L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
  Eleaml


Il biografo calabrese del calabrese Cardinale Ruffo

di Nicola Zitara

Siderno, 07 Gennaio 2008

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Precedente storico - Nel 1793 l’esercito francese valicò le Alpi ed entrò in Italia. Lo fece non solo per contrattaccare da Sud la coalizione dinastica che minacciava i confini orientali della Francia, ma  anche per fare bottino, avendo i precedenti governi dinastici dissipato tutto l'oro e tutto l'argento coniato. Le vecchie città ed ex  signorie toscopadane - Genova, Venezia, Firenze, Milano, Parma, Bologna - possiedono ancora molto oro monetato proveniente dai tramontati  splendori rinascimentali; le famiglie patrizie conservano una quantità forse unica al mondo di preziose suppellettili e stoviglie; le chiese sono incredibilmente ricche di ex voto; e cosa d'ancor maggior valore, la Toscopadana ha un patrimonio ineguagliabile, unico, irripetibile, di opere d'arte.

Per capire qualcosa di quel che successe alle  popolazioni italiane,  non per un giorno ma per parecchi decenni,  può essere utile ricordare che il saccheggio francese ebbe due versioni: il frutto dei saccheggi ufficiali, edulcoratamente battezzato confische, perché decretato dall'autorità militare e notificato per iscritto con il bollo e la firma di un generale, magari dal cognome italiano, andava alla Repubblica Francese, mentre il frutto del secondo saccheggio  era privato, cosa personale degli eroici citoyen che, al suono della Marsigliese, marciavano a piedi dietro un vittorioso generale a cavallo. 

Questi  uomini non erano dei philosophes, dei neofiti  della Dea Ragione, venuti in Italia ad arringare il popolo contro il dispotismo regio, bensì  dei contadini e dei lavoratori scarsamente alfabeti e scarsamente nutriti, che accettavano di servire la Repubblica per un compenso e un'eventualmente gratifica, consistente nel patriottico saccheggio di tutti coloro che non erano di madrelingua francese: in nome della liberté nelle case dei ricchi e in nome della fraternité nelle case dei poveri. E dove c'era da stuprare, non si tiravano indietro;  dove capitava un incendio, stendevano le mani intirizzite dal freddo. 

Come è sempre accaduto nella storia, qualche vinto si alleò con il vincitore. A sua discolpa è giusto ricordare che le nuove concezioni sociali, le rivoluzioni, mettono una contro l'altra le classi sociali di una stessa nazione e a volte una nazionalità contro l'altra. Inoltre, come tutti sappiamo,  è raro che l'idea rivoluzionaria  non sparga sangue attorno a sé, o perché il mondo vecchio non si rassegna a tramontare, o anche perché il nuovo promette cose che poi non mantiene, o perché, avanzando, si corrompe. 

Sulla scia dei saccheggi francesi nacquero in Italia parecchie repubbliche giacobine. La più grande e in appresso la più famosa fu la Repubblica Cisalpina, ma nacquero  anche una Repubblica ligure, una Repubblica romana e una Repubblica partenopea.  Il Piemonte non proclamò alcuna repubblica, perché i piemontesi preferirono diventare francesi per pagare meno tasse. Insomma si salvarono soltanto la Sardegna e la Sicilia. 

Gli abitanti di queste repubbliche rivoluzionarie (ma non costituzionali) furono tartassati con tributi e requisizioni, ma i saccheggiati non se ne stettero con le mani in mano. Insurrezioni contadine contro i francesi si ebbero dovunque, da Genova a Roma, e proseguirono ininterrottamente negli anni. Giacobini e contadini avevano idee alquanto diverse circa la libertà, ma specialmente circa la proprietà. E non a torto. A quei tempi, per i proprietari, la terra significava una vita da signori, e per i contadini  corrispondeva alla sopravvivenza.

Le gloriose (preunitarie e pregaribaldine) legioni francesi arrivarono ai confini del Regno di Napoli nel 1798, dopo cinque anni dal loro primo ingresso in Italia. L'esercito napoletano,  battuto, si disperse. Il re e la corte coraggiosamente si rifugiarono a Palermo. 

Gli altri napoletani, non avendo anche loro la flotta inglese a disposizione, rimasero con la faccia rivolta all'invasore. Anche senza radio o televisione, cinque anni sono un tempo sufficientemente lungo perché una cattiva fama viaggi di bocca in bocca. Cosicché l'onere della difesa (anzi della legittima difesa) passò a carico delle popolazioni inermi, che così divenne resistenza nazionale. 

Secondo la retorica risorgimentale queste popolazioni erano accanitamente contrarie al progresso e così primitive che mangiavano i francesi senza prima arrostirli, cosicché non li accolsero come dovevano, con trombe, tamburi e fuochi d'artificio; non li invitavano a casa a dormire con le proprie mogli e con le proprie figlie;  non regalavano loro, in segno di ospitalità e di gratitudine, i ducati che tenevano nascosti sotto il mattone, le collanine, gli orecchini e le fedi d'oro. Insomma non stavano dalla parte della futura patria italiana, ma dalla parte dei sozzi borboni e dell'immonda chiesa cattolica.   

Qualche giorno prima dell’entrata delle truppe francesi a Napoli, ai giacobini napoletani venne finalmente il coraggio, dopo cinque anni che se n'erano stati buoni buoni. Per mostrare il loro zelo,  con un tranello s’impossessarono di un forte posto su un colle,  e da questa comoda e sicura postazione presero a bombardare i quartieri poveri della città, disseminandola di migliaia e migliaia di morti.

Il giacobinismo e il sanfedismo sono il displuvio della storia d'Italia. I giacobini sono i patrioti e i loro avversari sono i nemici della patria e della civiltà. Certamente una fesseria sull'altra, ma l'identificazione positiva o negativa ha una profonda ragione. Lo Stato unitario italiano è una costruzione fragile, innaturale. 

Prima della conquista piemontese, l'Italia fu  un unico stato soltanto al tempo di Roma; anche allora, però,  uno stato dualista,  con un Sud magnogreco sottomesso e spogliato delle sue immense ricchezze e della sua grande civiltà dopo la sconfitta di  Annibale, e un centronord che nasceva proprio allora, attraverso gli investimenti e la fondazione di municipi romani. 

Caduta l'Italia in mano ai barbari, ciascuna regione del centronord ebbe un suo comune o sua signoria, mentre il Sud e la Sicilia,  unificati dai re normanni al tempo delle Crociate, vissero una storia infelice, quale area di confine con l'Islam, sotto il dominio di re spediti dalla Francia o dalla Spagna, con la benedizione del papa. Non avendo una storia unitaria, i patrioti risorgimentali se la inventarono. 

L'inquinamento della verità giunse al culmine dopo l'unità. Siccome, nonostante le proclamazioni, il Sud venne trattato come una terra da sfruttare,  l'Italia unità, per salvare la faccia, dovette crearsi un alibi e mise in piedi la retorica negativa dei Borbone, dei sanfedisti, del Cardinale Ruffo,  mostri contro i quali tenere sempre i riflettori accessi. 

Le varie versioni del moto di Santa Fede girano intorno agli stessi fatti. Solo che, chi li racconta, li condisce in modo diverso. Il fatto certo è la lotta tra popolazioni napoletane ed esercito francese, affiancato dai  giacobini partenopei. Di fronte al tribunale della storia ogni rivoluzionario ha il diritto di esserlo e di farlo, se lo fa a proprio rischio e pericolo.  Ma a Napoli i rivoluzionari si mossero solo dopo che l'esercito francese fu entrato nelle province  napoletane. Un simile comportamento, a voler essere parchi con gli aggettivi, appare poco elegante per qualunque rivoluzionario o controrivoluzionario, anche se partenopeo. 

Dagli Abruzzi alle Calabrie,  le popolazioni, resistenti o no, vennero disinvoltamente massacrate. In molti luoghi, per risparmiare cartucce, i francesi serrarono gli abitanti in una chiesa e gli dettero fuoco (lo racconta uno di loro). Un generale francese, nelle sue memorie, afferma che in poche settimane furono passati per le armi sessantamila resistenti, cifra a cui bisogna aggiungere i morti in battaglia. In sostanza le popolazioni aggredite si difendevano con coraggio, ma non riuscivano a bloccare l'invasore. Dalla Sicilia, dov'era con la corte,  Ruffo  si rese conto di tale debolezza. 

Con molto ardimento e sicura valutazione delle cose, sbarcò in Calabria con otto compagni, senza soldi e senza armi. Il Cardinale non era un prete qualunque, ma uno dei primi uomini  della Chiesa, un uomo di Stato, un politico avveduto ed esperto, che era stato per ben sette anni il primo ministro del pontefice e, in appresso, l'organizzatore del celeberrimo setificio di San Leucio. Appena In Calabria, chiamò alle armi il clero e la nobiltà fedele al re, e inalberò l'unico vessillo credibile presso il popolo contadino, la Croce. L'esercito volontario, formato con i dispersi dell'esercito regio e con le  masse dei contadini insorti, in pochi mesi raggiunse Napoli e costrinse i francesi alla fuga.

Il richiamo al moto vandeano  cade a sproposito. La Vandea ebbe all'origine il pane.  Santa Fede fu una guerra vittoriosa contro lo straniero. E' una vicenda storica diversa, e somigliante invece alle precedenti e future guerre di liberazione, condotte dalle popolazioni insorte. La sola cosa che lo distingue dall'insurrezione dei vietnamiti o  dalla resistenza toscopadana ai tedeschi e ai repubblichini di Salò, è la Croce. Nella storia d’Italia,  le guerre contadine contro la nobiltà, contro gli spagnoli, contro i francesi, contro i piemontesi, chissà perché vengono chiamata immancabilmente brigantaggio. Il ricorso al  termine dispregiativo fini solo quando, nel 1944/45  il PCI si mise alla testa delle "lotte per la terra". 

***

Quanto fin qui narrato corrisponde a un'interpretazione della vicenda da parte del sottoscritto, il quale ovviamente non fu testimone di quegli avvenimenti. Ci sono, invece, alcuni racconti di contemporanei. Ne scrisse subito Vincenzo Cuoco, il quale però, se ho ben capito, vide soltanto cioè che accadeva a Napoli, mentre il suo racconto della guerra in provincia, è di seconda mano. Due decenni dopo ne scrissero anche Carlo Botta e Pietro Colletta, i quali, a detta di esegeti esperti, riportano come propria esperienza il precedente racconto di Cuoco. 

Questi addebitava a Ruffo e alle sue bande inaudite crudeltà. In verità le crudeltà furono reciproche, come attestano gli scritti lasciatici da ufficiali francesi presenti sul campo e le relazioni dei generali francesi al comando centrale e a Napoleone primo console. Anzi sono proprio i francesi la fonte certa delle crudeltà del loro esercito. C'è da aggiungere che sei o sette anni dopo, Ruffo accompagnò a Parigi papa Pio VI, prigioniero di Napoleone, e che l'imperatore lo trattò con gran riguardo e stima. 

Agli scritti dei narratori giacobini si oppose con una narrazione da giudicare obbiettiva e degna di credito uno dei segretari del Cardinale, Domenico Sacchinelli, anche lui calabrese, di Pizzoni (oggi provincia di Vibo Valentia). L'opera, dal titolo "Memorie storiche sulla vita del Cardinale Fabrizio Ruffo", venne pubblicata a Napoli nel 1836. Venne ripubblicata nel 1899 e poi ancora, per le edizioni "Controcorrente" esattamente un secolo dopo, e infine in un'edizione speciale voluta dal Comune di Pizzoni nel 2007.

Quest'avvenimento editoriale è stato celebrato il 28 dicembre u.s. con una conferenza promossa dall'Amministrazione comunale  di Pizzoni, a cui hanno partecipato numerosissimi relatori e un folto pubblico. Fra i tanti relatori intervenuti soltanto quattro, a parere di scrive, avevano letto il testo di Sacchinelli e forse nessuno i libri degli autori antiborbonici, di modo che l'incontro è divenuto uno scontro tra sostenitori dell'Italia unita -  e dei suoi preannunci  risorgimentali - e propugnatori di una rottura.

Certamente, in alcune università italiane, la ricerca sul passato duosiciliano è seria, onesta e intelligente, ma questi apporti restano relegati nei gabinetti accademici e nelle pubblicazioni dei ricercatori, risultando ignoti al pubblico. Conseguentemente il tema "Italia sì, Italia no" si dibatte sulla base  degli interessi particolari, mentre la razionalità, che le cose politiche dovrebbero avere, le convenienze pratiche e morali, le radici autentiche dei popoli,  che guidano le scelte irreversibili, restano ottenebrate dall'ignoranza e diventano mistificazione.











 

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