L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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La memoria istituzionale

ovvero considerazioni a margine

del 150° anniversario dell’unificazione

di Antonio Orlando

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21 Gennaio 2012


Verso la fine del ‘900, grosso modo una ventina di anni addietro, al termine di un vasto dibattito e di un’ampia riflessione che coinvolse tutti gli ambienti della cultura, della filosofia, del diritto, delle scienze e delle arti sulle vicende di quello che uno storico inglese ha definito “il secolo breve”, si cominciò a delineare l’idea di istituire “il giorno della memoria”. Visto che la discussione aveva prevalentemente, per non dire quasi esclusivamente, riguardato lo sterminio degli Ebrei durante il periodo nazista, ovviamente tale giorno non poteva che essere dedicato al ricordo di questa immane tragedia. E doveva essere un giorno simbolo, un giorno che unificasse e raccogliesse in se l’intera tragedia di quel popolo. Venne scelto il 27 gennaio, giorno – si disse – dell’apertura dei cancelli del campo di sterminio di Auschwitz – Birkenau e, chissà perché, si omette sempre di dire (non ci sono meriti speciali da attribuire) che la liberazione dei prigionieri venne fatta dall’Armata Rossa sovietica. “Schindler’s List”, film del 1994 del bravissimo Steven Spielberg, rappresenta l’acme di questa ricerca in “quel” passato non più solo allo scopo di ricostruire per ricordare quanto soprattutto per non ripetere. La frase “Chi non conosce il proprio passato è destinato a ripeterlo”, che campeggia su una lapide del campo di Auschwitz divenne lo slogan di ogni manifestazione rievocativa di queste terribili vicende. In realtà nessuno sa a chi attribuire la paternità di questa frase che, in effetti, circola anche in altre versioni tipo “Chi non capisce il passato è destinato a riviverlo” che rende l’idea in una forma ancor più angosciante. Una frase del genere o in una versione molto simile è stata rinvenuta sul muro di un vecchio forte diroccato ad Haiti e gli abitanti del posto la fanno risalire a tantissimo tempo addietro, al tempo della rivoluzione dei “Giacobini neri” e cioè tra il 1791 ed il 1803. E pur ammesso che sia di qualche anno successiva, tutto ciò la dice lunga sul carattere e sulla percezione della memoria da parte dei vincitori e da parte dei vinti. Letta dal lato dei vincitori – che di solito coincidono con il nord del mondo, con il mondo c.d. “Occidentale” – la frase assume un significato positivo perché è la riaffermazione di una supremazia, la supremazia razziale dell’uomo bianco e, in sostanza, è l’invito a non ripetere gli stessi errori che hanno portato a qualche momentanea “battuta d’arresto” (leggi: sconfitta) lungo il luminoso sentiero del progresso e della civiltà che solo i bianchi sono in grado, prima di tracciare e poi di percorrere. Sostanzialmente, quindi, gli uomini bianchi hanno avuto ed hanno tutt’ora ragione e pertanto devono semplicemente sforzarsi di conoscere e far conoscere il proprio passato.

La memoria è una e resta una sola.

Letta, invece, dal lato dei vinti e degli sconfitti, dal lato dei “neri”, dalla parte cioè di tutti i sud del mondo, la frase può assurgere a monito del ripetersi di un incubo, della condanna all’ennesima sconfitta, causata dall’ignoranza oltre che dall’assenza di una valida strategia. E in fondo non fa altro che confermare l’idea che la Storia (quella con la “S” maiuscola, quella vera, quella autentica) l’hanno scritta sempre, e continuano a scriverla, i vincitori. Lette entrambe secondo un’interpretazione neutrale – diciamo così, puramente filologica – la Storia diventerebbe una sorta di damnatio memoriae e ci trasformerebbe – come credono gli haitiani – in zombies, in morti viventi, condannati a riprodurre eternamente gli stessi errori e gli stessi orrori.

In questo senso non ci sarebbe niente di nuovo quindi nell’istituzione del “giorno della memoria” se non, appunto, l’istituzionalizzazione del ricordo che potrebbe benissimo rappresentare l’altra faccia del giorno americano del ringraziamento o del “2 novembre” per i cattolici. Mi rendo conto benissimo che in molti obietteranno subito che ricordare la Shoah significa ricordare le vittime ed in quanto tali, ricordare, per la prima volta, i vinti. Non era mai accaduto prima, mi si dirà, che i vincitori ricordassero o meglio ancora “si ricordassero” dei vinti, cioè di tutte quelle umili vittime dell’odio, del pregiudizio e del razzismo. Non di tutte le vittime, contro-osservo immediatamente, ma solo di una categoria, anzi di un’etnia, di un popolo e cioè degli Ebrei. Visto in questo modo “il giorno della memoria” ha tutta l’aria di un risarcimento tardivo, una specie di riconoscimento postumo che non altera alcun equilibrio né politico, né culturale, né sociale, né economico, né morale e non modifica nessun assetto né strategico né diplomatico. Una specie di presa d’atto, realistica, cui si perviene sulla base di una memoria condivisa ed universalmente accettata da ogni Stato democratico e da ogni persona di buon senso. Anche perché, nel frattempo, gli Ebrei si sono dati uno Stato nel quale si riconoscono e che li rappresenta sulla scena mondiale e non sono più, quindi, errabondi, sparpagliati e divisi come accadeva nella prima metà del ‘900. Per ciò stesso hanno acquisito il diritto a costruire una propria identità della quale entra a far parte, a pieno titolo, la memoria della Shoah quale elemento fondante della Nazione, della rinnovata comunità e del nuovo Stato.

Se non ché quella frase diventata tanto famosa quanto stucchevole si è trasformata nel presupposto ideologico (uso volutamente quest’aggettivo fortemente ambiguo ed ambivalente) che sta a fondamento di questa impostazione storica della memoria. Con quella frase non si vuole tanto ricordare, commemorare, riflettere, piuttosto si intende lanciare un messaggio del tipo “guardate quanto siamo bravi oggi, quanto siamo democratici oggi, quanto siamo aperti e tolleranti oggi rispetto a quelli che ci hanno preceduto e che si sono resi responsabili di quelle atrocità”. Il risvolto è: “con noi che non dimentichiamo e che non vogliamo dimenticare, tutte quelle brutte cose non si ripeteranno mai più”.

 E’ il tentativo di un’autoassoluzione, di un perdono aprioristico e postumo, generalizzato e diffuso. Se quello è stato il male assoluto, se con le persecuzioni antiebraiche abbiamo, come esseri umani e non solo come soggetti politici, come cittadini o sudditi, toccato il fondo allora è sufficiente non ripetere più quelle cose orribili; è sufficiente non raggiungere più quei livelli, è sufficiente fermarsi prima del baratro dell’abominio. Se, idealmente, viene costruita una scala degli orrori che abbia caratteristiche corrispondenti a quelle dei campi della morte nazisti viene così costruito il modello del male assoluto. E’ sufficiente che un tale modello, applicato in altre circostanze, in altri contesti, in altre epoche storiche e politiche, a colpo d’occhio, non si adatti o non coincida con quello dei campi di sterminio, per proclamare la nostra estraneità e la nostra diversità. Dunque diventiamo tutti, come popoli, come partiti, come Stati, come culture migliori dei nazisti qualunque cosa abbiamo potuto commettere, di qualunque colpa ci siamo potuti macchiare.

Il paradigma non ha retto. Intanto è stato immediatamente travolto proprio nella sua essenza fondante, cioè sul piano storico. Nei campi nazisti furono uccisi non solo ebrei, ma anche zingari, Testimoni di Geova, omosessuali, disabili, malati di mente e comunisti. Si proprio seguaci del marxismo, militanti e dirigenti dei partiti comunisti, alla stessa stregua dei loro compagni che venivano, negli stessi anni, massacrati dal compagno Stalin in quanto oppositori e dissidenti.

In secondo luogo non ha retto il modella della memoria a senso unico, non ha retto la memoria di un solo fatto, di un solo evento, la memoria di una sola “storia”, che non può mai essere onnicomprensiva, neppure sul piano simbolico. Se scoperchi il vaso di Pandora della Storia, a parte il fatto che poi diventa impossibile richiuderlo, vengono fuori le vicende di un’umanità perversa che in nome di determinate “idee” dalla religione al pregiudizio, dalla razza all’economia, si è resa responsabile di atrocità altrettanto gravi di quelle perpetrate dai nazisti. Se cominci a giustificarle, a spiegarle, a contestualizzarle, a capirle pur non condividendole, ad isolarle e a distinguerle dal nazismo, la memoria svanisce e finisce per confondersi con un’amara ed acre nostalgia. Non è più ricordo, non è più commemorazione bensì risentimento, rancore, revanschismo. Non ci vuol niente a far diventare questi sentimenti odio, vendetta, sopraffazione, morte in una catena senza fine che perpetua se stessa.

 In terzo luogo nella seconda metà del Novecento, dopo il fatale 1945, proprio quelle atrocità si sono ripetute in forme diverse ed in diverse parti della Terra e pure le vittime sono diventate a loro volta, carnefici. Non mi pare il caso di riportare il lunghissimo elenco di guerre civile, guerre locali, guerre per l’indipendenza, colpi di Stato, rivolte, tentativi di insurrezione che si sono verificati dal 1945 ad oggi in Asia, in Africa, in America Latina, in Medio Oriente, in Russia e, da ultimo, nuovamente in Europa. Di fronte a questi avvenimenti è stato comodo servirsi del “parasigma nazista” utilizzato come un’unità di misura; è stato comodo chiudere gli occhi, girarsi dall’altra parte e fare finta di non vedere. E’ stato comodo chiedere perdono per Galileo o per i Tribunali della Santa (che c’aveva di santo?) Inquisizione; è stato comodo riportare alla ribalta il massacro degli Armeni o degli Indiani d’America o degli Atzechi, dei Maja, degli Incas e degli indios; è stato comodo battere la gran cassa sui crimini di Stalin, dei comunisti cinesi e di Pol-Pot. Il tutto nel mentre dall’altra parte dell’Adriatico serbi, croati, montenegrini e bosniaci si scannavano come porci; mentre in Ruanda si registravano massacri inauditi ed in Cecenia l’esercito russo compie quotidianamente stragi che nulla hanno da invidiare a quelle dei nazisti e dei fascisti e che i nostri telegiornali semplicemente ignorano.

Quarta ed ultima considerazione. Il passato non si può cancellare soprattutto dopo che pretendi di farlo rivivere poiché anche se rivive un solo aspetto, un solo tratto del passato, automaticamente rivive l’intero contesto, l’intera epoca. Il Novecento è figlio del secolo che lo precede e così via nell’andare a ritroso nel tempo. Ovvia considerazione, si dirà, non tanto scontata nel caso che ci riguarda. Non si può creare una memoria condivisa per legge, cioè imposta dall’alto dalla classe politica e dirigente che si trova, in quel determinato momento, al governo. E’ inevitabile che questa pretesa apra ampi squarci all’interno della società, allontani piuttosto che avvicinare, separi piuttosto che unire, divida piuttosto che aggregare. E cosi c’è chi vuole istituire un giorno della memoria per le foibe, chi per i morti di Cefalonia e i deportati italiani, chi per le bombe atomiche sul Giappone, chi per le vittime di Stalin, chi per vittime dei crimini francesi in Algeria e così via in una catena infinita senza tempo e senza spazio. Il giorno della memoria genera altri giorni della memoria in una riproduzione infinita per cui, alla fine, non basteranno i giorni di un intero anno per rimembrare tutti gli avvenimenti del solo “secolo breve”. Il passato non si può prendere a blocchi a seconda della convenienza. Se è vero che la Storia non si scrive una volta per tutte, è altresì vero che la rivisitazione della Storia significa conoscenza, spiegazione e comprensione sine ira ac studio.

Questo schema è stato applicato alla ricorrenza, subito trasformata in celebrazione, del 150° anniversario dell’unificazione italiana. Già ci sarebbe molto da ridire sulla scelta di ricordare centocinquanta anni della propria storia, non mi risulta che altri Stati l’abbiano fatto e tuttavia questo deriva sia dalla tradizione – vennero festeggiati i cinquant’anni nel 1911 con l’inaugurazione del Vittoriano (l’altare della patria) a Roma – sia da un’esigenza politica contingente rappresentata dal dover fronteggiare il progressivo sgretolamento delle basi ideologiche e culturali sulle quali si fondava quell’unità faticosamente “conquistata” appunto centocinquanta anni addietro.

Il riaffiorare di spinte autonomistiche, la presenza di un movimento (anche se “da operetta”) tendenzialmente secessionista come la Lega, una sempre più diffusa consapevolezza della inadeguatezza dell’attuale quadro istituzionale hanno generato allarme e preoccupazione in una parte della classe dirigente. Il 150° è stato visto come un’occasione in grado di rinverdire, più e meglio di un effimero mondiale di calcio, lo “stringiamoci a coorte” cui incita l’inno nazionale. Se vengono rinnovati i fasti di una (presunta) epopea gloriosa come il Risorgimento, se vengono riproposte le gesta dell’Eroe per eccellenza, nobile e popolare al tempo stesso, se vengono esaltate le qualità di statisti di altissima levatura, permettendo, al contempo, che si eserciti un certa critica storica su quegli avvenimenti, allora si può procedere speditamente verso la formazione di una memoria finalmente condivisa che diviene tale grazie ad un provvidenziale intervento dall’alto.

L’unico ad aver evidenziato chiaramente questo obiettivo, pur infiorettandolo con una fastidiosa retorica patriottarda, è stato il Presidente della Repubblica che costantemente ha parlato di necessità di riconciliare la Nazione con la sua Storia. Ha perfino tentato di istituire un’apposita giornata della memoria dell’Unità d’Italia – il 17 marzo – finendo per accontentarsi di un giorno di vacanza straordinario* per il solo 2011 dovendo cedere di fronte alle prosaiche esigenze dell’economia nazionale rappresentate dagli industriali e dai commercianti.

Se, dunque, “la Nazione si deve riconciliare con la sua Storia” – che poi, altro non è che la sua memoria – vuol dire che o quel legame si è rotto o quel legame non c’è mai stato se non in forma artificiosa e sovrapposta. Sia l’una che l’altra delle due ipotesi, la ricomposizione o la creazione di una memoria condivisa, affinché possano essere realizzate presuppongono una scelta di campo alta e libera da qualsiasi condizionamento, compresi quelli di tipo contingente e materiale. Sarebbe stata necessaria ben altra impostazione, non certo una celebrazione, né un’auto-asoluzione e da un Presidente della Repubblica meridionale ci si poteva aspettare un diverso approccio alla storia risorgimentale che non fosse la trita ripetizione dei più banali luoghi comuni. C’era molto da riflettere, da studiare, da rivedere, da riproporre, da “rileggere”. Avrebbero dovuto risparmiarci l’enfasi e la retorica sui patrioti, sui sacrifici, sulla lungimiranza degli statisti, sulla fratellanza, sull’afflato mistico degli Italiani, sull’ardente ed incontenibile desiderio di Unità. Invece si poteva e si doveva procedere ad una revisione della storia patria risorgimentale affrontando, senza remore e senza riserve, tutti i nodi intricati ed irrisolti, togliendo finalmente il velo su centocinquanta anni di menzogne e mezze verità.

In sostanza bisognava avere il coraggio di fare i conti con il proprio passato e non passare l’ennesima mano di vernice fresca su una superficie scrostata e cadente.

Lo slogan avrebbe dovuto essere: “solo chi è capace di rileggere il passato, non si fa rubare il presente”. Ancora una volta, un’occasione persa.


*  Per i dipendenti pubblici si è trattato di un giorno di ferie, infatti hanno dovuto chiedere, appunto, un giorno di ferie obbligatorio, il tutto in omaggio alla Lega che si era opposta al rendere festivo il 17 marzo 2011! [N. d. R.]









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