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Due Sicilie
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IL SISTEMA PROTEZIONISTA DELLE DUE SICILIE

Sul protezionismo in generale, il sistema protezionista delle due Sicilie, la crisi della produzione meridionale all’indomani dell’espansione del sistema doganale piemontese. Il drenaggio di risorse come fattore di accumulazione capitalistica.

di Alfonso Pergolesi


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Il dogma risorgimentale del Sud preunitario arretrato e privo di un sistema capitalistico è stato oggetto di una serie di confutazioni ben argomentate da Nicola Zitara, il quale dedica i primi due capitoli del suo libro “L’invenzione del Mezzogiorno” a lavoro, produzione e mercato negli ex Stati prima dell’espansione sabauda. Ora, confermata la tesi revisionista che ha dovuto faticare non poco per pervadere il pensiero dominante, si è passati con il giustificare l’esistenza di queste produzioni con la presenza di un sistema di protezione che a detta degli storici sarebbe stato un fattore di debolezza dell’economia meridionale. Ciò che lascia infastiditi è il voler attribuire un valore negativo a delle politiche governative perfettamente in linea con quelle di altri Stati.

Il sistema della protezione era uno strumento di politica economica adottato pressoché da tutti gli Stati dell’epoca e che trovava fondamento nel principio dell’indipendenza assoluta di ogni nazione e nell’obbligo che aveva ogni governo di tutelare gli interessi dei propri soggetti, e soprattutto di adottare qualunque strumento per incoraggiare l’industria del paese. L’economista Lodovico Bianchini afferma: “Dopo che prima l’Inghilterra e poi la Francia, vale a dire due delle più grandi potenze di quell’epoca avessero elevata la rappresaglia commerciale, il monopolio, le guerre daziarie a sistema politico, era impossibile cosa che ogni altra nazione non si vedesse nella necessità di fare lo stesso.”  Con l’affermarsi del mercantilismo nel XVIII secolo, allorquando le nazioni cominciano a farsi le ossa e a costruire istituzioni economiche e politiche adeguate per sostenere il commercio, si diffonde l’idea dell’interventismo dello Stato nell’economia a difesa degli interessi della nazione.

Molti scrittori di economia ad un certo punto avvisarono sulle disfunzioni di tale sistema nella sua formulazione più rigida. Prendendo ad esempio il caso inglese è noto come in effetti la protezione eccessiva se da un lato tendeva a favorire i proprietari terrieri e il sistema industriale nella fase neonatale, dall’altro si rivelava in chiave negativa in quanto manteneva alto il livello dei prezzi dei beni primari (come ad esempio il grano) aumentando il costo della vita. Si poneva quindi il problema di migliorare le condizioni del popolo, in particolare quello manifatturiero. Bisogna dire tuttavia che le necessità dell’Inghilterra erano ben diverse da quelle di altri Stati e che la politica adottata successivamente dal governo inglese non poteva essere emulata aprioristicamente in altri paesi, ciò a conferma del pensiero di Ferdinando Galiani sulla necessità che i ragionamenti economici dovevano riferirsi a circostanze specifiche e sulla impossibilità di definire soluzioni che andavano bene per ogni paese e per ogni tempo.

Nelle due Sicilie il governo si era mostrato attento all’esigenza di assicurare un livello dei prezzi basso. Lo stesso primo ministro inglese Robert Peel fautore della riforma doganale del 1846 ne aveva elogiato la politica commerciale “liberale”. Una conferma di tali affermazioni l’abbiamo da Cronache civili e militari delle due Sicilie di Mons. L. Del Pozzo. In data 9 Marzo 1846 abbiamo un Decreto che diminuisce il dazio d’importazione sopra i panni, e diversi generi e mercanzie di cotoni, mussoline, ombrelli, organetti, quadranti di orologi, carrozze, tessuti di seta, fiori, frutti finti, argento lavorato, gioielli, bastoni, figure miniate in carta, fosfori, ferri filati, diversi colori, rum, birra, allume, solfato, cremato di potassa ed altri oggetti. E ancora in data 19 Ottobre dello stesso anno un ulteriore Decreto diminuisce il dazio d’importazione delle lamine di latta da ducati 7 a ducati 4 il cantajo (Kg 89,09). L’abbassamento dei dazi sull’importazione di materie prime come il cotone o il ferro riflette la necessità per il governo napoletano di favorire le industrie interne in fase di crescita: “La lana nazionale non viene esportata. Essa è ora acquistata dalle filande e dagli opifici tessili efficienti nelle province al di qua dal Faro. Ma, incrementata l’industria tessile, per le filande meridionali non è più sufficiente la lana di produzione nazionale: le province continentali, che nel 1834 esportavano lana sudicia per 65.991 ducati, nel 1842 ne importano, per le filande e gli opifici tessili locali, oltre 1.000 quintali per un valore di 69.037 ducati e tra il 1843 e il 1852 ne importano complessivamente circa 15.000 quintali per un valore di 750.274 ducati e nel 1855 oltre 1.300 quintali per un valore di 73.133 ducati. L’importazione del cotone grezzo passa dai 1.710 quintali per un valore di 13.469 ducati nel 1838 agli 11.078 quintali per un valore di 388.396 ducati nel 1852; mentre l’importazione del cotone filato passa dalle 1.439 tonnellate nel 1838 alle 3.429 tonnellate nel 1855.”   Aumenta anche l’importazione del ferro: “Nelle province al di qua dal Faro gli stabilimenti e le officine metalmeccaniche costruiscono anche macchine, binari e vagoni ferroviari. E, poiché il ferro estratto dalle miniere calabresi è insufficiente per il loro accresciuto fabbisogno, per provvedere alla materia prima gli industriali napoletani ricorrono ai mercati stranieri esportatori di ferro e di carbone (Tommaso Pedio).” Questo dato se rapportato agli interventi in materia daziaria riflette l’indirizzo benefico della politica del governo napoletano. Essa potrebbe definirsi libero-scambista e protezionista al tempo stesso. Infatti se da un lato si abbassavano i dazi alle importazioni, dall’altro si mantenevano quelli alle esportazioni del grano. In entrambi i casi l’obiettivo sembrerebbe quello di mantenere basso il livello dei prezzi. Potremmo affermare, quindi, che a dettare l’agenda politica del governo erano i bisogni reali del paese: l’industrializzazione e il basso costo della vita. 

Al sistema della protezione taluni opponevano quello del libero commercio più volte oggetto di equivoci e interpretazioni fuorvianti. Il Bianchini afferma: “I più vorrebbero intender­­e per libertà commerciale la esclusione di ogni ingerenza del governo, quantunque fosse diretta a fine utilissimo; quindi non ammettono alcuna soggezione, alcun divieto, alcun dazio per la immissione e la estrazione delle merci, dovendo a loro giudizio affidarsi il commercio internazionale soltanto all’interesse privato di coloro che tra Stato e Stato si danno a mercantare. Ma questa specie di libertà non ha mai esistito, né può esistere nell’ordine sociale, e sarebbe dannosa ad ogni Stato nel suo particolare e nelle sue internazionali relazioni.” 

Quella delle tariffe doganali fu una questione al centro del dibattito politico in tutti i governi europei dell’Ottocento. In base alle esigenze di ciascuna nazione si regolavano i dazi alle importazioni e all’esportazioni ma ci si guardava bene dall’abolizione totale di ogni protezione, nella consapevolezza che ciò avrebbe arrecato un danno alle diverse economie interne per avvento della concorrenza straniera. A tal proposito lo stesso economista afferma: “E’ da porre a mente che la stessa associazione pel libero scambio nella Gran Bretagna non ha mai ideata una libertà di commercio tanto assoluta per quanto alcuni scrittori la immaginano; bensì limitossi a domandar soltanto l’abolizione di qué dazi che positivamente fossero di danno al commercio ed alla sussistenza.”

La stessa riforma inglese del 1846,  tanto esaltata, “non ammise altro che quella possibile libertà commerciale diretta a togliere alcuni eccessi della falsa protezione”. Il politico inglese Palmerston ebbe a dire: “quando parlo di libertà di commercio intendo dire che il commercio debb’essere francato delle pastoie che lo molestano, e non già da dazi percepiti pel pubblico servizio.”    

Quindi è chiaro che in un contesto in cui tutti gli Stati, chi più esplicitamente, chi meno, tendevano a difendere le proprie industrie, lo Stato che vedeva perdere improvvisamente le normali protezioni non avrebbe retto all’assedio delle merci estere. Chi si sentiva più pronto e competitivo vedeva nell’apertura dei mercati la possibilità di larghi profitti a danno di chi per fattori contingenti non poteva esserlo altrettanto. Non si vuole in questa sede mettere in discussione la libertà di commercio nella sua formulazione teorica che non fa una piega bensì la sua applicazione pratica. Secondo alcuni autori il liberismo economico rappresenterebbe uno strumento per perseguire l’equità sociale e la giustizia economica. Tale affermazione è sempre verificata? Un agricoltore siciliano che per impossibilità oggettiva non riesca ad uguagliare i costi di produzione di un agricoltore tunisino è da ritenersi libero nel libero mercato? La questione da porre è se il liberismo inteso come rimozione di ogni strumento di regolazione alla circolazione delle merci sia un fattore di libera concorrenza in ogni luogo e in ogni tempo. Quando i surplus accumulati e la spesa corrente non tornano nella circolazione dello stesso paese, questo si infila nella spirale dell’improduttività. Comprare le produzioni forestiere è lecito e può essere anche conveniente, ma bisogna che esse vengano pagate con il ricavo dalla vendita della propria produzione corrente, e non con i cespiti, la libertà, la disoccupazione, l’esodo o l’anima. La libertà degli scambi non può rappresentare “una libera volpe in un libero pollaio”  (N. Zitara).

Abolire un sistema protezionistico richiede una preparazione graduale dei sistemi economici e un adattamento delle imprese alle diverse condizioni sopraggiunte pena un danno maggiore all’economia interna. Prendendo ancora una volta a prestito le parole del Bianchini: “La questione relativamente all’esagerato sistema di protezione, a nostro credere non più consiste a dimostrare in teorica la fallacia, ma si bene nell’avvisare nella pratica al modo di abbatterlo onde nella sua caduta non arrecasse gravi danni, e nel rivedere veramente proficua a’ popoli quella maggiore sperabile e possibile libertà commerciale che ne deriverà. Ho detto sperabile e possibile, dacchè anch’essa aver debbe i suoi limiti e guarentigie nell’ordine sociale, essendo impossibile ottenere una illimitata e sfrenata libertà commerciale.”

 Quello che infatti accade nelle due Sicilie all’indomani dell’espansione del sistema doganale piemontese non è altro che quello di cui abbiamo accennato sopra: le imprese che hanno fatto piani di investimenti in base alle condizioni passate si ritrovano in poco tempo a veder mutati i prezzi e quindi a non riuscire più a smaltire i propri prodotti. La Giunta provvisoria di Commercio di Napoli  nella relazione sulle forze produttive delle Province Napolitane approvata il 12 Giugno 1861 ebbe a lamentarsi “della mancanza di quei provvedimenti per i quali solamente si sarebbe potuto passare senza scossa da un sistema protettore a uno opposto, citando il caso degli stabilimenti per la lavorazione del cuoio: questi si erano ritrovati con  i magazzini pieni di merci invendute per le quali si erano adoperate materie prime acquistate con dazi di importazione più elevati. Si faceva l’esempio della Francia dove si era provveduto con gradualità ad abolire il sistema di protezione, proprio per assicurare lo smaltimento dei prodotti confezionati con materie prime gravate dai precedenti dazi.”

Il nuovo governo non si preoccupa di difendere gli interessi della borghesia attiva del Meridione giustificando il suo disinteresse con l’ideologia liberista, bensì di come soffocarne l’ingegno e lo spirito di intraprendenza. Quello che accade alla Compagnia di navigazione a vapore delle Due Sicilie ne è una prova evidente. All’indomani della fine del Regno la Compagnia comincia a subire la concorrenza “sleale” di quelle genovesi, sleale perché sovvenzionate dall’interno dal governo “liberista” italiano. Le difficoltà della Compagnia sono ben evidenziate in una memoria fatta stampare dall’Amministrazione e curata dall’avvocato della Compagnia stessa, Pietro Prota, dal titolo emblematico: “Sul danno che i contratti postali marittimi stipulati dal Governo producono alla navigazione a vapore mercantile nel Regno d’Italia”. La sovvenzione statale sull’attività della compagnia genovese Accossato, Peirano & C. avrebbe non solo coperto le spese di carbone, olio e stoppa, ma anche consentito al concessionario di provvedere al salario dell’equipaggio durante i viaggi. Il governo inoltre corrispondeva un ulteriore nolo alle Compagnie per il trasporto di soldati, cavalli, armi e del personale dipendente dal governo. Sempre nella memoria si dimostra come le concessioni postali marittime del governo italiano costituivano un monopolio legalizzato. I concessionari disponendo di un nolo assicurato, avrebbero potuto imbarcare passeggeri e merci alla ragione che volevano e in pratica con un ribasso nelle tariffe tale da non ammettere concorrenti. Prima dell’Unità il governo borbonico  non aveva sostenuto le compagnie napoletane avendo negato alla stessa sovvenzioni e capitali. In pratica alla Compagnia delle Due Sicilie che aveva un poderoso naviglio e che avrebbe dovuto rappresentare un vanto per la marineria italiana si era preferita una compagnia che non possedeva neanche uno Schifo (piccola imbarcazione a remi) a detta dell’avvocato. Il governo italiano adottò la politica del buon viso e cattivo gioco facendosi promotore del liberismo quando si trattava di affossare le industrie meridionali e fautore dell’interventismo nell’economia quando si trattava invece di favorire le compagnie genovesi. Il divario nord-sud è un dato storico ineccepibile e affonda le radici nella politica del governo unitario.

E’ interessante quello che accade nel caso dei capitali esteri affluiti negli anni precedenti all’invasione. Il governo napoletano favorisce l’arrivo di investitori stranieri a patto che si facciano anche gli interessi del paese. Con l’Unità il meccanismo si inceppa e prende una piega diversa. I capitali che arrivano questa volta non trovano più i vincoli del governo e il suo controllo ma hanno campo libero davanti a sé. Lo stabilimento Guppy fondato a Napoli nel 1853 era giudicato al momento dell’Unità il secondo d’Italia. Nel 1885 avviene la trasformazione in Spa e l’ingresso in posizione minoritaria di due ditte bancarie italiane, la Wagnière di Firenze e la Ceriana di Torino e nel 1886 c’è l’ingresso della inglese Hawthorn, Leslie & Co. di Newcastle. Nasce così la Società industriale Napoletana Hawthorn-Guppy. Nel 1900 la Hawthorn Leslie, & Co. si ritira e i Guppy con altri soci decidono lo scioglimento e la vendita dello stabilimento, che viene ceduto alle Officine Meccaniche di Milano nel 1905.       

 Quello che accade al Sud all’indomani della liberazione dalla classe dirigente “borbonica” è alquanto singolare. Le mutate condizioni geopolitiche, l’allargamento del sistema tributario piemontese, molto più gravoso di quello napoletano (basti pensare che un suddito napoletano pagava sei volte meno che un suddito piemontese, si veda la tabella a pag 286 del libro L’invenzione del Mezzogiorno), la mancanza di sicurezza interna dovuta al cosiddetto brigantaggio ma soprattutto l’espropriazione del sistema bancario imperniato sulla figura pubblica del Banco delle Due Sicilie, resero poco conveniente investire i capitali nella produzione. Quelli che erano arrivati dall’estero negli anni precedenti presero la via del ritorno nella patria di origine, quelli che invece si erano sviluppati in loco finirono nella rendita terriera il più delle volte. E’ interessante la tesi del Cimmino, espressa dal De Majo, il quale scrive: “Molto meno colpito è tutto sommato il ceto degli imprenditori, che spesso si ritira senza aver subito gravi perdite personali e non rischiando i cospicui capitali accumulati nel periodo preunitario e in qualche altro momento felice. La sua non esigua disponibilità finisce piuttosto nei depositi bancari e molto spesso nell’acquisto di terreni, di beni demaniali e dell’Asse ecclesiastico.”  Le nuove politiche governative, dirette al risanamento del bilancio dello Stato o per meglio dire al risanamento di quello piemontese, aggiunsero alla disperazione dei contadini, quella di una certa classe imprenditoriale la quale per non vedere erosi i propri capitali si rifugiò nell’investimento in beni demaniali ed ecclesiastici che lo Stato aveva messo in vendita. Venuto meno il sistema nazionale ferdinandeo, la base produttiva si sottosviluppò, la borghesia attiva diventò una classe al servizio degli sbocchi all’espansione padana (N. Zitara). La classe imprenditoriale si trasforma e va ad allargare le fila di quella padronale parassitaria che Ferdinando II aveva cercato di fronteggiare attraverso la sua politica industrialista. Le politiche del governo italiano non fecero altro che inasprire il conflitto sociale. La crisi dovuta non a difetti ancestrali dell’economia o al malgoverno del passato bensì alla perdita di sovranità politica, al distacco tra la nuova classe dirigente e la società e al conseguente senso di ribellione verso le nuove istituzioni, portò alla rovina economica e sociale che ancora oggi fa sentire i suoi effetti sottoforma di sottosviluppo, criminalità organizzata e disoccupazione. Il dualismo nato con la cosiddetta Unità non accenna ad invertire la rotta. Nicola Zitara spiega tale divario con due parole che spingono ad una ulteriore riflessione sul problema italiano: colonialismo interno. Quando le classi dirigenti napolitane e siciliane governavano in piena autonomia e in assenza di influenze esterne il Sud ricopriva un ruolo di prestigio a livello internazionale pur essendo un paese con dei problemi, oggi, invece, quello che fu il Regno delle Due Sicilie risulta essere una delle aree più depresse d’Europa. Dare la colpa dell’attuale disastro a chi l’amministra o l’ha amministrato, fatte le dovute autocritiche, non è altro che un modo semplice per scaricare le storiche responsabilità del potere centrale o nord-centrico che dir si voglia.

Tra le tante forme di  drenaggio di risorse che Nicola Zitara descrive oculatamente nel suo ultimo libro, una in particolare ha destato l’attenzione del sottoscritto. E’ noto l’eccessivo disavanzo che lo Stato italiano si trovò a fronteggiare nei primi decenni della sua esistenza. Questo disavanzo venne finanziato sostanzialmente con l’emissione di titoli del debito pubblico. Ora, l’emissione dei titoli di debito favorisce oltre al banchiere che ottiene uno sconto sul valore nominale dello stesso anche il risparmiatore che decide di investire in titoli di Stato. Minore è la fiducia di cui lo Stato gode, minore sarà il prezzo di vendita e maggiore il rendimento del titolo. Francesco Saverio Nitti descrive le brusche oscillazioni che la rendita pubblica italiana subì tra il 1863 e il 1870: dato un valore nominale di 100 lire essa non fu mai collocata ad un prezzo di vendita superiore a 70 se non in casi sporadici. Il risparmiatore meridionale non era abituato ad un basso corso della rendita pubblica in quanto il titolo napoletano era stato tra i più sicuri in precedenza, ciò a conferma della maggiore solidità finanziaria di cui godeva lo Stato delle due Sicile. Questo fattore determinò una scarsa propensione all’acquisto di titoli da parte dei meridionali che preferirono acquistare l’enorme massa di beni demaniali che lo Stato aveva gettato sul mercato. Dalla tabella elaborata da Zitara su dati di Zamagni (pag 384) si evince come su 3.200.000.000 di lire di interessi sul debito pubblico pagati tra il 1861 e il 1871, 962.000.000 andarono a creditori stranieri e ben 2.238.000.000 finirono nelle tasche di creditori nazionali: liguri, piemontesi, lombardi e toscani. Tutto questo mentre il Sud pagava più di 2.600.000.000 sotto forma di imposte e per l’acquisto del patrimonio fondiario. Questa forma di drenaggio, insieme ad altre, contribuì senz’altro all’accumulazione capitalistica e alla nascita del mito del laborioso popolo del Nord, popolo ingrato il più delle volte.      

Alfonso Pergolesi


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