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Due Sicilie
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io nun me scordo

“Il 1799 e la Repubblica Partenopea”


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Napoli, 28 Aprile 2007

Uno degli argomenti ricorrenti e che, puntualmente, viene fuori quando si parla dell’ex Regno delle Due Sicilie è sicuramente quello che riguarda l’anno 1799 e la Repubblica Partenopea che ebbe vita per sei mesi, sostituendosi come nuova forma di governo al governo monarchico dei Borbone.

Il 1999 ha visto le celebrazioni del bicentenario di questi eventi, avvenute in maniera pomposa in Napoli. L’ignoranza rispetto a quei fatti, dovuta in buona parte ad una storia raccontata in modo fazioso, ha fatto sì che quel periodo e gli avvenimenti che lo caratterizzarono sono stati ricordati quasi con un nostalgico rammarico rispetto ad un’occasione che viene propinata come un’occasione persa dal popolo napoletano.

Gli attori di quegli episodi, come Eleonora Pimentel Fonseca e Luigia Sanfelice, sono stati ricordati in maniera enfatica (unitamente ai loro amici giacobini) e proposti come eroiche vittime.

Per fortuna un “Comitato contronovantanove”, allora costituito (come forse unico esempio unitario) delle allora in essere associazioni meridionaliste napoletane come “Movimento Neoborbonico”, “Rinascita Meridionale”, “Nazione Napoletana” e “Napoli 1860 io nun me scordo”, si adoperarono per una controinformazione che sfociò in una clamorosa presenza e manifestazione di protesta davanti al teatro S. Carlo di Napoli la sera della rappresentazione di uno spettacolo sulla Pimentel (interpretata da Vanessa Redgrave) pubblicizzato da Rai e giornali.

Gli stessi giornali e tv che l’indomani non poterono non mostrare immagini e foto delle tante bandiere sventolanti dell’ex Regno dei tanti militanti meridionalisti ed il clamoroso lancio dai loggioni del San Carlo da parte di nostri combattenti di migliaia di volantini al termine della rappresentazione.

Cosa vi era scritto? : “Viva il Cardinale Ruffo, viva la Santa Fede!” Il tutto con la firma orgogliosa delle sigle delle associazioni e movimenti. Il ricordo di pochi ma esaltanti e rappresentativi momenti come questo, o come quello che fu riservato ai Savoia per accoglierli degnamente qualche anno fa a Napoli, sono preziosi e dimostrano la possibilità reale che si può ricercare uno spirito unitario fra i meridionalisti per il riscatto del Sud. E questo vale anche per chi, ancor oggi continua ad accusare il sottoscritto ed altri di un meridionalismo in poltrona e nostalgico, e poco operativo.

L’accusa può essere vera in generale, ma dovrebbe risparmiarsi di sparare nel mucchio non conoscendo le storie personali. Bando a queste dissertazioni, pur se non del tutto avulse, e riprendendo l’argomento di cui sopra vanno chiarite un po’ di cose.

Dopo due secoli il giudizio ufficiale è di condanna per il popolo napoletano e per i Borbone, e assolve, anzi esalta quell’esperienza ed i famosi cento giacobini che furono giustiziati a vicenda conclusa.

In quegli anni l’Europa era pervasa da fermenti idealisti che si rifacevano alle teorie egualitarie dei giacobini francesi. Anche buona parte della borghesia napoletana e dei suoi intellettuali ne fu ampiamente influenzata, ipotizzando una rivoluzione che esautorasse il re e creasse un nuovo governo repubblicano.

Fin qui le intenzioni, condivisibili o meno, avevano una qualche giustificazione ideale, pur se l’ex Regno delle Due Sicilie non era un paese distrutto o in preda a condizioni disastrose, e né il popolo viveva il suo status come se fosse in preda a chissà quali vessazioni o privazioni.

Le condizioni economiche erano altresì pressoché floride e di sviluppo, e la popolazione aveva un rapporto d’affetto e comunanza con i propri reali, pur se vi erano di certo imperfezioni e difetti che ne facevano un paese normale tendente ad un vivere sereno e con prospettive non di certo nefaste.

I reali s’erano comunque molto interessati alle nuove idee, dimostrando anzi un’apertura fuori del comune, prendendo spunti che potessero essere utili in leggi e normative tese a migliorare il livello di vita degli abitanti del regno. Tanto che la Pimentel Fonseca, che prima dell’esperienza rivoluzionaria era assidua frequentatrice di corte, scrisse un sonetto inneggiante a Ferdinando II° in cui sperticandosi in lodi declamava : “…novello Numa nuove leggi detta!”.

Quella parte più influenzata dalle idee giacobine impresse un’accelerazione ai nuovi fermenti, e bypassando il popolo ed un eventuale consenso democratico, s’arrogò il diritto di autoinvestirsi nuova classe dirigente e richiedendo l’aiuto dei francesi dette il via ai moti del 1799.

Si trattò nei fatti d’una rivoluzione elitaria e borghese imposta al popolo e contro il re. Lo stesso Cuoco (di certo non un borbonico) scrisse che il popolo fu estromesso dal processo di cambiamento.

Leggi strampalate, una nuova insostenibile pressione fiscale, date e calendari stravolti, i beni come castelli e fortezze, le fabbriche di porcellana di Capodimonte, gli scavi di Pompei ed Ercolano, le regge, i monasteri ecc…furono dichiarati beni della Francia. Una fantomatica Repubblica Partenopea in mano ai francesi ma non riconosciuta da nessuna potenza europea, Francia inclusa. Un accanimento eccessivo anticlericale senza alcun distinguo, il popolo privato della sua religione sbeffeggiata in tutti i modi.

Quel popolo chiamato e considerato con disprezzo plebe. I soldati francesi, chiamati a sostegno dai giacobini napoletani, dediti alle peggiori nefandezze come incendi, esecuzioni sommarie, rapine, stupri, processi farsa e fucilazioni di 1563 cittadini e difensori del regno, sino ad episodi di lapidazione ed impalamento.

E tutto ciò sarebbe la memorabile esperienza da ricordare e commemorare! E cosa avrebbe dovuto fare il popolo di Napoli? Subire in silenzio?

E qui scattò la reazione popolare e dei lazzari, alla quale s’unirono (cosa che viene occultata) nobili, ufficiali, borghesi e financo religiosi, che guidati dal cardinale Fabrizio Ruffo iniziarono la marcia, risalendo dalla Calabria, verso Napoli alla riconquista del regno.

I francesi ebbero circa 1.000 morti fra i loro soldati, ma i Napoletani persero almeno 10 mila tra uomini, donne e bambini. La reazione dettata dalla rabbia fu indubbiamente cruenta, ma lo stesso Chiamponnet (generale francese) riconobbe il valore del popolo napoletano in quegli scontri. I francesi si macchiarono dell’episodio di Lauria (paese della Basilicata) che rasero al suolo, decimando un terzo degli abitanti di cui molti a mezzo della decapitazione. Una figura che si staglia nella memoria di quei tempi è quella, passata alla mitologia, di Fra Diavolo ovvero nella vita Michele Pezza, un partigiano originario di Itri che si distinse per audacia, coraggio e temerarietà, contrastando al comando di 4.000 uomini lo Chiamponnet e le sue armate nel momento della loro entrata nel Regno.

Fra Diavolo è forse il primo esempio di brigante. La tanto celebrata Eleonora Pimentel Fonseca, si macchiò di più atteggiamenti antipopolari come raccontare e scrivere menzogne per screditare i napoletani (cosa scritta dallo stesso Striano nel suo fazioso “Il resto di niente”); metodo ripreso da Colletta e pervicacemente dallo stesso Croce.

La Fonseca, nel suo comportamento subdolo, intrattenne relazioni amorose contemporaneamente con un ufficiale francese ed i napoletani fratelli Baccher, che non esitò a tradire e mandare alla forca.

Al momento del suo arresto fu trovata con indosso una divisa da ufficiale francese in Castel Sant’Elmo a Napoli; fortezza da dove, fino a poco prima, i giacobini avevano sparato e cannoneggiato sul popolo di Napoli.

La sua esecuzione e quella degli altri giacobini quindi altro non fu che il risultato della loro antipopolare condotta come traditori della patria secondo le leggi dell’epoca. Che poi in teoria li animasse un ideale libertario non li giustifica d’aver vessato e ucciso, per loro mano e per quella d’un invasore straniero, i loro fratelli napoletani inneggiando alla fraternità, libertà ed uguaglianza.

Se il popolo napoletano fosse stato così male sotto i Borbone è poco credibile avesse combattuto alla morte per farli ritornare al comando del regno; una reazione improntata al masochismo è fuori della storia dei popoli.

Va rigettata anche la omai stantia teoria che sostiene che, in quell’occasione, fu decapitata la classe colta napoletana con conseguenze ancor oggi avvertibili. E’ poco probabile che circa cento persone rappresentassero da sole tutta “l’intellighentia” di Napoli. E’ invece molto più credibile e, storicamente provato, che la borghesia del Sud abbia ripetuto spesso lo stesso errore di lavorare col potere per poi puntualmente tradirlo con velleitarie imprese, passando sempre sulla testa del popolo.

Non si comprende tra l’altro perché, anche dal punta di vista umano, si dovrebbero piangere cento traditori e dimenticarsi delle morti di decine di migliaia di popolani. Forse la vita di cento intellettuali e borghesi vale più di quella di oltre diecimila appartenenti al popolo?

Uno dei gravi errori della Sinistra è la mancanza di volontà nell’attuare una lettura revisionistica di questi fatti : basterebbe analizzarli con cura per capire che i giacobini, al di là degli intenti e degli ideali, attuarono qualcosa con metodi e risultati antipopolari e ben lontani dai valori propri della stessa Sinistra.

Nei fatti si può concludere che, come il titolo di un libro di Maurizio Di Giovine, quella non fu altro che “una rivoluzione contro Napoli”!









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