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Comincia un nuovo anno. Il ciclo delle stagioni scandisce il suo millenario
corso - ritmico, metodico pur nella diversità e particolarità
di ogni annata. Per quella parte degli uomini che producono manufatti le
stagioni hanno un significato più ludico che produttivo. Invece,
nel mondo agricolo l'avvicendarsi di caldo e di freddo, di pioggia e di
sole, di vento e di bonaccia, la mutevole rappresentazione della luna, che
si affaccia un pezzetto per volta, il succedersi delle luce e del buio,
regolano il lavoro e la produzione. Per gli agricoltori i cicli stagionali
dividono il tempo dei riposi invernali, e della penuria, dal tempo del raccolto
e dalla fatica sul campo; il tempo del raccoglimento accanto al fuoco, dal
tempo dei canti corali sull'aia e degli amori occasionali, nascosti dalle
siepi, fra lo sfavillio dei fiori e il ronzare dei calabroni.
Pur lontani, ormai, dagli avi zappatori anche gli urbani, i "civili", hanno un qualche riguardo per il ritmo delle stagioni. I testi sacri e gli scritti profani, le leggende e i miti, l'arte e la poesia, gli insegnamenti scolastici e i riti propiziatori, i culti e le superstizioni, le canzoni di sdegno e la sapienza popolare, l'immutabilità delle date festive e la solennità liturgiche ne ricordano le scadenze. La ciclicità dei fenomeni naturali scandisce il tempo: le ore, i giorni, i mesi, l'anno. A questo punto, però, tutto ri-comincia daccapo. Un anno finisce, l'anno successivo ripete il precedente. A meno di non essere degli astrofisici, un metro naturale, fenomenologico, che misuri un tempo più lungo dell'anno, non esiste nella natura comunemente percepibile. In mancanza, gli uomini hanno dovuto costruire, con il loro sapere, l'idea dei decenni, dei secoli, dei millenni, il concetto di era terrestre. Lo stesso calendario annuale è solo una ricostruzione matematica della natura, un elaborato culturale dei moti terrestri e di quello lunare. Di calendari ce ne sono stati tanti. Augusto ne fece fare uno, detto giuliano. I giacobini ne misero in vigore uno loro, con il nome dei mesi assonante con le stagioni, come nevoso, piovoso, pratile, etc, quasi duemila anni dopo. Fra gli slavi, gli ebrei, gli asiatici vigono calendari diversi dal nostro.
Quello vigente in Occidente che prende il nome di "gregoriano"
da papa Gregorio XIII, fu in effetti opera di alcuni matematici diretti
dal calabrese Luigi Giglio e venne introdotto nel 1582.
Ovviamente i tempi lunghi esistono anche in natura. Tutto il cosmo ne è
regolato. Gli astronomi li misurano in vari modi, per esempio attraverso
il moto delle stelle. Ma la cosmologia è una scienza difficile e
costosa, perciò appartiene a pochi eletti. Gli altri uomini hanno
la percezione del tempo lungo a causa dell'eterno inseguimento della vita
e della morte, del succedersi delle generazioni, che è alla base
della storia. La storia, poi, è la Bibbia di ciascuna stirpe nazionale.
Da circa tre secoli esistono anche delle storie universali, ma fino a qualche
decennio fa, esse erano soltanto dei collage delle varie storie nazionali.
Solo oggi, essendosi fatti intensi gli scambi mondiali, si può cominciare
a parlare di una piattaforma storica universale. Tuttavia gli scambi mondiali
sono ancora una modesta percentuale di quelli nazionali. Globali sono soltanto
le grandi industrie, le multinazionali, e il corrispondente padronato, mentre
la povertà e il carico della quotidianità sono rimasti nazionali.
Anche l'idea del singolo contro il mondo intero è abbondantemente
ampollosa. L'individuo vive e lavora nella propria formazione sociale, che
gli è al tempo stesso amica e nemica. La storia di ogni popolo parte
dal momento in cui i suoi componenti presero a manipolare la natura, al
fine di produrre manufatti, o anche per aumentare la quantità di
beni che la natura produce in misura limitata.
La storia è l'eterno inseguirsi di azioni e reazioni, di cause ed
effetti. L'attualità è frutto del passato. Il presente è
stato confezionato nella storia. Gli esseri umani nascono, vivono, muoiono,
e morendo lasciamo delle eredità private e collettive, sia materiali
sia culturali. E' spesso capitato, e capita tuttora, che grandi eredità
vadano distrutte e perdute. E' il caso dell'eredità romana, travolta
dai barbari e ricostruita con una fatica durata più di mille anni.
Altre volte è capitato che eredità diverse, ma di pari livello,
siano arrivate allo scontro, e che una di esse sia stata annienta e soppiantata
dall'altra. E' il caso di quella amerinda, distrutta e rimpiazzata da quella
portata in America dagli europei. Da quando - in seguito allo sviluppo dei
mezzi di comunicazione - il mondo si è fatto piccolo, lo scontro
e la lotta fra eredità culturali diverse è un fatto spesso
invisibile, in quanto avviene nel rispetto di regole nobili e giuste; ma
tali solo in apparenza, in quanto è la forza politica del vincitore
che nasconde, ottenebra e legittima il sopruso. Pensiamo per esempio alle
piantagioni di tè, di tabacco, di caffè, di cacao, di cotone,
di banane, disseminate in tre continenti, ma predisposte (e volute) dagli
occidentali per il loro consumo; un evento che ha devastato le eredità
culturali di gente che non aveva neppure l'idea della coltivazione intensiva,
portando la fame laddove storicamente c'era il nutrimento.
Il sotterraneo conflitto che attraversa l'Italia è di una portata minore e viene anche pervicacemente nascosto o annebbiato dagli storici di parte. Non sarebbe elegante riproporre ancora una volta il discorso politico da me sviluppato in precedenti articoli, ma insisto nel mettere in guardia i miei conterranei circa la convivenza italiana.
Il percorso compiuto dal Sud, a partire dal 1860, è solo una collezione
di disastri.
Il Capo dello Stato, nel suo discorso di fine anno agli italiani, ha detto,
le gazzette padronali ripetono: "Fiducia
Fiducia
Fiducia
"
ma l'appello non convince nessuno. Personalmente dico l'esatto l'opposto:
sfiducia
sfiducia
sfiducia
verso la parte filo europea
degli italiani, verso lo stesso Presidente della Repubblica, verso lo Stato
che governa disastrosamente il Sud, verso le istituzioni nazionali, specialmente
verso il sistema bancario, Banca d'Italia in testa. La Cirio e la Parmalat
appaiono degli epifenomeni soltanto perché gli inganni non sono rimasti
coperti. In realtà per uno scandalo che emerge, ci sono migliaia
che non sono mai venuti alla luce e mai lo verranno. Dal tempo di Pietro
Bastogi, un banchiere livornese che fu ministro delle finanze con Cavour
nel primo gabinetto unitario, fino agli eminenti bancarottieri dei giorni
nostri, sono centinaia i nomi dei ladri toscopadani che fanno la gloria
del Paese. La storia d'Italia altro non è che un susseguirsi di intrallazzi,
di soldi pubblici che diventano privati, di scandali, di compiacenze governative,
di fallimenti dichiarati da un qualche illustre componente del "salotto
buono di Milano" e pagati da tutti, di incredibili ruberie, in cui
il Sud non c'entra, ma paga come se avesse rubato. Attraverso tali procedure,
le regioni toscopadane mangiano e non pagano, mentre il Sud non mangia,
ma paga. Il disastro meridionale è di un'evidenza accecante, la Calabria
è boccheggiante, quasi allo stremo, l'emigrazione è in ripresa
al ritmo di cinquant'anni fa. Già le prefiche annunciano la sventura,
ma il Governatore della Regione si gloria d'avere stornato fondi destinati
ad altro, per rifare la statale 106 jonica e di tenere sull'incudine il
progetto del ponte sullo Stretto. Ma gli è venuto mai il sospetto
che la Calabria più è allacciata al Nord, maggiore è
la disoccupazione - direi desertificazione - che si autoprocura?
Certo non serve chiudersi, ma serve tuttavia difendersi. Le banche, esimio
Governatore, le banche! Le strade servono a poco, e anche i treni, e ancor
meno i ponti, se il Nord continuerà a governarci e a impoverirci
attraverso le banche e i loro eterni intrallazzi.
Le eredità dei nostri progenitori ci suggeriscono i doveri attuali. A partire dal '700, con il trattato "Della moneta" di Ferdinando Galiani, o forse da prima, sin dal tempo del della famosa opera di Antonio Serra su come gli Stati s'arricchiscono o s'impoveriscono, e finché il Sud conservò la sua indipendenza, il meglio della nostra cultura politica si dedicò alla moneta, al credito e al sistema bancario. Le strade sono una comodità per le merci che arrivano e per gli uomini che partono.
Non sempre, quindi, sono proficue. Invece l'uso proprio del risparmio è
alla fonte di qualsiasi investimento produttivo.
Se si ha rispetto per le eredità ricevute, chi ha coscienza politica
deve battersi perché non vengano disperse. Giustamente difendiamo
il nostro patrimonio archeologico e culturale, e cerchiamo di portarlo alla
luce, restaurarlo e conservarlo. Se ciò facciamo, non si capisce
allora perché diventiamo arrendevoli quando si tratta di difendere
il nostro diritto/dovere di partecipare alla produzione mondiale e nazionale,
a cui i nostri avi ci hanno sicuramente ben avviati. Prova ne è il
fatto che ci realizziamo come manodopera di prima qualità allorché
passiamo al servizio di altre nazioni.
La storia, il passato, si realizza nel presente. E il futuro si costruisce a cominciare dal passato. Se ciò non avviene, vuol dire che non siamo liberi. Che a casa nostra sono altri a comandare.
Nicola Zitara
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