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Due Sicilie
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Il destino dei Calabresi

di Antonio Orlando

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16 Febbraio 2012


Nicola Zitara, in estrema sintesi, la metteva così: il destino dei calabresi (e dei Meridionali) oscilla tra due alternative: “o emigranti o briganti!”. Questa sintesi, oltre che dai suoi approfonditi studi sulla storia e l’economia del Sud, probabilmente l’aveva rielaborata sulla base della sua storia familiare, traslata poi nei suoi romanzi (“Memorie di quand’ero italiano” e “ ’O sorece morto”). Si noti che anche in quelli di Carlo Alianello (“L’eredità della Priora”, L’alfiere”, “Soldati del re”, “Il mago deluso”) emerge un analogo punto di vista. Recentemente alcuni giovani storici dell’Università della Calabria (Oscar Greco, Katia Massara ed altri) parlano di “emigrazione sovversiva” e di “rivoluzionari e migranti”. Se la prima è una sintesi estrema, ma tutto sommato storicamente realistica, le altre due sono ingannevoli. Anche il bel romanzo di Mimmo Gangemi  “La signora di Ellis Island”, in più punti, è pervaso da questa dicotomia, declinata in diversi modi pur senza mai giungere ad un punto estremo che costringa i protagonisti del racconto a compiere una netta scelta di campo. Anche il romanzo, da poco pubblicato, di Orazio Ferrara reca come titolo “Addio Sud. O briganti o emigranti”, anche se è più centrato sulle vicende risorgimentali propriamente legate al c.d. “brigantaggio politico” piuttosto che sulla emigrazione. Tralasciamo in questa prima parte la questione del calabrese come brigante e riprendiamo in esame alcune riflessioni che, tra la fine dell’800 ed il primo decennio del ‘900, facevano alcuni nostri emigrati negli Stati Uniti, tra cui, molto modestamente, vorrei annoverare mio nonno paterno, partito per gli U.S.A. intorno al 1903 senza conoscere una parola d’inglese ed avendo, si e no, completato la quinta elementare. Destino comune, si dirà, di tantissimi calabresi! Sì, certo, non voglio, con questo, accampare alcun particolare merito familiare, intendo soltanto mettere in evidenza ciò che mio nonno e quelli come lui, persone non colte, ma avvedute e attente, notarono immediatamente una volta sbarcati a New York. Il tutto si può riassumere in una frase, che trovai scritta in una delle primissime lettere inviate alla giovane fidanzata, “…qui ci tocca capire con chi ci conviene stare se con la picciotteria o con gli anarchici, ma tutte e due hanno la Mano nera…”

Dunque i nostri emigranti si trovavano di fronte ad un altro e nuovo dilemma, mica facile da sciogliere! e che, nonostante le apparenze, non presentava i caratteri dell’ alternativa che era stata prospettata ai loro padri negli anni dell’unificazione italiana.  Non si trattava, in sostanza, di una scelta nuova semplicemente “aggiornata” ai tempi ed “adattata” alle mutate condizioni sociali e culturali del Nuovo mondo. Se ti schieravi con la “picciotteria” dovevi rimanere zitto e buono, se facevi finta di non vedere, di non capire, di non sentire ed accettavi, all’occorrenza, di appoggiare e proteggere gli “amici” ed i “compaesani”, se, insomma ti mettevi “a disposizione”, non potevi che ricavarne benefici anche da parte dello Stato americano, ufficialmente avverso nei riguardi degli italiani, sotto sotto disposto a chiudere un occhio se non tutt’e due, quando si trattava di “gente di rispetto” o che si faceva rispettare. 

Nel secondo caso non facevi altro che enunciare pubblicamente la tua dichiarazione di guerra nei confronti dell’autorità statale, ma anche nei riguardi della stessa “picciotteria” che tanti favori rese alla polizia, alla magistratura ed all’apparato repressivo nord-americano. Ti facevi due nemici in un colpo solo e rischiavi di restare completamente isolato. Il caso Sacco e Vanzetti, per citare un fatto molto famoso che può fungere da paradigma storico per l’intero periodo e che evita di farmi correre il rischio di scantonare e di uscire fuori strada, anche a costo di semplificare al massimo e dare troppe cose per scontate e conosciute, può dare l’idea dentro quale morsa gli emigrati italiani si trovassero nei primi due decenni del ‘900. 

Si ripetevano all’estero lo stesso schema, la stessa situazione, le stesse circostanze dalle quali molti di quegli emigrati volevano fuggire e nella grande America cambiavano solo la lingua e le strutture, non l’oppressione e la sudditanza. Anzi la picciotteria aveva trovato nuove fonti di arricchimento, aveva scovato nuove opportunità, aveva instaurato nuove relazioni e mostrava di essersi trovata a proprio agio in una società moderna, industrializzata, avanzata ed iper-progredita. Insomma si era perfettamente integrata dentro la società capitalistica, collaborava con gli industriali contro il sindacato, aveva corrotto la polizia e sosteneva, a convenienza e secondo il proprio tornaconto, ora  i candidati politici democratici più progressisti, ora quelli repubblicani e più tradizionalisti. 

Allora: a distanza di oltre cento anni, mettiamo da parte gli slogan ad effetto (“ragnatela che ci opprime”, “piovra”, “malapianta”, “cancro malefico”, etc.) e proviamo a ragionare a mente fredda sul crimine organizzato. Premetto che, già in partenza, ci sarebbe molto da discutere su questa definizione di “organizzato”, ma è meglio, per il momento, accettare queste formule che, in apparenza, sembrano descrivere perfettamente un fenomeno ed invece continuano a generare equivoci e confusione. Azzardo una definizione. La mafia - volutamente non adopero la parola “’ndranghita” – è una forma di criminalità organizzata per lo sfruttamento illegale delle risorse economiche ed attraverso una accumulazione primitiva, selvaggia e priva di scrupoli di capitale, riesce ad instaurare una forma di dominazione sulla popolazione con l’impiego, quando occorre, della violenza, del terrore e della sopraffazione. Può sembrare una definizione assiomatica, però, oltre a rendere bene l’idea del tipo di “organizzazione” (!!??) con cui abbiamo a che fare, si richiama alla struttura del primo capitalismo inglese di cui parlava il vecchio  e dimenticato Engels ne “La situazione della classe operaia in Inghilterra”, scritto nel lontanissimo 1844.

Che differenza c’è tra i picciotti delle nostre campagne, i campieri e i guardiani delle terre signorili ed i malavitosi di origine siciliana, napoletana e calabrese che, durante uno sciopero, andavano a minacciare o a pestare brutalmente i sindacalisti dell’ IWW (al cui interno erano numerosissimi i meridionali italiani) per conto degli industriali americani?  e che dire dei banchieri di mezza Europa (svizzeri in primo luogo) che accolgono a braccia aperte i trafficanti di droga che vanno a depositare valigette di euro o di dollari nei loro forzieri? Che differenza c’è tra i mafiosi di Chicago che sostengono apertamente la candidatura di Kennedy alla Casa Bianca ed i delinquenti calabresi che, spavaldamente, fanno campagna elettorale per questo o quel candidato al parlamento o alla Regione? Che differenza c’è tra “il consigliori”, (la figura di avvocato resa famosa dal romanzo di Mario Puzo “Il padrino”) e stuoli di avvocati che difendono fior di mafiosi sapendo che hanno realmente commesso i reati di cui sono accusati, alcuni dei quali veramente efferati ed odiosi?

Se provassimo a dimostrare che il movimento studentesco americano, quello tanto celebrato degli anni ’60 e dell’Università di Berkeley, è stato scientificamente distrutto grazie a quantità enormi di eroina a buon mercato commercializzata sotto il benevolo sguardo della polizia, cambierebbe il nostro giudizio sulla contestazione studentesca?

Il fenomeno del crimine “organizzato”, comunque lo si voglia chiamare, fa parte integrante della società calabrese e, più in generale, della società capitalistica. Esso è un pilastro dell’organizzazione e della stratificazione sociale e non si può far finta che non esista né può essere trattato, tanto per salvarsi l’anima, come un fiume carsico, cioè parlarne tutte le volte che viene commesso un omicidio o viene scoperto un traffico di droga o di armi o di diamanti e per il resto fingere che non esista e girare la testa dall’altra parte. Tanto meno si può dar credito alla favola che si tratterebbe di una forma, sia pure anomala, di ridistribuzione della ricchezza, come pure si disse all’epoca dei sequestri di persona. Così magari, finiremo per ricreare il mito del bandito romantico, del moderno Robin Hood che cerca di porre rimedio alle palesi ingiustizie sociali attraverso il crimine però realizzato per una buona causa.

Siamo sempre di fronte alla scelta cui si trovavano cento e passa anni fa, mio nonno e tutti gli altri emigranti e da quella tenaglia non possiamo scappare in alcun modo. Veramente ridicola e “da chiacchiera del bar dello sport” è poi quella giustificazione secondo la quale la mafia è dappertutto oppure che la sua testa è a Monte Citorio o a Milano. Può  essere che stia anche lì, anzi le inchieste più recenti ci dimostrano che alligna dappertutto, ma non è questo il punto.

A furia di parlarne, di discettarne, di scriverne, di adoperarla come spunto per romanzi, film, fiction televisive e quanto altro, la mafia è diventata qualcosa di impalpabile e nebbioso, un’entità di cui ci sfuggono i contorni e che può perfino suscitare interesse. Attenzione e benevolenza, se non voglia di emulazione.

In tal modo si finisce, ancora una volta, per fare il gioco della criminalità quando proprio noi meridionali abbiamo tutto l’interesse a svelarne l’arcano e a liberarci da un giogo che ci tiene sotto scacco. Intanto sarebbe il caso di eliminare tutto quel ciarpame di contorno rappresentato dal presunto e sedicente folklore fatto di canzoni, di leggende, di riti, di tradizioni e di uso strumentale della religiosità popolare. In secondo luogo sarebbe ora di delegittimare questi soggetti sul piano sociale e relazionale mettendo in evidenza che  le loro ricchezze grondano sangue. E tanto dovrebbe bastare.  In terzo luogo – e lo dico da ateo e non credente – sarebbe opportuno che la Chiesa cattolica non si prestasse a tenere il fianco a queste persone che nello stesso tempo pregano ed ammazzano, fanno la comunione ed ordinano un’estorsione, battezzano bambini ed uccidono migliaia di giovani con l’eroina. Intendiamoci, non ne faccio una questione di principio e non penso che la Chiesa cattolica sia ancora un’istituzione credibile, tuttavia potrebbe, attraverso una serie di comportamenti coerenti, riacquistare un ruolo all’interno di una società fin troppo disgregata e frammentata. Dopo di chè, finalmente, potremo cominciare a discutere di mafia o, se si vuole, di criminalità organizzata  e, a quel punto,  non sarebbe più solo… “Cosa Nostra”.









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