L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Gli esorcismi di Napolitano Articolo articolo articolo

di Nicola Zitara

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Siderno, 8 Dicembre 2008

 Nascere in un posto o in un altro è una condizione determinante della personalità. Sul fanciullo che cresce si riversa l'intera storia del suo popolo. Ogni uomo o donna è figlio di una madre e di un padre, ma anche della storia della nazione in cui avviene la sua crescita. I costumi, la religione, la lingua sopravvivono per decine e decine di generazioni. Vincenzo Cuoco ha rilevato nel dialetto napoletano l'uso di parole coniate non meno di quattromila anni fa. Decisiva per la vita di relazione è anche l'appartenenza a una o a un'altra area economica nazionale o regionale. L'esistenza di un meridionale è diversa da quella di un settentrionale, in quanto, come tutti sappiamo, Sud e Nord costituiscono, oltre che due aree nazionali con una storia particolare, anche due diverse formazioni economico-sociali da poco incluse (loro malgrado) nello stesso Stato sovrano.

Nei giorni scorsi, il presidente della Repubblica è stato indubbiamente sincero allorché ha esternato una cocente preoccupazione per la sua Napoli e per tutto il Meridione, in una fase della storia unitaria nella quale i rapporti fra le due formazioni sociali appaiono logorati e in evoluzione negativa. Napolitano, che è una persona colta ed esperta in politica, sa bene che il nocciolo duro del dualismo non sta nella buona volontà del Nord padano e neppure nel degrado civile e morale del Sud, ma nel meccanismo che presiede agli investimenti economici, o per dirla in termini marxisti nei meccanismi attraverso cui opera l'accumulazione capitalistica.

Stando così le cose, l'alternativa razionale sarebbe questa: o l'Italia padana abbandona il sistema dell'iniziativa privata (quantomeno a livello di grandi imprese) o il Sud si separa dallo Stato cosiddetto italiano. Tuttavia nessun accadimento politico, che non sia una rivoluzione, potrebbe far deflettere i capitalisti padani dall'essere capitalisti. Se in generale, neppure la questione ambientale - la minaccia alla vita del pianeta - ha fatto deflettere chi guida il sistema mondiale dalla logica del profitto, è illusorio immaginare che il sistema padano possa rinunziare a un meccanismo pagante soltanto per usare una cortesia ai meridionali.

Infatti, se razionalmente il problema è da terza elementare, dal punto di vista sociale e pratico la situazione presenta un groviglio d'interessi di classe difficile da dipanare. Il sistema capitalistico padano non ha mai negato e non nega al Meridione l'ipotetico sviluppo della produzione e del lavoro a causa di sue idee razziste o per odio nazionale. Al contrario le regole della sua crescita - in quanto crescita dell'accumulazione capitalistica - sono fissate dalla concorrenza di mercato, la quale comporta l'ininterrotta crescita della dimensione delle singole imprese. Per un'impresa che abbassa il costo di produzione ne cadono altre incapaci di abbassare il proprio. Il correttivo corrente a questo competitivo crescere e declinare è rappresentato dall'allargamento degli sbocchi, cioè dalla dilatazione della platea dei consumatori tanto nella propria area politica quanto in aree esterne. In corrispondenza con l'espansione degli sbocchi esterni emergono forme esplicite o dissimulate di colonialismo (anche interno, regionale) supportate da settori di tipo collaborazionista. (E non sempre i collaborazionisti sono consapevoli d'essere i traditori di sé stessi.)

Come in tutte le formazioni sociali a carattere coloniale, anche nel Meridione il più importante settore collaborazionista è stato il pubblico impiego, seguito dai dipendenti di imprese padane (ferrovieri, bancari, dell'elettricità etc). Senza questa base di massa - che si è formata nel dopoguerra in sostituzione della rendita fondiaria, come derivato particolarmente favorito dal voto di scambio - il collaborazionismo del ceto politico meridionale sarebbe stato campato in aria. Il sistema Italia affida a questo ceto la spesa pubblica, che al Sud è la fonte suprema del profitto privato. Ma l'Italia padana ha stretto i freni, non spesa più il Welfare favoritistico. La combinazione tra mercato unico europeo e lavoro extracontinentale mal pagato ha convinto l'establishment padano a cambiare cavallo, ad abbandonare al federalismo fiscale la massa impiegatizia meridionale (e quindi la spesa pubblica obbligatoria) e ad adottare come mezzo di trasporto del consenso una biga trainata dalla grande e media distribuzione e dagli apparati mafiosi. Attraverso accordi di oligopolio, la distribuzione ha ottenuto che il prezzo delle merci sia costantemente crescente, e la mafia ha avuto la libertà di essere capitalismo a mano armata, con licenza di trasformare la violenza in profitto. La minutaglia segue. Mal pagato, l'esercito del lavoro meridionale di riserva o mangia questa minestra o si butta dalla finestra.

L'avvertimento di Napolitano alla vecchia classe politica, da cui lui stesso viene, è stata una predica al vento. Sono lontani i tempi di Togliatti e Di Vittorio, dei cortei dietro la bandiera rossa. Oggi la classe politica ottiene soltanto il consenso che può pagare. Però le chiavi della cassaforte sono in mano a Tremonti e a Bossi, i quali preferiscono avere come referenti la distribuzione e la mafia.








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