L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Locri: “la piazza è vuota”

di Nicola Zitara

Siderno, 19 Luglio 2007

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Mentre la vedova dell’on. Fortugno riassumeva le questioni che erano state oggetto di precise denunce da parte del marito, prima che lo ammazzassero, Riccardo Jacona, continuava a farle osservare che la piazza di fronte al tribunale e (se le cose non sono cambiate negli anni e nei decenni) sottostante anche all’abitazione della Vedova e al palazzo Laganà, era vuota.

I ragazzi di Locri tradivano la democrazia o la democrazia aveva tradito i ragazzi di Locri?

Milioni di democratici e di sinistrorsi telespettatori, in ogni parte d’Italia, si aspettavano che Locri attestasse che in Calabria quel bagliore espresso nello slogan “Ammazzateci tutti” continuava a splendere, magari ravvivato dall’ardore di nuove coscienze coinvolte.

Ma la piazza era vuota. Quel vuoto è un preciso messaggio che Locri spedisce al governo.

“Ti sei sbracato a promettere un cambiamento, e io ti ho fatto credito. Ma qui non è cambiato niente, quindi non ti faccio altro credito”.

L’arringa contro Jacona e contro il sistema italiano potrebbe essere lunga. Cercherò di contenerla in poche frasi. In primo luogo il messaggio che i ragazzi di Locri spediscono a suocera perché nuora intenda non attiene alla democrazia formale, ma a quella sostanziale. Riguarda il lavoro, per una generazione pietosamente aggrappata ai sussidi familiari, e riguarda anche la vita civile: un’aspirazione del giovane che si affaccia al mondo, calpestata non solo dall’arroganza della mafia a mano armata, ma anche dall’arroganza della mafia bianca, che include i politici nazionali e regionali, in tutte le gradazioni di colore, nonché gli amministratori locali, che giungono al potere attraverso il voto di scambio e ci restano se consenzienti con il degrado generale della società, sia nella sua parte mafiosa sia nella sua parte apparentemente virtuosa.

Oggettivamente i ragazzi di Locri hanno chiesto, e forse chiedono ancora, delle cose che lo Stato italiano non può dare in alcun modo. L’Italia-una penetra la nostra società attraverso alcuni vettori di consenso. Il più appariscente è la spesa pubblica, che viene erogata da organi dello Stato, sia elettivi sia burocratici. Chi la eroga in loco, anche se fosse l’uomo più giusto al mondo, non potrebbe che contentare alcuni e scontentare altri, perché i fondi sono limitati rispetto all’immensa domanda. La spesa pubblica è l’interfaccia dello Stato centrale nelle province, cosicché, da che l’Italia è anche lo Stato italiano, nelle province in cui la domanda di spesa pubblica non può essere soddisfatta che in parte, questa parte serve anche a tenere in piedi il sistema nazionale italiano, e lo fa attraverso una selezione di tipo clientelare. “Vuoi soldi da me? Te li do, ma tu sostieni lo Stato Italiano”.

Anche l’intervento europeo nelle regioni deboli del Meridione è stato agganciato al sistema clientelare selettivo. Non c’è stata cattiveria, non era possibile fare altrimenti.

E’ senz’altro vero che il sistema politico-clientelare, nato nel Sud recalcitrante verso l’unità sin dalle prime elezioni politiche nel 1861, strada facendo si è corrotto. Quando gli eletti non ricevevano una remunerazione, il clientelismo era esercitato nell’interesse del sistema. A margine si manifestavano dei fenomeni familistici a favore dei figli, dei nipoti, dei figli dell’amico. Poi, con l’introduzione dell’indennità agli eletti, il clientelismo ha assunto vistose forme di corruzione. Il fenomeno è più visibile al Sud in quanto quasi tutte le carriere cominciano con le pezze al culo e quando arrivano al traguardo c’è una villa alle Hawai. Nel Centrosettentrione il clientelismo si realizza in forme sociali, tipo Cassa integrazione, aiuti sottobanco alle imprese, commesse a prezzi d’affezione e simili, tutte cose a favore d’una intera collettività.

Neanche a questo c’è rimedio. La nostra società non è sufficientemente feconda di libere imprese. L’altra illusione in cui sono caduti i ragazzi di Locri riguarda la mafia. Tutti sappiamo cos’è perché ognuno di noi l’incontra mille volte al giorno. Non è neppure necessario che esca di casa, basta che si guasti lo scarico del lavandino e l’incontra. Quando la mafia era cosa piccola, gli studiosi s’ingegnavano a capirne le origini e le motivazioni sociali, oggi ogni elucubrazione sociologica o storica è superflua. La mafia è un affare per il capitalismo di tutti i grandi paesi, anche per quelli che hanno la fortuna di saperla forestiera, come la Svizzera e il Regno Unito. La mafia produce masse di ricchezza che al confronto quelle provenienti dal petrolio arabo o russo impallidiscono. Né Stati Uniti, né Canada, né Cina, né Giappone osano toccarla, figuriamoci l’Italia, la cui bilancia dei pagamenti tornerebbe allo stato in cui si trovava nel 1861, allorché i veri padroni del Paese erano i Rothschil, o nel 1919, allorché la guerra s’era mangiate le ricchezze spedite da 16 milioni di emigrati, o nel 1945, quando, se gli USA non ci avessero regalato farina e scatolette, chi scrive e i suoi contemporanei si sarebbe azzannati per un tozzo di pane.

Non c’è niente da fare, giovani amici di Locri, ma solo se restiamo nel sistema Jacona, che ributta sulle “piazze” e sulle popolazioni meridionali le inefficienze di uno Stato ambivalente e pregno d’ingordigie padane mai soddisfatte, fino all’invenzione di una ‘questione settentrionale’ per attrarre a sé risorse che spetterebbero al Sud. Cioè incipriando di putridi colori guance rubiconde. Ma ci sono altre strade. Forse dolorose, ma ci sono.





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