L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Il 25 aprile non ci riguarda

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Il 25 aprile è stato festeggiato quest'anno con rinnovata solennità. Anche il Sud lo ha fatto, ma per amor di sudditanza. O, forse, per assecondare il presidente della Repubblica, a proposito del quale è difficile capire - da lontano - se sia un vecchio ingenuo o un giovane garibaldino che naviga alla volta di Marsala.

L'Italia è uno Stato ricco di leggi e di stazioni dei carabinieri. I carabinieri continuano ad essere fedeli sei secoli, mentre le leggi sono in continuo cambiamento a partire dal 1848, che per parecchi aspetti va considerato il punto di partenza giuridico dell'Italia.

Lo Statuto albertino, concesso dal re in quell'anno e redatto in un elegante francese (e solo in appresso tradotto in un cattivo italiano), pur avendo carattere istituzionale e costituzionale non era, perrò, una legge di rango superiore.

Infatti poteva essere modificato in qualunque momento con le procedure previste per le leggi ordinarie. Il primo a maltrattarlo fu il rotondetto Cavour, il quale, senza neppure ricorrere a una modificazione legislativa, abolì il governo del re e introdusse il governo scelto dalla maggioranza parlamentare attraverso il voto di fiducia.

Molto più ligio del suo francofono dante causa, Mussolini abolì il parlamento con un voto del parlamento e al suo posto nominò la Camera dei fasci e delle corporazioni.

La Costituzione repubblicana è stata (prima dei rimaneggiamenti stronzobossiti) un documento politicamente, stilisticamente e giuridicamente perfetto. Questo per l'Italia, cioè per l'Italia toscopadana, mentre si è rivelato assolutamente inutile e sostanzialmente inapplicabile nell'area coloniale, cioè nel paese comunemente indicato come Sud. C'è anzi da dire che, a causa della sua sostanziale inapplicabilità, il sistema partitocratico è stato costretto a restaurare (sempre al Sud) il governo notabilare e clientelare, che il fascismo aveva debellato.

Si sostiene comunemente che a ispirare politicamente la Costituzione italiana sia stata la lotta al fascismo. Le parole dicono il vero, ma bisogna depurarle degli interessati e retorici equivoci che man mano vi sono sovrapposti.

In effetti la Costituzione non nacque a partire dal 2 giugno 1946, allorché, oltre che scegliere tra monarchia e repubblica, gli italiani elessero l'Assemblea costituente, e questa elesse, a sua volta, il primo presidente della Repubblica. Negli anni precedenti, i partiti del Comitato di Liberazione Nazionale, rivoluzionariamente (o se preferite cavourianamente, o anche mussolinianamete), messo il re in una nicchia sigillata, assunsero in prima persona il comando del paese.

Fra l'altro nominarono una Consulta Nazionale, che fu una specie di grande salotto in cui il vecchio notabilato antifascista (ben pagato fin dal primo giorno, mentre la povera gente sorseggiava la carestia postbellica) ebbe modo di incontrarsi e riconoscersi, onde prefigurare la ripartizione regionale del potere.

E' infatti di somma importanza sapere che, nonostante vigesse un sistema centralistico, la vecchia Italia cavourrista e giolittista ebbe una sua costituzione materiale fortemente regionalistica a favore delle seguenti regioni e aree: Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia, Toscana (meno Grosseto), Roma. Le quali, ad esclusione della capitale, furono poi le regioni che avevano voluto l'unificazione nazionale; regioni a cui si aggiunsero Roma e i suoi cardinali. Mussolini, graziosamente, ci aggiunse la Romagna, Venezia, Trieste e Bari (cioè la mortificata area adriatica).

La Resistenza ha riescluso Bari e si è tenuta la Romagna e Venezia, e da quando le cose lo permisero anche Trieste.

La breve stagione consulente (o consultativa) vide la convergenza al Comitato di Liberazione Alta Italia (ormai facitore e disfacitore di governi) di tutto il notabilato antifascista, da Trento ad Agrigento.

Fu in sostanza una prova generale, in vista della restaurazione delle gerarchie regionali prefasciste. La solennizzazione della Resistenza e della Liberazione, emblematizzate nel 25 aprile, riguarda un momento successivo, e attiene al rapporto tra i poteri operativi in politica e il consenso dell'opinione pubblica.

Alla nazionalizzazione delle masse prodotta dalla Grande Guerra e insistentemente conclamata dal fascismo, il restaurato regionalismo padano aveva bisogno di contrapporre una nazionalizzazione delle masse, per così dire, regionale e spartitoria. Fra l'altro c'era da reprimere l'indisciplina siciliana vagheggiante cospicue fette di torta. Resistenza e Liberazione erano quanto bastava per ricollocare le regioni risorgimentaliste nella posizione di semidee, in cui tutto è bello e a cui tutto è permesso.

Il neoregionalismo di ascendenza cavourrista e giolittista fu subito evidente a tutti nella fase della Ricostruzione cosiddetta nazionale. Non se fu (per così dire) colpa di De Gasperi o di altri (ma, essendo stato studente in un ateneo in cui insegnava il democristiano di sinistra e antidegasperiano, Giuseppe Dossetti, propendo a crederlo), certo è che, con la Ricostruzione, la restaurazione del regionalismo fu resa esplicita dallo stesso governo.

In quella fase la destra massonica e il centro cattolico furono alquanto espliciti ("imparate una lingua ed emigrate", ci suggeriva De Gasperi).

A far saponate nazionalitarie era, allora, la sinistra, che poi era la prima a non crederci. Difatti non c'è un solo marxista che sappia bene che l'Italia può restare unita solo a patto che il suo sistema legislativo rimanga subdolo, arlecchinesco.

Insomma che le leggi, fatte a favore o contro una certa area geografica, sembrino generali.

Ad opera di Bossi, le disuguaglianze unitarie vanno diventando verità costituzionali e legislative. E' difficile capire la voglia di suicidio dei lumbard. I benefici ottenuti dalla Lombardia e da Milano in particolare nel corso dei 143 anni di unità sono eccezionali. Attraverso le banche e la borsa, oggi Milano ha in mano tutta l'economia nazionale e il governo del paese.

Se si pensa alla sua decadenza dopo la fine del Regno napoleonico e al fatto che gli austriaci ne avevano fatta una guarnigione popolata di soldati croati, e di prostitute e delinquenti lumbard; un luogo in cui imperversavano il tifo e la tubercolosi, come risultata dai dati successivamente acquisiti in occasione delle leve militari, bisogna dire che la strada percorsa ha dell'incredibile.

Neanche New York è riuscita a fare di più, s'intende relativamente all'ampiezza e alla ricchezza degli americani. Perché l'Italia non convenga più agli scaltri lombardi, è difficile capire. Ma essi sono di cervello fino. Pertanto una ragione ci sarà, anche se io non riesco a capire qual è.

Al contrario, si capisce la ragione (e si conosce l'espressione atto a definirla) del sentimento patriottico che pervade la borghesia e larga parte del proletariato meridionale. Ma anche questi nostri amati corregionali e sudichi, prima o poi, dovranno rendersi conto che non hanno lottato contro il tedesco invasore, che non hanno marciato su Vienna e Berlino, che non hanno messo in orbita la Luna, come lombardi ed emiliani.

Sono stati liberati, puramente e semplicemente, da altri, e precisamente dagli angloamericani. Ergo, se proprio vogliono federalisticamente solennizzare il giorno della liberazione, la data appropriata è l'11 luglio (1943), quello dello sbarco in Sicilia degli amici/invasori/liberatori/alleati angloamericani, eroicamente preceduti dalla Piccola Vedetta Mafiosa.

 

Nicola Zitara





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