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Fronte Comunista – giornale del Fronte Popolare Comunista Rivoluzionario
I primi due articoli
sono tratti da

Fronte Comunista – giornale del Fronte Popolare Comunista Rivoluzionario

del Marzo del 1973, mentre l’ultimo comparve sul
numero di Aprile
della stessa testata.

(A. D’A. )

(se vuoi, scarica l'articolo in formato ODT o PDF)

Intellettuali e lotta di classe nel Meridione

Nicola Zitara, autore di alcune pubblicazioni sul Meridione, inizia con questo articolo una collaborazione sul Fronte Comunista. La nostra organizzazione non condivide completamente le posizioni e le analisi del Movimento meridionale dei proletari e dei contadini, organizzazione di un ristretto gruppo d'intellettuali, di cui Zitara è il principale animatore. Ma Zitara non ha solo il problema di scrivere dei libri, vuole fare politica, cioè vuole sforzarsi di costruire nella realtà alcune esperienze rivoluzionarie e ha maturato l’idea che la nostra organizzazione può coprire gli spazi politici lasciati dai gruppi della Sinistra Rivoluzionaria ormai scomparsi. Con Zitara è aperto un dibattito che anche se non ci vede sulle stesse posizioni teoriche parte da alcune lotte concrete alle quali il gruppo in cui lavora ha partecipato, come per le battaglie, purtroppo senza continuità, intorno alle raccoglitrici di olive di Vena di Vibo Valentia.

Nella prospettiva storica, riesce ormai difficile dubitare che una delle componenti più attive dello scontro di classe, quale si presenta nei paesi industrializzati dell'Occidente, si realizza nel mondo giovanile e studentesco.

Senza entrare nello spinoso e vessato argomento se si possa vedere in tale settore una non equivoca caratteristica classista, appare comunque chiaro che gli anni più recenti hanno riproposto al movimento proletario il problema di una intelligente e disinteressata utilizzazione degli intellettuali per allargare e rafforzare il fronte di classe.

Questo problema assume una grande rilevanza nel Meridione. Qui il movimento mostra più che una debolezza sostanziale una preoccupante incertezza di programmi e una mancanza di lucidità operativa.

il fenomeno non è accidentale: la contraddizione sviluppo-sottosviluppo, Nord-Sud, metropoli-colonia si riproduce linearmente a livello di strutturazione e strategia del movimento. Questo difatti in Settentrione vive e si orienta sulla classe operaia. Anche nel Meridione'orientamento è fissato verso il polo operaio ma la nave va paurosamente alla deriva fra secche. Ciò che è una forza, un solido e fertile al Nord, diventa una debolezza, un terreno franoso e sterile al Sud.

E' evidente che l'errore nellaUna bussola su un polo che non esercita attrazione magnetica gira a vuoto e non può suggerire niente. In effetti la classe operaia è nel Meridione solo una frangia minore e secondaria del proletariato.

A questo punto per chiarezza logica, è utile formulare due proposizioni:

1) Solo la classe operaia possiede i caratteri di classe rivoluzionaria

2) Il proletariato in genere, indifferentemente della presenza della fabbrica capitalistica, è una classe rivoluzionaria.

E' fuori discussione, è storicamente verificato che, delle due ipotesi, la seconda è quella vera.

Allora è necessario chiedersi perché, e quanto sia utile che la bussola dell'azione di classe nel Meridione sia orientata sulla forza operaia.

Salvo che negli stati africani di recente formazione, il movimento di classe ha un po' dovunque accettato come un fatto consolidato e indiscutibile l'istituzione statuale preesistente. La logica che ha ispirato e ispira il socialismo in Occidente è quella della preventiva conquista e del successivo dominio di tale struttura. C'è tuttavia da osservare che lo stato occidentale, quale si presenta ai nostri occhi, non solo nella componente giuridica, ma anche in quella territoriale e degli abitanti, è storicamente e politicamente una costruzione della borghesia. L'ascesa della borghesia ha vinto e superato le frantumazioni feudali e regionali, spinta dall'esperienza di disporre di ampi mercati e di una copertura giuridica che le assicurasse piena libertà dì movimenti su spazi sopraregionali e soprabaronali. All'unificazione territoriale dei mercati e degli sbocchi non ha però di solito corrisposto una effettiva unificazione economica. Tutti gli stati dell'occidente presentano forti squilibri interni, in quanto il processo di concentrazione territoriale, tipico della produzione capitalistica, ha risucchiato e polarizzato in aree limitate il potenziale economico nazionale satellizzando e periferizzando le aree circostanti.

Ciò è vero in Inghilterra, in Francia, in Spagna, in Belgio, negli USA, in Germania etc, ma lo è particolarmente in Italia dove esistono due economie e due società, sicuramente non separate, in quanto, il sottosviluppo meridionale nasce ed esiste in funzione dello sviluppo settentrionale, ma distinguibili "a occhio nudo" per una diversa articolazione sociale e una diversa struttura economica.

Le istituzioni del movimento di classe, dovunque in Occidente, si presentano come unitarie e nazionali. In questo caso, come in molti altri, le sovrastrutture culturali borghesi hanno pesantemente condizionato l'ideologia e la strategia delle formazioni politiche classiste. E ciò si vede anche dal fatto che normalmente le dirigenze dei partiti proletari sono affidate ad una burocrazia di estrazione borghese. Bisogna tuttavia ricordare che qualche volta questa linea tendenziale è stata ed è messa in discussione. In Francia, e in Spagna si sono avuti e ci sono movimenti socialisti centrifughi. Per l'Italia il problema di rompere l'unità borghese dello stato fu proposto proprio dall'attuale presidente del PCI, Luigi Longo; al congresso esule di Lione. Anche il movimento socialista sardo fu di orientamento antinazionale ed infine oggi esiste un Movimento dei Contadini e dei Proletari del Mezzogiorno e delle Isole che pone il problema dell'autonomia di azione del proletariato meridionale e prospetta una via al socialismo che, scavalca il concetto di stato cosi come è stato prodotto dalla borghesia, e si orienta decisamente verso un internazionale dei popoli, identificati non attraverso le sovrastrutture giuridiche borghesi, ma attraverso le aggregazioni sociali e culturali che sono sopravvissute all'appiattimento operato dal capitalismo.

I partiti e i movimenti proletari che operano in Italia, ripetendo pedissequamente il concetto borghese di nazione e di stato, e le sue pratiche realizzazioni, si articolano su una strategia falsa e falsificante, allorché acriticamente danno per scontato che il movimento di classe possa seguire una via unitaria al socialismo sotto l'indiscutibile egemonia della classe operaia. Il risultato di questa assurda e testarda impostazione è sotto gli occhi di tutti: nel Meridione l'azione di classe annaspa nel pantano dell'equivoco e si mostra chiaramente debole e asfittica. Eppure, in altri tempi e in altre circostante, contro l'unitarismo turatiano Gramsci aveva posto il problema dei proletariato italiano in termini di ALLEANZA tra operai del Nord e contadini dei Sud. Nella concezione di Gramsci, i due alleati non avrebbero dovuto avere peso uguale perché sarebbe spettato agli operai guidare l'azione.

L'intuizione gramsciana ebbe un riscontro storico rovesciato negli anni del dopoguerra, quando il movimento contadino fu la punta avanzata dello scontro di classe in Italia.

Questo non nel senso della vastità dei movimento ma per la radicalità della richiesta autenticamente rivoluzionaria, mentre le dirigenze di classe imponevano dei limiti pesantemente condizionati e in realtà strumentalizzavano l'aggressività contadina ai loro obiettivi riformistici ed elettorali.

Oggi un problema contadino non esiste più. Esiste invece quello di dieci e più milioni di proletari senza qualifica protettiva e sociale che chiedono lavoro; che chiedono cioè una società gestita in funzione della loro esigenza primaria di partecipare alla produzione sociale. E una richiesta inarticolata, senza voce, non tanto a livello bruto di agitazione, quanto a livello superiore di organizzazione politica. Ma questo avviene non per la debolezza intrinseca di questo tipo ''non operaio" di proletariato, sebbene perché le istituzioni di classe esistenti respingono tale istanza, non la riconoscono "legittimità proletaria" e deviano gli impulsi e le spinte verso richieste centrifughe.

Ha ragione "Lotta Continua" e torto il PCI, il PSI, e il Manifesto a proposito dei fatti di Reggio. E' questo un caso esemplare in cui l'ambiguità delle formazioni unitarie ha spinto all'ambiguità un moto popolare.

Il movimento di classe nel meridione, finché la bussola sarà orientata verso una forza esterna, non sarà che un essere ratifico, una realtà equivoca, un luogo di confusione e di impotenza, inutile non solo al proletariato meridionale, ma anche, e forse soprattutto, al proletariato operaio, che dalla esistenza al Sud di una forza organica e consapevole potrebbe trarre alimento ed impulso per uscire dall'ambiguità rivendicazionista.

Il movimento di classe può avere vita e significato nel Meridione soltanto in quanto avrà la capacità di elaborare la sua originale strategia fondata sull’autonomia e sull’internazionalismo. Ciò è tanto più importante in quanto la crisi della borghesia meridionale, la sua corruzione che l’accomuna alla borghesia compradora dei paesi ex-coloniali, il suo parassitismo, il legame allo stato imprenditore di servizi, rapporto dentro cui prospera il clientelismo e la falsificazione del consenso, hanno fatto del proletariato meridionale l’unica classe che possiede in potenza l’interesse e la vocazione a rompere il circuito dipendente del sottosviluppo capitalistico.

Il passaggio del proletariato meridionale da classe in sé a classe per sé può essere aiutato enormemente dalla presenza organica di un intellettuale comunista meridionale.

L’intellettuale comunista meridionale è in crisi da vent’anni, cioè da quando è entrata in crisi la lotta di classe nel meridione. I moti per la terra avevano prodotto un primo esempio, dopo la frustrazione del periodo turatiano, di legame organico tra lavoratori ed intellettuali meridionali. Questo legame è andato disperso con l’estroversione e la nordizzazione dell’azione politica nel meridione.

Questa situazione pesa negativamente anche sull’intellettuale meridionale. Non esistendo al sud un proletariato compatto ed unificato su chiari rapporti di produzione, ma un’effettiva dispersione, l’intellettuale comunista è sospinto a cercare un suggerimento, un indirizzo politico fuori dal meridione. Quando poi tentati di applicarlo nella realtà meridionale, quel suggerimento diventa una strada impraticabile. E’ a questo punto che si determina la rottura di impegno politico e la sua produttività sociale. L’intellettuale comunista meridionale non è avanti al livello delle lotte, come qualcuno sostiene, ma “fuori” del Meridione.

Tuttavia il legame tra classe lavoratrice e intellettuale meridionale può essere ricostruito. E’ solo un problema di coraggio.

Sviluppo – sottosviluppo – città – campagna

E' un dato di fatto che ormai l'analisi del sottosviluppo meridionale non può vertere nei termini impostati da Gramsci e da tutta la scuola meridionalista in genere, e perché era basata su ipotesi sbagliate e perché si sono trasformati gli stessi rapporti sociali. Gli avvenimenti degli ultimi 20 anni dai moti contadini, all'esodo di massa, alle lotte studentesche, alle rivolte cittadine, agli avvenimenti di Reggio Calabria hanno messo in moto un processo di trasformazione e di rottura con i vecchi equilibri sociali che ha fatto saltare definitivamente gli schemi e le impostazioni teoriche precedenti. Si sono presentati sulla scena della storia nuovi ceti e strati sociali con i quali necessita fare i conti e non a caso la volontà di un ripensamento viene anche da parte della sinistra riformista e dai sindacati; il vuoto politico da colmare è immenso e investe più che mai l'intera strategia nazionale ed internazionale.

Per le forze rivoluzionarie il problema è più arduo perché c'è da affrontare e da analizzare tutto un processo storico su una base marxista, reinserendo in termini nuovi il rapporto sviluppo-sottosviluppo, città-campagna e ciò che da essi deriva: l'intera sovrastruttura ideologica e politica. E' diventato un luogo comune dire che il processo sviluppo-sottosviluppo è unico o che il primo è direttamente legato anzi automaticamente porta il secondo, però meno facile è analizzarne le diverse articolazioni ad esempio il collocamento del sottosviluppo meridionale a livello nazionale. Il rapporto tra strati disgregati e classe operaia delle grosse concentrazioni industriali.

Il problema non si può esaurire con qualche parola d'ordine da scandire nei cortei o con una solidarietà parolaia ma lo si risolve dando una linea politica con obiettivi chiari e precisi. Gli interessi particolari e rivendicazionistici del proletariato del Nord non coincidono meccanicamente con quelli delle masse sfruttate del Sud anche se è un gravissimo errore pensare che le lotte della classe operaia vadano a svantaggio dei diseredati meridionali: sta ad una forza rivoluzionaria generalizzare ed allargare una lotta anche se in questi ultimi anni dall’autunno caldo in poi e con tutti i limiti dovuti da una gestione riformista se ne fatto carico l'intero proletariato in prima persona.

A questo punto bisognerebbe aprire una lunga parentesi che tenga conto delle trasformazioni che ha subito in questi decenni lo stesso proletariato al suo interno, non possiamo dimenticare che gli strati contadini degli anni '50 si sono trasformati in gran parte nella classe operaia odierna arricchendone il suo contenuto rivoluzionario con nuove forme di lotta più combattive che hanno varcato la soglia della fabbrica investendo il tessuto sociale. Il rovescio della medaglia è costituito dalla figura sociale che viene ad assumere l’emigrato pendolare tornando al Sud.

E’ evidente che l’emigrato operaio che torna nel Meridione si trasforma da componente oggettivamente alleato del proletariato in frangia della piccola borghesia. Sono i settori del commercio, dell’artigianato, del cottimista le direzioni verso cui si orienta l'emigrato pendolare che ritorna nel suo paese d’origine. In realtà analizzando superficialmente la figura dell’emigrato per configurazione storica e per educazione ufficiale ricevuta nelle sezione del PCI e del PSI la S. R. per molti anni non si è saputa liberare da una concezione umanistico-populista. Si tratta di capire che non tutti gli emigrati fanno le lotte nella Fiat e che non tutti sono Gasparazzo; solo in questi ultimi tempi si sta chiarendo e scorporando il concetto di emigrato accanto a quello di popolo.

Analizzando la struttura sociale di un paese dell’entroterra alla ricerca del proletariato e non della classe operaia balza evidente che il proletariato occupato, quello intorno a cui si regge la ruota dello sviluppo e dello sfruttamento, è quantitativamente irrisorio. Evidentemente da solo non costituirà mai un’alternativa all'intero arco di forze borghesi, è necessario che attorno ad esso si saldino altri strati sfruttati i quali molto spesso soggettivamente hanno una carica potenzialmente rivoluzionaria molto alta e superiore al proletariato occupato. E’ dall'alleanza con queste forze che si può contrapporre un fronte di lotta ai padroni e ai notabili locali ed è compito di una forza rivoluzionaria riuscire a dare uno stampo classista e trovare sbocchi comuni.

Afferma Zitara nell'articolo “Intellettuali e lotta di classe nel Meridione” che è storicamente verificato che il proletariato in genere è una classe rivoluzionaria. Ben detto! Ma in che cosa consiste questo proletariato? La mobilitazione contro il sistema mutualistico, le lotte per l'ospedale, l’acqua la luce momentaneamente sono obiettivi validi per cercare di ricavare una mobilitazione di massa, ma tutto questo è una lotta proletaria?

Zitara ha tentato di lavorare nelle zone dell'entroterra e dovrebbe sapere che sempre e continuamente nelle lotte ricorrenti delle raccoglitrici d’ulive il nostro sforzo è stato quello di investire sul problema dell'occupazione e di lotte specifiche la classe operaia occupata (industrie ed edilizia) e gli studenti. contadini che ruolo hanno avuto? Dopo l'occupazione delle terre, che Zitara definisce rivoluzionaria, che è stato un periodo duro ma molto breve come tutte le rivolte scoppiate all'insegna dello scontro antistatuale senza uno sbocco di classe rivoluzionario, i contadini della Bonomi hanno rappresentato un serbatoio di riserva a livello elettorale e di piazza per i notabili locali e i partiti di governo e reazionari. C'è una differenza tra la rivolta di Battipaglia e la lotta dei braccianti di Avola: i primi lottano a fianco dei notabili locali, gli altri lottano con la bandiera rossa contro il capitalismo agrario e contro lo stato nelle sue diramazioni. Ad Avola dei braccianti non si è mai detto che vanno a braccetto con Mauro e Matacena come non vanno gli operai dell'OMECA.

Un discorso a parte si deve fare riguardo allo strato studentesco e al ruolo sociale che esso è venuto ad assumere in questi ultimi anni, in passato il ristretto numero della popolazione studentesca assurgeva ad una posizione di netto privilegio rispetto alle classi e ai ceti sfruttati, in generale emergeva una figura di studente intellettualoide che si poneva come ideologo della piccola e media borghesia parassitaria la quale se ne serviva da cuscinetto per mediare i contrasti di classe.

Con l'avvento della scuoia di massa si determina una trasformazione ed un salto qualitativo della componente studentesca. Lo studente viene a perdere in gran parte la posizione di privilegio di cui godeva e la scuola acquista la funzione di serbatoio di disoccupazione e di miseria, L’avvicinamento e la solidarietà con la classe operaia e tutti gli strati sfruttati della popolazione diventa un dato di fatto che trova le sue giustificazioni nella realtà oggettiva. Inoltre lo studente acquista una nuova funzione perché è il portatore di idee nuove nell'entroterra agricolo che rotea intorno al centro terziario divenendo così una figura di primo piano ed un interlocutore per l’impostazione del lavoro politico.

Ma bisogna considerare che questo processo non è automatico e che quindi queste spinte nuove che si sono venute a creare assumono una funzione rivoluzionaria solo se vengono dirette dall’organizzazione comunista: ecco il punto principale del problema, oggi meno che in passato non ci può essere alcun rapporto tra l’intellettuale comunista da una parte e la popolazione sfruttata dall’altra; la figura dell’intellettuale può avere una funzione solo all’interno di una organizzazione rivoluzionaria che sia in grado di creare e dirigere il movimento.

Redazione di Fronte Comunista

Lettera di A. Carlo sulla funzione

degli intellettuali nel Meridione

Cari compagni,

intervengo sulle colonne di “Fronte Comunista” in quanto come militante del PDUP ritengo fondamentale il confronto tra le forze di sinistra al fine di favorirne la ricomposizione unitaria.

L'intervento di Zitara sul numero di Marzo del vostro giornale mi suggerisce alcuni spunti sul tema, da sempre controverso, del ruolo dell'intellettuale militante, nel Mezzogiorno. Innanzi tutto sono d'accordo col giudizio assai duro che Zitara da sulla politica delle sinistre nel dopoguerra, come politica di accettazione del quadro economico ed istituzionale del capitalismo. Conoscendo. però, le tesi di Zitara sento di dover precisare che questa politica determinò “imparzialmente” (si fa per dire) una serie di costi che gravarono su tutta la classe operaia del nord come del sud; per noi l'accettazione del sistema significò l'acuirsi dei fenomeni del sottosviluppo e dell'emigrazione, per gli operai del nord quella politica significò il pugno di ferro in fabbrica, il controllo di fatto dei salari, i reparti-confino ecc. In altre parole non ha senso parlare di un meridione sacrificato alle spinte corporative del proletariato “nordista”.

Da questo dissenso, che emerge chiaramente dal paragone degli scritti, di Zitara e miei, deriva anche una visione diversa del Meridione e dell'impegno politico dell'intellettuale meridionale. Per Zitara tale impegno è “solo una questione di coraggio” che si inserisce in una realtà disgregata, confusa e priva di una forte presenza operaia (“non esistendo al sud scrive Zitara un proletariato compatto e unificato su chiari rapporti di produzione, ma una effettiva dispersione.. ”). Se così fosse il problema si porrebbe in termini di ribellione volontaristica e disperata ad un quadro sociale disastroso e demoralizzante ma, per fortuna, le cose non stanno così: il problema non è “solo” di coraggio poiché il coraggio da solo serve a lasciare testimonianze edificanti alla maniera di certi cattolici ma non a cambiare il mondo. Per ottenere questo risultato occorre che l'ottimismo della volontà sia diretto razionalmente dall'ottimismo dell'intelligenza, altrimenti si scade nella posa eroica e melodrammatica, che è anche essa funzione al gioco delle parti orchestrato dal capitale.

Ed esistono, a mio avviso, tutte le condizioni perché l'intellettuale meridionale impegnato guardi con ragionata fiducia al futuro, proprio partendo dalla sua realtà, e non fuori, da questo: solo che per partire dalla propria realtà bisogna, innanzi tutto, capirla. Troppo spesso, infatti, si parla, sulla scia di Gramsci, del Meridione come dispersione o disgregazione dove i rapporti di classe non sono adeguatamente chiari. Per quel che mi riguarda sul N. 3 di Unità Proletaria del 1973 ho cercato di analizzare le classi sociali che nelle varie zone del sud compongono la nostra struttura, nonché le articolazioni e di conflitti che tale struttura, caratterizzano e gli obiettivi di lotta che possono unificare un fronte anticapitalistico. Non credo, allorché ho individuato quattro specifiche articolazioni del sottosviluppo meridionale, di aver detto verità di ultima istanza, credo però di aver provato almeno una cosa: che l’analisi materialistica ci può permettere di passare dal generico terreno delle lamentazioni sulla disgregazione del sud ad un'analisi che abbia come protagonista, lotte sociali, classi, uomini, cose e fatti concreti.

Ancora: la sottovalutazione sociale e politica che Zitara fa del proletariato urbano del sud gli fa perdere di vista l'interlocutore obbligato, oggi, nel 1973, per l'intellettuale meridionale che cerchi un impegno politico realmente di sinistra e gli fa perdere di vista anche la gravità e le implicazioni della ristrutturazione capitalistica al sud. Senza dubbio gli operai di industria sono, nel Meridione, una forza numericamente minoritaria, eppure lo erano anche nella Russia del 1917 dove però ebbero un peso politico determinante. Ciò accadde allora perché l’incidenza politica del proletariato dipendeva anche dalla sua concentrazione, dai suoi livelli di coscienza e dal peso economico dell'industria nella struttura globale del paese. Nel Meridione contemporaneo i nuovi "poli" industriali hanno un peso di gran lunga superiore all'agricoltura, mentre i livelli di concentrazione almeno nei poli, per quanto inferiori al nord, sono notevoli ed eguale è il livello di coscienza politica del nostro proletariato in rapporto al nord.

Contro “questa” classe operaia è in corso una manovra di ristrutturazione, da me analizzata più ampiamente nel N. 4 di Unità Proletaria 1973, dalle implicazioni politiche pericolosissime. Si vuole, in seguito all'acuirsi della crisi economica internazionale, operare un drastico ridimensionamento dei poli meridionali (si parla tra l'altro del “trasferimento” dell'Italsider di Bagnoli e della chiusura o ridimensionamento di moltissime fabbriche napoletane) dando, invece, molto più spazio alla speculazione turistica che, come prova la Sardegna, ha effetti “miracolosi” sul sottosviluppo.

In questo modo si otterrebbe anche il risultato di disperdere ed indebolire un proletariato che ha costituito la saldatura delle lotte tra il nord e il sud negli ultimi anni (la prima saldatura, sia pure parziale della nostra storia) esprimendo livelli di coscienza di assoluta avanguardia (si pensi alle lotte sull'inquadramento unico di Bagnoli che partirono nel 1970 anticipando di tre anni la vertenza di tutta la categoria).

Se si guarda a questo quadro, mosso ma no n confuso diversificato ma non oscuro, si capirà come oggi le scelte si pongano con molta più chiarezza, perche i termini di raffronto emergono molto più nitidamente: è con la realtà pulsante e combattiva della classe operaia meridionale in lotta contro la ristrutturazione, che l'intellettuale delle vecchie lotte contadine e del Meridione agricolo deve confrontarsi, rinunciando a molti dei suoi vecchi miti, che sono ormai (quelli sì) esterni al nostro Meridione. Esiste, ed è indubbio, il problema, italiano e non solo meridionale, di saldare città e campagna in un comune fronte anticapitalistico, ma questo problema si risolve da noi anche rinunciando a vedere il proletariato urbano come una realtà esterna al sud.

Solo allora il richiamo al coraggio, che è sempre implicito nell'impegno politico di sinistra, non sarà più un appello volontaristico, ma un invito affinché l’ottimismo della volontà si accordi (finalmente) con l’ottimismo dell’intelligenza.

A. Carlo








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