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Nicola Marmo 


ROMA LIBERATA

«Roma liberata», in dieci canti, è una parodia della «Gerusalemme liberata» del Tasso ed è ispirato dall'annessione di Roma del 1870. 

In quest'opera, stampata nel 1877, il Poeta rivela in alcuni episodi la condizione toccata in sorte ai territori annessi allo stato italiano. 

Il canto riprodotto è tratto dall'edizione curata da Giuseppe Guarino.

ROMA LIBERATA
CANTO 1

1) Canto l'armi pietose e il Maresciallo
Che a Pietro confiscò scettro e predella.
Molto a piedi egli oprò, molto a cavallo,
Niente sofferse in questa parte o in quella,
Pur fece, ad ogni modo, un grande acquisto
Mandando a spasso il successor di Cristo!

2) 0 Musa, tu che di cornuti allori
Circondasti la fronte al ministero
Che un governo impiantò di percettorí
E di contribuenti un cimitero.
Prestami un po' dì vìn della tua botte,
Giacché darmi non puoi soldi e pagnotta.

3) Tu d'Ildebrando invitto ombra onorata, (1)
Se mai ti desti al suon delle mie note,
Dal centro della tomba scoverchiata
Fulmina questo regno di carote,
0 almeno disponi in certi dati eventi
Che la mia penna un fulmine diventi.

4) Né t'ìncresca il mio stil, se in molli versi
De' più duri argomenti io la discorsi;
Ché siccome dì miei mai sempre aspersi
Gli orli del vaso ai miscredenti io porsi,
Cosi aspergo talor financo il passio
Di estratto di cicuta o legno quassio! (2)

5) Ma né insania ella fia, né irriverenza,
Ché avermi io spero in fra i beati stanza;
Ben nel mio cor tu leggi, e in conseguenza
Perdona a me l'involontaria oltranza,
S'io dal dover mi scosto alquantì metri
Per non farmi tradurre in domo Petri

6) Già un decennio volgea che il sir d'Italia
Si annesse il regno delle due Sicilie.
Quando il parer dell'aìa, e della balia
Favoriva i digiuni e le vigilie
Già il veneto Leon l'irta sua chioma
Lieto stendeagli - ci manca ROMA.

(1) Udebrando di SAONA: Nome di Gregorio VU prima di essere eletto pontefice. (2) QUASSIO: Albero il cui legno e corteccia amari sono usati in medicina.

7) Che mai non si tentò, che non si scrisse
Di civiltà, di luce e di progresso?
Ma il Papa tenne fermo, e maledisse
Le note, fl ré, la nazione, ì messi.
E a Roma intanto, ove il collar regnava,
Non potendosi andar, non ci si andava.

8) Ma poiché il forte imperator dei Galli
Segui il destino che tradire il volle,
Omai d'uomini esausto e di metallì
Su le renane insanguinate zolle
Richìamate si aveva dal bel paese
La già temuta guarnìgion francese.

9) Temuta un gìorno, or disprezzata e peggio,
Dacché soggiacque all'alemanno oltraggio.
Ed ove in pria le s'incensava il seggio,
Doppio or si rende a' suoi nemicì omaggio.
Ecco che cosa sono i re alleati,
Ecco come si trattano i trattati!

10) Forse di tanta sconoscenza il danno
Scontar dovrassi - Or s'è perduto il senno.
lo vo narrarvi i fatti come stanno,
E stan proprio cogi comio li accenno,
Che dir dei vecchi e dei moderni Esopi.
Quando il gatto non c'è ballano i topi!

11) E ì topi ch'han sdrucíto ormaì
Per soverchia esitanza i patri cuoi,
Al governo imponean: Se tu non vaì,
Rimanti qui, ché ci si va da noi.
No, no: voglio andar io, disse Cadorna,
i sanculotti ci faran le corna!

12) E si armò fino ai denti, e in men che il dico
Di gloria tricolor sì fe' briaco.
E gagliardo intuonò al fiero nemìco:
Esci tosto dì qua, brutto macaco!
E a un tratto in sé svegliò gli sdegni e l'ire
Perché fl monaco non voleane uscire.

13) Strinse, vai quanto dire, d'orrendo assedio
L'unte meschite e il monacal palladio.
Oh! le son farse da finir col tedio:
Ma ci vuoi tanto a rompere un armadio?
Pur comparir si volle. - Al Pio Tetrarca
Di proprio pugno allor scrisse il Monarca:

14) 0 reverito Santo Padre, dopo
Di avervi le pantofole baciato,
Vi fo sapere non ad altro scopo
Queste poche cìappette ho scarbocchiate
Se non per dirvi in umili parole
Ciò che non voglio già, cìò che si vuole.

15) E qui di confidarvi è appunto il caso
Ch'io reggo, o padre, un popolo rissoso:
Spero perciò di farvi persuaso
Da figlio ubbidiente e rispettoso,
Ch'io debba in tutti i costi, almen per mostra,
Venir per qualche tempo in casa vostra.

16) Comprendo ben che non mi ci volete;
Tai visite oggidìì son mal gradite.
Purtuttavolta consentir dovete,
Se no ... ma che so io, già mi capite!
Quand'io ci vengo per necessità,
Potrà dolersi Vostra Santità ?

17) Restate pur nella cittade eterna.
Per me, re son sul Tebro, e re son sull'Amo.
Verrò a dar sesto alla baldoria interna
A cui voi sol vi occupereste indarno.
Questo in quanto alla sciabla; in quanto all'ostro
Vestite e travestite a modo vostro.

18) lo coi cannone e voi con l'aspersorio,
Vorran star freschi i rivoluzionari!
lo dai castelli e voi dall'oratorio
Sfido che i corvi diverran canarii!
No credete a me, che il temporale,
Porco accidente! che ci sta di male?

19) Di Bruto a me l'eccelsa palinodia:
Di Pietro a voi l'infoderata sedia
Ma il carcere mischiar con la Custodia
Scusate, Santo Padre, è una commedia!
E non sarebbe una commedia anch'essa,
S'io mi ostinassi a celebrar la messa?

20) Piegate ormai l'elastica cervice
All'esigenze di un poter fugace.
Sparger cristiano sangue a noi non lice!
E Dio ci mandi l'amore e la pace!
Date la santa benedizione
A chi v'è figlio... e vi sarà padrone.

21) Figuratevi un po' di quanta furia
Si accese l'infallibile Vicario!
Chiamò a consiglio la romana curia,
E fu risposto senza alcun divario:
Viva la bestìa! La mia armata è pronta,
Tutto per tutto - chi resta la conta!

22) Ed eccoci in battaglia. Ordine espresso
Al campo giunge: - Accelerate i passi:
Però badate di portavi appresso
Gli scanni, le lattiere e i materassi,
Poiché, giusta un recente itinerario.
Un mese a far tre miglia è necessario.

23) Come di fatti, in venti giorni soli
Già Roma si scovria col cannocchiale.
Queste son guapperìe, questi son voli
Degni di registrarsi in Quirinale!
0 Moltke, Moltke! le tue strategie
Di fronte a queste, son corbellerie!  

24) E procedendo poi (che c'è di strano?)
Con la più esatta circospezione,
Fattasi un po' di sosta immezzo a un piano,
Venne ordinata la refezíone.
Il campo fu diviso in due grand, ali,
E diessi la vernaglia agli animali.


25) Or mentre il rancio si sta preparando,
E sì soffia la stoppa. e il fuoco accende,
Di bocca in bocca si va sussurrando
E a un batter d'occhio si dilata e stende
La strana incomprensibile notizia
Ch'omai si é presso alla papai milizia.

26) Pur né di forma umana ombra appariva
Ostia! ma dove l'è? Bixio diceva.
Quando un araldo al gran galoppo arriva
E fa saper che una coorte sveva
Di dietro a un grosso cavolo appiattata
Ha fatto una terribile imboscata.

27) Né questa sol, ma un reggimento intero
Di così detti - franchi tiratori -
Venuti dal mar Caspio e dal mar Nero,
Dall'estrema Algeria, dai regni mori,
Da Svizzera e da casa del diavolo
Tutti nascosti son dietro a quel cavolo.

28) Caspìta! fece, e si grattò la fronte
Dei pennuti drappelli, il Comandante.
Qui nella terra del focoso Almonte
Temer fin vuolsi dell'erbacce piante.
Qui ci ponno fumar dentro a una pìoa,
E voi pensate a imbalsamar la trippa?

29) Su su, tritate il lardo e la cipolla,
Prendete la farina e le padelle,
Fatevi presto presto un po' di colla
Empitevene i sacchi e le gamelle.
Gli eroi di Solferino e di Magenta
Diventarono eroi con la polenta,

30) Nembo, signon miei, baleno o strale
Mai non scoppia co§ì1, così non vola
Come al maschio arrìngar dei Generale
Che neppur compie l'ultima parola,
Ratta levossi l'itala falange
Pronta a marciar dal Rubícone al Gange

31) Di battenti tamburi e di nitriti
S'ode un guerresco fragor da tutti ì lati,
E ad assalir gli assalitori arditi
Si slanciano i cavalli ed i soldati,
Finché presso una siepe alta e silvestre
Eccoli vis a vis con le minestre.

32) Là - là, per Dio! là sotto, a quanto pare,
Dovrebbero appiattarsi i traditori:
Fuoco sul teocratico alveare,
Mirate dritto al centro, o caccìatori.­
Cosi, dicea Cadorna: e in questo mentre
Sentì il bisogno di sgravarsi il ventre.

33) Si spara intanto, e rapida e precoce
Corre a cui s'accennò la palla ultrice.
Oh di guerra crudel, scempio feroce!
Segnalato trofeo, pianta infelice!
Tutte le foglie se ne vanno al suolo,
e all'erta non riman che il torso solo.

34) Alzassi allor della vittoria il grido,
E chi è morto e chi no punto si bada.
Marce di qua, di là, di lido in lido,
Suona d'armi e d'armati ogni contrada.
Ma già sen vien la notte e ì tirafumi
Diceano al mondo: Accomodate i lumi.

35) Qui fa spiegar le tende il Capitano,
E qui con gli altri bivaccar dispone.
Scorge un paese, e (con la carta in mano)
Non sa se sia Velletri o Frosinone
Pure, alle imposte ed al color dei vetri
Dovette giudicar che era Velletri

36) Notate, era già notte, e fu per questo
Che chiaro ei non distinse a prima vista.
Ma omai d'appollaiarsi era un po' presto,
E il tempo che passò mai non si acquista,
Ond'ordìna ai più allegri i noti canti
Che spesso han fatto entusiasmare i santi.

37) Oh quai dolci concetti a poco a poco
Riproduceansi allor per l'aer cieco!
Che ripetea quei carmi in più d'un loco.
Soavissimamente emula l'eco.
Ma rotta poi tra gli antri e tra i canali,
Sol profferia le sillabe finali.

38) Andremo, per esempio, al Campidoglio,
Cantavasi in giu, quasi a risveglio;
Ma l'eco ripetea soltanto - l'oglio -
Ma in sostanza non potea dir meglio.
Roma d'Italia sei la Capitale
e tosto l'eco rispondea: - pitale -

39) Cantossi una nottata, e finalmente
Pur s'è costretti ad inchinar la fronte.
Ma come apparve in ciel l'alba lucente
Ed inostrò la cresta al Celio monte,
Come si udir della vendemmia i magli,
Ripresero i soldati armi e bagagli.

40) Formarono un trapezio, e fecer'altro;
Ma ognun verso Velletri era rivolto.
Quindi fu detto: A prenderla d'assalto
Questa bicocca qui non ci vuol molto,
Ma per usar riguardo a Santa Chiesa,
Ci converrebbe d'intìmar la resa.

41) Così fu stabilito. - Un caporale
Di tratti cortesissimo e gentile
Fu incaricato di salir le scale
Del Comandante dei sagrato ovile.
Gìunse costui ben presto immezzo ai schiavi,
Immezzo ai mercenari ed ai zuavi

42) Introdotto dappoi, com'è l'usanza,
Del Comando di Piazza alla presenza,
Espose il tutto con cìvil creanza.
Ed ebbe per risposta (oh che impudenza)
- Lasciate almen che si raccolga il mosto,
E poi ce n'anderemo al nostro posto.

43) Ma l'uva, allor riprese il messaggero,
Da queste parti non è ancor matura,
Dunque aspettar dovremmo un mese intero
Coi pendolo in saccoccia alla frescura?
Dunque dovria questo popolo oppresso
La vinaccía serbar pel nostro ingresso?

44) Noi dobbiamo, Eccellenza, in tutti i modi
Francar per sempre la Tribù di Giuda.
Già il nostro Sella ha preparato i chiodi,
Già assiduamente sui registri ei suda.
Producete piuttosto altra ragione,
oppur rendetevi a discrezione. -

45) Qui il comandante la pazienza perde,
E ripiglia con voce alta e gagliarda:
- Pria che la sorte ci riduca al verde,
Lo zibìbo vogliamo e la mostarda,
Se ciò non si conviene a chi ti manda
Dì' che siamo pronti a dissipar la ghianda.

46) Noi pur due braccia abbiamo, abbiani due piedi.
Abbìam polvere e piombo in quantitate,
Possiani lavar nel sangue i nostri spiedi.
Possiam dì membra lastricar le strade
E s'è fatal che il numero ci vinca
Lode al delfin che inghiotú la tinga!

47) Riedì, riedi al tuo Campo, e in nome mio
Digli che gli dirai? digli che vuoi,
Digli ch'ai giusti li difende Iddio.
Che si adatti a schermaglia e venga a noi. - Tacquesi. Il Caporal pensoso e tetro
Venne, vide, non vinse e tornò indietro.



Gli stralci e le immagini seguenti sono tratti da:

San Rufo e la nostra storia, Don Giuseppe Ippolito, Edizioni Cantelmi, Salerno, 1971

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«Storia ri Santu Comu», scritta nel caratteristico idioma materno, narra la vita di San Cono, patrono di Teggiano.

LA STORIA RI SANTU CONU (1)


1.
Setticient'anni arretu, o pocu minu
nascìu nu zurieddu nta Rianu,
Ccu la vuccuzza com'a lu Bamminu
Chia mbrazza la Maronna ri Viggianu
Rirììa quannu la menna si zucava
E ccu quir'ucchicieddí ti parlava.

2.
Pò quannu lu purtàuni a battiani,
E, binirica, lu chiamàuni Conu,
Si rivutàuni tutti li bammani
Pp'ess'ammitati a quera funzionu
Chiunca lu virìa, uarnitu tuttu:
‑ Crisci, crisci ‑ ricìa ‑ ppù, ppù, si bruttu.

3.
Nta pocu tiempu si rija a la l'erta
E camminava senza ri i stuortu;
Nei ristavani tutti a vocca aperta,
Paria nu arofalu nta l'uortu;
Quannu a la finistredda s'affacciava
A quiru vicinanzu n'ci addurava.

4.
Nu bellu piezzu pò n'era passatu,
E ngrazia ri Diu s'era crisciutu,
Quannu a la casa nnu ci foi truvatu
E nisciunu sapìa ddo era jutu.
Dummanna ncoppa, sotta, a quiru e a quistu....
Era scintatu.... nuddu l'avìa vistu!

5.
Li ginituri soi, tannu ppi tannu,
Tuttu Rianu ìuni virenni:
La mamma arravugliata nta lu pannu,
Ppi tutti li pintuni ja chiangenni:
‑ Oi bona genti, oi fèmmini ri
Diu, Ràtimi nova ri Cunucciu miu! ‑

6.
Nu juornu si truvava nta lu
Sieggiu L'attanu. e ognunu riali curaggiu;
Ma nu frustieru, ccu lu peru. lieggiu,
Li ressi: (e foi na chiòppita ri maggiu)
‑ Non chiangi, rianesu povirieddu,
Ca figliutu s'ja fattu munacieddu ‑

7.
E si ri lu virè tu tieni pressa
Vattinni a lu cummentu ri Carossa
E mittiti 'n viaggiu nnanti messa
Ca hiddu, ccu na faccia janca e rossa,
Ddà hinta, com'ogn'autu Cilistinu,
Si corca priestu e s'auza a matutinu ‑
1.
(Settecent'anni addietro o poco meno,
nacque un Bambino in Teggiano,
con la boccuccia come il Bambino,
che è in braccia alla Madonna di Viggiano.
E quando succhiava le mammelle,
ti parlava con i piccoli occhi).

2.
(Poi quando lo portarono a battezzare,
Dio lo benedica, lo chiamarono Cono,
si diedero da fare tutte le ostetriche,
per essere invitate a quella funzione.
Chiunque lo vedeva, tutto guarnito,
diceva: « Cresci santo ... »).


3. (In poco tempo si reggeva all'impiedi
e camminava diritto;
ne restavano tutti a bocca aperta:
pareva un garofalo nel giardino.
Quando poi si affacciava alla finestra,
odorava per quel vicinato »).

4.
(Era passato un bel po' di tempo
ed era cresciuto in grazia di Dio,
allorchè non fu trovato a casa
e nessuno sapeva dove era andato.
Domandano, sopra, sotto, a questo, a quello...,
era scomparso, nessuno l'aveva visto).

5.
(1 suoi genitori subito ne andarono
in cerca per tutta Teggiano:
la mamma, avvolta nello scialle,
andava piangendo:
« 0 buona gente, o donne di Dio,
datemi notizie del mio Conuccio...

6.
(Un giorno il padre si trovava nel seggiolone
a casa ed ognuno gli dava coraggio.
Ma un forestiero, dal piede leggero,
gli disse (e fu provvidenziale come una pioggia di maggio):
« Non piangere, povero teggianese,
perchè Cono si è fatto monaco »).

7.
(E se hai fretta di vederlo,
vai al Convento di Cadossa.
Mettiti in viaggio prima della Messa,
perché quello, con una faccia bianca e rossa,
là dentro, come ogni altro Celestino,
va a letto presto e s'alza a mattutino »).

(1) Per facilitare la comprensione del caratteristico dialetto teggianese aggiungiamo a fianco ad ogni strofa una libera inter­pretazione in, italiano

 

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Biografia

(tratta da: San Rufo e la nostra storia, Don Giuseppe Ippolito, Edizioni Cantelmi, Salerno, 1971,  pagg. 121 - 125)


San Rufo e la nostra storia, Don Giuseppe Ippolito

NICOLA MARMO:

il dolce cantore della terra salernitana

Tra i figli più illustri di questa terra è da annoverarsi NICOLA BENIAMINO MARMO, poeta dalla vena limpida e scorrevole, in italiano ed in dialetto. Nacque il primo gennaio 1838 dal dott. Daniele e dalla nobildonna Teresa Celio da Teggiano, insigne latinista. Divise la sua vita fra San Rufo, suo paese natale, Teggiano, paese natìo della madre e Salerno, animando dovunque ogni lieta brigata. I versi gli fluivano spontanei nelle circostanze più varie, specie se eccitati da un buon bicchiere di vino e dalle note di qualche chitarra o mandolino. Non fu un cristiano praticante, anche se apparteneva ad un casato, che aveva dato alla chiesa sanrufese insigni sacerdoti per pietà e dottrina; giammai però abbandonò completamente la fede.

Una notte, illuminata da una splendida luna, tornava a casa dopo molte ore di baldoria con amici. Passando davanti alla Chiesa si fermò, poi, guardando gli amici della comitiva, quasi per invitarli alla preghiera e facendo cenno al mandolinista dell'allegra brigata, cominciò a cantare:

«Vergine bella, mattutina stella, Tu rifugio sei del peccatore. Del Paradiso la delizia sei e dell'inferno l'intimo terrore Voglio cantar di Te da mane a sera finchè nel petto mio palpita il core, e quando il labbro mio più non favella accogli l'alma mia Vergine bella ».



Ai suoi tempi si pubblicava a Milano la rivista letteraria « Il secolo », cui il poeta aveva chiesto di collaborare. Alla richiesta del Direttore della Rivista di stendere un pezzo di saggio, lo fece con estrema disinvoltura ed in versi, fra la sorpresa di tutti i redattori, male impressionati dall'abito trasandato e dall'aspetto mingherlino del Nostro. Ben presto però, stanco della vita cittadina, ritornò a San Rufo, che lo festeggiava calorosamente ad ogni suo ritorno.

Il nostro poeta scrisse liriche di gran pregio nelle quali, a volte, par di sentire un sospiro d'innamorato, a volte un ràntolo di moribondo, a volte un esasperato gorgheggio e un singhiozzo d'usignuolo ! Ma gran parte della sua produzione andò perduta perchè annotata su fogli volanti, su margini di riviste e giornali ...

Oltre alla « Storia ri Santu Comi », scritta nel caratteristico idioma materno e che riportiamo alla fine, scrisse anche un poema satirico ﷓ giocoso intitolato: « Roma conquistata », in X canti, parodia della « Gerusalemme liberata » del Tasso ed ispirato dall'annessione di Roma al giovane Stato Italiano nel 1870. In quest'opera, stampata nel 1877, il Poeta rivela tutta la sua elegante arte, specialmente in alcuni episodi, magistralmente scolpiti in quadretti d'inestimabile valore (1).


Sentì profondamente la nostalgia dei suoi campi ed al ricordo di essi esultò, come innamorato, durante le non brevi assenze dal paese, che gli aveva dati i natali:


        «0 felici contrade, o sacre valli, tacite rupi mie, dolci miei colli s'unqua al fragor di cocchi e di cavalli già per lunga stagion pospor vi volli, ben n'ebbi poscia pentimento al core vivendo ognor di splendido dolore!... Ed io verrò ! Se il mio retaggio è il pianto, voglio versarlo alla mia madre accanto; verrò con l'alba e i mattutini rai ad inaffiar soletto i prati miei: voce altra al mondo non udrò più mai che del fido mio can, che degli augèi, cacciando, in fra le stoppie ed i ginepri, astute volpi e paurose lepri ».


Il triste e freddo inverno fu sempre un acerrimo nemico del Poeta, che in molti versi se ne duole, finchè, sopraffatto dalla sventura, esclama mestamente:

« Sempre in cerca d'un ben, sempre delusa, come sei mesta povera mia Musa! ».


Ma, al ritorno della primavera, sente rifiorire il limpido canto della natura e piange la sventura, che gli fu sempre vicina:

« L'uccello canta, l'albero fiorisce, ciascun dal sonno dominar si lascia sol la vita mia piange e appassisce ... ».


E' lo stesso Poeta che in precedenza aveva scritto versi piacevolissimi, che venivano canticchiati da molti, come « Il Testamento », « Quaresima e Carnevale»

«Lo avvicinammo nei tempi ormai lontani, nell'ospitale casa dei nostri parenti in San Rufo; e, nelle lunghe sere d'inverno, lo vedemmo, accanto al focolare, non lontano dalla dipartita, sempre a capo piegato, sempre muto. Dominato da un rimorso, che mai lo abbandonava, aveva cantato nel Diseredato:

﷓ Perché gelo d'està, d'inverno io sudo, non ho diritto all'aria che respiro né delle donne agli innocenti amori » (2).


Mori a San Rufo il 25 giugno 1904 a soli 66 anni.


(1) Le due predette composizioni del Marmo si trovano alla Biblioteca provinciale di Salerno, per interessamento dell'ing. Luigi Spinelli, che le ha sottratto così alla dispersione ed alla fine. La « Roma Liberata » comincia:

« Canto l'armi pietose e il Maresciallo che a Pietro confiscò scettro e predella, molto a piedi egli oprò, molto a cavallo, niente sofferse in questa parte o in quella Pur fece, ad ogni modo, un grande acquisto, mandando a spasso il successor di Cristo.

0 Musa, tu che di cornuti allori circondasti la fronte al ministero, che un governo impiantò di percettori e di contribuenti un cimitero, prestami un po' di vin della tua botte, giacché darmi non puoi soldi e pagnotte ... ».


(2) Vedi Luigi SPINELLI: Bollettino « San Rufo nostra »dei giugno 1961 pagg. 4 ﷓ 5. Lo stesso ing. Spinelli ha curato una raccolta di composizioni di Nicolino (come amava firmarsi) Marmo, che spero riesca a stampare.




NICOLA MARMO

Nta pocu tiempu si rija a la l'erta
E camminava senza ri i stuortu;
Nei ristavani tutti a vocca aperta,
Paria nu arofalu nta l'uortu;
Quannu a la finistredda s'affacciava
A quiru vicinanzu n'ci addurava.
Oggi ci permettiamo un ricordo personale:
dedichiamo questi versi del poeta
Nicola Marmo di San Rufo (SA)
tratti da "La storia ri santu Conu"
ad una persona che ci ha lasciato
e che si chiamava pure lui
Nicola Marmo - un parente, ma
soprattutto un amico di infanzia.
Ce lo ricordiamo ragazzo, indomito,
sciupafemmine, vagabondo, emigrante,
ribelle. A sedici anni iniziò un corso
da sottoufficiale ma dovette lasciare:
la disciplina non gli si confaceva.
Quando oltre una ventina di anni fa
gli parlammo di un altro Sud  e di una
altra storia, i suoi occhi brillavano
per il rimpianto di un diverso destino.
Webm@ster - 11 Aprile 2008
nicola_marm











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