L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


Un pubblico disastro chiamato deregulation

di Nicola Zitara

(scarica l'articolo in formato RTF o in formato PDF)


Siderno, 4 Agosto 2003

Tutti, credo, hanno sentito parlare della rivoluzione napoletana del 1799, di Luigia Sanfelice impiccata, dell'ammiraglio Caracciolo fatto appendere da Nelson a un pennone della sua nave, del Cardinale Ruffo e delle bande contadine di Santa Fe', la cui resistenza ai francesi è descritta da Sharo Gambino nel bellissimo romanzo che s'intitola Vizzarro, dal nome di un romantico fattore che, divenuto brigante per amore, passò poi a compiere un'atrocità dopo l'altra.

Qualche anno dopo la rivoluzione, lo storico napoletano Vincenzo Cuoco scrisse sulla vicenda un saggio famoso in Italia e altrove. Sebbene fosse stato un simpatizzante del partito francese, Cuoco considera la rivoluzione giacobina del '99 una rivoluzione "passiva". Con questo termine, egli intendeva affermare che la rivoluzione del '99 era stata importata da fuori, che, in sostanza, non era stata altro che una brutta copia della rivoluzione francese; una cosa per la quale mancavano i presupposti sociali, in quanto la classe borghese era ben lontana dall'essere la classe economicamente dominante nel Napoletano.

All'argomento di Cuoco si può aggiungere che il giacobinismo arrivò a Napoli fuori tempo, in quanto in Francia i giacobini erano già finiti tutti sotto la lama della ghigliottina e il futuro imperatore Napoleone era già il capo del paese, in nome della legge e dell'ordine.

Sin da quel tempo - cioè da due secoli - il Sud ha sofferto e soffre di una serie di rivoluzioni e trasformazioni sociali importate da fuori, specialmente da Milano, che danno luogo a cambiamenti scriteriati, a speranze impossibili, a idee estranee ai bisogni del paese. I disastri provocati dall'unità nazionale sono il classico esempio della subalternità alle istanze forestiere. Anche il recente disastro sopravvenuto con l'ingresso (insieme alla Toscopadana) del paese meridionale in Europa - proprio nel momento in cui il più elementare buon senso avrebbe consigliato di prendere le distanze dall'egemonia dei grandi monopoli continentali - è il frutto dello scivolone morale e politico di una partitocrazia malaccorta e servile verso il forestiero. L'ultima stravaganza arrivata qui si chiama deregulation. Si tratta di un indirizzo politico che mira allo smantellamento dello Stato cosiddetto "pesante", a favore di uno Stato cosiddetto "leggero".

Nei paesi in cui tutte le risorse hanno pieno impiego, è certamente una buona politica quella diretta a eliminare i vincoli che frenano il movimento degli uomini e/o dei capitali dai settori meno produttivi a quelli più produttivi. Difatti un eccesso di garantismo porta a un rallentamento della produttività del lavoro, cosa di cui l'inefficienza della sanità, della scuola e del resto della pubblica amministrazione meridionali rappresentano l'esempio comunemente noto.

Ora, al Sud i capitali e il lavoro sono tutt'altro che pienamente impiegati. Anzi, come tutti sappiamo, fuggono. Basta leggersi l'Annuario di Statistica e il Bollettino della Banca d'Italia per trovare anche la cifre relative alla fuga. Se la situazione è questa, che senso ha da noi, per esempio, la deregulation in materia salariale?

Ha solo il senso di un disastro, perché l'occupazione resta stagnante come prima, e se i datori di lavoro accrescono i profitti, ciò non vuol dire che investano di più. L'accumulazione di capitale finisce in banca, e la banca tutto fa, meno che consentire un reinvestimento in loco. In effetti, anche i nuovi soldi viaggiano verso Milano, dove i De Benedetti, i Colaninno, i Tronchetti Provera di turno saranno messi nella comoda condizione di utilizzarli per crearsi una rendita, senza sudore della fronte e senza rischi di sorta.

Qui da noi, la deregulation è stata già imposta da Cavour, per i capitali, e da De Gasperi per i lavoratori. Cose antiche, dunque. Il disastro provocato da tali deregulation è sotto gli occhi di tutti. Semmai, qui, bisognerebbe rimettere le regole, avere uno Stato molto "pesante" e una direzione forte e indipendente nell'impiego delle risorse.

Ma il disastro deregolativo non si esaurisce, qui, in una concezione politica che ha ampiamente mostrato la sua nocività. Nell'ambito del sistema Italia è accaduto che sulla deregulation inaugurata da Amato, Ciampi, Prodi, D'Alema, si è innestata la devolution dello Stato a favore delle regioni, fenomeno a cui è stato dato impropriamente il pomposo nome di federalismo.

Lo Stato, non solo deregola i vincoli che legano le imprese al rispetto dei lavoratori, ma si autoderegola come potere, come Stato (appunto lo Stato leggero), con il risultato che la parte lasciata libera (dallo Stato) viene regolata dalle singole regioni. Nella pratica, però, solo da quelle ricche.

Insomma Stronzobossi devolve e l'ineffabile Tremonti deregola. Il risultato è quello che si voleva e che veniva contrabbandato per federalismo. A controbilanciare lo Stato leggero abbiamo ora sia regioni pesanti sia regioni fuscello. Per esempio, è solo di qualche giorno fa l'intervento del governatore della Regione Lombardia a favore dei licenziati Fiat di Arese. Formigoni ha trovato subito i miliardi occorrenti a salvare dalla povertà, con un finto lavoro e un vero salario, i mille e più licenziati.

Una devolution di questo tipo è bellissima. Purtroppo in Calabria una tutela del genere si esaurisce ai lavoratori forestali. Centinaia di migliaia di altri lavoratori, incapaci di piantare pini, di spegnere e suscitare incendi, battono i marciapiedi e si "devolvono" nel vuoto.

La devolution lombarda è una valanga geopolitica che mira a legare i produttori al sistema con un doppio percorso: nelle terre stronzobossiste alleggerendo i carichi statali e aumentando il flusso della spessa erariale; nelle terre non stronzobossiste alleggerendo i doveri e i poteri dello Stato, in modo che a tutelare la gente rimangano la Madonna e Sant'Antonio. Ma fino a che punto andremo avanti con la deregulation tremontanista e la devolution bossista? Fino al punto di non nuocere agli interessi precostituiti della Toscopadana, che sono: libera circolazione delle risorse umane (emigrazione, oggi specialmente dei cervelli), libera circolazione dei depositi bancari e postali (cioè traghettamento degli stessi fino alle sponde del naviglio), libera circolazione delle (loro) merci (protette dalla tariffa europea), una sola borsa in tutta la penisola, ovviamente a Milano, il governo dell'opinione pubblica attraverso i giornali milanesi e la televisione milanese.

Il prodotto di questo pasticcio, confezionato in Lombardia al fine di ottenere una più larga parte dei soldi che prima erano incassati dallo Stato, i meridionali lo hanno sotto gli occhi tutti i giorni. In Calabria ha assunto il nome e le sembianze di Chiravalloti e di Minniti.

Tuttavia la devolution stronzobossista incontra due insormontabili trincee. La prima consiste nel conservare in mano alla partitocrazia il potere clientelare, attraverso il quale la Toscopadana controlla i meridionali sin dal tempo della conquista garibaldina. La seconda consiste in quella parte della spesa sociale che viene effettuata qui e incassata al Nord. L'esempio classico è dato dalla manna che l'erario fa piovere sull'industria farmaceutica, ma anche quella su quella del ferro e del cemento (il faraonico progetto del ponte sullo Stretto, sponsorizzato dal grande giornalista Calarco e dalla sua inenarrabile Gazzetta).

La partitocrazia meridionale ha sempre avuto questo spazio politico e lo conserverà. Il resto è già sotto zero. Le voragini si aprono sotto il vuoto di cassa. L'ultima è di pochi giorni fa. Per tappare i tanti buchi aperti, la Regione Calabria "ha dovuto" fregare agli alluvionati i soldi elargiti dallo Stato a loro favore, dopo le alluvioni del 2000.

L'assessore Minniti per trarsi d'impiccio e nascondere l'illecito, ha tentato di trasformare il "suo" torto in una "sua" ragione affermando che gli alluvionati si sono comportati da ladri e da truffatori. Saranno loro a dover dare la prova contraria.

Peccato che Minniti non sia vissuto al tempo dei juris periti romani, al tempo di Ulpiano e di Gaio. A quel tempo la sua visione del diritto avrebbe fatto testo. Infatti i concetti allora elaborati costituiscono tuttora dottrina e vengono insegnati nelle facoltà di giurisprudenza di tutto l'Occidente.

Nicola Zitara

 

Torna su

 

Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del materiale e del web@master.