L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Armando, un uomo

di Nicola Zitara

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Siderno, 15 Febbraio 2003

Se l’anarchico Piotr Kropotchin fosse stato un nostro contemporaneo e l’avesse conosciuto, sarebbe rimasto politicamente e sociologicamente affascinato dalla singolare personalità di Armando, che riuniva, in solo corpo e in una sola anima, capitale e lavoro. In cambio di qualche decina di migliaia di lire, Armando, con l’ausilio di un’Ape ormai sgangherata, effettuava trasporti che, se fatti da altri, sarebbero costati dieci volte tanto. In realtà Armando si pagava il lavoro - la sua forza fisica non comune - e regalava ai suoi clienti il capitale: la sua perizia di ateniese sopravvissuto per duemila e trecento anni al tramonto della Città, madre di ogni cosa. Ho detto capitale, ma non intendevo dire che il suo capitale fosse l’Ape, con cui attraversava, non sempre prudentemente, le vie del paese.

Il suo vero capitale stava nell’intelligenza pratica, nel saper fare le cose appuntino. Spesso mi è capitato di pensare che se fosse stato a bordo del Titanic, allorché naufragò, non avrebbe perso la testa. Avrebbe saputo costruirsi una zattera, o avrebbe trovato un qualcosa su cui galleggiare, vi si sarebbe imbarcato e a avrebbe aiutato altri a imbarcarvisi. Veleggiando con la spinta dell’ottimismo, sarebbe approdato alla terra più vicina, dopo aver affrontato le tempeste e il gelo, e magari dopo essersi divertito a sfotticchiare la paura dei naufraghi che aveva salvato.

Armando non era soltanto un positivo esemplare della genetica umana. Aveva più o meno i miei anni, ma non apparteneva alla mia generazione. Era un uomo antico, di una Siderno che non c’è più; una piccola Siderno, sempre vissuta in riva al mare, nutrendosi di pesce, di cipolle, di pane (se c’era) e di olive. L’antichità del borgo, che un tempo chiamavamo a Sbarra, è finita. Adesso è un posto come tutti gli altri. Di arcaico non ci sono più le vecchie case, ma soltanto i segni della loro originaria planimetria, la viuzza stretta che le separava, lo stradone intorno a cui una parte delle case, certamente le meno antiche, si sono schierate sin dal tempo in cui a Napoli regnavano ancora i Borbone. Ma siccome Siderno non è Positano e neppure Scilla, le vecchie case scompaiono, sostituite da moderne costruzioni con il tetto tipo chalet svizzero.

A Sbarra viveva un popolo diverso, che non s’inchinava a i gnuri, e forse neppure ai santi. Un popolo irriverente, polemico e litigioso, che passava la notte a remare sul consu e la mattina presto era già in riva al mare, a tirare u sciabachellu". Alle otto, u sbarrotu raccoglieva in una salvietta, in un largo piatto d’argilla, in un vecchio secchio di legno il poco pesce che il mare aveva donato, e lo andava a offrire, casa per casa, in giro per il paese. Nessuno di loro ha mai steso la mano. Pretendeva il danaro solo dopo aver dato la sua merce o il suo lavoro. Proprio come faceva ancora Armando.

I giovani debbono sforzarsi di capire perché noi vecchi siamo amareggiati. La Siderno di oggi è popolata essenzialmente da collinari, venuti dai vecchi borghi feudali ad abitare nel luogo dove hanno un impiego, un commercio, la scuola dei figli, dove trovano i negozi forniti delle merci che l’attuale vita confortevole pretende. Il paese non conta più sulle proprie forze. La Siderno di un tempo (quella del 1935, che io ricordo) era fatta di consi" e di sciabiche, e quando u sbarrotu bestemmiava - cioè ogni tre parole – calava in terra Sant’Andria d’Amarfi, che aveva due facce come il mare, una buona e l’altra cattiva. Siderno di un tempo era fatta di fatica, ma anche di produzione, di vagoni che arrivavano alla Piccola e che dalla Piccola partivano carichi di merci verso l’immenso mondo. Prima che Armando e io nascessimo, le botti di olio, spinte da mani accorte, rotolavano verso la spiaggia. Nella rada, all’ancora, attendevano bastimenti d’ogni nazione e d’ogni bandiera.

Gli sbarroti erano un popolo antico. Forse erano gli ultimi resti di coloro che abitavano queste sponde quando i greci e i romani chiamavano il posto con la parola Italia. Gente antica quanto Polifemo, la Maga Circe, le Sirene ed Eolo, dio dei Venti, padre di Zeffiro e d’Ausonio. Forse avevano costruito i templi locridei, combattuto contro i crotoniati, parteggiato per Annibale venuto dalla vicina Africa a sfidare Roma, usurpatrice d’antiche libertà e avida di rotte marittime. Forse avevano modellato eleganti pinakes e coniato le belle monete di Megale Hellas. Forse avevano piantato ulivi sacri ad Atena e potato viti, grate a Bacco, e con il loro vino sacrificato a Cupido e a Venere, sua madre. Forse avevano navigato con il vento in poppa fino a sponde lontane e al sopraggiungere della notte avevano ancorato le navi sottovento.

A Sbarra non apparteneva alle Calabrie della canna da zucchero e della seta, distrutte dalla fiscalità degli arrendatori genovesi e fiorentini, era un borgo marino, una comunità di uomini liberi, sebbene poveri, che si affidavano al mare per vivere. Uomini che non avevano altro padrone che il santo a cui si rivolgevano quando le onde s’ingrossavano minacciose; che contavano sulle loro braccia, sulla loro perizia; che sapevano assecondare la natura quando era benevola, e confrontarsi con essa quando era nemica e credule. Uomini che sapevano anche piangere, ma piangevano lacrime asciutte. A Sbarra era un borgo cosmopolita, popolato da uomini intraprendenti e donne coraggiose. Quando si resero conto che il veliero stava finendo, se ne andarono a Genova, sede delle grandi compagnie transatlantiche. Tra le due guerre, Genova si riempì di marinoti. Peccato che questa nostra organizzazione politica, fatta di professori, avvocati, medici e ingegneri, che campano con gli stipendi di Roma capitale, non abbia dato e non dia alcuna occasione alla mobilità sociale dei veramente capaci.

Aramando è stato l’ultimo elleno. Era uno che sapeva cos’è la vita. Era l’uomo che Diogene, accovacciato fra le doghe marce di una botte abbandonata, aspettava al passo, con una lanterna in mano. Non era né buono né cattivo, né onesto né disonesto, né franco né ipocrita, né ricco né povero, né furbo né ingenuo. Non era istruito, ma era colto. Sapeva quel che sapeva Zorba il Greco: lavorare faticando e sorridendo alla vita, fare tutto senza difficoltà, sfotticchiare l’imperizia altrui, l’altrui mancanza di vigore, sfidare le cose e le difficoltà. Nella mia mediocrità borghese, ho sempre invidiato la sua grandiosa accettazione del presente. L’arte di vivere e il vivere con arte.

Con gli anni, Armando era diventato anche una specie di patriarca, un paciere, un arbitro nei litigi fra le famiglie degli antichi pescatori. Un leader borghigiano. In campagna, uno che svolge un simile ruolo diventa un mafioso. Alle Sbarre no. Armando, dotato di una forza erculea non è mai stato un violento o un sopraffattore, neppure da ragazzo. Questo dovrebbe far pensare legislatori, giudici e forze dell’ordine. Forse il miglior modo per combattere la mafia è creare 'a Sbarra nelle campagne.

Passo dinanzi alla sua porta due o tre volte al giorno. D’estate e d’inverno lui era lì, appollaiato su una vecchia poltroncina di plastica. Ci salutavamo con un ghigno d’intesa: "Stiamo fottendo la morte". Da quindi giorni, forse da un mese, non ce l’ho più visto. Ho capito che la morte lo stava fottendo.

Nicola Zitara

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