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Due Sicilie
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Sulla pianificazione del sottosviluppo nell’Italia repubblicana

di Angelo D’Ambra

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6 Dicembre 2011

Periodi 1954/60 1961/63 1964/69 1970/73
Disoccupati su popolazione presente 127,5 127 141,5 156
Occupazione dipendente su occupazione totale 91 94,4 93,4 90,6
Occupazione in servizi e P.A. 100,9 104,8 95,6 100,8
Consumi per abitante 70,9 78 80 79,7
Rifornimento del mercato 84,5 83,7 82,1 81,9

(Tabella A, Lavoro e consumi 1954-1973, tratta da dati Istat)


Negli anni della ricostruzione, quando le difficoltà di un rilancio del sistema industriale settentrionale sembravano enormi, non solo i governi italiani non vollero accollarsi il problema di industrializzare le regioni meridionali, ma addirittura smantellarono gli impianti già esistenti al Sud. La politica adottata fu ancora più evidente negli anni del “miracolo economico”: bisognava creare un Nord industriale capace di conquistare i mercati esteri e un Sud addetto ad esportare forza di lavoro per alimentare l’industria del Nord.

Su queste basi l’unica soluzione possibile era quella di finanziare un’intensa politica di opere pubbliche, solo così infatti si sarebbe accresciuta la capacità di acquisto del Mezzogiorno senza svilupparne quella capacità di produzione che avrebbe tolto il mercato meridionale alle imprese del Nord. La politica delle opere pubbliche, col beneplacito dei meridionalisti, risollevava il reddito del Mezzogiorno, dava impulso all’industria delle costruzioni, settore che assorbiva ed assorbe l’eccesso di manodopera contadina, forniva occasioni di lavoro per la manodopera non qualificata e consolidava il potere delle amministrazioni locali che gestivano il flusso di spesa pubblica.

Il colonialismo interno rinasceva più forte con la Cassa per il Mezzogiorno e nella tabella A ne vediamo i risultati: in crescita lo spaventoso numero di disoccupati, l’occupazione è quasi totalmente dipendente e tutta inserita nel terziario o nella Pubblica Amministrazione. L’assenza di una imprenditoria locale è testimoniata da oltre l’80% di importazioni di beni dal Nord a fronte di un sensibile incremento costante dei consumi (+10% nel 1964) che ben evidenzia il ciclo di espansione del capitalismo padano, non tanto legato ad un intensificarsi della penetrazione sui mercati meridionali delle industrie settentrionali, quanto dovuto all’inevitabile sbandamento e alla caduta delle deboli imprese locali vinte dai bassi costi dei beni del Nord.


Periodi 1974/76 1977/79 1980/85
Disoccupati su popolazione presente 172,5 180,1 187,3
Occupazione dipendente su occupazione totale 93,6 100,8 101,1
Occupazione in servizi e P.A. 100 90,1 86,8
Consumi per abitante 83,4 67,1 66,8
Rifornimento del mercato 77,5 129,6 125,4

(Tabella B, Lavoro e consumi 1974-1985, tratta da dati Istat)


Nel decennio successivo si registrò un incremento del numero di disoccupati accompagnato al calo dei consumi e degli occupati nella Pubblica Amministrazione. Nonostante ciò l’afflusso di beni dal Nord aumentò.

Si realizzò una svolta precisa a favore dell’industrializzazione del Meridione che comportò un spostamento di fondi verso il settore industriale, una restrizione della politica delle opere pubbliche, stavolta finalizzate ad essere funzionali agli insediamenti industriali, una leggera torsione del settore terziario ed un aumento della disoccupazione. Questa politica infatti, studiata ed apprezzata dal meridionalismo accademico, venne concepita in modo da non intaccare il flusso di migrazione che garantiva manodopera a basso costo al Nord e dunque gli insediamenti industriali dovevano solo aumentare il livello di reddito generale (ovvero la capacità di acquisto dei beni settentrionali), non erano finalizzati a ridurre i margini di disoccupazione.

Per tale ragione le industrie nate ebbero la forma di grandi impianti a elevata intensità di capitale e scarso assorbimento di forza di lavoro. Dunque nel Mezzogiorno aumentò la disoccupazione e al contempo la capacità di consumo dei beni che calavano dal Nord, in più in tal modo lo sviluppo industriale del Mezzogiorno divenne sempre più strettamente legato a quello del settore statale, come vediamo nella tabella B.

C’è una celata continuità tra il Nord delle leghe operaie e quello della Lega Padania. Il socialismo italiano ha fatto propria una linea politica gradualista, espressione degli interessi dell’ “aristocrazia operaia”, di quel mondo del lavoro, tutto concentrato al Settentrione, la cui battaglia si concretizzava in un welfare state capace di accompagnare il lavoratore dalla culla alla morte. Così oggi la Lega difende il sistema pensionistico italiano che garantisce per il 75% pensioni al proletariato settentrionale.

Al Sud il sottosviluppo pianificato ha invece dato i natali ad un mondo del lavoro dominato da una minoranza di lavoratori del pubblico impiego che assapora le agiatezze del proletariato settentrionale e fa lievitare il reddito complessivo e la capacità di consumo, mentre la maggioranza di lavoratori meridionali è condannata o ad emigrare al Nord o a vivere al Sud tra precarietà e sussidi in balia del ceto amministrativo che gestisce la spesa pubblica.

Anni/Area Nord Sud
1990-1993 6,9 18,3
1994-1997 7,8 19,2
1998-2001 7,8 21,0
2001-2004 7,5 23,4

(Tabella C, Tassi di disoccupazione 1990-2004, tratta da dati Istat)


Dagli anni ’80, poi, in un progressivo moto di avvicinamento a Maastricht, le privatizzazioni travolsero il settore pubblico italiano particolarmente esteso nel Mezzogiorno e l’industria del Nord fece incetta di tutti gli impianti in precedenza a partecipazione statale: nel 1986 Fiat comprò l’Alfa Romeo (e più tardi si insedierà a Melfi), furono vendute l’Italsider, lo Sme, l’Eni, la Telecom, l’Enel, e nel 1992, anno del Trattato, si sancì la fine dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno (legge 488).

La disoccupazione salì alle stelle (tabella C, l’andamento di lavoro e consumi fu pressoché identico a quello della tabella B).

Ancora una volta, pesò l’assenza di una rappresentanza politica e sindacale che fosse espressione di interessi meridionali: l’impotenza di un proletariato meridionale frastagliato, senza peso produttivo, indi scarsamente sindacalizzato e con valore contrattuale nullo, ha fatto sì che mai il mondo del lavoro meridionale producesse una sua rappresentanza economica o politica e che, anzi, finisse preda del ceto burocratico e parassitario nato attorno all’amministrazione della cosa pubblica che usa la problematica del lavoro come traino elettorale.

Conseguentemente alla ristrutturazione degli anni ’80, il dibattito sull’industrializzazione del Sud si assopì completamente ed angora oggi, da destra a sinistra, sono tutti convinti che la ricetta per il Mezzogiorno sia investire nelle infrastrutture. È vero che in tal modo i prodotti del Nord raggiungerebbero le nostre regioni in modo meno costoso, ma ciò come potrebbe giovare allo sviluppo produttivo nostrano?

Persino tra i meridionalisti l’abbandono della rivendicazione di uno sviluppo industriale per il Mezzogiorno è evidente in ogni dibattito, in ogni scritto. Esso non è altro che l’adeguamento alle disposizioni nordiste in materia di “sviluppo” del Sud, l’ennesimo capitombolo di una ideologia (il meridionalismo) sempre funzionale alle esigenze del capitale padano. Non sappiamo se costoro davvero credano che il Sud possa vivere di microimprese artigianali, servizi e Pubblica Amministrazione, forse sì, ci credono, ma sarebbe una vita da colonia.

Questa prospettiva non è per noi allettante, ne siamo stanchi anche se ben lontana appare l’unica soluzione: il recupero di un ceto intellettuale sano e lontano dalle logiche affaristiche che incontri e diriga le istanze del proletariato verso la separazione.

Separazione e null’altro, perché la questione è anzitutto doganale. Non potremo mai industrializzarci, non potremmo mai conoscere un facile sbocco lavorativo senza emigrare, non potremmo mai sottrarci al clientelismo se non potremo difendere le nostre industrie con le tariffe doganali che riterremo più adatte.








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