L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
  Eleaml


Non fu colpa di Garibaldi fu colpa nostra

di Nicola Zitara

Siderno, 4 Agosto 2007

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Nei giorni scorsi sono stati celebrati dalla RAI i duecento anni dalla nascita di Giuseppe Garibaldi. Parlare di Garibaldi significa parlare dell’unità italiana. Non ho visto il servizio, ma a stare al racconto di coloro che l’hanno seguito, più che di Garibaldi, si è parlato del disastro meridionale – un fatto concreto, innegabile, sputtanante, irreversibile. E strano a dirsi, il critico più vivace della malefica unità è stato l’ultimo rampollo dei malefici Savoia, grandi beneficiari dell’evento unitario. In verità, l’unità italiana fu, politicamente, una truffa, socialmente una beffa. Nel 1859, la Penisola era divisa in sette Stati, tra Stati regionali come la Toscana, appena provinciali come il ducato di Parma e quello di Modena, pluriregionali come il Lombardo-Veneto, che si estendeva da Pavia a Trieste, come lo Stato Pontificio, che comprendeva il Lazio, le Marche, le Romagne e l’Umbria, come le Due Sicilie, che comprendevano sette regioni il cui none attuale è Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Lucania, Calabria e Sicilia, e come il Regno di Sardegna, che ne comprendeva quattro: Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria e Sardegna.

 Ora, più che chiedersi - come si fa solitamente sin dal tempo di Dante e di Petrarca - perché l’Italia fosse divisa, e lo fosse ancora nel 1859, sei secoli dopo la morte di Manfredi e altrettanti dalla nascita di Dante, più utile e corretto è domandarsi come mai, alla data 1850, paesi come la Spagna, la Svizzera, il Regno Unito, l’Olanda, e persino la Russia fossero degli Stati nazionali da secoli e la Francia quasi da un millennio. La risposta è che tutti questi paesi si sono formati dopo più di mille anni da quando Roma aveva unificato l’Italia. L’orda barbarica arrivò a farsi Stato in una terra d’Europa in quanto favorita dal precedente vuoto, dalla tabula rasa giuridica e culturale, fra gentes i cui re non sapevano né leggere né scrivere; tutte gentes dalla vita elementare e quasi belluina, il cui numero complessivo, dal Mar Atlantico alla steppa russa, non raggiungeva i quindici milioni in tutto. L’idea di Stato e di legge vi nacquero per imitazione dell’Esarcato d’Italia dell’Impero Romano d’Oriente, con sede tra Roma e Ravenna. E se i barbari acquisirono una cultura di tipo occidentale (greca-romana), fu  perché i monaci e i chierici ve la portarono come in terra di missione.

Anche l’Italia romanizzata s’imbarbarì parecchio, ma non contemporaneamente. Dalla Palude Padana fino a Roma l’imbarbarimento si svolse durante l’Alto Medioevo, dal 500 al 1000/1100

d. C., mentre l’imbarbarimento del Sud fu voluto dai papi e dai re di Francia e d’Inghilterra per ragioni politiche: per troncare la presenza, in questo confine d’Europa della tolleranza religiosa, della Chiesa ortodossa, della cultura classica e del diritto privato. Oggi i meridionali non fanno che elogiare i Normanni, ma in verità essi furono (forse senza saperlo) la causa prima di tutte le nostre disgrazie. In entrambe le parti d’Italia la digestione della barbarie impegnò tempi lunghi. Il Centronord ci uscì al tempo del Libero Comune (1100 circa). Il Sud cominciò a liberarsene intorno al 1700, ma con l’unità d’Italia ci è ricaduto dentro. Infatti l’unità d’Italia ha dato al Sud uno Stato finto, una legge finta e una libera economia finta. Tante parole e una sequela di fatti negativi, un’eguaglianza ‘coloniale’ con gli altri italiani.

Garibaldi fu l’ignaro artefice di tante disgrazie passate e presenti? Forse Cavour non avrebbe mai pensato di estendere al Sud il Regno di Sardegna, se i siciliani, stuzzicati dagli ammiragli inglesi, non avessero fatto pressioni per una spedizione di Garibaldi in Sicilia, senza che La Farina, La Masa, Crispi si mettessero a implorare Cavour, Vittorio Emanuele II e Garibaldi. La spedizione dei Mille fu una passeggiata militare. Garibaldi vinse tutto, perché nessuno lo contrastò veramente prima della battaglia sul Volturno. Per altro, Garibaldi non sarebbe divenuto un eroe, se non avesse fatti ciò che l’Inghilterra e la Francia volevano, eliminare quei rompiscatole dei Borbone di Napoli. L’unità, i cui risultati vengono rifiutati persino dall’erede dei Savoia, l’abbiamo voluta. Non fu colpa di Garibaldi, ma dei nostri avi. I Siciliani la invocavano per liberasi del predominio napoletano. Furono d’accordo non solo il poetico Principe di Salina, il famoso Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (l’isola poco lontana da Tripoli e da Tunisi, che oggi fa da porta d’entrata degli extracomunitari), ma anche i principi in carne ossa, i cui nomi nessuno più ricorda, le grandi famiglie borghesi - celebri quelle degli Orlando e dei Florio, che appena fatta l’Italia troveranno ampi spazi negli intrallazzi genovesi e milanesi - ma anche la media e piccola borghesia, mentre campieri e contadini furono sollevati a furor di mafia e con l’ausilio di oro massonico. Certo appena sei anni dopo Palermo si solleverà contro l’Italia, e l’Italia, gloriosa di sconfitte militari, la farà eroicamente bombardare dall’eroico generale Raffaele Cadorna.   

Il Sud continentale, il regno borbonico di qua del Faro, le Provincie napoletane, come si affrettarono a chiamarle Cavour e i suoi, non invocò Garibaldi, ma neanche lo combatté. Come è tuttora nella nostra indole, si arrese per pigrizia. Un gesto nobile lo fece don Liborio Romano, andando incontro all’Eroe dei Mondi Due fino a Salerno su un treno borbonico e facendolo scortare dalla camorra borbonica fino al Palazzo Reale, a Largo ‘e Palazzo come modestamente si chiamava l’odierna Piazza Plebiscito, prima che un Campano Governator bassolino e furfantino vi inaugurasse la rinascimentale monnezza napoletana..

  Dopo esser stato preso per i fondelli da Cavour, da Napoleone III, da suo cognato, l’imperatore d’Austria, nonché dai suoi ministri e generali, Francischiello s’incazzò e volle combattere per riscattare almeno l’onore; i cafoni, fedeli a lui e alla Chiesa, si fecero briganti e vollero combattere anche loro, ma i nostri avi non mossero un dito. Né con gli uni né con gli altri, occupati solamente a rubare al nuovo governo, come avevano rubato con quello precedente.

  I soldi che i garibaldini si fotterono prima a Palermo e poi a Napoli, nessuno sa conteggiarli perché si fece in modo che chi aveva i conti perisse in un naufragio, durante una tempesta che non ci fu. Neppure i soldi che il Nord ha fatto e fa al Sul è facile metterli in colonna. Il mio conto è questo: ogni meridionale morto o vivente ha pagato e paga ai settentrionali il sessanta per cento del valore aggiunto che ha realizzato o realizza lavorando. In termini marxiani, la cosa si chiama accumulazione selvaggia. Calcolato su venti milioni di viventi e su circa sette/otto generazioni di nati e defunti, viene fuori una cifra che raddoppierebbe il Prodotto Interno Lordo degli Stati Uniti d’America.

Il sistema capitalistico, in un secolo e mezzo, ha arricchito l’Europa e il Nordamerica. Lo ha fatto a spese dell’Africa, dell’Asia e del Sudamerica. Nella storia del capitalismo ci sono solo due esempi d’ingresso laterale: il Giappone, prima della Prima Guerra Mondiale, e la Russia, con la Rivoluzione d’Ottobre (perché comunismo russo, tutto sommato, fu capitalismo, anche se di Stato). Ma Giappone (35/40 milioni di abitanti al momento) e Russia (80/90 milioni di abitanti al momento) erano frazioni numeriche del grande numero delle popolazioni occidentali (circa 550/600 milioni di abitanti al momento). Con l’ingresso della Cina e dell’India sul mercato mondiale la cosa è completamente diversa. I due paesi assieme fanno quattro volte l’Europa e l’America del Nord. Il meccanismo Occidente è andato in tilt e non è in alcun modo riparabile, come per altro nessun sistema storicamente conosciuto. In economia, vige la regola che quando un sistema finisce, non si può più usare. Il Sud, i Normanni e la nostra odierna vicenda insegnano.

  Su questa base di fatto, il problema non è più se celebrare positivamente o negativamente i duecento anni dalla nascita di Garibaldi, ma come liberarsi di Bassolino, di Loiero, della Vedova, di Bova e dintorni, di Prodi e Vili, di Frafessino e Berlusca, di Tre Monti e Tre Valli, di Bruno Vespa, Riccardo Jacona, Paolo Mieli, Eugenio Scalari; e di quel corvo di Padova scoppia, dei medici, dei professori, dei sindaci, degli esperti; della Bocconi, delle grandi banche italiane, della Normale di Pisa, dell’Università della Calabria, dell’assessore Principe e dei suoi scudieri, magari anche di Rai3 Cosenza e del neo laureato, Pino Nano. 

 Dobbiamo decidere se uscire dalla trappola in cui ci siamo messi con le nostre mani. o forse dormire, come hanno fatto Amleto e i nostri avi. E’ questa la scelta. Ma guai a immaginare che la cosa possa farsi diventando una nazione guidata dai capitalisti, che punta al capitale e al profitto. L’organizzazione mondiale che conosciamo sta per finire. Siamo uno dei popoli più antichi della Terra, siamo sopravvissuti a tre millenni di sventure e di battagliere orde d’invasori. E’ fra di noi che è nato uno che si chiamava Tommaso Campanella (io venni a debellar tre mali estremi/ tiraddide, sofismi, ipocrisia…). Possiamo dare un contributo a far nascere bene il mondo che si avanza. Ormai è utile e doveroso lasciar stare David Hume e Adam Smith e riflettere su un’utopia che ha incantato grandi pensatori, da ultimo Noberto Bobbio, che l’intellighenzia italiana considera la punta più avanzata dell’evoluzione democratica.





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