L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Ballarò, ovvero il mercatino dell’ipocrisia

di Nicola Zitara

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Siderno, 29 Ottobre 2005

Per noi meridionali si tratta di fenomeni di valenza epocale. Si chiamano mafia, sacra corona unita, ‘ndrangheta. Un fenomeno urbano, la camorra napoletana, è ancora più pestifera delle associazione malavitose di campagna. 

Mentre Parigi, Londra e nel loro piccolo anche Roma, Milano e Bologna si sono liberate delle loro ‘corti dei miracoli’, delle loro Bovise e dei loro Passatori più o meno cortesi, Napoli italiana e garibaldina non l’ha fatto. 

Invece di progredire, come le altre grandi metropoli e città, è andata indietro paurosamente, fino a diventare la casba d’Italia. 

Come la camorra, anche la mafia è precedente all’unità dinastica del Paese, e anch’essa fu patriotticamente valorizzata da Garibaldi nella sua mirabolante impresa di ‘liberare’ gli italiani del sud. Invece la nostra splendida ‘ndrangheta e la non meno splendida sacra corona unita sono produzioni Made in Italy. 

Giudicate in relazione ai risultati che si prefiggono, le associazioni a delinquere - benché assumano connotazioni regionali tipiche - costituiscono un’unica forma di delinquenza. 

Attualmente le mafie nascono dal suolo meridionale e non hanno ancora un humus propizio nel Centrosettentrione, perché dove il capitalismo opera in senso propulsivo (quantomeno dal lato economico), l’arricchimento, anche quello moralmente illecito o magari al limite del Codice penale, è possibile realizzarlo nell’ambito della legalità. 

Infatti le leggi sono concepite in modo da non disturbare granché il manovratore. Senza queste porte aperte, molti amministratori di banche, di società di assicurazione, di industrie, specialmente quelle che producono farmaci e cibi surgelati, agenti di borsa, grandi costruttori etc. sarebbero in galera.

Né nel Sud italiano né altrove le mafie sono tanto un’eredità del passato (i bravi di don Rodrigo), quanto un modo di operare capitalisticamente, laddove il capitalismo è reso impossibile dalla divisione mondiale dell’industria e del profitto (eufemisticamente detta divisione mondiale del lavoro). 

Ciò vale per i meridionali, vale per gli extracomunitari e vale anche per alcune società affluenti, come gli USA e il Giappone, in cui l’esclusione dalla sistema produttivo avanzato non ha carattere territoriale, ma opera per classi e per razze. 

Il nostro concittadino, Francesco Caridi, ha pubblicato una succinta storia delle mafie italiane in America del Nord (Wops), che mostra le conseguenze dell’emarginazione razzistica; un libro facile, che sarebbe importante leggessero sia i giovani che i vecchi.

Il passato non deve trarci in inganno. Le associazioni mafiose hanno come loro fine primario quello di far soldi. 

Li fanno con le armi, la minaccia delle armi, con la paura che la persona perbene ha della violenza, con la nostra omertà; la quale non è soltanto del cittadino qualunque, quanto specialmente quella dei giornalisti, come tutti possono constatare nella tragica vicenda che ha avuto luogo a Locri; la città nostra consorella, che oggi come non mai avrebbe bisogno del nostro aiuto disinteressato. 

L’assassinio è un mezzo per fare soldi. Per dirla in termini bocconiani, le mafie sono organizzazioni volte al profitto, in questo caso illecito, delittuoso. E perciò sono da combattere da parte dei cittadini puliti. 

Come sarebbero da combattere le mafie lecite, per esempio quelle che comprano i pomodori a 10 centesimi (200 ex lire) dal produttore e li fanno arrivare al consumatore a euro 2,50 (5000 ex lire), realizzando un ricarico del 1250 per cento.

Ora la domanda è questa: lo stato italiano può veramente andare fino in fondo nella lotta alla mafia?

Sostengo di no. Mi spiego meglio con un esempio. Poniamo che la Rhodesia apra un conto a cento ditte italiane di oreficeria e gioielleria. 

Queste s’indebitano per 100 milioni di euro con gli esportatori. Poniamo che l’oro e i gioielli importati vengano lavorati, montati e venduti per un miliardo di euro. 

In questo caso il valore aggiunto prodotto in Italia è pari al mille per cento. Fingiamo anche che venga eletto quale capo del governo un tipo  contrario a ogni forma di lusso e di spreco. Immaginiamo inoltre che questo singolare tipo di politico riesca a imporre la chiusura di tutte le industrie di oreficeria e gioielleria. 

A questo punto gli italiani cosa faranno? Le risposte sarebbero innumerevoli, ma credo che la più semplice è che in Italia si continuerà a produrre i gioielli in nero.

La favola dice che, sulla base della morale fondata sul Prodotto Interno Lordo (Pil), in Italia solo un pazzo o uno scimunito vorrà veramente combattere i mercanti di droga, i quali aggiungono valore non al 1000 per 100, ma al 10.000 per 100. E da cui il Paese ricava un attivo valutario che potrebbe essere persino di 100 miliardi di euro; cosa che farebbe della droga la più importante delle nostre esportazioni.

Basta sedersi un momento e riflettere, e chiunque capirà. Però a Ballarò, dove martedì scorso le mafie sono state raccontate in tutte le forme, questo fatto elementare è stato taciuto. Perché?

Il gesuitismo politico italiano è il cavourrismo. Esemplifico: Carlo Alberto, re di Sardegna, una persona classificabile come un bacchettone forcaiolo e un completo imbecille, è bello. 

Ferdinando II, una persona tutt’altro che malvagia, anzi incline alla clemenza, un uomo coraggioso e onesto, e per giunta uno dei maggiori uomini di Stato che l’Italia abbia avuto prima dell’unità, al cui confronto reggono soltanto Pio IX e Cavour, è brutto.      

Il cavourrismo affligge, anzi appesta, la gente del Sud sin da quando i giudizi anticavourristi di persone che avevano contato prima della maledetta unità politica, come Mazzini, Cattaneo, Garibaldi, furono secretati. 

Mazzini, condannato alla forca dall’illustre Carlo Alberto, poté tornare in Italia sotto falso nome e morì esule in patria, agli arresti domiciliari e guardato a vista della Guardia di Finanza, in una casetta sulla spiaggia di Pisa; Cattaneo, dopo l'unità, preferì emigrare in Svizzera, e Garibaldi fu isolato a Caprera e messo a coltivare patate e ad ingravidare popolane. 

Scomparsi i maggiori personaggi dell'anticavourrismo e tacitati con le buone o con le cattive i loro seguaci (per esempio il nostro Benedetto Musolino, capo dell’insurrezione calabrese del 1848, fu fatto senatore, e Giovanni Nicotera, superstite della spedizione di Sapri, fu ministro agli interni), il cavourrismo trionfante, come la ‘Bestia’ di Giordano Bruno, ha pervaso le coscienze della classe media. 

L'infima plebe, che l'analfabetismo e l'ignoranza avevano salvato della Bestia, ha appreso il cavourrismo dalla predicazione dei primi social-massoni e attraverso il tifo per la Jiuventus, la Fiat e l’Ambrosiana.

Il cavourrismo si può spiegare in poche battute. Fatta l'Italia, tre regioni - Liguria, Lombardia e Toscana - si appropriarono, attraverso il saccheggio tributario e monetario, dei valori non consumati (surplus economici, nel caso italiano realizzati facendo stringere la cinghia ai contadini e ai proprietari delle altre regioni), li utilizzarono per crescere economicamente e quindi per confezionare uno stereotipo d'Italia corrispondente ai loro interessi municipali.

Il saccheggio cavourrista ha portato allo stremo tutte le regioni meridionali. In teoria, qui non è vietato emergere economicamente, ma non siamo più al tempo della rendita; in pratica è difficile farlo, perché la produzione toscopadana, partita prima con l’aiuto dello Stato, oggi chiude tutti gli spazi con la qualità delle sue merci, con la sua ormai collaudata organizzazione tecnica e commerciale, nonché addossando alla collettività il costo degli investimenti e quello degli eventuali errori (es., Fiat, Parmalat). 

Il fallimento dei nostri tentativi nel campo turistico è una prova evidente. Il Sud, più assolato e con un mare quantomeno meno sporco, non vende, mentre le spiagge venete, liguri, toscane e romagnole, che a volte sono un vero schifo, fanno affari a tutto spiano. 

Fra i disastri portati a compimento dalla regìa cavourrista, con la retorica della patria comune (che avrebbe potuto essere compiuta prima della calata a Napoli di Carlo d’Angiò, nel XIII sec. e poi non più), con le armi, con le leggi e con le banche nordiste, c’è l'annientamento della borghesia attiva napoletana, palermitana e barese, che era complessivamente più ricca, più moderna e assolutamente più corretta di quella toscopadana.

Ora non v'è dubbio che ogni paese ha delle regioni modello, a cui le altre volenti o nolenti si piegano. In Italia (anzi, nello Stato italiano) ciò è impossibile, perché chi si sarebbe dovuto piegare – nel caso la borghesia attiva del Sud - fu fatta fuori prim'ancora che si piegasse. 

Cavour e i suoi accoliti, temendo che avrebbe accoppato quella settentrionale o comunque che avrebbe strenuamente resistito sconvolgendo così il loro progetto di dominio, nascosto nelle pieghe del declamato patriottismo, ne fecero tabula rasa con l’imposizione di leggi assurde, con le loro banche e con la loro carta monetaria, messa in circolazione con lo scopo di predare oro..

 Tuttavia, in uno Stato liberale (chiamiamolo così), una borghesia non può mancare. Cosicché il cavourrismo ha dovuto rimpiazzare la borghesia distrutta con un diverso tipo di borghesia. 

All’uopo, ha inventato la borghesia politica (detta classe politica), la quale amministra le risorse dell'unico vero capitalista superstite al Sud, lo Stato; figura egemone fra quanti al Sud hanno i soldi per comandare lavoro. 

I manager meridionali del capitalista Stato si chiamano senatori, deputati, sindaci, governatori, e come tutti i capitalisti del mondo fanno il proprio, personale tornaconto. In sostanza, una classe politica non c'è. E non c'è politica, ma un'altra cosa: l’affarismo in politica.

Nel tempo è invece maturata nel grembo della società meridionale - con il disinvolto aiuto dello Stato e dei suoi amministratori in loco - una classe imprenditrice di origini plebee, la quale realizza la sua accumulazione di partenza con le armi. Realizzata la quale, vorrebbe legittimarsi. 

A questo punto   accade, però, l’inverosimile: la società civile non sarebbe mal disposta ad accettarla, a ribellarsi è invece quel sistema statuale che l’ha aiutata a nascere e a crescere.

La mafia – prodotto della contraddizione tra l’etica imperversante del profitto e la geografia dello sviluppo, nonché della simulazione democratica vigente al Sud - è un problema insolubile nel quadro dello Stato unitario, cavourrista e punitivo del Sud. 

In Italia non solo manca una seria volontà di affrontare il problema; difetta anzitutto la forza morale per rinunciare a certe dissimulate convenienze. 

Prova ne è il fatto che, dopo che il fascismo aveva quasi cancellato la mafia palermitana, la democrazia cristiana l’ha rimessa splendidamente in piedi, insieme alla camorra, e ha inoltre fatto di tutto perché associazioni consimili fiorissero su tutto il territorio meridionale..

La strada alternativa è nota e va anche maturando. E’ la separazione dallo stato volpino creato da Cavour. 

A questo evento affidiamo le nostre speranze.

Nicola Zitara





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