L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


Siamo alla resa dei conti

di Nicola Zitara

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Siderno, 24 Marzo 2006

Vorrei parlare di tante cose, ma so che la pazienza del lettore ha un limite. Cosicché ne dirò soltanto qualcuna. Per prima cosa debbo avvertire chi  ha letto il mio articolo, intitolato “2012” e messo nero su bianco la scorsa settimana, che l’espressione Grand Armé è errata. Si dice infatti la Grande Armée.


Tutti gli altri errori e strafalcioni di cui è disseminato l’articolo sono in italiano e perciò rilevabili direttamente dal lettore. La seconda enunciazione riguarda il clientelismo. Auspice l’Europa, siamo passati dal clientelismo delle assunzioni al tempo di Cassiani e di Misasi, al clientelismo dei progetti.  Da cui il Progetto Locride. Una quindicina dì anni or sono, andai in Inghilterra a spese della predetta Europa. Il tema era l’agricoltura, ma si ragionò soltanto di latte: in sostanza di latte tedesco, olandese e padano. Io,  che invece volevo parlare di olio e di agrumi, alzai un po’ la voce.


Per rabbonirmi, l’onorevole presidente gallese  del convegno mi chiamò da parte per dirmi che la Comunità era decisa a finanziare un Progetto sui sedimenti della lingua greca in Calabria. “Se lei vuole…”. Mi toccò rispondere che, se si fosse trattato del Vino greco di Bianco e di Gerace, potevo anche metterci le mani, ma trattandosi della lingua greca – io, che in cinque anni di ginnasio e liceo non avevo imparato a tradurre non dico Omero, ma appena le favole di Esopo – a mettermici in mezzo sarebbe stato un vero furto.


Come diceva il citato Esopo, la favola insegna che se vuoi avere i soldi per mettere su un allevamento di cavalli salernitani, che nessun esercito impiega più, l’Europa, lo  Stato italiano, la Regione Calabria te li danno, ma se vuoi impiantare una fabbrica di sedie, i soldi pubblici non li avrai. E se per caso ci metti i tuoi, puoi stare sicuro che in un modo o nell’altro te la faranno chiudere. 


Cose del genere si fanno a Trento o magari a Bolzano, e guai a chi le tocca. E’ il limite insormontabile per il prefetto De Sena, come è facile leggere fra le righe dell’intervista rilasciata al nostro Ercole Macrì. Il Prefetto è certamente un galantuomo e anche un alto funzionario a cui il governo  accorda carta bianca, ma non è certamente un taumaturgo, uno che fa miracoli. Oggi, nel paese degli Italici (i nemici di Roma e gli alleati di Spartaco), esiste almeno una delle premesse che hanno presieduto all’industrializzazione del Giappone, delle Tigri asiatiche, dell’Irlanda, della Spagna, della Cina e dell’India: i bassi salari.


Prima di mettermi a scrivere ho girato un po’ in paese. A eccezione degli addetti all’edilizia, la curva dei salari non supera il picco dei  500/600 euro. Un  addetto benzinaio a stento ci arriva. Se calcoliamo un profitto netto del 2 per cento, la vendita di mille litri di benzina produce poco meno di 2.500 euro.  In sostanza il padroncino spende circa un sessantesimo del suo profitto mensile per pagare un operaio. O altrimenti, marxisticamente, il dipendente paga sé stesso con mezza giornata di lavoro.


Questo, per non toccare il doloroso tasto delle commesse: 350 euro al mese, a fronte del profitto giornaliero medio di 150/200 euro su un solo quintale di pane. In nessuna delle regioni che fanno parte del  sistema dell’euro, tranne qualche area  portoghese, esistono (esisterebbero) condizioni più vantaggiose per un ipotetico imprenditore industriale. 


Insomma, se qui fossimo “capitalisticamente” e “liberisticamente” liberi, Tremonti avrebbe creato il clima idoneo per un decollo industriale modello asiatico. Mi piace qui ricordare che, ricorrendo al sistema colbertista degli aiuti mirati. Ferdinando II creò in soli sedici anni, tra il 1832 e il 1848,  una flotta mercantile di 12.000 navi, di altrettanti armatori navali, di 120 mila marinai e una decina di società per le assicurazioni navali, il cui capitale  equivaleva a parecchie volte il valore le ferrovie piemontesi,  per altro costruite a debito con il barone Rothschild, che fu poi pagato dagli italiani tutti, ovviamente per amor di patria.


Ma invece che al decollo industriale siamo al disastro. I sette milioni di contadini e artigiani italici emigrati, dopo la guerra,  a Torino, Genova, Milano e consimili lustrissimi luoghi, hanno edificato con la loro povertà il sistema industriale padano. Certo, non avrebbero potuto farlo se le banche di proprietà statale non avessero anticipato i soldi per gli impianti e i salari. Tornerò sul tema alla fine dell’articolo. Voglio dire subito, invece, che il prefetto De Sena agisce con i poteri dello Stato, ma non ha alcun potere sulle banche.


L’ho detto altre volte, e lo ripeto: tutti i paesi liberi e democratici si sono proclamati tali soltanto dopo aver creato una banca centrale indipendente dal governo; cioè dopo aver diviso in due il governo del paese: la parte della cipria al parlamento e agli altri organi  costituzionali, e la parte della sostanza al gruppo di comando del padronato (vedi la disfida di Berlusconi alla Fiat) che, nelle chiuse stanze di un palazzo anonimo, decide se io  debbo avere quanto basta a comprare le sue merci o se ciò è troppo, e mi pregiudicherebbe la salute.       


Adesso il discorso si fa un poco più pesante. Fatevi pazienza. Sud ed extracomunitari. Costi pubblici e costi privati Se chi legge questo articolo ha mai sfogliato un testo universitario di economia (che gli americani hanno amputato la materia dell’aggettivo “politica” = Economia politica) o segue il Sole 24 Ore, o le pagine che il Corriere della Sera e la Repubblica dedicano alla vicenda economica, dovrà dare atto che le cose sono trattate come se l’economia nazionale fosse una somma non coerente e non coesa di aziende, fra cui l’azienda che chiamiamo  Stato. Il quale, poi,  è visto essenzialmente sul versante di consumatore di risorse private e niente affatto sul versante, molto più importante, di massimo protagonista di quel che Adam Smith chiamava “la ricchezza delle nazioni”.


La nazione di Smith è una popolazione “economicamente” definita (si badi, non storicamente o culturalmente o religiosamente definita; difatti il Regno Unito comprende più nazioni storiche, tra cui la Scozia, l’Inghilterra e il Galles, quanto mai disunite in tutto, meno che economicamente). Senza  i singoli componenti se ne rendano perfettamente conto, una nazione lavora assieme,  “collabora” per ottenere un risultato di valenza “nazionale”.  Cioè che non riguarda soltanto le tasse, ma il lavoro produttivo e la divisione del prodotto.


Smith e Ricardo, nonostante l’individualismo a cui si ispirava la loro filosofia politica,  ebbero chiaro il concetto di costi e benefici “nazionali”. Il lungo dibattito, anzi la lunga controversia parlamentare circa le leggi sul grano, cioè l’opzione tra protezionismo e liberismo, fu giocata in termini di vantaggi “nazionali”. E si può andare oltre: il secolare scontro tra liberismo e protezionismo, che ha attraversato tutte le nazioni oggi sviluppate, a partire dall’Inghilterra e dalla Germania per arrivare agli USA, all’Europa e alla Cina,  ha al suo centro i  vantaggi “nazionali” dell’uno o dell’altro. 


Ciò premesso, andiamo  ai fatti odierni d’Italia (una e indivisibile). L’immigrazione dei cosiddetti extracomunitari e la disoccupazione imperante fra i  giovani meridionali si presentano come una contraddizione. Quanto rende e quanto costa alla “nazione” Italia l’immigrazione di stranieri?  I vantaggi vengono declamati insistentemente. Noi poniamoci la domanda opposta: quanto costaterebbe all’azienda-Italia non accettarla e non favorirla?


Personalmente non so fare il conto e ignoro se sia stato fatto da altri. Tuttavia un fatto è chiaro. Che il Nord avesse bisogno di immigrati è una vecchia realtà. A partire  dagli anni Cinquanta e fino agli anni Novanta, il fabbisogno è stato soddisfatto da immigrati meridionali. Tuttora, il fabbisogno di ingegneri, medici e avvocati è soddisfatto da immigrati meridionali.


Se a partire da un certo momento, le imprese hanno preso a ingaggiare extracomunitari invece che meridionali, non v’è dubbio che parlamento, governo, magistratura e presidenza della Repubblica hanno fatto, dietro le quinte,  una scelta politica. Possiamo commentare: uguale e contraria a quella degli anni Sessanta, allorché il governo e i partiti, anche quelli di sinistra, stesero tappeti rossi all’emigrazione meridionale.


L’esperienza tedesca, favorevole ad accogliere manodopera a basso costo, insegnava. Solo che in Germania, Francia e Inghilterra, l’immigrazione era stata preceduta dalla piena occupazione “nazionale”. (Mica questi popoli non sono carogne come gli Itagliani!) In Italia, si è lasciato fare alle imprese. Minore è il costo della manodopera, maggiore la competitività del prodotto. Tratteniamo le lacrime e fermiamoci a riflettere.


Al Sud ci sono circa tre/quattro milioni di persone che non hanno lavoro o lavorano senza produrre. A un livello bassissimo di consumi, gli inoccupati o male occupati  assorbono ogni anno 6.000 euro ciascuno, pari a un totale di 18 miliardi di euro, 36.000 miliardi di ex lire, quanto produce una regione del Sud. In un modo o nell’altro sono un consumo nazionale.


L’emigrazione postbellica di contadini dal Sud al Nord avvenne in un quadro di bassissimo tenore di vita. Venti persone in una camerata, un solo cesso, un cucinino, lasciando al padrone di casa un quarto di quel che guadagnavano. Commissari di polizia, insegnanti, funzionari delle imposte e delle prefetture affittavano una stanza  ammobiliata, facevano a meno del riscaldamento, si sfamavano in una mensa comunale, ma riuscivano a mandare qualche soldo a casa.


L’odierno tenore di vita  presuppone, al contrario, un appartamento riscaldato e altri consumi opulenti. Ora, non si emigra per girare il guadagno mensile al padrone di casa. Nel settore della piccola e grande proprietà edilizia, l’impetuosa immigrazione meridionale  ha portato a facili guadagni e a comodi arricchimenti.


L’appetito è cresciuto in proporzione, cosicché ingenti somme sono state investite per rinnovare il patrimonio abitativo.  Ma un appartamento che è costato 400.000 euro non si affitta se non rende almeno 8.000 euro all’anno; cioè più della metà di un salario o di uno stipendio corrente. Siamo di fronte a una non novità. La crisi abitativa delle città americane ha anticipato di quarant’anni quella italiana.


Chi governava  l’Italia, gli economisti, i giornalisti, persino la gente comune sapeva del problema sin dagli anni Sessanta, sin da quando il ministro democristiano dei lavori pubblici, Fiorentino Sullo, fu mandato a casa  dal suo stesso partito perché intendeva mettere ordine nella speculazione edilizia. Ma il voto dei proprietari di seconde, terze e quarte case conta molto, mentre il voto meridionale si ottiene in cambio di una promessa d’assunzione.


La piccola e media borghesia toscopadana, quella che vota Bossi,  e anche quella romana, che fa i girotondi, hanno scassato la classica valvola di sfogo che dava un qualche respiro all’improduzione meridionale.


Siamo alla resa dei conti! Il Sud ha dato  quasi dieci milioni di uomini in età di lavoro  allo sviluppo europeo. Chi ci ripaga il costo,  adesso che le nostre risorse sono esaurite? Non siamo nella condizione di far guerra alla Svizzera, al Belgio, alla Germania – né vorremmo una cosa del genere – per riavere i soldi spesi per allevare e formare i nostri compaesani che hanno servito queste nazioni.


Con la nazione padana le cose stanno in modo diverso,  in quanto noi italici e loro itagliani siamo sudditi della stessa sovranità legislativa. Quel che la Palude Padana ha ricevuto dal Sud, senza neppure aver l’animo di dire grazie, e invece sempre montando alibi a cui la gente facilmente ha abboccato, dovrà essere restituito per forza di legge.


E’ scontato che la prima battaglia sulla legge di iniziativa popolare per il risarcimento si svolgerà nello stesso meridione, durante la raccolta delle firme. Ci sono da battere gli ascari del dominatore padano, ci sono i massoni e gli operatori per conto di Dio, e ci sono soprattutto i garibaldinisti, i cavourristi, i mussolinisti, gli internazionalisti da dopolavoro ferroviario e gli accomodati del 27 statale.  Nessuno si fa illusioni.


C’era un vecchio adagio, che un fratello di mio nonno ripeteva all’occorrenza. La versione siciliana non l’ho memorizzata graficamente.  Traducendo in calabrese, il detto era questo: “Megghiu na vota arrussicari ca centu ‘ngialiniri”. Insomma, bisogna decidersi. Se no il disastro si rinnova a ogni uomo che cresce.

Nicola Zitara





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