L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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LE DUE SICILIE E LA GUERRA DI CRIMEA

(tratto da NOMOS bollettino di studi e analisi dell'Ass. Millennium, 
n. III - Febbraio 2012 - https://www.millennivm.org/)
di Angelo D'Ambra

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Parte I

Quando in una silenziosa notte torinese del 1856 l'ambasciatore Hudson avanzò la richiesta di 15.000 Piemontesi da spedire a combattere in Crimea, in un turbinio di pensieri Cavour dovette da subito immaginare chissà quali artifici per rendere possibile l'adesione, con un terzo dei militari di cui si disponeva, ad una guerra in alleanza col nemico austriaco senza soccombere alla prevedibile opposizione della Camera. In men che non si dica La Marmora, in un primo momento contrario all'idea di partire "non come alleato, ma come mercenario", cambiò parere in cambio della guida della spedizione; Rattazzi diede il suo avallo in cambio dell'appoggio ai disegni di legge sui conventi; Dabormida, imperterrito, lasciò il Ministero degli Esteri. Il 10 gennaio, dunque, tutto fu concluso: il Regno di Sardegna era pronto a far partire i suoi uomini.

Il ricordo del colonnello Luigi Rassaval è drammatico: "Quasi tutti i provinciali richiamati sotto le armi ed i nuovi di leva, a campagna finita, ritornarono alle case loro soverchiamente indebitati sulla loro massa di deconto, causa il maggior consumo di corredo dovuto ai disagi d'una sì lunga permanenza in Crimea. E più crudele, anzi inumana, fu la sorte dei militari d'ordinanza, che avendo necessariamente sciupato il corredo, nell'assestamento dei conti trimestrali, risultarono anch'essi debitori sul conto di massa, e furono assoggettati alla ritenuta giornaliera doppia sulla meschina paga, e ciò sino ad esaurimento del debito contratto in servizio del proprio paese!". E continua: "E gli ufficiali? Naturalmente anch'essi fecero sciupìo di salute e di vestiario, come tutti gli altri. Eppure dovettero rifornirsi dell'intero corredo coll'opulento onorario mensile di L. 150 pei capitani e L. 96 pei sottotenenti. Questa la ricompensa!".

Già l'imbarco, il 25 aprile del 1855, dovette essere miserevole giacché il generale La Marmora, nel passare in rivista i primi uomini sbarcati, era il 14 maggio del 1855, li trovò "deformati dai disagi del viaggio e dalla privazione d'acqua e di vitto". Avevano patito una traversata di venti giorni stivati come merce avariata nelle navi inglesi in ambienti antigienici. Adesso erano all'asciutto, accampati a Karani-Kamara in un luogo battezzato "il campo dei morti di colera", un nome, un programma. Ne morirono in 2728 fino al gennaio del 1856, quando l'epidemia scomparve. Il colonnello commenta: "i tristi ragguagli dati dai giornali sul colèra e sulle angustie che gli alleati soffrivano in Crimea, avrebbero dovuto ammonire i burocratici ed i contabili piemontesi sulle provvidenze precauzionali atte a rendere meno strazianti le nostre miserie; ciò malgrado i sanitari si trovarono disarmati dinanzi al terribile nemico, perché non vi erano ospedali, non medicinali, ed il personale di servizio era deficiente". Erano disponibili 300 posti letto negli ospedali a fronte di 3728 infermi nel solo mese di giugno.

"E' sempre straziante il pensiero di quegli sventurati abbandonati sulla nuda terra o sopra poca ritrita paglia, a cielo scoperto o sotto meschine tende dalle quali esalava alito di morte..", lamenta Rassaval. Come se non bastasse "l'acqua cattiva, il clima incostante, il vitto scarso ed altre cause concomitanti provocarono subito le febbri malariche, le tifoidee, il tifo ed altri mali che nel mese di giugno diedero agli ospedali un contingente di 1541 ammalati oltre ai colerosi". Erano troppi gli ammalati, "nel corso della campagna a Jeni-Koi ne furono ricoverati 6620, dei quali 446 morirono, 4130 ritornarono in Crimea, e 2581 ritornarono in Piemonte. Di questi 2581, eccezione fatta di pochissimi Ufficiali, nessuno ripartì per l'Oriente; e tranne poche tempre adamantine, prima d'un anno dal ritorno in patria soggiacquero al male incontrato nella inospitale Crimea". A ciò aggiungasi la dissenteria che impediva ai soldati di reggersi in piedi: faccia pallida, dolori alle gambe, ai piedi, ai fianchi, pupille dilatate, pelle scabra, sete e mancanza di appetito, questo fu lo stato fisico che lo stesso Rassaval conobbe. Molti, poi, furono i soldati afflitti dall'emeralopia che li rendeva completamente cechi dopo il tramonto. Il cibo per tutti loro era insufficiente, ebbe a migliorare, ma restò "incompatibile colla necessità di ricostituire fibre affievolite dal chinino e dai patimenti". Ci si misurò col caldo dell'estate, coi venti forti, il gelo e la neve dell'inverno ed alla caduta di Sebastiapoli quei soldati conobbero un viaggio di ritorno "degno emulo di quello d'andata".

Al giugno del 1855, su 15.000 soldati piemontesi sbarcati in Crimea, per i quali la Regina d'Inghilterra anticipò ai Savoia, mediante prestito al 4% d'interesse, la somma di 25 milioni di lire italiane (pari ad un milione di sterline che pagheranno le Due Sicilie ad annessione avvenuta), furono 3174 i morti, 3728 gli infermi, 1541 gli ammalati, 6620 il totale dei ricoverati e circa 2581 quelli che ritornarono a casa. Una tragedia umana enorme.

Bibliografia

F. Petruccelli della Gattina, I moribondi del Palazzo Carignano, Milano 1862

A. La Marmora, Pagine nuove. Ricordi storici della campagna di Crimea, Torino 1880

L. Rassaval, Cenni sulla Campagna di Crimea, Torino 1906

AA.VV., Ricordo della Spedizione Sarda in Oriente 1855-56, Torino 1884

Parte II

(tratto da NOMOS bollettino di studi e analisi dell'Ass. Millennium, 
n. IV - Luglio 2012 - https://www.millennivm.org/)

Gli imbarazzi di Francesco Giuseppe si sciolsero solo il 27 dicembre del 1855, quando le sorti del conflitto, caduta Sebastopoli l'8 settembre, erano ormai decise; quella dell'imperatore austriaco fu una scelta tardiva che ruppe indecorosamente la vecchia alleanza con la Cancelleria di San Pietroburgo in difesa dell'ordine assolutistico e che, al contempo, non permetteva al governo asburgico di intervenire al tavolo delle trattative di pace in una posizione tale da circoscrivere i piani dei vincitori. La guerra sconquassò così gli assetti continentali sanciti dal Congresso di Vienna, ridimensionò di gran lunga l'influenza internazionale degli imperi delle aquile bicipiti e rovesciò l'isolamento francese in una temporanea quanto labile convergenza con Londra che rifletteva la sua ombra di inquietudini sulla penisola italiana.

Il giudizio di Cavour sul Congresso ci appare senz'altro obiettivo nel valutare quale unico risultato incassato dal governo sabaudo, alla stregua di un impegno militare drammatico, la condanna del governo delle Due Sicilie: "Il risultato della seduta di ieri è ben lungi dall'essere soddisfacente. Non abbiamo ottenuto alcun risultato pratico. Tuttavia, due fatti restano, che non sono senza importanza: 1) la condanna inferta alla condotta del re di Napoli dalla Francia e dall'Inghilterra dinnanzi all'Europa riunita; 2) la condanna inferta dall'Inghilterra al governo clericale in termini tanto precisi ed energici, che il più caldo patriota italiano non avrebbe potuto sognar di meglio. Infine, un'ultima considerazione deve diminuire i rimpianti che la sterilità della nostra azione ci costringe a provare. Noi non potevamo sperare da un Congresso, dove l'Austria ha recitato la parte di mediatrice, che sortisse qualcosa di realmente utile per l'Italia, un rimedio efficace ai mali che la affliggono". Fu un esito che avrebbe pesato molto sull'evoluzione degli assetti politici della Penisola.

Ferdinando II aveva declinato l'invito a fornire 40.000 uomini e tre navi da guerra agli Inglesi ed escluso anche l'aperta alleanza con lo Zar per timore che la Gran Bretagna potesse scatenare delle sollevazioni in Sicilia per rappresaglia; tuttavia l'unico governo che aveva continuato a tessere una fitta rete di relazioni diplomatiche e commerciali con la Russia era stato il suo. La neutralità delle Due Sicilie durante la guerra si palesò essere solo apparente, infatti il traffico di materiali strategici verso Francia e Inghilterra arenatosi col pretesto della non belligeranza, continuò, invece, immutato verso la Russia e si rafforzò con l'adesione di Napoli al Trattato di navigazione stipulato il 22 luglio del 1854 tra Washington e San Pietroburgo. La corte napoletana era consapevole del fatto che una più robusta presenza russa nel Mediterraneo avrebbe ridotto le minacce inglesi sulla Sicilia e amplificato gli affari dei porti del Regno, fondamentale viatico per il commercio del grano di Odessa. Ferdinando II finì subissato dalle note di protesta francesi e Lord Palmerston denunciò alla Camera dei Comuni che "il Regno borbonico aveva dimostrato sfrontatamente la sua ostilità alla Francia e all'Inghilterra vietando l'esportazione di merci che il suo stato di neutrale gli avrebbe consentito tranquillamente di continuare a trafficare". L'escalation di polemiche e lamentele costò il congedo, a lungo contrastato, del Direttore di Polizia Orazio Mazza, accusato di aver offeso il segretario della Legazione inglese George Fagan, e l'ostilità manifesta di Francia e Inghilterra.

Al Congresso di Parigi le due potenze tennero dunque ben conto delle scelte operate dal Regno delle Due Sicilie e, sollecitate dalla Legazione piemontese, avviarono una serrata manovra diplomatica guidata dal parigino Temple per costringere Ferdinando II a concedere una riforma dell'ordinamento assolutistico e la liberazione dei rivoluzionari quarantottini. Dal canto suo il sovrano napoletano rispose che ogni assenso "alle condizioni fatte dal Governo francese sarebbe un atto di debolezza compiuto a danno dell'indipendenza della mia corona e a vantaggio del partito rivoluzionario". Il Foreign Secretary senza mezze misure scrisse che "se il principio del non intervento negli affari degli Stati sovrani costituisce un principio degno di rispetto per l'intera comunità internazionale, tuttavia l'eccezione a questa regola, in alcuni casi determinati, rappresenta un dovere e un diritto". Il dado era tratto: la marina inglese pianificò un intervento come quello del 1836, Ferdinando II senza tirarsi indietro provvide a disporre la mobilitazione della sua flotta poi, scongiurata l'evenienza di un nuovo conflitto, l'ostilità dei vincitori si espresse col ritiro degli ambasciatori. Nel frattempo Russia e Due Sicilie ampliarono i loro rapporti commerciali con la convenzione del 3 ottobre. "Il Borbone - commenta Hubner - uscì da questa vicenda diplomatica con accresciuto prestigio. Come scrive l'Omodeo, per aver con fierezza difeso l'indipendenza del suo regno, riuscì quasi simpatico ai liberali antimurattiani".

Bibliografia

F. Valsecchi, Il problema italiano nella politica europea (1849-1859) in Atti del XXXV Congresso di storia del Risorgimento, Roma 1957

E. Di Rienzo, Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee 1830-1861, Catanzaro 2012

J. A. Von Hubner, Nove anni di ricordi di un ambasciatore austriaco a Parigi sotto il Secondo Impero, Milano 1944

L. Del Pozzo, Cronaca civile e militare delle Due Sicilie sotto la dinastia borbonica, Napoli 1857, ristampa Battipaglia 2011










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