L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


I danari degli altri

di Nicola Zitara

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Siderno, 25 maggio 2006

In queste elezioni, che qui da noi riguardano il Comune e la Provincia, si è assistito a un consistentissimo aumento della spessa propagandistica. E’ cresciuto il numero delle liste; conseguentemente anche quello dei candidati.


Per qualunque partito lo stare al potere è una rendita, e per qualunque candidato l’elezione significa, oltre al resto, una consistente indennità. Siamo, tuttavia, in una fase di passaggio, che il governo di centrosinistra, a cui partecipano parecchi partiti minori, cercherà di allungare. Ma non certamente all’infinito. I paesi europei imparano dagli Stati Uniti. Lì le formazioni politiche non ricche sono state decimate dai costi esorbitanti delle campagne elettorali.


La democrazia si sostiene sui soldi. Già 2500 anni fa accadeva ad Atene, madre primigenia della democrazia elettorale. Nessuna sorpresa quindi che accada oggi dappertutto nel ricchissimo Occidente. Sorprendente è invece che accada anche nel paese meridionale, parente povero dell’Occidente europeo e della Toscopadana, il quale vive da quindici anni la pagina nera dell’assistenzialismo calante. Dovremmo piangere, invece scialiamo. D’altra parte, si campa una sola volta, e a piangere il morto son lacrime perse.


L’assistenzialismo calante è la bussola che orienta l’opinione politica corrente: quella degli elettori e quella dei candidati. Il Sud è un paese dipendente. Quel che ciascuno di noi meridionali ha, o non ha, dipende da Roma.


La quale a sua volta dipende dalla Toscopadana. Particolarmente dipendenti dalla Toscopadana sono gli attori della politica - eletti e candidati - i quali neppure potrebbero calcare la scena elettorale se non ottenessero il viatico da un partito nazionale; in pratica da una formazione politica toscopadana.


Di fronte all’assistenzialismo calante, le reazioni dell’opinione pubblica meridionale sono variegate, tuttavia si possono ricondurre a due soltanto. La più diffusa è questa: “Sì, certo, il Sud è ancora arretrato. Non siamo capaci di creare attività produttive, lo ammettiamo. Ma siamo cittadini italiani anche noi, e come tali dobbiamo avere lo stesso trattamento degli altri…Sì, certo, qualcosa in meno, ma non troppo. La sanità, la scuola, i bilanci comunali vanno garantiti. E poi la lotta alla mafia, una società civile che sostiene i giudici nel loro immane duello con la piovra”.

 

Si tratta in sostanza di una linea politica che attende – come una manna celeste – ciò che non arriverà mai: l’estensione a queste impervie contrade dell’Italia costituzionale e resistenziale. Una cosa che sicuramente sarebbe già fatta se non ci fosse stata la mafia di mezzo. Lo dice la televisione. E poi lo si vede. Ormai è la mafia che fa i sindaci e i deputati. Forse anche il presidente del consiglio.


Riducendo la cosa al nostro livello, se cerchi un impiego in banca, una laurea, un primariato ospedaliero, persino un ricovero in corsia, devi rivolgerti a cumpari Franci. E’ una potenza di fronte a cui ti devi inginocchiare pregando. Certo, se si ammazzassero tra loro un po’ più spesso, sarebbe meglio. Meno sono, meglio stiamo.


Una seconda posizione è meno attaccata alle garanzie sociali, alle logiche legalitarie, costituzionali e resistenziali. Un po’ di mafia non guasta. Qui si punta ai soldi da investire nelle aziende pubbliche e in quelle private. A quei soldi che, quando vengono spesi, portano voti. Soldi italiani, soldi europei. I soldi, comunque, di un creditore alquanto tiepido nel riscuotere il credito. In ogni caso, soldi che vengano da tasche altrui. Se poi la spesa non porta benefici generali, tanto meglio, così la rifacciamo. Soldi. Soldi. Soldi. “Robba du guvernu…”


In questo nostro mondo alienato (o con la testa fra le nuvole che incoronano le Alpi), ci sono anche dei fessi. Per costoro questa politica non è politica. Questo modo di votare è aberrante. Giusto è votare Ds per chi è ancora comunista e in gioventù adorava Stalin. Giusto è votare Casini. Solo così si rispetta il Papa. Giusto è votare Bertinotti, perché almeno gliele canta. Giusto è votare Berlusconi in quanto leader eponimo e antonomastico dei self made man.


C’è poi chi vota Peppe Tonino, perché è stato suo compagno di scuola. C’è chi vota Ciccio d’Antoni, perché è il nipote del cugino Filippo.


Il nostro panorama politico è desolante. Una società sbracata, incapace di capire che un altro passo indietro e s’incontra il precipizio. Un mondo corrotto, malato di un male senza rimedio, la negritudine. Purtroppo! Non è colpa degli altri se siamo considerati un popolo di mafiosi, o in alternativa, dei pagliacci. In ogni caso, persone inaffidabili, comunque sporche. “Vietato l’accesso ai cani e ai meridionali”.


Sì, certo, è l’etica del “chi disprezza vuol per comprare”. Una cosa che potrebbe essere persino divertente. Se Bernard Shaw fosse stato uno di noi, ci avrebbe scritto una commedia. Martoglio, Scarpetta, Totò ci hanno costruito sopra delle succose scenette. Sicuramente fatterelli divertenti, se di mezzo non ci fosse il pane. Il pane di chi veniva preso a calci in culo a Zurigo o a Bergamo. Per molto meno i siciliani scannarono i francesi nella famosa epopea del Vespro. Ma allora niente si sapeva di Garibaldi e Pertini.


O l’ignobile mafia o il nobile Stato. O ti corrompi o diventi invisibile. O applaudisci i grandi della democrazia repubblicana e resistenziale o perdi il diritto a parlare. Questi i dilemmi che si pone l’italiano sudico, dopo 150 d’unità. E se lui se ne dimentica, Giorgio nostro, Culo Alpigiano di Gallina, provvede Lui a ricordarglieli. “Allineati e coperti, sfilano le Penne Rosse della Brigata Cuneense.” Le altre posizioni sono guaste, incoerenti, contrarie alla democrazia, scarsamente tricolori. “Pistami u culu, e linchimi a panza”.


La democrazia alla bardanella. Cento lire al pezzo. Ma come siamo arrivati a tale merdaio? Ce lo abbiamo nell’animo o ci viene da forze esterne che non riusciamo a controllare?


Lo Stato italiano non è nato in età feudale, come la Francia, la Gran Bretagna, la Spagna, il Portogallo, la Russia., lo stesso Regno delle Due Sicilie. E’ nato appena centocinquant’anni fa, nel 1861, in età capitalistica, in seguito all’intervento militare della Francia e alla vittoria conseguita dall’esercito francese sull’armata austriaca d’Italia. La diplomazia britannica ha fatto il resto.


Tutta l’Italia è passata sotto il radioso governo piemontese. Il Piemonte ha imposto il suo civilissimo sistema. Al Sud, qualche volta, è stato costretto a usare le armi, ma solo contro dei contadini incapaci di capire il luminoso avvenire che li attendeva.


Di questa guerra si parla ancora. Ma c’è un fatto meno visibile, più tortuoso, più complicato, più difficile da leggere, più micidiale della violenza militare. Riguarda il capitale. Fino al 1848, il Piemonte fu un piccolo Stato regionale dominato da un re e da un’aristocrazia terriera sostanzialmente feudali.


Un mondo contadino umiliato e chiuso alla luce del progresso. Rispetto a Napoli, a Milano, a Firenze, il terzo mondo. Figuriamoci rispetto a Parigi e Londra. L’opera giornalistica e governativa di Cavour fu volta a rammodernare la società e lo Stato, cariati di vecchiaia e bacchettoneria. Meriti grandiosi, riconosciuti dai posteri nei libri di storia e nella toponomastica delle grandi città e degli infimi borghi.


Però i giudizi degli scultori pagati per scolpire statue di bronzo non sempre sono informati. Sicuramente sbagliano quando immaginano Cavour un uomo moderno e un grande modernizzatore.


Le sue idee circa il liberismo economico venivano dalla corrispondenza con un cugino che faceva il banchiere in Svizzera. Era poi stato in Francia, dove per capitalismo s’intendeva più che altro l’arricchimento dei banchieri e degli speculatori sui titoli del debito pubblico e sull’indebitamento degli Stati.


La definizione più efficace e pertinente del capitalismo alla moda francese la dette un uomo d’affari del tempo, ovviamente francese: “Il capitalismo altro non è che il danaro degli altri”. Cioè la cartamoneta, la carta che circola su basi fiduciarie. Ligio all’idea corrente nella Francia del tempo, Cavour invase il Piemonte e poi l’Italia padana di cartamoneta, in cambio della quale riuscì a rastrellare l’oro in circolazione per donarlo, gratis et amore dei, agli speculatori di Torino e di Genova. I suoi successori al governo furono felici di continuarne l’opera. Il capitalismo che oggi ci governa è nato ad opera della speculazione bancaria, esportata dal futuro Triangolo industriale nelle altre regioni con il valido ausilio delle baionette dei bersaglieri.


Il primato del Nordovest cosiddetto italiano si è eretto sul “danaro degli altri” che fu investito in cannoni, fucili e corazzate. Per trentacinque anni, l’oro degli italiani venne intascato da chi speculava sulle ferrovie, sullo zucchero, sui tabacchi, sulla marina mercantile, nell’edilizia romana e fiorentina, sul Risanamento di Napoli, nelle esattorie, sulle guerre d’Africa.


Poi, quando cominciarono ad arrivare le rimesse degli “altri”, emigrati in America, la Patria le valorizzò comprando impianti industriali all’estero, che vennero, in base al clima patriottico creato dalla precedente speculazione, regolarmente regalati ai “capitalisti” di Torino, Genova e Milano. I quali fecero la grazia di far pagare ai nostri nonni un chilowatt d’elettricità otto volte che in Inghilterra, un quintale di concime azotato sedici volte che in Germania, un automobile tre volte che in America, un chilo di pane due volte che in Francia. Durante la Prima Guerra Mondiale, Lor Signori si sporcarono i baffi col sugo. Subito dopo, per non perdere il sugo, imboscarono i profitti di guerra nelle banche inglesi.


Difatti in Italia circolavano dei feroci comunisti, nemici della civiltà cristiana e buongustai di bambini a lesso. O Roma o Mosca. Durante la Seconda Guerra Mondiale si sporcarono anche la barba. Questa volta, però, i soldi li portarono in Svizzera. In Italia si aggiravano nuovamente dei feroci comunisti.

Per fortuna arrivarono altri soldi di “altri”, nel caso gli americani.


Cosicché i capitalisti rifecero le fabbriche senza mettere fuori una lira. Non contenti di ciò, ricominciarono a far pagare a noi “altri” i loro prodotti tre, quattro volte che in Germania e Giappone. Qualche volta mi viene da pensare che lor signori abbiano pervicacemente congiurato per mandare in malore qualsiasi iniziativa meridionale, onde non avere concorrenza sui prezzi. Tuttavia, considerata la nobiltà del salotto buono di Milano, il mio sospetto è sicuramente una cattiveria.


Oggi, secondo la rubrica televisiva Report, una mucca lombarda riceve quotidianamente (dico ogni giorno dei 365 giorni di un anno) un contributo europeo pari a 10 dollari. La coraggiosa conduttrice televisiva ha però dimenticato di dire che i dieci dollari, moltiplicati per tutte le mucche padane, li paghiamo ogni giorno noi.


Potemmo aggiungere che i veneti pagano un chilogrammo di uva pugliese o siciliana meno di 20 centesimi, e poi ci vendono il loro vino tagliato a 15 euro la bottiglia. Sempre a proposito dei soldi degli “altri”, oggi la fonte più fertile sono le case. Lor signori stampano carta, te la prestano, tu la trasformi in mattoni e cemento, poi gli restituisci il dovuto almeno due volte tanto. Lo fai con il tuo lavoro, che è vero oro, proprio quello che si produce nelle miniere.


Forse Francischiello era un giovanotto timido e indeciso. Abbandonando Napoli gli capitò di dire, forse per caso, o forse a ragion veduta: “Non vi lasceranno gli occhi per piangere”. Si riferiva ai piemontesi. E logicamente si sbagliava. Non solo gli occhi ci abbiamo rimesso, ma anche un altro posto del nostro corpo. Proprio quel posto…


Nicola Zitara


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