni resistenza tecnica, affidata puramente al rispetto delle leggi, è travolta. L’erede Paolino, il protagonista, è già per intero sommerso dalla nutella. Per salvarsi sarà costretto a galleggiarvi sopra ed a mangiarla. Ma alla fine approda. E se da lui inizia il riscatto, poiché rinuncia ai sogni dinastici per divenire ingegnere navale come lo zio Paolino Conforti, suo figlio Paul, partorito da Vitulia, è già imprenditore di successo. Paul forse non ha bisogno della nutella per tenersi a galla e per nutrirsi, da lui forse ha inizio una nuova dinastia, questa volta poco nazionale e molto globalizzata.





Nicola Zitara
 
‘O sorece morto

Nicola Zitara Editore,

Siderno, pp. 200, € 8,00

O sorece morto

 

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