L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Lo Stato prefallimentare

di Nicola Zitara

Siderno, 3 Febbraio 2008

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Un medico sa quando un paziente sta per affidare la sua anima a Dio e il suo corpo ai vermi. L'azienda è un corpo complesso, tuttavia gli avvocati, i commercialisti, i ragionieri e ovviamente gli stessi imprenditori si rendono conto se un'azienda è decotta, se l'impresa si avvia al fallimento. Una diagnosi prefallimentare è parecchio più difficile riguardo allo Stato. Gli storici preferiscono attendere il fallimento e poi redigono la sentenza d'insolvenza. Ma il fallimento degli Stati è un fenomeno più frequente di quanto si crede. Un celebre storico inglese, in una sua recente pubblicazione, ne registra una cinquantina nell'arco di tempo compreso tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e il 2006. La Jugoslavia è un esempio di liquidazione fallimentare che si sta tuttora compiendo appena a un passo da Trieste. Da Ancona all'antica Spalato le miglia marine da percorrere sono molto meno che da Civitavecchia a Cagliari. Ma se vogliamo andare a guardare nella nostra storia, ci accorgiamo che 150 anni fa, dopo la sconfitta dell'Impero austriaco ad opera di Napoleone III sulla pianura lombarda (battaglia di Solferino), nessun diplomatico delle grandi potenze europee, accreditato presso uno dei tanti re d'Italia, avrebbe scommesso una lira sul destino del vecchio Stato regionale che l'ospitava. C'era una sola incertezza ancora, riguardante il Regno pontificio, a favore del quale era lo stesso Napoleone III a esercitare una tutela militare. Infatti, come tutti sappiamo, i piemontesi compirono l'ardita impresa di forare le mura capitoline e di conquistare Roma soltanto dopo la sconfitta dello stesso Napoleone III ad opera della Prussia di Bismarck. Fu quella piemontese una mancanza di lealtà verso la Francia, che aveva regalato ai Savoia il Regno d'Italia (il numero dei francesi caduti a Solferino fu tre volte quello dei piemontesi a San Martino), e una macchia che pesò sul nome d'Italia per ottant'anni, fin quando, nel 1940, Mussolini non raddoppiò, ripetendo l'impresa di pugnalare alla schiena la Francia, già sconfitta e invasa da Hitler. Un popolo di arlecchini e commedianti, fummo giudicati. Nel quadro retorico che ha accompagnato la formazione della Comunità europea, quei giudizi sono stati sottaciuti. Ma, presso la stampa francese e specialmente quella inglese, il fair play è venuto meno da quanto lo Stato cavourrista versa in una condizione di preaagonica, e non si esclude il trapasso.

E' già stesa per sempre una delle aree agricole più fertili del mondo, la Campania felix, infestata da milioni di tonnellate di rifiuti industriali, allegramente scaricati dalla Padana, dalla Svizzera, dalla Germania attraverso l'opera fattiva della camorra, così cara non solo ai nostrani politici 'senza qualità', ma anche e soprattutto alle banche toscopadane, che ne hanno ripulito il danaro sporco lucrandoci sopra una tangente del 50 per cento e ne favoriscono l'esistenza amministrandoglielo e commerciandoglielo per l'intero sistema finanziario mondiale, da New York a Hong Kong. Anche Sicilia e Calabria sono state affidate dallo Stato alle amorevoli cure della mafia (ovviamente per un prezzo da versare in contanti alle su elogiate banche), ma la disoccupazione dilagante informa che le rispettive cambiali sono già in mano all'ufficiale giudiziario per il protesto. Vi sono, poi, Genova e Torino nei guai. Anche qui il pagamento ritarda e il giudice fallimentare già studia le carte.

Ovviamente né il primo né il secondo né il terzo aspetto del crollo italiano è glorificato dalle patrie televisioni e dai patri quotidiani a diffusione nazionale, in testa 'il Correre della Sera', di proprietà milanese e occhieggiante al leghismo, né da 'la Repubblica', di proprietà piemontese e occhieggiante a sinistra. Detta nozione arriva attraverso i libri di studiosi e di giornalisti americani, che case editrici interessate a fomentare la crisi fanno filtrare in Italia.          

Lo Stato italiano, che anche i meridionali hanno voluto, è nato male, in una fase storica che gli economisti marxisti riconducono al momento in cui la Toscopadana doveva accumulare oro per preparare il suo capitalismo. I difetti dell'unità si videro subito. Per amor di patria piemontese, furono accollati tout court alla società meridionale. Nel proclamarli, la retorica unitaria si è spinta avanti, assicurando i meridionali che la patria comune avrebbe emendato ogni originaria malformazione (ovviamente del Meridione e dei pelosi, balbettanti e antropologicamente primitivi e tarati meridionali). In realtà, già nelle aspirazioni risorgimentali sia di sinistra (Mazzini, Cattaneo, Garibaldi, Ferrara) sia di destra (Cavour), lo Stato italiano da battezzare aveva connotati toscopadani. Il Sud (l'Italia antica, sorta alla civiltà mille anni prima che la Toscopadana) non poteva recepire quel modello, allo stesso modo che la Magna Grecia non recepì il modello romano  a base schiavistica. Né, per altro, si sono mai formate le condizioni preliminari affinché il Sud recepisse il calco toscopdano. Infatti, a causa dell'ininterrotta condizione di sfruttamento nella forma sociale "colonia di consumo", sbocco delle merci toscopadane, che gli era imposto, il Sud non ha mai potuto compiere la sua "rivoluzione industriale".

La nascita dello stronzobossismo ha una ragione, fra alcune altre, nell'invasione meridionale della Toscopadana. Si è potuto diffusamente sospettare (forse a ragione) che gente più ardita e intraprendente della gente del luogo avrebbe imposto le sue regole. La paura ha stimolato il risorgere dell'orda ostrogota e longobarda, ancora quella che al tempo di Manfredi avversò, combatté e vinse l'idea di un'unità italiana disegnata sul modello civile del regno di Federico; cosa di cui ci dà conto non una persona qualunque, ma Dante Alighieri in prima persona.

La tabula rasa di Napoli e della Campania felix non è la prima cambiale dello Stato unitario ad andare in protesto. E' però la prima cambiale a carattere separatista. Anzi un doppio protesto, uno elevato sulla cambiale spazzatura e uno sulla cambiale 'rifiuto a riceverla' delle altre regioni dello Stato. L'una e l'altra attestano che la procedura fallimentare è aperta. L'inevitabile, prossimo ingresso dello stronzobossismo al governo della Repubblica (o meglio l'ingresso della Lombardia, delle Venezie e del Piemonte che intendono amministrare il pubblico erario a loro esclusivo beneficio, come dettano le norme della Costituzione federalista) provocherà sicuramente altri insoluti. Bisogna prepararsi alle inevitabili procedure concorsuali. Ma soprattutto al fatto che i toscopadani vorranno continuare a sfruttare il Sud indipendente, come avveniva al tempo della dominazione angioina e spagnola per mano degli usurai liguri e toscani. La mediazione usararia passerà come sempre da Roma. E' questa una vecchia storia, che però viene nascosta. Credo che l'ultimo a raccontarla sia stato, nel 1920, un figlio del celebre Eduardo Scarfoglio e della non meno celebre Matilde Serao, in un libro introvabile. Se le città magnogreche avessero dato un serio aiuto ad Annibale dopo la vittoria di Canne, il nome di Roma sarebbe scomparso dalla storia, e la storia del Sud sarebbe diversa. Gli ozi di Capua sono una filastrocca per infanti. In effetti gli italoi non vollero combattere. Comunque Scipione, con una mossa dettata dal timore che alla fine si sarebbero decisi a farlo, portò la sua armata sotto Cartagine, lontano dal Sud.

Sono più di duemila anni che coltiviamo l'inganno di essere parte dello stesso quadro geopolitico a cui appartengono le altre regioni che oggi si chiamano italiane. Ma non è così. Noi siamo nati alla storia nel Mediterraneo orientale, nel Continente mediterraneo. Le cose ci sono andate bene quando il Mediterraneo è stato, per noi, una via di comunicazione, e non una frontiera. E viceversa.

Oggi che la flotta spagnola, la flotta veneziana, la flotta genovese, la flotta absburgica, la flotta inglese, in successione, non ci intrappolano più tra la sponda del Mediterraneo e l'acqua santa cardinalizia, oggi che a Roma non c'è sicuramente un Publio Cornelio Scipione, e neppure Benito Mussolini, potremmo tornare alla libertà nazionale. Forse. Dipende da noi.






 

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