L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


Eugenio Scalfari, un fetente

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"Meglio morir col capo biondo". Certa gente vive troppo a lungo. Per la salute del mio fegato, bene sarebbe che Eugenio Scalfari fosse morto prima di Ernesto Rossi e di Mario Pannunzio, che furono, da liberali, due attenti osservatori e censori del padronato italino (cioè settentrione, o meglio dei padroni, in quell'area che al loro tempo veniva chiamata il Triangolo industriale e - sottinteso - bancario).

L'immarcescibile Fondatore di la Repubblica ha tradito l'uno e l'altro mettendosi al servizio della Tricontinentale, cioè del club riversato dei padroni del mondo, che di infamie sulla coscienza ne hanno parecchie; sicuramente molte più di quante enumerino i saggisti che da qualche temo si sono messi ad elencarle. E comunque liberali non sono, ma illeberali e nemici del libero mercato, in quanto venditori in regime di monopolio e assassini che impiegano qualsiasi mezzo, anche il pugnale e il tritolo per liberarsi dei concorrenti (il caso Mattei ne è un esempio.)

L'intellettuale al servizio del potere (o del Principe, o del moderno Principe) diffonde tossici e avvelena le menti; specialmente quelle dei giovani e in particolare sul lato morale e politico. Fra non molto, i bossisti, i padanisti, i federalisti (leonini, del mio è mio, e il tuo è anche mio perché sono più bello) avranno scuole regionali, per cui saranno pubblicati dei libri regionali di testo con cui formare le (loro) giovani generazioni. Allora gli ex italiani (nel senso di quelli che usano bene o male la lingua di Dante e di Manzoni) sapranno che le sette precedenti generazioni avevano studiato sui libri di impenitenti falsificatori della storia. Sul banco degli imputati comparirà gente ancora reputata illustre, come Benedetto Croce, Alfonso Omodeo, Bolton King, Gioacchino Volpe, Sir Mac Smith, Rosario Villari, per citare soltanto qualcuno.

Come tutti sappiamo, su ogni moneta c'è testa e c'è croce. La testa era quella di Vittorio e la croce quella dei Savoia. Ora, se i figlioletti di Carlo Cattaneo potranno vedere che Vittorio, sotto la corona, aveva le corna del diavolo, figuratevi quello che potranno leggere i figli dei sudichi, ché i loro padri e avi la croce della servitù italiana la portarono veramente e non per fare teatro, come Miglio e Bossi.

La storia dell'Italia Una sarà sputtanata alla radice. Gli storici che hanno mistificato su patriottici meriti e demeriti politici, per farci accettare la croce, saranno a loro volta sottoposti a un giudizio politico, perché la storia patria altro non è stata, altro non è e altro non sarà che la ragione politica presente portata all'indietro.

Sto parlando di storia perché Scalfari a quella si rifà in un suo articolo che qui vorrei controbbattere e demistificare. Dicendola schiettamente reputo velenosa l'opera di questo giornalista che, per avere più ascolto, finge indipendenza di giudizio e si paluda della toga di Catone il Censore, mentre invece è schierato. La cultura, l'informazione, la naturale capacità a narrare in modo piacevole e convincente, sono un'arma insidiosa, anzi micidiale, nelle mani dei fetenti.

Se volendo fare (non storia, ma) un processo con i giornali in mano, ci pigliassimo la briga di sfogliare il Mondo al tempo di Pannunzio e di leggere gli articoli del giovane Scalfari, per confrontarli con quelli che scrive adesso su la Repubblica, sarebbe un'osservazione ovvia che la sola cosa in comune tra i due prodotti è la solidità dello stile. Per il resto non ci verrebbe altro in mente che un sostantivo caro a Giuseppe Giusti, girella.

Ma io non dirò la parola. Un uomo ha il diritto di cambiare idea, di rivedere i propri giudizi morali e pratici, specialmente se il cambiamento è avvenuto in un arco di tempo alquanto lungo, quale il passaggio dai verdi anni all'età senile. In sostanza una vita. Per giunta vissuta con partenza da un mondo in cui il pane era scarso e arrivata a un mondo in cui di pane se ne magia poco, per non ingrassare.

Quel che, però, un intellettuale e un giornalista che si proclama libero non dovrebbe fare, è mentire sapendo di mentire. Per esempio, Scalfari sa bene

(e io lo so perché qualche volta lo scrive) che i capitalisti italiani valgono poco, sia come patrioti sia - specialmente - come capitalisti. Però mente. Infatti il giornale, di cui egli è fondatore e padrone, è tutto un inno al capitalismo italiano, anzi non si occupa d'altro. Ulteriore esempio, Scalfari sa bene che i guai che il Sud italiano ha patito e patisce non sono addebitabili ai Borbone (il cognome Borboni non esiste, come non esiste il cognome Savoi), ma allo Stato fondato da Cavour. La circostanza che ciò lo sapessero anche Croce, Omodeo, Michelangelo Schipa, F.S. Nitti, che lo ha persino spiegato, e migliaia di altri illustri intellettuali, non lo assolve.

E ancora: Scalfari sa bene che l'Italia, come omogenea società italiana, come omogenea economia italiana, non esiste. Una società non può essere detta omogenea soltanto perché i suoi componenti hanno usato e usano lo stesso sussidiario di terza elementare, o perché uno zio napoletano è morto su un contrafforte alpino, perché gli avevano ordinato di liberare Trento e Trieste dall'Austria. Anche gli eritrei sono morti, in passato, a decine di migliaia per ubbidire a ordini impartiti dal governo italiano e dai generali italiani. Ma - forse - solo Mussolini e l'autore di Faccetta nera, in qualche momento di autocontemplazione dei propri meriti, il primo, e per basso servilismo, il secondo, poterono immaginare che appartenessero alla società italiana.

Perché l'economia italiana possa essere definita omogenea, Una, e Una soltanto, non può bastare il fatto che nel mio paesino di Calabria ci sia uno sportello della Banca Commerciale, tale e quale a Cinisello Balsamo. Per fare Una economia (o un'economia unitaria) ci vuole ben altro.

Scalfari sa sicuramente meglio di me che negli anni della Ricostruzione, fra i quadri più impegnati della sinistra socialcomunista, ma anche fra gli ex azionisti e i democristiani di sinistra, si diceva che i soldi non bastavano per ricostruire contemporaneamente il Nord e il Sud. Si sarebbe provveduto prima al Nord, perché partiva da un punto più avanzato, poi, appena si fosse avuta qualche risorsa, si sarebbe provveduto anche al Sud: era un impegno d'onore. Scalfari sa perfettamente come finì. Certamente ricorda la calata della signora Vera Lutz, i furori della Confindustria, la paura dei guai che avrebbe combinato Fanfani, e certo anche quel licantropo di Indro Montanelli abbaiare contro i meridionali che gli rovinavamo l'Italia. E fu in quel passaggio che la Costituzione Italiana nata dalla Resistenza, che al Nord costituiva il quadro giuridico, politico e morale dell'operare, e al Sud era ancora la speranza di un domani migliore, venne archiviata.

Perché non scrive queste cose sul suo Espresso? In effetti il suo Espresso non è una macchinetta buona per fare il caffè alla napoletana, bensì una macchinetta che fa quel tipo di caffè annacquato, che al Sud non viene bevuto.

E veniamo al regno dei Borbone-Farnese nel Sud italiano, di cui si occupa sull'Espresso in data 8 giugno, corrente anno. Siccome il discorso di Scalfari non punta alla conoscenza della storia ma a difendere il dominio di chi domina sui meridionali, non mi faccio incastrare a fare lo storico. Mi limito a fare il giornalista, e da giornalista rilevo e addito la sfrontatezza con cui Scalfari avverte (dal vocabolario di Totò Riina) alcuni storici, evidentemente revisionisti, di cui peraltro non ha prima ascoltato o letto le relazioni, che è pericoloso fare la storia con i se: "Se Ferdinando non si fosse affidato a Orazio Nelson" e via dicendo.

In apparenza tutto giusto: se Garibaldi non avesse vinto, avrebbe perduto. Ma le cose stanno in modo diverso. Dall'alto del trono che gli è conferito da una pubblicazione che tira centinaia di miglia di copie, il Fondatore minaccia l'anatema a delle persone che non sa cosa hanno detto e cosa si ripromettono di fare. Potrebbero voler parlar male della Madonna e inneggiare al diavolo, dice lui.

Scalfari è troppo intelligente per essere naturalmente intollerante e arrogante. Fa l'arrogante a ragion veduta. Deliberatamente. Da fetente. Vediamo allora di cosa si dibatte veramente. La dinastia dei Borbone è uscita dalla storia meridionale in punta di piedi cento e quaranta anni fa.

Da altrettanto tempo il Sud è italiano.

Non sono d'accordo e per non esserlo ho mille prove, alcune fornite da gente patriotticamente a posto, come i milanesi preunitari Correnti e Maestri, per non esserlo. Ma ammettiamo per amore di discussione che i Borbone abbiano lasciato il paese meridionale in pietose condizioni. Bene. Cosa avrebbe dovuto fare, per prima cosa, uno Stato di tutti gli italiani? Provvedere a quei poveri italiani che i Borbone avevano governato male. Lo ha fatto?

Parlo da sudico nato prima della guerra. Nel 1943, i contadini di Calabria, Sicilia, Lucania, Puglia e Campania insorsero per avere un loro pezzo di terra. Cioè, il paterno Stato nazionale, che nei precedenti ottantatré anni aveva creato nel Nord un industria ancorché superprotetta e incapace di competere sul mercato mondiale, al Sud non aveva ancora affrontato la questione dei feudi e dei demani, per difendere la rendita feudale, tutta liberale e savoi. Ai meridionali, anziché la terra, aveva dato dei calcioni in pieno culo e ne aveva spedito una decina di milioni fin nelle Americhe. E non basta, si era incassata anche la valuta pregiata delle loro rimesse. Con questi miracoli della miseria sudica aveva: (uno) risolto la questione del debito pubblico, che risaliva al tempo di Cavour ministro del Regno di Sardegna, (due) garantito (o forse pagato) la spesa per l'acquisto di macchine e impianti che i neo industriali di Genova, Torino e Milano erano stati autorizzati ad effettuare (proprio perché il Tesoro aveva quella valuta in cassa).

Caduto il fascismo, questi nodi vennero al pettine. Ma gli industriali, dopo aver scroccato fior di baiocchi a Giolitti e a Mussolini, sentito l'odore di dollari, si misero a piangere e dire che servivano a loro, per rifare la patria. In poche parole si beccarono i miliardi che gli USA ci andavano regalando, una parte dei quali era a compenso dei beni e servizi acquistati al Sud dalle truppe occupanti e pagati con amlire.

Il patto costituzionale giurato tra il 1946 e il 1948 nacque da qui. E se è stato subito tradito, a tradirlo non siamo stati noi meridionali, ma coloro che abitano a nord del Volturno e del Tronto.

La storiella dei Borbone, diventati borboni e borbonici, nonché negazione di Dio, aveva fatto il suo tempo già cinquant'anni fa, illustre e ricco collega. Certo i Borbone non ebbero un ministro abile quanto Cavour, non si schierano e non si batterono per l'Italia "una". Anzi stettero dall'altra parte. Bene, e poi? Neanche Francesco Giuseppe si batté per l'Italia Una, neanche il Granduca di Toscana, neanche il duca di Modena, neanche il podestà di Vallantica in Brianza e neanche il vescovo d'Ivrea. Allora perché i Lorena non vengono chiamati loreni, o loredani, e gli Absburgo spurgati?

Gli odiati borboni sono l'alibi della questione meridionale, sono le responsabilità dello Stato cavourista, bastogista, bombrinista, balduinista, giolittista, rivoltate a frittella e addossate sugli ex dinasti che non erano migliori di altri, ma neanche peggiori. Gli altri, gli amati savoi, impiccarono patrioti e bombardarono città (e non una città qualunque, ma Genova), con maggior letizia di quanto facessero il generale Del Carretto e il suo re. Debbo ricordare proprio a Scalfari che i signori di cui le truppe che hanno sfilato il 2 giugno portano ancora lo stemma sulla divisa e si chiamano con i nome che loro, i savoi, gli dettero prima che nascesse lo Stato italiano, non solo condannarono a morte Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi, ma il primo non lo ammisero mai nel loro parlamento e il secondo, dopo aver incassato la sua donazione senza ringraziare, lo spedirono con un sacco di patate a dissodare Caprera?

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Ma questa è solo una querelle tra persone informate. Non è questo il vero problema. O non lo è più. Dopo la nordizzazione della Costituzione Italiana, anche per coloro che non erano nostalgici di monarchie, i Borbone hanno finito per diventare le radici, di cui ogni uomo avverte il bisogno, anche i meridionali, e che essi non avevano trovato nell'Italia Una, dai savoi, alla repubblica, alla democrazia. L'Italia padana aveva avuto bisogno di un popolo di iloti che stringesse la cinghia e realizzasse un surplus su cui mettere le mani, e l'aveva avuto. Per averlo, solo in qualche circostanza aveva usato i bersaglieri. Aveva preferito più economicamente discreditare l'immagine del Sud e la figura del meridionale, un antico accorgimento degli antenati romani per ottenere quanto serviva loro senza dire grazie.

La negazione del Sud è stata ininterrotta e pervicace. Ma noi meridionali siamo antichi, più antichi di chiunque in Occidente. E per legge ecologica non possiamo essere torinesi o fiorentini o veneziani; siamo di queste terre che non portano più i loro vecchi nomi. E non è stato bello e non è bello, né morale, né educativo, essere costretti a scusarci di essere e d'essere stati. Di aver fatto o non aver fatto. Anche i piemontesi combatterono come poterono la Francia e Napoleone. Se ciò è vero, allora perché, a posteriori, loro vanno giudicati dei patrioti, mentre i napoletani che ammazzavano gli stessi francesi invasori, dei cannibali?

Lo so, non è elegante, ma debbo dirlo egualmente per un'esigenza di chiarezza. Nella stretta parentela paterna e materna ci furono eroi e morti per la patria italiana. Personalmente non rinnego né gli eroi né i morti, dico solo che nonostante gli eroi e i morti, io ho dovuto lasciare la mia terra assieme ad altri otto milioni di miei coetanei per andare a guadagnarmi un pezzo di pane fra gente che mi considerava, a dir poco, un beduino, e che mi ha fatto lavorare come uno schiavo moderno, senza speranza, senz'altro avvenire che una pensione di fame, senza casa mia, senza calore umano, senza una stufetta elettrica; per una piccola paga, la sola sussistenza.

Nello stesso tempo, il Sud diventava più Sud, più disoccupato, più ignorante, più arretrato. E oggi, se non ci fosse stata la follia di riconoscere una pensione anche ai lavoratori meridionali, milioni di giovani non saprebbero come mangiare.

Il dato (ormai) storico indiscusso è che l'Italia ci ha traditi come uomini, come lavoratori, come repubblicani, come democratici, come socialisti. La democrazia italiana si è accodata agli interessi di Agnelli e di Cuccia, e per effetto della proprietà traslativa, agli abitanti delle regioni padane. Adesso che non c'è più neppure quell'Italia che già non c'era al tempo della mia giovinezza, torniamo da dove siamo partiti. Belli o brutti, i Borbone sono nostri. E l'Italia è altra, aliena e alienante. La bicchierata al Quirinale, i granatieri di Sardegna, che sfilano con lo stemma dei Savoia sul chepì, non sono nostri. Sono padani. E infatti l'onorevole Borghesio vuole che non solo le ragazze di Trieste, ma anche quelle di Novara, bacino i carabinieri.

Certo il Sud non è compatto nell'idea di rompere, di separasi. Non è però una questione di idealità, ma di quattrini. Se larga parte di meridionali è ancora savoi, lo è in quanto percepisce stipendi o salari o pensioni italiani. Gente che, consumate o avvilite le antiche rendite, è salita a Roma per un posto. Altri che, salendo nell'impiego o nella professione, sono passati dalla provincia alla capitale. Sono la ex "Roma ladrona" dei bossisti, che si prolunga fino al Lilibeo. Da mille anni, costoro la guerra la fanno fare agli altri, e poi sfilano alla testa dell'esercito vincitore con una bandiera in mano. Sarà lo stendardo della Chiesa o quello di Manfredi, quello dei re angioini o quello dei re aragonesi, quello dei Borbone o quello della Repubblica Francese, o dell'Impero dei Napoleonidi, o il tricolore di Garibaldi o il tricolore dei sanguinari massacratori di Cialdini e La Marmora.

Ma Scalfari sa, come i suoi danti causa che il popolo non è mai stato al gioco. Altro che "Franza o Spagna, purché si magna", che quel Tartufo di don Benedetto citava a proposito e a sproposito. Il popolo ha seguito Tommaso Campanella, Masaniello, Fra Diavolo, il Cardinale Ruffo, si è ribellato a Palermo, a Catania, a Reggio. Nel 1946 Napoli era attorniata da città rosse, ma negli anni cinquanta tutto l'interland napoletano passò con Lauro. Era la risposta al servizio che la sinistra aveva fatto ai napoletani nel corso della Ricostruzione. E' quello che Scalfari e tutti chiamano destra è invece ant'Italia.

Sono sempre esistiti due Meridioni, uno di tutte le bandiere vincitrici e uno dell'ordine nuovo. Ma questa volta non ci faremo ingannare. Non si andrà a prenderlo a Torino e neppure a Ivrea la bella, dalle bianche torri, men che mai a Predappio, sulla strada che va alla Rocca delle camminate. Esso è già nelle arterie di un popolo antico, dei più versatili produttori del mondo.

Fuori. Lentamente, pazientemente ci costruiremo. Di voi, delle vostre promesse da mercante, delle vostre costituzioni vuote di giustizia e d'eguaglianza, del vostro liberismo servile, del vostro capitalismo impotente, non sappiamo che farcene.

Nicola Zitara

 

 

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