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Due Sicilie
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Locri, capoluogo del rinnovamento

di Nicola Zitara

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Siderno, 20 Ottobre 2006

A Locri si è pianto nel ricordo di un povero morto, con l’intervento di giovani non rassegnati al loro destino di “o emigranti o briganti”, e di molte autorità. Chi, a scuola, ha studiato Carducci ricorderà il concetto di Nemesi storica. Le colpe dei padri ricadono sui figli. Le colpe della mia generazione le ha scontate con la vita Francesco Fortugno.

Non paghi di aver fatto pagare parecchio ai figli, si è raddoppiato. Il partito al governo ha optato per una mera commemorazione dei morti, mentre l’opposizione si defila davanti a un morto che gli altri hanno eletto a simbolo di partito, cosa che non è. Così la Calabria osserva nuovamente il principio romano “divide et impera”. Morti: gli uni contro gli altri, per tenere al guinzaglio i vivi.

Vanno e vengono politicanti e ministri, mentre Mario Congiusta chiede inutilmente che il potere scenda nelle viscere di un mondo che c’è, e si vede, ma che non si vuole né sciogliere e neppure penetrare, per sapere chi ha ucciso suo figlio – un ragazzo che non sarebbe mai stato né brigante né emigrante, in quanto aveva saputo costruirsi qui il suo lavoro.

Ma quante le cose perite qui! Quanti gli uomini periti con esse! Le Ferriere di Mongiana e di Cardinale, le immense piantagioni di ulivi, gli splendidi giardini di limoni, di arance, di bergamotti, di mandarini. L’Italia una e indivisibile ha ucciso tutto, e con le cose anche la speranza. E’ passata come il coltello di una ruspa, non salvando niente e nessuno.

Non ci sarebbe altro da dire che: “Via, carogne!”. Invece ci pieghiamo e accettiamo l’inverecondo amplesso. Salvatore Carnavale, Antonio Valarioti! Storia al passato remoto, che solo un vecchio sopravvissuto alle sue colpe ricorda. La storia va avanti. La lotta per emergere, o almeno per non essere schiavizzati, è dignità sociale.

Fanno bene quei locresi che stanno impegnandosi intorno al progetto di Locri capoluogo. Solo che – secondo me – sbagliano prospettiva. Il problema non riguarda Locri, o soltanto Locri - e non affonda nel numero degli abitanti, come si suppone. Ma riguarda l’intero comprensorio che oggi chiamiamo Locride. Esso appare sulla scena della storia al tempo del terremoto del 1783, che sconvolse la Piana di Gioia e l’Aspromonte.

Sulla costa, a quel tempo, non esisteva alcuna delle attuali Marine Joniche, Gli ingegneri e gli economisti inviati con i soccorsi dal governo napoletano, nelle loro ampie e rivoluzionarie relazioni, non ne citano una sola. E’ probabile (ma la cosa è ancora da ricercare) che il governo sia intervenuto a bonificare gli impaludamenti costieri, rendendo in tal modo oggettivamente urbanizzabili i luoghi. Nel 1815, tornato il Napoletano libero dalla cruenta dominazione francese, neppure una di queste marine esisteva ancora.

Esse sono nate una dopo l’altra, a partire dal regno di Francesco I, le prime intorno al 1825. La crescita, però, è stata successiva. Nel 1861, al momento della proclamazione del Regno sabaudo, i borghi di Siderno Marina e di Gerace Marina non erano ancora Comuni. Il rosario delle marine costituiva indubbiamente il più agevole percorso per le comunicazioni carrabili. Avvenivano su un percorso a pettine (per esempio, Bovalino Superiore → marina → marina di Gioiosa → Gioiosa).

L’utilità di questa soluzione viaria va collegata soprattutto all’esplosione commerciale che si ebbe con lo Stato napoletano, fondata sulle piantagioni collinari di ulivi e l’esportazione di olio verso Napoli, Livorno, Marsiglia, Londra, Ancona, Venezia, Trieste. A un certo punto, a partire dal 1870, le Marine centrarono un loro autonomo sviluppo con la seconda rivoluzione agraria, quella degli agrumi.

Le Marine sono state costruite, al tempo dei velieri, con i proventi dell’esportazione olearia. La produzioni agrumarie le avrebbe arricchite se il Napoletano avesse conservato la sua indipendenza nazionale. Infatti, la Calabria con i suoi fedeli e combattivi briganti - un esercito che a più riprese aveva battuto francesi e padronato liberista - era la terra prediletta dai re Borbone, in particolare da Ferdinando I, che fu un re riformatore (una contraddizione uguale e contraria a quella di Stalin, che fu un comunista re).

Tuttavia, anche nella fase di selvaggia espropriazione fiscale e di drenaggio delle risorse dei Savoia, i surplus agricoli alimentarono non soltanto l’edilizia, ma tutti i mestieri. La storia di lungo periodo è compresa tra il 1780 e il 1960. Tra le due date si svolse un laborioso sviluppo della manifattura artigianale e della piccola industria, che la rete ferroviaria orientata su Milano e Torino non riuscì a frenare, e che solo le banche padane e la diffusione del motocarro e del camion soffocarono.

La Locride è un area compatta, a sé stante. Tempo fa, un articolo di Antonio Orlando su questo stesso giornale l’ha messo in chiaro. Locri capoluogo di provincia non serve a Locri, ma a tutta l’area locridea, colline e marine incastonate, nel bene e nel male, in un solo contesto economico, produttivo e, ahimè di consumi forestieri.

Errano pertanto quei locresi che pensano e si preoccupano di unificazioni con Siderno o Gerace. Sono le funzioni urbane ciò a cui debbono badare, e non al numero degli abitanti. E sbagliano a considerare come un problema loro, o esclusivamente loro, quello del capoluogo.

Siamo i non locresi che ne abbiamo più bisogno, che dobbiamo propugnarlo, perché la Calabria, a causa della sua orografia e della penuria di strade da un mare all’altro, è fatta di una decina di comprensori economici e sociali – una cosa che non m’invento io, ma che è stata codificata, a suo tempo, dal professor Taglicarne nelle sue accurate analisi per conto dell’Associazione delle Camere di Commercio.

Stimolato da Orlando, mi sono già occupato della funzione urbana locridea, ma credo di dover tornare brevemente sul tema dopo una più accurata riflessione. Il problema centrale della nostra zona, oggi, non è lo sviluppo, ma la democrazia, la cui negazione non sta tutta nel basso livello e tamarria dei servizi resi alla cittadinanza (per esempio dalla Sanità pubblica), ma ha largo spazio nei rapporti di lavoro.

La classe lavoratrice sta pagando un prezzo distruttivo della dignità umana e politica per il lavoro in nero e per i mille contorcimenti che vengono escogitati in materia di remunerazione effettiva e di previdenza. Siamo tornati indietro anche rispetto al fascismo e ai tempi della Grande Crisi, e per restare nella mia città, indietro a don Amedeo Puntura, il collocatore comunale al tempo del Duce.

L’imborghesimento dei sindacalisti ne è l’indicatore più evidente e preoccupante. Più che una difesa della classe lavoratrice, siamo alla nascita della “nuova classe”, della nomenklatura sindacale. Il 16 ottobre ho visto a Telespazio la signora Lamonica che s’incontrava, come esponente della CGIL calabrese, con il governatore Loiero, per discutere il programma della giunta regionale.

La parola Lamonica richiama, per associazione mentale, la parola convento. Sarebbe troppo facile contentarsi di una battuta. L’idea che mi sono fatta è, all’opposto, che la signora Lamonica richiama più immediatamente la parola tailleur. Infatti, se non si trattasse di questo, la signora Lamonica non andrebbe a far visita a un presidente che appare sempre più simile a quel che Esopo metteva in eleganti versi a proposito di certe rane poco prudenti, ma starebbe ai cancelli o alle saracinesche delle aziende che pagano ai loro dipendenti un salario di 300 euro al mese, tutto compreso.

Locri potrebbe essere il capoluogo di una nuova realtà zonale facendosi da sé, prima ancora che il parlamento metta il suo bollo. La massima violenza mafiosa non è l’estorsione ai commercianti e neppure il ricatto ai medici e agli altri prestatori di servizi. E’ la schiavitù dei lavoratori.

La democrazia non si fonda sui megafoni e gli striscioni, e tantomeno nelle visite guidate dei Re Magi romani, signori del fottisterio, ma sulla la dignità del lavoro e sul rispetto delle famiglie, che cominciano dal pane quotidiano.


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