L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


L'agonia

di Nicola Zitara

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Siderno, 19 novembre 2005

Mercoledì 16 nov. 2005  il senato della Repubblica Italiana ha messo a pane bianco il grande infermo, lo Stato nazionale, il quale ha appena 145 anni di vita, molto pochi per la storia degli Stati.  Uno Stato nato male, che è vissuto e vive soffrendo. Volendo fare l’anamnesi del suo amaro esistere e della sua lenta agonia, cominciata prima che nascesse, dobbiamo partire dal concetto di Risorgimento.

Il termine è noto a chiunque accende la Tv nel momento in cui il Presidente Ciampi inneggia all'Unità d'Italia,  alla patria,  e canta l'Inno di Mameli. Non so dove la parola fu usata per la prima volta in un significato politico, ma sono certo che è uscita dalla bocca o dalla penna di un padano. Nell'Italia del Centronord, alcune regioni e alcune città ricordavano un tempo di grandi splendori: l'età del Libero Comune, il Rinascimento, la Signoria di Firenze, di Milano, le altre grandi Signorie, le ricche Repubbliche marinare di Genova e di Venezia.

Nel quadrilatero regionale che comprende queste città è nato il moderno mercato, il capitalismo, la banca moderna. Gli splendori di quel passato sono doviziosamente e artisticamente testimoniati da mille palazzi, chiese, irripetibili opere d'arte. Questo periodo di grande splendore si protrasse dal 1100 al 1550 d.C., poi l'Italia  rinascimentale prese a decadere paurosamente. La centralità economica passò dal Mediterraneo alle sponde dell'Atlantico. Firenze, Genova, Milano, Venezia investirono le enormi ricchezze accumulate in Spagna, Francia, Inghilterra.

Molte ricchezze si riversarono dalle città alle campagne. Il feudalesimo ancora superstite in alcune regioni fu sconfitto a favore di un'agricoltura efficiente. La Decadenza italiana, iniziata nel 1550 circa, era ancora visibile nel 1815, che è la data in cui, sconfitto Napoleone, le grandi potenze europee (Regno Unito, Impero austriaco, Papato, Russia, Francia, Prussia, Due Sicilie) concertano la Restaurazione dinastica. Questo ordine politico è contro gli interessi dell'Italia tosco-padana, divisa in cinque realtà statali: il Lombardo-veneto sotto l'Imperatore d'Austria, la Toscana, Parma e Piacenza, Modena e Reggio, sotto dinasti designati dalle grandi potenze, la Romagna, le Marche e l'Umbria sotto il Papa romano, a cui si aggiunge il Regno di Sardegna, che comprende province di tradizione italiana, quali Genova, Asti, Alessandria e province di tradizione provenzale, come la Savoia, il Nizzardo, Aosta e Torino.

Ad inalberare l'idea di Risorgimento sono in primo luogo Genova, Milano, Firenze, Modena, Reggio, ma è l'intera area rinascimentale, dalla Toscana a Venezia, che vuol risorgere. E' un moto naturale. Chi è stato grande, illustre, ricco non si rassegna alla sorte avversa. A questa spinta, creatrice di storia, non partecipano Roma, che gode i benefici della sua posizione religiosa, e il Lazio, che è poco abitato, poco salubre, largamente destinato al pascolo brado. All’opposto, Napoli e le regioni continentali del Regno meridionale, che hanno iniziato, sotto la guida illuminata dei Borboni d'Italia, un faticoso cammino verso la modernizzazione - purtroppo interrotto dal decennio napoleonico - appaiono soddisfatte e protese a migliorare.

I moti, i patrioti, i martiri meridionali, che i libri di storia ci presentano, sono degli isolati, degli idealisti spesso generosi, ma ancor più spesso le vittima della propaganda liberale inglese (il Regno Unito vuole dominare il Mediterraneo e i Borbone gli dànno ombra) e di quella bonapartista (anche la Francia vorrebbe un suo principe sul trono di Napoli). Al Sud, qualche fermento politico c'è solo in Sicilia, ma non viene da una classe che progredisce e  chiede spazi di libertà, ma dai principi e baroni terrieri, a cui il populismo borbonico è fortemente inviso.

Il processo risorgimentale della Toscopadana inizia con “Le mie prigioni” del milanese Silvio Pellico. Ma come risorgere? Chi darà le armi per liberare  il Lombardo-Veneto, chi offrirà le risorse per riportare le grandi città toscopadane all’altezza della loro passata storia,  alla pari con le grandi nazioni? E’ la Francia napoleonica, sconfitta, che  regala agli italiani l’idea di nazione, un’idea che prima non aveva il significato politico che noi oggi le diamo. Le regioni toscopadane sono, però,  solo una parte della penisola italiana. Se si vuole sfruttare il principio di nazionalità, è necessario coinvolgere tutti gli italiani, dalla Alpi alla Sicilia. I passaggi intermedi sono arcinoti. Si parte dalla rivoluzione popolare di Mazzini, che non scoppia, e si approda a Cavour e all’esercito di Napoleone III, che nel 1859 batte l’esercito austriaco in Lombardia. Solo allora il padronato meridionale, timoroso di non riuscire a controllare una probabile rivoluzione contadina, si dà suddito a Vittorio Emanuele Savoia e al suo esercito.  

Nel 1860, l’Italia è fatta, ma non risorta. Affinché le regioni risorgimentaliste risorgano, occorrono risorse ingenti. La risorsa più dolorosa per gli italiani di quel tempo e per i loro figli e nipoti, fino alle generazioni che ancora debbono nascere, viene dai tributi fiscali. Attraverso la fiscalità su base nazionale, il Piemonte e la Lombardia pagano i debiti preunitari, contratti per mettere in piedi  i loro sistemi ferroviari e stradali. Con i soldi della nazione possono affrontare altre grandi opere, come le Bonifiche Ferraresi e il Canale Cavour. Roma e Firenze rinascono a nuova vita.

Le nuove opere, la costruzione di una rete ferroviaria che porti velocemente i bersaglieri fin giù in Sicilia, l’importazione di armamenti  sono anche l’opportunità per facili arricchimenti. I profitti di carattere speculativo e clientelare diventano l’etica incontrastata del nascente capitalismo padano. Tra il 1860 e il 1866, in appena sei anni, il Sud trasferisce al Nord ben tre miliardi di lire-oro. Il Sud è espropriato del suo circolante. E’ espropriato di un milione di ettari di terra,  che lo Stato fa suoi con un semplice decreto. Le fabbriche borboniche  vengono chiuse per risparmiare e per non spostare al Sud la centralità politica del nuovo Stato,  gli operai vengono caricati dall’esercito, uccisi, dispersi. Il paese meridionale è liberato dagli “odiati borbone” mercé la sua morte economica. Resiste il glorioso cantiere navale di Castellammare. Non ce n’è altri in Italia. Ci lavorano i migliori arsenalotti del mondo. La Toscopadana deve piegarsi ad accettarlo. Ma non resiste più di trent’anni. La Spezia, che aveva 15.000 abitanti nel 1860, nel 1900 ne conta più di centomila.

Poi l’industria. Chi aggiunge valore ai beni esistenti in natura (un pezzo di legno che diventa una sedia) viene pagato. Il Sud senza industrie, a parità di tempo di lavoro, trasferisce ogni anno al Nord industriale una quota sempre più rilevante del suo prodotto, tanto che oggi non ci resta altro da dare che le nostre case. Cioè  trasferire le nostre eredità storiche per mangiare.

Il Sud paga, la Toscopadana risorgimenta. Il padronato, che aveva sperato di salvarsi con l’aiuto delle baionette sabaude, declina, si decompone, alla fine crolla. I contadini fuggono a milioni verso le Americhe. Comincia l’età degli incendi dei municipi, la mafia e la camorra fioriscono. I meridionalisti portano il Sud all’opposizione dello Stato. L’unità potrebbe spezzarsi da un momento all’altro. Esautorato il padronato fondiario, la Toscopadana deve trovare una nuova spalla su cui appoggiare il suo ethos patriottardo. La Grande Guerra, la retorica della vittoria mutilata, il fascismo. Il Sud esce dalla prima e dalla seconda Guerra Mondiale con le ossa rotte. Nel 1945 comincia l’opera della Ricostruzione nazionale, ma per il Sud non c’è neppure un obolo. L’ondata migratoria, che segue al disastro, prepara un clima favorevole al comunismo. Il fatto che il Partito comunista tema una rivoluzione soffocata nel sangue, come nella vicina Grecia, non basta a normalizzare le regioni meridionali. Adesso alla guida del Paese non c’è più la massoneria prefascista, ma la Chiesa romana, e questa media nel senso della pace sociale. Nasce l’assistenzialismo, il clientelismo, il carrierismo politico, la rete intrallazzistica sulla spesa pubblica, si aprono le porte ai guadagni facili e all’illecito arricchimento. Dossetti, Mattei, Fanfani, i socialisti, vorrebbero un diverso procedere. Sono favorevoli a creare le fabbriche dove c’è la manodopera. Ma insorgono la Confindustria, la Fiat, i settori liberali del partito cattolico, l’accademia economicistica che sta nelle stanze della Bocconi e riempie le pagine di Mondo Economico e del Corriere della Sera. Trionfa Moro e il suo vasellinistico trasformismo.

L’assistenza a favore di un paese senza industria e con una produzione agricola tradizionale impone flussi considerevoli di ricchezza erariale. Le entrate tributarie  non reggono. Craxi e De Mita mettono una toppa creando fiumane di debito pubblico. Ma anche la toppa  si sfonda. Il Meridione è un paese moderno quanto ai consumi e un paese ottocentesco quanto alla produzione. L’assistenzialismo non salda le due aree.

Ecco, allora, il federalismo, impudicamente oggi coperto dalla parola devolution, con cui la Toscopadana dà l’addio alla classe politica meridionale e le nega i viveri. Ovviamente l’area assistita è vicina al crollo. Pagano non soltanto i politici e i loro parchi buoi. Paghiamo tutti.

 O forse non tutti. Berlusconi e Tremonti, che certamente hanno dietro le spalle chi sa farsi i conti con la vicenda sociale, hanno preparato una nuova spalla, su cui il sistema toscopadano potrà appoggiarsi per tenere soggiogato il Sud che, attraverso il commercio internazionale della droga, salda i conti della bilancia italiana dei pagamenti internazionali. Alla retorica deamicisiana dei maestri di scuola, alle puttanate degli storici,  alle declamazioni  che gli uomini politici, cosiddetti democratici e antifascisti, gridavano nelle piazze (e gridano tuttora in televisione), ai raggiri degli uomini dello Stato e dei servizi pubblici, si è sostituita la retorica dell’arricchimento facile, che coinvolge il commercio, l’artigianato di servizio (alle industrie padane), i giornalisti, gli scrittori, i dottori commercialisti, i venditori di pubblicità, i bluffatori dell’antimafia, gli operatori locali delle finanziarie e delle banche; insomma tutto lo sciame della nuova classe che va sorgendo sulle rovine del Welafare.

La Toscopadana è un paese di gente intelligente, informata, capace di fare le quattro operazioni aritmetiche, ma anche cinico sin dal tempo del Libero Comune e di Dante Alighieri, che per primo l’ebbe a notare. Il Sud è un paese scalcinato, per molti aspetti vile, inaffidabile e soprattutto incapace di farsi conti. La posizione servile di cui si lamenta (ci lamentiamo), in effetti se la merita (ce la meritiamo). Nel farci “fratelli d’Italia”, il destino ci ha prima accecato. Disse Francischiello, prima di abbandonare Napoli a Garibaldi: “Non vi lasceranno gli occhi per piangere.”   

Il Signore, sceso in terra per gratificare gli uomini, incontrò due viandanti. Si rivolse a uno di loro, e disse: “Io sono il tuo Signore, e adesso ti farò una grazia. E il tuo compagno avrà la stessa grazia, ma raddoppiata.” 

Rispose reverente il viandante: “Signore mio, cavatemi un occhio”.           


Nicola Zitara



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