L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Ciccio Martelli, giornalista della speranza politica

di Nicola Zitara

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Siderno, 19 novembre 2005

Diciamo che era il 1963. Avevo a Locri una piccola industria e i mille grattacapi che ha chiunque operi negli affari. Ma ero anche il vicedirettore de “Il Gazzettino del Jonio”, una pubblicazione di qualche notorietà in questa parte di Calabria. Forse  un punto di riferimento per coloro che avevano a cuore il destino della nostra povera gente. Arriva un ragazzo dai modi timidi e garbati. Forse diciott’anni, forse venti. Una maglietta blu con una fascia grigia intorno al petto. Un ragazzo di campagna, penso. Mi dichiara che vorrebbe collaborare al giornale. Mi fa leggere un suo pezzo. Dietro il volto riguardoso del ragazzo che chiede approvazione, vedo la nobiltà dell’idea.

Anche gli umili debbono combattere coralmente per conquistare una pari dignitas. Porto l’articolo a Titta Foti. Fra i mille difetti che Titta aveva, c’erano una spiccata personalità e parecchi pregi umani e culturali. Fra cui quello di vedere al primo colpo d’occhio l’attitudine al racconto giornalistico.  Non sono mai riuscito a chiamarlo Franco, perché mi pareva che quel diminuitivo allofono gli togliesse la nostra terra da sotto le scarpe.  Lo chiamavo Ciccio. Era forma antica, il legame   con la nostra patria jonica, era la ruga del paese, il sentiero scavato nella nuda terra, lì da tremila anni. Era la terra nostra. Ma non la terra  brutta dell’inchino e neppure quella dell’arroganza, né quella del coltello come ultima ratio, o della parola non detta ma sussurrata. Ciccio non sapeva, come qui si dice, “ il quarto della messa”, aveva nel padiglione dell’orecchio i suoni campestri di Giovanni Pascoli e nella mente la durezza della vita contadina di Corrado Alvaro.  Per Titta divenne il figlio maschio, che non aveva, per me il fratello minore, che non avevo. Per entrambi il giovanetto a cui impartire sani consigli e “alte” esperienze di vita.  

Forse gli abbiamo rotto le scatole, ma non se ne lamentò mai. Per sua fortuna, fece a meno della nostra saggezza. Per  Titta era un principio dell’esistere, la prima dote di un giornalista, quello  di usare la penna come se fosse una spada. Ma Ciccio preferiva il concetto, l’arte suprema di Spcrate. Eppure  credo che nessuno di noi collaboratori abbia amato Titta quanto lui l’amò. Ne assimilò persino l’amore  per le carte da gioco e la grande abilità di rimetterci tutto, tranne l’anima. 

Ciccio credeva nel comunismo, vi vedeva  l’alba radiosa del giorno dopo.  Non gli dicevo niente, ma dentro di me lo compiangevo. Sapevo dai giornali dell’anarchismo che i  suoi sogni politici  erano già polvere. Lo avvertivo soltanto che bisognava essere preparati a parecchie delusioni: “In Italia, la solidarietà di classe è una buffonata.  L’Emilia resistenziale non marcia verso il comunismo, ma verso i milioni. Torino e Milano contrattano migliori condizioni economiche e normative, ma nelle richieste sindacali non trovo mai scritto che,  chi nasce disoccupato, ha diritto all’indennità di disoccupazione. No Ciccio, sono poche le speranze che questa terra si salvi”.

Gli suggerivo di trovarsi un altro lavoro…La scuola, uno qualunque, e di lasciar perdere con il fare il Donchisciotte.

 “Ma perché tu sì, e io no?”

Trasferimmo la redazione da Siderno a Catanzaro, una bella casa signorile dalle parti del distretto militare e dalla stazione della vecchia funicolare. Ci vivevamo comodamente Titta, io, e Ciccio. Santagata faceva la spola.  Ogni mercoledì andavo a Roma a impaginare il giornale presso la tipografia dell’Unità e di Paese sera. Quando Ciccio poteva farlo, veniva ad aiutare. Si fece così conoscere ed apprezzare da chi stava più in alto di noi.

Non ricordo se fu l’Unità o Paese sera a mettere sulla spalla della prima pagina un suo servizio da un paese del Marchesato di Crotone, in cui c’era stata una sollevazione popolare. Era il tempo di maoismo. Tutti fummo per un attimo  frastornati. Era quella la strada del comunismo, in Calabria? Solo un attimo di perplessità. Il vero nemico da combattere era il trasformismo socialista, il clientelismo di Mancini, che aveva preso il sopravvento sul clientelismo democristiano.

Il mancinismo dilaniò il gruppo redazionale. Ciccio se ne andò da una parte e io dall’altra. Il PCI tolse il suo sostegno al Gazzettino.

 Quando Ciccio si sposò venne a trovarmi a Vibo, dove lavoravo. Mia moglie, che al tempo dipingeva con fervore, gli dette in dono la tela che meglio le era riuscita.

Ci volevamo bene; ma non come compagni di strada o di mestiere, ma come zio e nipote. le nostre strade avevano lo stesso asfalto ma portavano in direzioni diverse. Sia a destra sia a sinistra, la politica italiana è estranea a questa terra, una mera sovrapposizione. Appartenendo a una generazione che aveva visto il fascismo e il lucroso passaggio all’antifascismo nella sua versione meridionale, non mi son mai fatte illusioni di sorta. Ciccio, invece, volle avere fiducia nell’idea della solidarietà di classe. Ma forse non aveva torto, perché, crollata l’Urss, oggi va peggio a tutti.

Quando fu caporedattore alla Rai di Cosenza, volle farmi, e mandare in onda, alcune interviste. Era amicizia, o immaginava che potesse servire allo spettatore ascoltare le parole di uno contro?

 Ciccio ha fatto il giornalista osservando il suo credo. Ha sognato soltanto? Quel che so è che, se quel sogno potesse prendere corpo, ogni uomo potrebbe dire: Io sono libero.





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