L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Il capitale storico

di Nicola Zitara

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Siderno, 7 Agosto 2004

Se fossi un estraneo a quel che sta avvenendo in Italia, ed estraneo anche all’Italia e agli italiani, ci sarebbe da divertirsi. C’è un  presidente  che cerca di salvare i cocci dello Stato unitario, cavourrista e resistenzialista, limitandosi a sventolare il tricolore, e un altro presidente che, alternando le buffonate con le pacchianerie, non riesce a portare a termine il progetto del suo governo, consistente nella levitazione del neocapitalismo self made man, a sua volta implicante lo smembramento dello Stato cavourrista e partitocratico (non più resistenziale) in  due aree di aree di pubblici impiegati e in un Welfare zoppo come quello del Duce e del suo più tartufesco dei suoi successori, il piemontista Luigi Einaudi.

Lo Stato cosiddetto italiano è stato sempre doppio. Se vogliamo ribadirla ancora una volta, la duplicità e la doppiezza stanno tutte dentro il sistema bancario creato da Cavour e immancabilmente  riaffermato dalle canaglie che si sono succedute al suo posto, il quale sistema raccoglie il risparmio sull’intero territorio, ma questo danaro lo rischia, anzi l’immola (e lo ha già fatto sfacciatamente in almeno tre momenti della storia unitaria) soltanto in quattro regioni: Liguria, Lombardia, Piemonte e Toscana.

Ciò ricordato, torniamo al discorso precedente. Il pubblico impiego è guardato solitamente soltanto come burocrazia. Ma si può inquadrarlo tranquillamente anche come una classe o un ceto sociale, che in molti paesi, compresa l’Italia, riceve un trattamento economico uniforme in qualunque parte dello Stato esso operi. In un paese economicamente e socialmente doppio, qual è l’Italia, l’uguale trattamento ha comportato che, con lo stesso stipendio, mentre a Milano si riusciva appena a campare,  al Sud si stava da signori. Non si tratta di una teoria, ma di un fatto.

Chi  non è un giovanotto di primo pelo ha visto, 30/35 anni fa, quale rivoluzione sociale ha prodotto al Sud la massiccia  occupazione nella scuola e negli ospedali.

Al Sud, i devoti di Ciampi e gli sventolatori del tricolore vanno cercati nelle famiglie di quei beneficati. Eroici patrioti! Se Massimo d’Azeglio vivesse ancora riscriverebbe il suo Ettore Fieremosca da Capua,  ma senza usbergo e spada, ma con il camice da infermiere. Sono proprio costoro – stranezze della patria italiana - che il Silvio, l’Umberto, il femmineo ex, Julius, e gli uomini invisibili che li ispirano, vogliono colpire.

Anzi hanno colpito. Perché è solo questione di qualche mese e i contratti nazionali di lavoro diventeranno un ricordo e il rimpianto di  un abile marchingegno messo in piedi dai pretori di sinistra, che riuscirono a trasformare in leggi le loro sentenze. Forse il Silvio dovrà fare fagotto, forse no, ma chiunque governerà in futuro, ben difficilmente riuscirò a modificare le novità introdotte.

Tutt’al più Prodi si esibirà in qualche buffetto sulle guance dei diseredati e in un rinnovato sventolio di tricolori, offerto alle plebi affamate come in Perù la foglia di coca, per placare la loro fame. E magari, a titolo di patriottico presente, provvederà a  distribuire gratis i volumi della Storia d’Italia di quel marmittone di Montanelli, edita da Mondadori, cioè da Beslusconi, “ché pure lui deve campare”. 

Di regola, allorché la classe dell’impiego pubblico perde quota, si hanno fenomeni di tipo fascista. Qualcosa in più accadde nel primo dopoguerra, proprio con l’avvento del fascismo, e  qualcosa in meno nel secondo dopoguerra, con l’uomo qualunque, il MSI e il partito monarchico. In questo secondo caso, siccome il moto restauratore non partiva dal Nord, come fu per il fascismo,  ma dall’emarginato Sud, esso fu riassorbito facilmente dalle legioni resistenziali e dalle fedi antifasciste e repubblicane.

Di nobili grida contro la democratica patria, una è evaporata, mentre l’altra tituba. In effetti chi sventola, a ogni occasione televisiva, “patriottica unità” non vuole salvare gli stipendi degli impiegati, ma soltanto il mercato unico nazionale della banca e dell’industria padane, a cui il Sud, nonostante la povertà, continua a far comodo. Cosicché, puniti gli impiegati,  in difesa dell’unità dualistica,  al Sud non resteranno che la mafia e la Commissione Episcopale Italiana (CEI).    

La mafia ha certamente le sue residenze private e i suoi CAR (Centro d’Addestramento Reclute) al Sud, ma poi le sue operazioni commerciali, finanziarie e industriali le effettua al Nord (e nessuno lo sa meglio di chi maneggia danaro a Milano).

La divisione d’Italia comporterebbe un  disastroso afflosciamento della mafia, la rarefazione dell’aria che respira.

Quanto alla CEI è difficile immaginare le sue arcane motivazioni. La cosa a cui si pensa per prima è l’otto per mille con cui l’Italia è alquanto generosa. Ma ben potrebbe essere un’altra. Le scelte politiche della Chiesa italiana sono sempre avvolte da un consolatorio gesuitismo.

L’operazione Bossi, Tremonti, Berlusconi avrebbe potuto essere un bene per il Sud italiano. Il quale sotto la direzione del Nord patriottico e della sottufficialità patriottica dei nostrani  pubblici impiegati ha registrato un’infilata secolare di disastri economici, culturali e morali.

Il Sud ha bisogno di riavere un suo Stato indipendente e un suo libero governo. Siccome, inevitabilmente il moto di liberazione sarà  guidato da un pensiero nuovo e da una classe nazional- meridionale, e quasi obbligatorio che con l’independenza riesplodano le capacità produttive represse.

Ci sono ancora capitali storici che lo Stato italiano non è riuscito a distruggere. Certo la più importante è l’intelligenza dei meridionali affinatasi in tremila anni di storia. La loro capacità di soffrire,  e quella di creare nonostante la sofferenza, gli ostacoli, le avversioni (si pensi agli italiani di New York, del Canada, dell’Australia). La stessa mafia, che come antistato è da cancellare alla radice, ha coltivato potenzialità personali e private di tutto rispetto.

Ma si pensi soprattutto alle nostre terre mediterranee, madri di frutti inimitabili, alla sapienza antica che regge la mano di ogni meccanico, all’intuizione dei nostri medici, alla sagacia dei nostri operatori del diritto, ai grandi artisti a cui la dominazione padanista impedisce di esprimersi; si pensi al risparmio che realizziamo e da 143 un anno dopo l’altro viene drenato dalla Padana; si pensi alla crescita del generale benessere che si avrebbe impiegando il nostro lavoro, invece che comprare merci forestiere;  si pensi soprattutto al privilegio di una cultura operativa che, fin qui, ha dovuto ricorrere alle astuzie invece che al capitale, siccome avviene altrove.

Per il resto, il mondo è pieno di soldi. Le banche americane e tedesche lo davano persino a Tanzi, nonostante sapessero perfettamente che stava per fallire. 

Le giovani generazioni, o si impegneranno intorno a questo progetto o, da qui a non molto,  saranno costrette ad emigrare in Polonia e in Ucraina, a fare lì quello che oggi i polacchi e gli ucraini stanno facendo alle nostre dipendenze.

Alcuni secoli fa, le popolazioni tedesche, francesi, inglesi, polacche non si fidavano dei lombardi. Nei borghi di Germania, quando si notava l’avvicinarsi di un padano, le campane suonavano a martello per allertare la gente. 

Da allora niente è cambiato.

La storia dello Stato unitario, quella generalmente ignorata, è quotidianamente segnata da mille ladronerie toscopadane, da mille capovolgimenti dei fatti, da mille verità stravolte, da mille silenzi omertosi.

Non è Berlusconi il peggiore dei mali, il peggiore dei mali sono gli sventolatori del tricolore, a cui non va l’idea di perdere una così servizievole colonia.

Il detto “chi fa per sé fa per tre” vale anche a livello collettivo.


Nicola Zitara 

 

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