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I terremoti tra il secolo XVII e il secolo XIX e le ricostruzioni


Fonte:
https://www.ilnuovosud.it/

I Borbone: terremoti, case antisismiche e “new town”

Dal passato ancora una lezione utile. Anche in occasione dei frequenti terremoti che colpirono l’antico Regno delle Due Sicilie, i Borbone dimostrarono buone capacità di governo e operarono scelte utili che ancora oggi si potrebbero definire all’avanguardia. Di fatto si trattava della prima legislazione antisismica in Italia. Riportiamo solo qualche esempio. 

Il 5 febbraio del 1783 una violentissima scossa di terremoto aveva colpito l’intero Sud dell’Italia (30.000 le vittime nella sola Calabria). Ferdinando IV avviò un programma di soccorso, assistenza e ricostruzione che rappresenta ancora oggi un modello di efficienza. Le popolazioni furono immediatamente alloggiate in baracche; partì un’opera ciclopica di prosciugamenti, bonifiche, ricostruzioni e costruzioni (case, strade, mulini, forni, magazzini). 

Furono “rilocalizzati” circa trenta centri urbani che sorgevano in aree a rischio e con nuove norme edilizie che prevedevano un sistema di travi riempite che rendevano antisismiche le costruzioni (le “case baraccate”) come antisismici erano i principi urbanistici. 

Un altro esempio: il violento terremoto che nel 1851 distrusse la città di Melfi e i paesi vicini. Dichiarata l’emergenza, partirono raccolte pubbliche e private di fondi: ogni amministrazione dello stato fece la sua parte economica e una speciale commissione fu nominata dal Re per coordinare gli interventi. Ferdinando II, seguendo la sua consueta volontà di governare direttamente e in prima persona, per otto giorni si recò a visitare i luoghi del disastro con il figlio Francesco e il Ministro per i Lavori Pubblici, provvedendo personalmente per i casi più disperati. 

In un anno la ricostruzione era già stata completata. Il 16 dicembre del 1857, poi, un violentissimo terremoto colpì una vasta zona compresa tra  il Vallo di Teggiano e la Basilicata. Duemila i morti solo a Polla. Sempre Ferdinando II, superata la fase dell’assistenza, predispose la costruzione di una nuova città (una sorta di avveniristica “new town”) per trasferirvi i sopravvissuti. 

Si trattava delle famose “comprese” di Battipaglia: delle vere e proprie colonie agricole in territori per i quali già dal 1855 erano stati avviati interventi di bonifica. Dopo l’unificazione italiana, come testimoniato da molte riviste scientifiche del settore, fu abbandonata la legislazione adottata dai Borbone in materia di prevenzione e di assistenza per i terremoti.


Fonte:
La Stampa - 8 aprile 2009
Cerreto Sannita

Quando i Borboni sfidarono il terremoto

Cerreto Sannita è una cittadina del Beneventano apparentemente simile a molti paesi e paesotti dell'Appennino meridionale, ma in realtà diversa dalle fondamenta, nel senso letterale del termine. 

L'impianto delle abitazioni civili e municipali marca palesemente la differenza rispetto agli altri centri abitati di una terra martoriata dai terremoti: le fonda-menta sono fatte ad arte, i muri si allargano verso il basso per aumentarne la stabilità e sono ben spessi per renderli più resistenti (a volte presentano pietre angolari intagliate in unico blocco di roccia e staffe di rafforzo), le strade sono larghe e il sistema fognario è efficiente e moderno, un esempio, insomma, dì edilizia antisismica da seguire ed esportare. 

Ci si potrebbe augurare che sia solo una questione di tempo per fare in modo che anche gli altri comuni appenninici si adeguino alle normative antisismiche. Il problema è che di tempo ne hanno avuto sin troppo, se si considera che Cerreto fu completamente ricostruita dopo un terremoto nel XVII secolo ad opera dei Borbone e che il nucleo centrale è ancora quello edificato allora. 

Il valore dell'edilizia antisismica dei Borbone non deve essere servito come esempio per il Meridione d'Italia, se è vero - come è vero - che è ancora qui che i terremoti del futuro faranno i maggiori danni.


Su Cerreto Sannita vi consigliamo la lettura di un testo

Cerreto Sannita: un modello di ricostruzione post-sismica

disponibile gratuitamente in rete all'indirizzo: https://www.billynuzzolillo.it/

Il libro che parla della ricostruzione in un nuovo sito, avvenuta in appena otto anni e con criteri antisismici.


Fonte:
https://www.ilsole24ore.com/ 14 dicembre 2008

Se imitassimo i Borboni?

di Lara Ricci

A cento anni di distanza dal terremoto-maremoto di Messina e Reggio Calabria vi è una sola certezza: se tornasse sarebbe una tragedia ancora maggiore. La catastrofe che è costata la vita a centoventimila persone non è servita neppure a ridurre il rischio che la carneficina si ripresenti, anzi. Negli anni le regole antisismiche non sono state rispettate, le aree pericolose sono oggi ancora più popolate e anche le misure di allerta e educazione della popolazione in caso di maremoto non sono state messe a punto. Sono «in corso di progettazione», come nelle altre zone a rischio d'Italia.

«La possibilità che in tempi brevi, anche una decina d'anni, avvenga un terremoto nella zona di Reggio Calabria – in un'area di trenta chilometri a cavallo dello stretto – è reale. È probabile che accada entro venticinque anni. Non è detto che sia della stessa intensità di quello di un secolo fa. Potrebbe essere minore o anche maggiore» afferma Annibale Mottana, geologo dell'università di Roma Tre e accademico dei Lincei.

«Dopo che, nel 1783, durante il terremoto che precedette quello del 1908, le scosse rasero al suolo Messina e Reggio Calabria, i Borboni presero una decisione saggia - racconta Mottana –: suggerirono che le costruzioni fossero fatte con un sistema di travi riempite, una specie di metodo antisimico dell'epoca. Ma i messinesi vollero ricostruire i palazzi che fronteggiavano il porto (detti la Palazzata) e lo fecero con le pietre. Nei 50 anni successivi fu dimenticato il sistema di costruzione borbonico e le nuove case della media borghesia vennero edificate secondo il metodo tradizionale. Queste e la Palazzata crollarono nel sisma di cento anni fa. I borghesi morirono più dei poveri. Ciò nonostante, dopo il 1908 i parlamentari locali riuscirono a imporre di ricostruire, e oltretutto senza curarsi delle norme antisismiche. Non solo, quando la città crebbe, per realizzare le vie che dalle autostrade portano al centro furono semplicemente riempite le fiumare che scendono dai Monti Peloritani. Nulla impedisce che queste coperture saltino in caso di terremoto, o che vengano invase dall'acqua. Tagliando così le principali vie di fuga».

«È la classica situazione italiana: un'infinità di leggi molto buone, che sono rispettate per qualche anno e poi ignorate» continua l'accademico dei Lincei. «Nel 1909 fu emanata una modernissima normativa sismica che introduceva criteri di progettazione (per esempio il cemento armato) e la limitazione in altezza degli edifici – gli fa eco Mauro Dolce, direttore dell'ufficio sismico della Protezione civile –. Ma nel tempo le regole furono ridotte, sono state costruite zone prima disabitate, si è edificato sulle macerie o in aree instabili e di fatto non si è più posto un limite all'altezza delle case, che arrivano anche a sette piani. Solo negli ultimi 5-10 anni sono state introdotte nella normativa le moderne regole antisismiche. In questa zona il rischio è purtroppo elevato».

«Abbiamo raccolto un gran numero di informazioni sui luoghi dove arrivò l'acqua e sulla sua altezza, le abbiamo "spalmate" su una mappa del territorio e abbiamo visto che la costa interessata dal maremoto è oggi più abitata di allora. Non è solo abusivismo edilizio. Molte case hanno i permessi. È mancata la pianificazione territoriale» spiega Eutizio Vittori, responsabile del Servizio rischi naturali dell'Ispra (Istituto superiore per la ricerca e protezione ambientale).

Se sul fronte del terremoto è oramai difficile intervenire, più facile sarebbe ridurre i danni di una grande onda. «Le coste italiane sono a rischio maremoto – afferma Enzo Boschi, presidente dell'Istituto nazionale di geofisica e geologia (Ingv) – : per esempio quella pugliese o della Sicilia meridionale, lo stretto di Messina. Abbiamo fatto una classificazione delle aree a rischio».

Se il fenomeno che innalza l'onda avvenisse vicino alla costa ci sarebbe ben poco da fare: l'onda arriverebbe troppo presto per permettere alla popolazione di fuggire, ma se arrivasse da lontano, per esempio dalla Grecia, ci sarebbero 30 minuti per evacuare la zona. «Per reagire in tempo dobbiamo monitorare le sorgenti di un possibile maremoto, ovvero frane e terremoti», spiega Bernardo De Bernardinis, vice capo dell'area operativa della Protezione civile che usa le informazioni di stazioni sismometriche gestite dall'Invg e da altre istituzioni quali le università.

Ma un sistema di allerta tzunami come quello che si vede sulle coste della Thailandia (allarmi sonori, cartelli con segnalate le vie di fuga, educazione della popolazione) ancora in Italia non c'è. «In collaborazione con altri Paesi europei stiamo sviluppando un piano di emergenza per le coste a rischio, esattamente come abbiamo fatto a Stromboli» spiega De Bernardinis. Nelle Eolie infatti c'è un sistema di monitoraggio per allertare la popolazione, istruita sul da farsi, attraverso sirene. «Contiamo di essere pronti entro un anno», assicura De Bernardinis

«A causa delle distanze ridotte il concetto di early warning nel Mediterraneo perde un po' di significato» osserva Gianluca Valenzise, sismologo dell'Ingv, che con Manuela Guidoboni ha curato un volume scientifico «Il terremoto e il maremoto del 28 dicembre 1908», un'opera di 800 pagine pubblicata dall'Ingv che contiene contributi di 35 ricercatori di varie discipline. «La prevenzione e i sistemi di allarme dovrebbero comunque essere previsti. Anche se dovessero servire a salvare una sola vita umana» afferma Mottana. «In Italia è preponderante il rischio sismico e idrogeologico, non quello di maremoti», ci tiene a rilevare Dolce: l'80% del patrimonio edilizio non è antisismico. E anche solo l'educazione della gente è importante: «Nel 1908 la popolazione spaventata dal terremoto scappò verso le zone aperte, cioè anche verso il mare, e il maremoto fece ancora più vittime» dice Dolce. «È assurdo che i bambini inglesi, dove non ci sono scosse da secoli, sappiano come comportarsi in caso di terremoto e in Italia i ragazzini abbiano le idee molto confuse» afferma Vittori. «Tutti i grandi terremoti italiani non sono frequenti, rispetto per esempio a Giappone o California. Nel nostro Paese ci sono molte faglie, ma gli spostamenti non sono veloci e questo fa sì che i tempi di ritorno di una scossa violenta siano lunghi» dice Valenzise. Come da copione, la commedia all'italiana prevede che s'incrocino le dita, si tocchi ferro e si invochi la dea bendata.


Fonte:
https://reggioturistica.it/

BORBONI

La gestione dei lavori per la ricostruzione della città a seguito del devastante terremoto, finanziati con i fondi provenienti dall’incameramento dei beni ecclesiastici, venne affidata ad una Giunta denominata “ Cassa Sacra “, operante a Catanzaro.

A Reggio venne incaricato di progettare una vera e propria ricostruzione della città l’ing. Giovanbattista Mari, il cui piano approvato dal Consiglio Comunale, comportava notevoli stravolgimenti dell’antico assetto della città. La nuova forma si presentava come una scacchiera, con un nuovo asse rettilineo, il Corso, e una serie di assi longitudinali rettilinei sui diversi livelli altimetrici, intersecati da assi secondari paralleli da monte a mare.

Il nuovo diretto rapporto con il mare viene risolto con la “ Palazzina”, una cortina unitaria articolata in cinque grandi isolati prospicienti il mare.

Con la proclamazione della Repubblica Partenopea del 22 gennaio 1799 avvenne la cacciata dei Borboni. La ventata di libertà durò appena sei mesi, perché a giugno i Borboni riconquistarono il potere grazie al movimento sanfedista del Cardinale Ruffo. Superata l'ondata reazionaria, il re Ferdinando tornò a Napoli il 26 giugno 1802 e la riedificazione di Reggio fu uno degli obiettivi prioritari del governo borbonico, lavoro interrotto dal 1806, per circa dieci anni, perché in questo periodo Reggio fu occupata dai Francesi.

Dalla sconfitta dei Francesi a Maiola nel 1806 Reggio diviene teatro di scontri sino all’ attribuzione del trono napoletano a Gioacchino Murat.

Durante la breve fase del governo di Gioacchino Murat alla quale seguì la conquista francese, Reggio subì un rapido processo di modernizzazione con una serie di lavori pubblici quali i ponti sui torrenti Calopinace e Annunziata, l'illuminazione a petrolio del centro storico, la costruzione del Real Teatro Borbonio e l'istituzione dei primo liceo.

Elevata a ducato del generale Oudinot, la città fu poi bombardata dalla flotta inglese nel 1810.

Con il ritorno dei Borboni (1815) Reggio riprese attivamente l'opera di ricostruzione.


Fonte:
1783-1796 - La ricostruzione delle parrocchie nei disegni della Cassa Sacra di Rosa Maria Cagliostro - pag. 25 - 26

Alcune comunità erano in disaccordo sul lo spostamento dei centri abitati e si crearono numerosi problemi che costrinsero il governo a disporre la costruzione nei nuovi siti dei principali siti istituzionali chiesa palazzo municipale, fontane. Ai privati vennero concessi dalla Cassa sacra prestiti a tasso ridotto. Indicazioni e prescrizioni antisismiche erano indicate in un rescritto del Vicario Pignatelli (2 aprile 1785) sfa sulla struttura portante in legname che sembrava avete resistito meglio in alcuni edifici, sia sull'altezza delle costruzioni ridotta ad un solaio e quindi al piano terra e ad un piano superiore, con piccoli balconi. I lavori di ricostruzione venivano sorvegliati in ogni città da una Deputazione che dirigeva le operazioni di tracciato topografico di divisione dei suoli in isolati e rioni. A Reggio fu nominata nel 1784 una Giunta di riedificazione composta da sedici cittadini soppressa nel 1B33 dopo non poche polemiche.

Gli edifici monumentali più importanti non furono esenti da danni: tra questi la cattedrale di Mileto e l'Abbazia, il convento di S. Domenico in Soriano, la Certosa di S. Stefano del Bosco furono pressoché distrutti; gravemente danneggiata la cattedrale di Gerace. Per la ricostruzione delle chiese parrocchiali, ritenuta prioritaria, la Cassa Sacra destinò 300.000 ducati; per il restauro delle torri costiere danneggiale a difesa dalle scorribande saracene venne emanato un dispaccio nel 1790 e destinati 45.000 ducati. Abili ingegneri vennero inviati con a capo l'ing. Ignazio Stile, per il prosciugamento dei 200 laghi che si erano formati nella Piana di Gioia Tauro, con la spesa di 300.000 ducati. Vennero erogati finanziamenti a privati perla ripresa dell'allevamento del baco da seta e la produzione Industriale delle filande.

Si provvide al restauro e alla ricostruzione di ospedali e opere assistenziali, alla costruzione di una rete stradale che congiungeva i paesi della Piana, alla strada Pizzo-Mongiana, ai ponti di Crotone, Galateo, Arena, Pizzoni.

Il 30 gennaio 1796 fu decisa l'abolizione della Cassa Sacra, il cui operato era divenuto farraginoso e non più aderente alle esigenze di corretta amministrazione. Un nuovo organismo, la Delegazione frumentaria, opererà dal 1796 al 1806. nel Tentativo di rendere più rapida e oculata l'Amministrazione dei beni incamerati.


Fonte:
https://it.encarta.msn.com/

Catania dagli Aragonesi ai Borboni

La città affollata dai profughi della campagna e impoverita dalla distruzione della principale fonte di reddito, perché ogni attività commerciale e manifatturiera era collegata all’agricoltura, fu infine distrutta dal grande terremoto che nel 1693 colpì tutta la Sicilia sud-orientale. Il viceré Uzeda inviò a dirigere come suo luogotenente le operazioni di soccorso e la ricostruzione Giuseppe Lanza duca di Camastra. Le principali strade furono sgomberate dalle macerie pochi mesi dopo il terremoto perché era necessario collegare il centro cittadino alle porte e alla campagna; quindi le vie Uzeda (oggi Etnea) e San Francesco (tratto occidentale della via Vittorio Emanuele) risultano dallo sgombero e dalla regolarizzazione di antichi percorsi.

Nel giugno del 1694 il duca di Camastra insieme con i membri superstiti del Senato e del clero definisce i criteri che saranno alla base della ricostruzione della città, che dovrà avvenire nell’antico sito “non solo per la vicinanza del mare, per l’abbondanza dell’acqua, per la salubrità dell’aere”, ma per motivi militari dato che le mura e le recenti fortificazioni (il Fortino) della città erano intatte. La stessa Cattedrale sarà ricostruita riutilizzando le fondazioni e le strutture superstiti; vengono adottate inoltre misure che potremmo definire antisismiche: le strade dovranno essere rettilinee e intervallate da piazze; le misure delle strade sono fissate in una larghezza di otto canne per le maestre e di sei e quattro per le altre; le piazze saranno frequenti per dare ai cittadini la possibilità di usufruire di spazi liberi nell’eventualità di nuovi terremoti; esse saranno aperte sia dove erano gli antichi piani (piazza del Duomo) o vicino a essi (le attuali piazze dell’Università e Mazzini), oppure costruite facendo riferimento ai complessi conventuali quasi tutti ricostruiti sui vecchi siti molto spesso dopo un cambiamento di orientamento delle chiese.

Vengono fissate infine le regole per il mercato delle aree. L’esenzione dalle gabelle concessa dal re e le regole di compravendita dei suoli danno un grande impulso all’opera di ricostruzione ovviamente condotta dalla nobiltà e dal clero. Tra questi emergono i Benedettini che, già in possesso di un enorme patrimonio fondiario che si accresce anche grazie a manovre speculative, ingrandiscono molte delle vecchie strutture (San Nicolò), ma anche, contravvenendo alle regole dettate da Camastra, edificano sulle mura (palazzo del Vescovo, seminario dei Chierici, Sant’Agata la Vetere), caratterizzando inoltre intere zone, come ad esempio via dei Crociferi.

La nobiltà invece rispetta le regole del luogotenente del viceré e costruisce le sue residenze lungo le strade principali, salvo poche eccezioni tra cui quella del principe di Biscari che ottiene il permesso di edificare il suo palazzo sulle mura in prossimità di quello del vescovo.

Architetti della ricostruzione furono, tra gli altri, l’anziano Alonzo di Benedetto (seminario dei Chierici) e i giovani Girolamo Palazzotto (Cattedrale) e Giovan Battista Vaccarini. Soprattutto quest’ultimo, nominato intorno al 1730 architetto della città, contribuì a creare il nuovo volto di Catania: a lui si devono la facciata della Cattedrale, il monastero di Sant’Agata, la fontana dell’Elefante, il Palazzo municipale, eccetera. È interessante notare il modo in cui furono riutilizzati molti resti della città preesistente e non solo, com’era ovvio, il materiale di spoglio, come le colonne romane nella facciata della Cattedrale e nei portici di piazza Mazzini, ma vere reliquie come nel caso della fontana dell’Elefante, costruita da Vaccarini nel 1736 assemblando una statua in pietra lavica dell’animale (simbolo della città) e un obelisco egiziano, o dell’adattamento nella facciata barocca della chiesa del Santo Carcere del portale romanico della Cattedrale.

Guida d’Italia. Sicilia, Touring Club Italiano, Milano 1989.











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