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Questo testo di Luigi Mira è molto interessante e la sua pubblicazione on line magari non piacerà a qualche legittimista incallito, ma i conti con la nostra storia noi li dobbiamo fare tutti, fino in fondo.

Non dobbiamo sostituire ai santini sabaudi, truffatori e fucilatori di inermi altri santini senza macchia e senza peccato. Meglio sostituirli con degli uomini con le loro virtù e le loro debolezze, che se non fossero stati spazzati via dalla storia dagli interessi geopolitici delle due superpotenze di allora - Inghilterra e Francia - sicuramente avrebbero reso il paese meridionale moderno e prospero e certamente migliore di quanto sia l'area tosco-padana oggi.

Per questo motivo non ci interessa entrare nella diatriba fra costituzionalisti e la cosiddetta camarilla sanfedista, colpevole secondo alcuni moderati fedeli ai Borbone, di aver causato il disastro meridionale col loro arroccamento e col loro rifiuto di qualsiasi cambiamento.

Con questa pubblicazione vogliamo solo far capire ai nostri amici naviganti che anche fra l'emigrazione napolitana a Roma non ci fu univocità di vedute e forse anche questo fu causa della sconfitta della guerra di resistenza del popolo meridionale.

Probabilmente ha qualche fondamento di verità l'affermazione di Carmine Crocco Donatelli nella sua autobiografia (quella italianizzata curata dal capitano Massa) quando dice:

"Oh, perché il Borbone non seppe utilizzare tanto valore e tanto eroismo così spontaneo, nei figli di questa forte regione, cosicchè il potente esercito borbonico fu messo in fuga da un pugno di giovanotti e questi furono chiamati eroi, e vili quelli? La verità di quelle facili vittorie, la causa delle fughe, il facile sbandarsi e chi nol sa!"

Per farvi avere una idea di come venisse trattata l'emigrazione napolitana sulla stampa di regime, in fondo al libro di Luigi Mira abbiamo inserito una nota apparsa su L'INDIPENDENTE giornale filoitaliano fondato e diretto da Alessandro Dumas, nominato direttore (superpagato!) degli scavi di Pompei dal biondo liberatore delle Due Sicilie.

Zenone di Elea, Ottobre 2009


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IL
PALAZZO FARNESE
E
L'EMIGRAZIONE NAPOLITANA IN ROMA
MEMORIE POLITICHE
DEL CAVALIER
LUIGI MIRA
STAMPERIA DELL'INDUSTRIA
Largo S. Marcellino, 2.

1865

INDICE

Al LETTORI

Una persecuzione immeritata, una costante ingratitudine mi han spinto fuori di Roma, ove, tre anni or sono, mi ridussi ad abbracciar l'esilio, per seguire un alto principio. Quivi ricovrando, credeva che incontrar mi dovessi ne' soli dolori dell'esilio; ma la malvagità degli uomini, intrighi di ogni natura, mi avvelenarono la vita di ogni dì, di ogni istante. Pej ultimo si cominciò contro di me la contestura di un processo per calunnia, essendoché mi era querelato di un furto di denaro, e di sottrazione di carte politiche.

Le mene di un partito ignominioso, la debolezza, e la ignavia dei Magistrati; la indolenza di chi far dovea valere i miei diritti, ed il concorso di sfrenate passioni; furon tutte cose che attentaron al mio onore, alla mia vita civile.

Ciò nonostante la giustizia di Dio imperò su tutto, ed il mio onore attraverso a tante cabale, raggiri e nequizie di ogni sorta, raggiunse lo stendardo della vittoria, rimanendo pienamente risarcito. - Quel Tribunale, che mal prevenuto, per le false testimonianze dei miei detrattori, avea imprecato contro di me; esso stesso invocando il Nome Santissimo di Dio: dichiarava la mia innocenza; riconoscendo cosi l'errore in cui cadde dapprima, assolvendo della gente dispregevole!

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Ridonato alla società, purgato di quel marchio infamante, che imprimer si volea sulla mia fronte da un partito vergognoso ed empio, voglio far chiare al Mondo tutte le sue perfidie. Mio malgrado debbo farmi promotore di rivelazione di fatti scandalosi e riprovevoli senza che ne senta rimorso; poiché non indotto da ira di parte; ma sibbene dalla necessità di dare ulteriore soddisfazione al mio onore oltraggiato, e pel dovere insieme ch'io sento, di strappar dal viso di uomini malvagi quella maschera, che li fa credere tanti eroi; tanti martiri della rivoluzione Napolitana!

Esporrò i fatti senza orpello, dirò il meno che potrò; è il solo sacrificio che mi resta a fare. Ma anche questo sacrificio, lo confesso, è condizionato. Ove le restrizioni che m'imporrò, dassero argomento ai miei nemici da far sorgere dubbi sulle mie assertive, sarò obbligato a svelare maggiori particolari, e nomi, in testimonianza di quanto avrò detto.

Colla guida adunque d'irrefragabili documenti, mi adoprerò ad accennar di volo la parte ch'io ebbi ne' luttuosi avvenimenti politici del mio paese. In ciò fare mi affiderò alla debole mia penna, cui sarà scorta la mia memoria, per quanto il può.

Non paventerò al certo di esporre tali fatti, senz'asconder, per umani riguardi alcuni punti della mia vita politica; sicuro di ottenere dalle genti, e massime dai miei concittadini, se non lode, neppur biasimo al mio operato.

Scrivo inoltre queste memorie, perché sento l'alto dovere di dare una risposta leale e franca alla grave accusa, che da taluni, ignari dei veri fatti, si fa pesare sul mio nome.

I servizi da me resi al caduto Governo, nella qualità di Ufficiale Archivista del Gabinetto del Ministero e Real Segreteria di Stato della Polizia Generale; l'abnegazione colla quale cooperai agl'interessi del detronizzato Sovrano;

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la miaarresto emesso per poca fede nel detto Ufficio, che avea conservato dopo la rivoluzione del 1860: - la mia fuga in Roma: - le mie relazioni nel Real Palazzo - il processo criminale contro di me espletato presso i Tribunali Romani: - il mio susseguente ritorno in - le voci di aver io tradito la Causa Borbonica, e per pegno di mia sicura dimora in aver consegnato al Governo Italiano carte di alta importanza, che si asseriva aver io involate al Palazzo tutto questo lungo treno di avvenimenti, ha dato largo campo a tutti di almanaccare sul mio conto, e dopo la lunga ciancia del giornalismo di tutti i colori politici, è rimasta la traccia del dente della calunnia, il quale à trafitto profondamente il mio cuore. Ora se io scrivo queste memorie, lo fo meno per cancellare questa traccia, perché oramai i fatti han smentito le dicerie; lo fo meno per giustificarmi, non avendo io bisogno di giustificazione al cospetto degli onesti, e disprezzando i miei detrattori; ma le scrivo nello interesse del mio paese; avvegnacché nelle rapide vicende della mia vita politica s'incrociano, e si attaccano o si segnano fatti, uomini e principi, che giova, qualunque sia l'avvenire di questa nostra patria, il conoscere nella loro verità: dovesse anche ciò che io scrivo, diventare solo patrimonio della Storia patria.

E poiché il giornalismo della rivoluzione ha, o per sua inventiva, o per organo di mendaci corrispondenti, dipinto coi più tetri colori il Real Palazzo nel solo scopo di denigrare anche la memoria di Re Francesco; così narrando di me, mi verrà fatto di rivelare quale sia veramente la politica del Palazzo quale la sua vita; quale il buono, quale il tristo che colà si rinviene.

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Comprendo benissimo, che io mi preparo un numero di nemici, maggiore di quello che tengo in Roma; ma ciò non mi distoglie dal mio proposito, perché son convinto, che nell'ipotesi anche d'una Restaurazione, di questi nemici non sarà a temerne!

Essi son quelli, che fabbricarono la rovina di Ferdinando II; che contribuirono alla caduta di Francesco II; son coloro, che vorrebbero tener imperio sulla politica del caduto Sovrano; son coloro che perseguitano nel modo più inesorabile quanti avversano le loro letali influenze, e le rendono vane.

Io, che sono stato testimone delle disfatte toccate a questi

tali, e che conosco quanto dai loro principi sia lontano il caduto Monarca, posso dichiararli morti, e sepolti per sempre: ed in questa opinione mi riconferma l'opinione, oramai eminente, dello stesso partito legittimista rimasto in il quale riconosce l'assurdo di un ritorno ad uomini dell'antico governo dei Borboni.

CAPO I.

Il mio impiego prima e dopo il 1860.

Per devenire alla narrazione dell'Iliade dolorosa, che tanto mi afflisse, fino a costringermi ad abbandonar l'esilio, conviene innanzi tutto accennare a taluni fatti, i quali hanno rapporto con quelli non à guari avvenuti in Roma.

È mestieri però dar principio al racconto di questa serie di sventure, rimontando all'epoca fatale del 1860, da cui prende origine il mio esilio, e la persecuzione cui fui fatto segno per opera di una mano d'intriganti, di cui Roma oggi è depositaria.

Come testò ho detto: allorché la rivoluzione del 1860 travolse dal Trono la Dinastia Borbonica, io occupava il posto di Ufficiale Archivista del Gabinetto del Ministero e Real Segreteria di Stato della Polizia Generale, ove mio padre, morto nel 1837, era stato Ufficiale graduato.

Le continue pruove di fedeltà, di segretezza e di zelo, da me date in tale geloso Ufficio, che per lo innanzi era stato occupato da un Ufficiale di Carico (1), mi aveano fatta meritare la stima dei passati Superiori non solo, ma di, quanti aveano potuto mettere a cimento la mia onestà.

E se non raggiunsi la proprietà di tale posto, lo debbo alla ingordigia di chi stava a Capo del personale degl'impiegati;

(1) Il signor Giuseppe Bladier, tipo di onestà; epperò oggi vive nella più squallida miseria, essendo stato dalla rivoluzione destituito e fatto privo financo della sua pensione di giustizia che diggià avea liquidata!

che rendevami inabile a poter offrire, come altri, un borderò di rendita iscritta a chi vendeva impieghi e conferiva avanzamenti!

Così avvenne, che dopo la rivoluzione del 1860, io fui non solo conservato nel medesimo impiego, ma promosso; anzi dirò francamente, che così special favore, non mi si concedeva perché io avessi manifestato tendenze rivoluzionarie, al par di tanti altri impiegati, conoscendosi purtroppo i miei principi di attaccamento alla caduta Dinastia. Ma io era un impiegato troppo necessario, perché conosceva benissimo l'andamento degli affari del Ministero, ed era la chiave di gelosi segreti, che si custodivano in quella Segreteria, e dei quali la rivoluzione avrebbe voluto per mio mezzo impossessarsi.

Nel 10 Settembre del 1860 (ricordo bene il giorno), da un alto personaggio estero fui incaricato di fargli rapporto di tutto ciò che avveniva in e massime per la parte dello spirito pubblico nelle province.

L'Ufficio che io occupava, mi presentava tutta la latitudine d'adempiere con esattezza a questo mandato, e le mie relazioni giungevano là, a Capua ed a Gaeta, ove allora si trovava il Re; e credo pure, che si spedissero al Gabinetto di Vienna.

Quando il nuovo governo si fu istallato, cercò di mettere subitamente le mani sulle carte, che costituivano gli Archivi segreti; e naturalmente io fui invitato ad esibire quelle dell'Archivio del Ramo Polizia.

Lo dichiaro francamente: mi ripugnava il farlo, e nol feci (mentre quelle carte segrete altro non erano, che la Collezione dei rapporti rassegnati al Re dal 1852 fino al 25 Giugno 1860).

Mi parve di mancare alla delicatezza d'un Carico così gelosamente riguardato non appena il Re cadeva sotto l'ascia d'una mai preveduta rivoluzione.

Divenni naturalmente bersaglio di alcuni impiegati nel Ministero (non è il momento di rivelarne i nomi), i quali mi accusarono di aver io involato quelle carte segrete; ma trovai modo da giustificarmi coi nuovi Superiori, e rimasi al mio posto.

Per la verità le dette carte stavano al loro luogo; ma prevedendo, che io corressi il rischio di essere destituito dall'impiego, e che esse potessero essere scoperte e prese, tentai di spedirle in Roma, locché mi riuscì impossibile.

Fu allora, che esponendomi a grave pericolo, le presi, e le portai in mia casa, nascondendole nel giardino che vi era annesso, dopo di averle ben condizionate in una cassa. Passato il primo turbine della rivoluzione, e venuti nuovi nomini al Ministero, non si parlò più di quelle carte.

CAPO II

I passaporti

Per Editto di Garibaldi fu ordinato, che il Carico dei passaporti per l'Estero dal Ministero degli Affari esteri passasse a quello di Polizia.

Questo geloso Carico fu affidato a me: e vado superbo di confessare, che potetti così salvare un buon numero d'individui, bersagliati dai rivoluzionari, e che con la fuga si sottrassero alla loro persecuzione, che non avea altro diritto, che quello della forza di piazza.

Resa Gaeta, io era ancora nel mio impiego, e continuai la pericolosa serie dei miei servizi, mai essendo venuto meno in me la idea di difendere il diritto e la giustizia.

Nel Maggio 1861 la Polizia credette sapere, che in casa di un Diplomatico Estero si tenessero riunioni avverse al nuovo ordine di cose, di tal che il detto personaggio avutone sentore stimò prudente lasciar

Era costui, cui io affidava le mie relazioni, delle quali ho parlato poco innanzi, e dopo la sua partenza fui incaricato di consegnarle ad un nobile signore Napolitano, il quale oggi è assente da

Ora mi occorre di rendere di pubblica ragione, che due ispettori della vecchia Polizia, Achille Lotoro ed Achille Montanini, furono messi a mia disposizione; ma costoro sempreppiù provando, che la vecchia Polizia era un covo di canaglia, denunziarono all'Autorità di Pubblica Sicurezza, per ragion di lucro, il Conte dei Camaldoli, il quale fu arrestato, e rilasciato con libertà provvisoria.

Si cercava di fabbricare un grave processo a carico del Conte dei Camaldoli, sul cui conto si facevano gravare moltiplici pruove di reità. Egli mi chiese un passaporto per fuggire in Roma, che io gli ottenni esponendomi a seria compromissione.

Il Conte dei Camaldoli parti da nel dì 4 Gennaio 1862; ma qual ricompensa egli mi ha serbato dopo tre anni?

CAPO lII.

I miei falsi amici e la mia fuga.

Achille Lotoro, questo rettile schifoso appartenente alla odiosa e sfrenata canaglia, che chiamavasi polizia sotto il passato Governo, dopo la denunzia fatta contro il Conte dei Camaldoli, vedendosi meno necessario, pensò rovinare me con un nerissimo tradimento.

Mi fece istanze di ritirare dalla Questura, mercé il debito biglietto che mi consegnava, un passaporto intestato a certa Maria Scala,

che mi assicurò essere sua parente, la quale sarebbe ripartita per Roma.

Mandai in buona fede a ritirare tale passaporto; ma appartenendo questo a persona compromessa, e di cui la Polizia andava in cerca, fui arrestato in Questura, e dopo d'aver pienamente giustificata la mia innocenza, fui rimesso in libertà.

Il birro Lotoro, come seppe del mio arresto, fuggì a Roma; ed allora venni a conoscere, che questo brigante esigeva dal Conte dei Camaldoli ducati 35 la settimana, che divideva col suo compagno Montanini, adducendo, che io ne percepissi una parte.

Ciò era falso, e mi fu forza pruovare, che i servizi, che da me si rendevano, erano puramente gratuiti.

Non è necessario declinare nomi; ma se potesse darsi, chi osasse sostenere che io mentissi, son pronto non solo a pronunziare i nomi di coloro, da cui questo danaro si pagava; ma posseggo una splendida dichiarazione, che farò valere a suo tempo.

Mi giova insistere su questo punto, affinché non mi si dia una nota di venalità, che fu un arma per i miei nemici a Roma, i quali colpivano una inopportuna occasione, cui dirò più innanzi, per tentare di stabilire che io avessi partecipato del danaro del Re, e così sottrarsi a future responsabilità delle somme affidategli.

E poiché su tale fatto io ho dovuto giustificarmi mio malgrado nella Causa penale, che mi si regalò a Roma, cosi i lettori troveranno il relativo documento a pag. 94.

Dirò soltanto, che in quel tempo mi si presentarono due individui, Pasquale Fava e Carlo Maria Poli, i quali si dicevano componenti d'un Comitato Borbonico a Napoli; ma che in effetti potevano dirsi i fortunati, che così avean trovato mezzo a mungere la borsa di Francesco II.

Ora, io che avea la coscienza di non aver toccato un soldo per i servizi resi, quando costrinsi i signori Fava e Poli a smentire formalmente, che io avessi ricevuto danaro, mi feci di loro altri due nemici.

La sera del 23 Maggio 1862 io mi recava in casa di Fava, ed ei mi manifestava, che da Roma erasi chiesto il rendiconto del denaro erogato dal Comitato, ed il ritiro del disavanzo e dei cuponi del Debito pubblico fatto dal Re in Gaeta. E nel manifestarmi ciò il Fava, mi esprimeva l'imbarazzo in cui trovavasi insieme al suo collega Poli per delle spese, ch'ei diceva essersi fatte, le quali non sarebbero state logicamente credute in Roma.

Esprimevano, in ultimo, la sua agitazione per tali ordini venuti da Roma, e la ferma decisione di togliersi d'impiccio, trasferendosi in Roma; tantoppiù, che sì egli che il Poli, erano stati avvertiti con lettera del Marchese Imperiale- esser quello il momento di condursi in Roma, dovendo le due Regine imprendere un viaggio, ed essi le avrebbero seguite in qualità d'impiegati di Casa Reale, potendo trarne dei forti vantaggi.

Il dì appresso 24 Maggio 1862 fu sorpreso dalla Questura il plico, che conteneva i miei rapporti, e che soleva essere accompagnato con lettera scritta in cifra: non così però quella volta che era scritta in carattere ordinario; e non serve il dire, che il nome mio eravi più volte ripetuto!

Quando il plico fu sorpreso, io era al mio Ufficio nel Ministero!!!

I miei traditori, Poli e Fava partirono, o per meglio dire, fuggirono nel dì stesso 24 Maggio senz'avvisarmene! Io dovea essere arrestato; ma Dio volle proteggermi e potetti fuggire anche io a Roma come dirò in seguito.

Quando le Guardie di Pubblica Sicurezza ed i Carabinieri, in numero imponente, circondarono la mia casa per arrestarmi, dapprima io mi nascosi e feci dire all'Uffiziale, che di me chiedeva, che non mi trovava a casa; ma temendo una minuta perquisizione (lo che avvenne pochi momenti dopo la mia scomparsa) indossai abiti logori ed impropri, e con un audacia, di cui io stesso non mi credeva capace, attraversai la folla degli assedianti, inosservato, e mi salvai.

Il giornale Ufficiale del 26 Maggio avea annunziata la sorpresa del plico, e se io fossi stato arrestato, o mi fossi costituito in potere della giustizia, come per un momento pensai; non avrei taciuta o mentita quella parte che io area sostenuta a pro della caduta Dinastia. Ma i fatti eran troppo gravi perché bandissi tale idea; non perché temessi la prigione o i ferri; ma perché in tal modo sarei divenuto strumento inutile per la Causa del Re.

Celatomi quindi a' stessi miei congiunti, durai lunga e penosa latitanza, in fino a che non fui provveduto di un mezzo per raggiungere Roma. La sera del 2 Giugno mi condussi in un punto della nostra spiaggia, ove attendevami una fragile barca guidata da due marinai.

Debbo dirlo?-Nel momento di entrare nella barca vi rinvenni... Montanini, il quale aveva tanto interceduto dappresso a' miei, che aveva ottenuto di seguirmi.

Così non avessi creduto al suo piato, ai suoi giuramenti, alle sue lagrime: non avrei condotto meco il mio Giuda!

A poche miglia lungi da Napoli fummo sopraffatti da spaventevole tempesta.

Quasi presago della perfidia del Montanini, io vedeva in lui il fabbro di mie future calamità; dappoiché io diceva a me stesso: quale mai potrà essere lo scopo di costui seguendo me in un esilio, la di cui fine non può aver luogo che dietro una Restaurazione?! Certo non per devozione al detronizzato Re; dopo d'aver dato pruove evidenti della più spinta venalità riscuotendo dal Comitato Legittimista grossi stipendi, e senza che gli avesse pur reso alcun servizio!

Non per gratitudine a me, dappoiché egli aveva appartenuto ad una classe che era ben lontana dal sentire gratitudine per chi le prodigasse del bene! Mi seguirà dunque per speculazione, essendo finito in Napoli il mezzo di far mercato?

Epperò, che dietro questo mio soliloquio, profittando della pericolosa situazione fattaci dalla permanente tempesta, io scongiurava i marinari a ritornare in Napoli, onde così sbarazzarmi di Montanini, temendo più di lui che degli stessi flutti. Ma, misurando il tempo da impiegarvi, saremmo approdati in pieno giorno sul luogo donde eravamo partiti, e quindi sarebbe stato incontrare sicuri pericoli!

Convenne perciò restar esposti agli eventi della fortuna.

Dopo essere rimasti per sette giorni ed altrettante molti in balia del mare, sfuggendo miracolosamente il pericolo di naufragare, raggiunsi il porto di Terracina nel di 9 Giugno, e mossi immediatamente per Roma.

Montanini mi seguiva!

CAPO IV.

Roma e le mie prime vicende.

Come giunsi a Roma, m'incontrai in coloro, che io avea salvati a Napoli, aiutandoli a fuggire; primo tra questi, il Conte dei Camaldoli.

Seppi immediatamente, che Poli e Fava avevano narrato, che io era rimasto a Napoli con le gambe fratturate da una caduta, per essermi gittato dall'alto nel momento in cui la Giustizia era venuta ad impadronirsi di me.

I traditori speravano, che sorpreso il plico nel giorno 24 Maggio, quando essi erano in salvo, ed io (inconsapevole del tranello) era fiducioso al mio impiego, sarei stato arrestato; e così essi avrebbero potuto sottrarsi al pericolo della mia presenza, e non essere riconvenuti di mendacio per le somme che aveano riportate per versate nelle mie mani, quandoche essi le aveano frodate e spese per loro stessi.

Più tardi mi vennero a luce tutti i furti che si consumavano a Napoli, a danno del Re Francesco II, da una camorra organizzata; ed uno dei più famosi consorti n'era il poliziotto Lotoro; colui che mi avea esposto ad una seria compromissione per causa di quel falso passaporto, che seppi appartenere a certo De Langlé (1); di che il Lotoro era sciente; e che pel ritiro del medesimo erano state a lui promesse in compenso trenta piastre!

Seppi pure, che questo spudorato, come giunse a Roma, si vendette a quel Comitato sedicente unitario; ma sospettato dalla Giustizia, gli si esegui una perquisizione domiciliare, nella quale rinvenutesi numerose carte compromettenti fu immediatamente arrestato.

Atterrito dalla storia di questi quattro manigoldi, che mi si erano lasciati attorno, ne feci alte doglianze con chi me li avea dipinti onesti e fedeli.

ti Quello, che mi contristava veramente, era il vedere, come questa canaglia trovasse protezione presso uomini stimabilissimi; e debbo l'inimicizia del Conte dei Camaldoli appunto ad un grave diverbio tra me e lo stesso, che abbindolato dalle versi pellerie di questi ladri e traditori, prese a proteggerli, respingendo le mie più che autentiche pruove a carico di essi.

Io non avea mai avvicinata la Corte dei Borboni in Napoli, e quantunque impiegato nell'Alta Polizia, pure ascoltava spesso con una certa aria d'incredulità, che la sventura più i grande dei Borboni era quella di essere circondati da gente. che lavorava alacremente a far loro nemici in copia; imperocché quei tali, che jiur troppo meritano la riprovazione di tutti gli onesti (non parliamo della rivoluzione) aveano la smania di lasciar preferire ed innalzare la ca'naglia; e perseguitavano, allontanavano, ed ammiserivano gli onesti egli intelligenti.

Fu il primo esperimento, che mi accorò fortemente a Roma: fu il primo guiderdone, che toccai per i servizi, per il disinteresse e pei pericoli corsi sino a quel momento.

(1) De Langlè, era un Capitano de' Zuavi Ponlifict partito da Roma con passaporto intestato a Maria Scala e fratello. Il De Langlè erasi recato in Napoli per raggiungere Boryes, che in allora trovavasi nella Basilicata. - Del passaporto volea profittarne tal M... F... che seguir volea il Conte dei Camaldoli in Roma.

Non rividi più il Conte dei Camaldoli; ebbi la colpa di ricordargli il servizio che gli avea reso; e dico colpa, perché questa e tale a fronte di chi può avere la vanagloria di mostrarvi un Blasone ed una pergamena, di cui il Summonte possa fare menzione.

Eppure io credeva al progresso!

Con l'odio del Conte dei Camaldoli, protettore di quei giurati miei nemici, io non sapeva di attirarmi addosso l'odio di quella classe di uomini, che noi chiamavamo Camarilla.Le due Regine intanto impresero il viaggio annunciato dal Marchese Imperiale! Poli seguì la Regina Maria Sofia in qualità di Controlloro; Fava, rimasto deluso nelle sue speranze, imprecava contro il suo collega Poli, maledicendo la sua venuta in Roma; ma nominato Ufficiale di Carico della Controlleria Reale in compenso dei servigi resi, s'acquetò!

Il birro Lotoro s'intruse nella casa del Conte dei Carnai» doli, ove tuttavia continua a stare: il Giuda Montanini rimase presso di me.

CAPO V.

Il Re e la Sua Corte.

Il giornalismo ed i suoi corrispondenti, la maggior parte de' quali, come o ragioni a credere, sono quelli stessi che diconsi emigrati, per pretestata devozione al Legittimo Sovrano, hanno più e più volte ritrattato il Palazzo Farnese: e vi è stata un epoca, in cui la calunnia ha esercitato il suo largo ed odioso mestiere.

La rivoluzione deve essere conseguente a' suoi principi, ed è naturale, che essa si studi a covrire col discredito la Casa di questo Sovrano degno di miglior ventura.

Potrei rispondere a questi calunniatori, ed alla stampa rivoluzionaria, e bene ne avrei il coraggio; ma sento il dovere di rispettare la legge, e di non abusare di quella libertà che essa mi accorda nello scrivere.

Epperò lascio alla rivoluzione di scagliare l'ultima pietra sui vinti, abbandono ad essa la cura di oltraggiare la sventura, lascio alla stampa salariata il turpe incarico di foggiar calunnie. Io sento troppo altamente di me e della mia dignità per abbandonarmi in queste vie.

Educato ad ultra scuola, posso liberamente portare alta la fronte, ed estraneo alle seduzioni del potere, parlo con rispetto dei vinti, perché ho il coraggio della propria opinione.

Mi perdonino i miei concittadini queste parole; ma se essi avessero, al pari di me, avuta l'opportunità di conoscere da vicino questa nobile per quanto sventurata famiglia, avrebbero lealmente respinte quelle indegne relazioni, di cui si è fatto così bello il giornalismo; come avrebbero conosciuto in che sta la vera causa delle scissure della Corte al Palazzo

Francesco II non è più il giovine inesperto, che fu così facile il detronizzare: la sventura è stata per Lui una grande scuola, ed Egli ha colla stessa guadagnato moltissimo.

L'esilio, cui è condannato, non pesa sul suo cuore per sé: Egli lo sopporta con nobiltà, e con serenità: né il perduto splendore del Trono, né la mancanza istantanea delle sue vaste ricchezze abbattono il Suo animo.

Egli ha il pensiero rivolto continuamente a questi popoli, ed il suo cuore si ripiega alla memoria dei tradimenti, e delle ingratitudini di coloro, che tanto contribuirono alla sua caduta.

Se Egli fosse stato cacciato dal Trono dal popolo, avrebbe chinato il capo al terribile verdetto; ma la storia è là, che a lettere indelebili ha scritto le vicende della rivoluzione del 1860, nella quale Francesco II è la vittima degli errori del governo del padre, e della rivoluzione sostenuta potentemente dal braccio di uomini, che han già tramandato un nome d'infamia agli avvenire; perché in vece di gratitudine resero il tradimento al beneficio.

Francesco II è visitato da quanti Diplomatici e Gentiluomini esteri giungono in Roma; e tutti, se entrano al Palazzo con idee forse preconcette e svantaggiose contro il Real Esule, ne escono ben altrimenti convinti.

È notevole, che dalla Sua bocca non uscì mai una rampogna contro Re Vittorio Emanuele: Egli venera assai la memoria oramai venerata sugli Altari della Santa Sua Madre, e non osa neppure un lamento contro l'Illustre Congiunto, che occupa ora il Suo Trono.

Anzi Francesco II è dotato d'un indole così docile, che se vi ha difetto in Lui (perché tale bisogna considerarlo in un

è la soverchia bontà d'animo: ed infatti, se non cedesse cosi facilmente alla pressione di coloro, che lo circondano, e si tenesse più fermo ne' suoi principi nel momento di attuarli, risparmierebbe a sé stesso molti dolori, e distruggerebbe quel resto di pianta parassita, che si abbarbica ancora ostinatamente intorno alla Casa dei Borboni.

Nel dipingere le vere condizioni politiche della Corte del Palazzo protesto che io distinguo negl'individui, che dovrò nominare, la personalità dai principi politici.

Dichiarando il mio più profondo rispetto per la personalità, stimando in ciascuno i titoli, la nobiltà, la famiglia, mi credo libero di lodarne o censurarne i principi politici; avvegnacché in questi io trovi l'espressione di uomini, che possono essere la fortuna o la sventura del mio paese.

La quistione Italiana è ancora indiscussa, e si sa che la Diplomazia se n'occupa sempre, oggi forse più che mai: è dunque mio dovere mandare un grido d'allarme, affinché i tristi non ingannino la pubblica opinione.

Lo ripeto: io mi faccio nemici implacabili per quanto potenti; ma non li temo, purché io distruggendoli possa rendere un gran servizio alla mia patria.

Quando giunsi in Roma, naturalmente cercai di vedere il Re, cui era stato riferito il mio arrivo.

Si crederebbe? - mi si crearono tali ostacoli, che sulle prime mi riuscì difficile di penetrare nella Real dimora.

Compresi donde mi veniva la guerra, e mi avvidi, che in Roma mi toccava la sventura di cominciare una lotta con coloro, che io aveva serviti e beneficati a

E la lotta incominciò: io vidi il Re.

CAPO VI.

Napolitana al cospetto de' Romani.

Eccomi dunque in Roma, lontano dai miei e dalla mia patria a scontar l'esilio, cui mi era condannato.

Eppure, ciò che alleviava la mia sventura, era il vedermi fra tanti miei compatrioti.

Mi reputavo fortunato in trovarmi fra tanti uomini, che io amavo come fratelli, per aver essi corso la mia stessa sorte. Credeva fermamente, che essi trovandosi nelle stesse mie dure condizioni, e guidati dal medesimo programma, avessero agito concordemente nello interesse della Causa del Re, e della comune patria.

Ha tosto ebbi a disingannarmi. -Essi erano scissi in partiti.

Per procedere alla narrazione dei fatti, che motivarono questa scissura e quindi accanita lotta, cui malauguratamente dovetti pigliar parte, fa d'uopo innanzi tutto dare uno sguardo retrospettivo alla storia.

Caduto l'ultimo baluardo della Dinastia Borbonica, che con tanto eroismo erasi sostenuto dalla giovane Coppia, il Re si condusse in Roma: in quella Città, che già tanti Principi resi privi del Trono raccolse. Ed i Romani, d'indole generosa come sono, lo accolsero con plauso, e dirò francamente, con ammirazione. Segnatamente i liberali, eccetto pochi giovinastri, rispettarono la Reale sventura, e plaudirono ad un giovine Re, erede di non sue colpe, che aveva combattuto, finché rimasta non gli era in pugno, della Sua spada, che l'elsa.

Il Re era da molti seguito, e molti man mano sopravvennero. Roma cominciò dallo stimare quelli che lo seguivano.

Primo tra questi era il Marchese Pietro Ulloa, noto da molti anni per le sue scritture, e tenuto in pregio come uomo d'ingegno. I liberali Romani rispettavano il suo convincimento, che lo avea fatto esporre ai pericoli della guerra in una età già matura, e ne commentavano l'indole moderata e le dottrine.

Il di lui fratello Antonio, Direttore del Ministero di Guerra, il Principe di Ruffano, il Commendatore Ruiz, Segretario Particolare del Re, il Generale Pasca, ed altre poche onorevoli notabilità, formavano il corteggio del Difensore di Gaeta; e Roma, come diceva, li stimava.

Indi a poco sopraggiunse il Generale Girolamo Ulloa, quindi il Duca di Gallo ed il Duca di Maddaloni; il Duca della Regina ed il Duca di Civitella, e molti altri distinti ed onesti, per quanto pregevoli personaggi, i quali accorrevano a far splendida corona intorno al Real Esule.

Coloro che avean preceduto il Re, fino dal mese di Giugno del 1860, eran tutt'i vecchi strumenti di una camarilla, che fece d'un governo una tirannide. Eran riparati in Roma, cac

Tra questi furonvi due celebrità: il perpetuo Ministro Murena, di cui parlerò di qui a poco, e Pasquale Governa, già Prefetto di Polizia in jena plebea, e di modi e linguaggio da trivio; e finalmente un gran seguito di birri e cagnotti di ogni maniera, i di cui aspetti spargevan terrore, ed eccitavano ira ne' Romani.

Tutti costoro ispiravano ribrezzo; ma il maggior disprezzo era per qualche Generale e per alcuni Capi della sciolta Milizia, i di cui nomi val meglio tacere, per non essere obbligato a notarne le colpe; locché cagionerebbe dolore al paese rammentandogli il pessimo procedere di taluno di essi. Dirò solo, che i Romani non sapevan comprendere, come tutti questi eroi preferissero, chi di seguire la Regina vedova da Cavaliere, e non restar Soldato in Gaeta, chi da Capitano delle Reali Guardie del Corpo, raggiunger Roma da privato, e non seguire il proprio Re nella pugna; tutti infine ripararono in Roma per fuggire i pericoli della guerra!

Ma si i primi, che i secondi, ebbero per qualche tempo la prudenza di vivere ritirati ed oscuri. Il solo ex Ministro Salvatore Murena, mostravasi facendo il picchiapetto per le Chiese.

Venuto il Re, tutti facevan sembianza di ripudiar il loro passato; essi e le loro famiglie parlavano di Costituzione e plaudivano il Proclama del Re fatto in Gaeta agli 8 Dicembre 1860!

Ma non appena cominciò la reazione, non sì tosto si parlò de' successi di Chiavone, di La Gala e di Ninco Nanco, che subito ridestossi in essi la superbia. Tutti costoro credettero di poter tornare in sognando un nuovo Cardinal Ruffo! Da quel momento il linguaggio mutò. Quei, che stavano a canto al Re, si dissero rivoluzionari; l'Atto di Gaeta un tradimento; il Marchese Ulloa, che lo aveva consigliato, un reo di crimenlese. Che gridi, che calunnie non udiron i Romani! Di qual intrighi non furon da quel momento spettatori! Dissi come il Re fosse bene accolto; e di fatti i liberali Romani pensavano, che se i destini d'Italia compier non si dovessero, sarebbe sempre un gran vantaggio di aver sul Trono di un Principe istruito; ammaestrato dalla sventura e largo di oneste libertà a' suoi sudditi.

Ma presto ebbero meno ad osservare che ad udire, dagl'irrequieti napoletani, bugiarde manifestazioni che valevano a mettere in dubbio la Sua politica.

Gli uomini del passato eran quelli, che constentemente intendean loro cure a questo lavoro, gridando per tutta Roma, che il Re faceasi influenzare da Ministri traditori, che ne travolgeano le idee, consigliandolo a rinnovare le promesse di Costituzione...

Che dunque pensar dovea Roma, quando negli strati bassi della società di questi esuli, vedeva trecconi, e paltonieri, e negli alti bigotti, ignoranti ed intriganti, da' quali partiva la critica che si faceva contro uomini probi che in prova della loro fedeltà si erano esposti a' pericoli della guerra; e poscia eransi ridotti in esilio?

Da ciò la profonda scissura nella Napoletana. Da ciò intrighi d'ogni sorta contro uomini onorevoli, ad altro non intenti, che a mantener alto il concetto della promessa politica del detronizzato Re.

Da ciò il Re tacciato di debolezza, i suoi Ministri di tradimento; da ciò la indisciplinatezza nella bassa verso de' superiori, non escluso il Re stesso inficiato da' più abbietti impostori, riparati in Roma, non compromessi, né devoti alla caduta Dinastia. Da ciò infine quelle spiacevoli conseguenze, che tuttodì si verificano con grande soddisfazione della rivoluzione; ma che forse Dio permette, affinché il paese e Francesco II conoscano quali sieno i perfidi, e le loro sempre inique aspirazioni.

CAPO VII.

La politica di Francesco II, i partiti politici ed il Marchese Ulloa.

Inesorabile sostenitore della verità, immolerei piuttosto la mia vita anziché mentire per nascondere il vero. Colla coscienza adunque sulle labbra, siccome mi è dato di rivelar il tristo, così non esito punto, per umani riguardi, a narrare il buono. - Intendo parlar della politica di Re Francesco.

Francesco II è fermo nei principi d'un Governo Costituzionale. E se la rivoluzione gli addebita una politica instabile, Francesco II deve

questa immeritata taccia a quell'avanzo di Camarilla che fu la rovina del padre e Sua; e che standogli d'attorno forma una potente arma nelle mani de' Suoi nemici per denigrarlo. Ma Egli si tiene fermo al Suo Proclama di Gaeta, ed è convinto lealmente dell'impossibilità di ricondurre i popoli sulla via del regresso sociale.

Espressione di questo Suo Programma è il Marchese Pietro Ulloa, che rappresenta presso di Lui le funzioni di primo Ministro, per la necessità d'una rappresentanza a fronte di quei Gabinetti, che tengono un Rappresentante a Roma, accreditato presso il caduto Sovrano.

Il Marchese Pietro Ulloa, quando regnava Ferdinando II, era in fama di principi liberali, ovvero nemico del Re secondo ] gl'ignoranti! Epperò inviso dalla famosa Camarilla, la quale, ' ritardò quanto più potea la carriera di Magistrato, che l'onorato e dotto Ulloa percorrea con pubblico plauso. V. La vita politica del Generale Girolamo Ulloa, che nel 1848 rimase fedele al vessillo della Costituzione, e fece rispettare), e temere la divisa dell'Armata Napolitana nei campi Lombardi contro l'Austriaco, formava grave colpa per l'onorato Giureconsulto.

La rivoluzione del 1860 rivelò che Pietro Ulloa era stato calunniato ed ingiustamente perseguitato; e che suo fratello Girolamo, ritirandosi dalla vasta scena, in cui si trovava al, pari dei suoi compagni d'armi e d'esilio naturalmente collocato, pruovò com'egli non volesse la distruzione dell'autonomia e dell'indipendenza della sua patria, per quanto ne avesse sostenuto il diritto ad un regime liberale. Quindi rinunciando ad una luminosa posizione, che egli aveva nell'Armata Italiana, noi lo abbiamo visto tra quelli che raggiunsero il caduto Monarca in Roma; e donde, amareggiato anch'egli dalle continue insolenze della

sfrenata canaglia sanfedista

, lo abbiamo, non ha guari, inteso allontanato!

Stimo pure utile di ricordare a' lettori, che quando scoppiò la rivoluzione, e Garibaldi approssimavasi a Napoli, quasi tutti gli antichi fedeli a' Borboni e gli Aristocratici, dimenticando ogni principio di onore e di dovere, obbliando i favori ricevuti, l'abuso fatto della Reale protezione, abbandonarono il Giovine Sovrano: ed emigrarono in Roma ed in Francia, più per paura

e per salvare sé stessi, che per omaggio alla sventura del Re, lasciandolo cosi in balia de' pericoli d'una guerra e d'un'assedio a Gaeta.

E molti di costoro ora vantano fedeltà, disinteresse, coraggio ed onore; ed ascendono il Real Palazzo Farnese, e pretendono di informarlo a' loro consigli ed alle loro massime..) Pietro Ulloa, che se avesse voluto anche rimanere in paWtria, avrebbe conservata la sua pensione di giustizia colla) quale menerebbe una vita agiata; e che se pur avesse voluto, ) come tanti altri, riconoscere e seguire la rivoluzione, sarebbe salito al posto di Ministro d'Italia; preferì di seguire a Gaeta il tradito Monarca, dividere con Lui i rischi di quell'assedio, e condannarsi ad un esilio volontario, che nella sua età cadente è reso più amaro dalla guerra ostinata, che gli viene dagli uomini del partito avverso.

Sento il dovere di rendere al Marchese Pietro Ulloa questa testimonianza di rispetto: egli per quanto è fermo nei suoi principi politici, l'unico che Francesco II abbia per sé, capace di prendere la penna diplomaticamente, l'uomo since] ramente fedele, e devoto alla Dinastia; altrettanto egli vive nobilmente rassegnato alla più onorata povertà, avendo respinto, senza obblighi, agiatezza e riposo.

Se il partito avverso comprendesse i proprl interessi, e la onestà di questa veneranda vittima della Causa dei Bortoni, dovrebbe stare in adorazione innanzi a quest' uomo, anziché insidiarlo.

Pietro lilloa, e quanti dividono i suoi principi politici, che. sono quelli del Re, è bersaglio alla invidia di quel partito, i di cui componenti non sono, che uno stralcio della vecchia consorteria, forse nemici dello stesso caduto Sovrano, jwrcAè 1 liberaie; capace di soppiantarlo per un'altro Sovrano, purché costui fosse assolutista e ponesse a capo del Governo quegli uomini che furono la sventura di Perdinando II e del paese. i Non posso però tacere, che il Marchese Ulloa deve questa.. guerra alla sua imperdonabile longanimità, che ha reso più (baldanzoso quel partito, il quale non lascia occasione alcuna, onde discreditare lui e quanti sono con lui.

Tutto aver deve un limite; né la generosità di animo è virtù quando è fomite al vizio; allora s'interpreta per debolezza, ed invece di correggere i tristi, li rende vieppiù audaci.

Questo partito retrivo, che è in minoranza a Roma

nell'emigrazione, ha per condottiero il famoso ex Ministro Salvatore Murena.

Ad onta che dallo stesso Governo Austriaco oggi si riconosca la necessità indeclinabile di un Governo più rispondente al progresso sociale; ad onta che lo stesso Re Francesco II sia deliberato a restare nei principi d'un Governo Costituzionale; ad onta che i popoli dell'Italia Meridionale universalmente reclamino l'assoluta scomparsa di uomini, che loro sono stati fatali quanto la rivoluzione stessa; questi assolutisti, questo avanzo della Camarilla del dodicennio, sognano ancora d'imporsi al paese, al Re, ai Gabinetti Esteri, all'Europa.

Laonde tutti coloro che, o per proprio convincimento, o per ossequio alle mutate condizioni della politica, o per necessita inevitabile, si accostano al Programma di un regime Costituzionale, sono odiati dalla setta, capitanata dal Murena; e si mettono in atto tutt'i mezzi per disgustarli col Sovrano, e costringerli ad allontanarsi dal Palazzo Farnese e financro da Roma: onde quel partito restando padrone del campo, cercasse piegare il Re intieramente alle sue perverse voglie.

CAPO VIII.

I Costituzionali e i Sanfedisti.

Come testé ho detto, la emigrazione napolitana a Roma è scissa in partiti; ed io sventuratamente debbo riconoscere ciò che a questo proposito in Napoli si ripete.

Il Re, per quanto si affatighi a conciliare questi partiti, altrettanto essi si separano.

L'uno, come ho detto, è il Costituzionale Monarchico; e questo è numeroso, il più compatto ed autorevole: ed ha per Duce Francesco II ed il Marchese Ulloa.

L'altro, cui non spetterebbe neppure il nome di partito, dicesi puro, ossia, a rigor della parola, sanfedista. - E questo è microscopico, ed è, come ho esposto, capitanato dall'uomo delle tenebre... Murena! Egli credesi potente, perché presume di avere per sé le simpatie Clericali.

Degno di compianto è il vedere, come i sanfedisti, a furia di calunnie, di denunzie, di sobillazioni, e di quante arti volpine possano immaginarsi, tentino di soppiantare il partito Costituzionale.

Ma mi si dirà: quale è l'attitudine politica di cotesti partiti?

Fedele alla verità, debbo con rammarico confessare, che per quanto profìcua fosse quella del partito Costituzionale, i di Il cui mezzi per difendere la Causa Legittima furono sempre dignitosi e del tutto morali; altrettanto è nociva quella dei sanfedisti.

Essi non sentono, che sete di oro, e di vendetta; ambizione al potere! Piuttosto di vedere effettuata la restaurazione di Re Francesco sotto forme rappresentative, che li escluderebbe da qualunque ingerenza nella cosa pubblica, lavorerebbero con ardore a renderla impossibile!!!Ognun di loro si dice: o con me, o che la Dinastia vada per sempre in frantumi!

Il mai abbastanza abborrito Murena, di sbieco dirige l'azione di quest'accozzaglia. Quanto ha saputo fare fìn qui per discreditare la Causa che vorrebbe far credere che egli difenda, lo dice chiaramente la meschinità dei suoi concetti reazionari, il niun esito dei miserabili tentativi.

Ed infatti; qual risultato Inni dato cinque anni del complottare di quei stolti? Grosse bolle di sapone ai brillanti colori del prisma; ma che dopo istantanea vita si fondono in una gocciolina di acqua. Non così pe' sanfedisti, pe' quali la gocciolina di acqua è rappresentata da buoni scudi!! E non mai il denaro carpito a' gonzi è ritornato alla sorgente. Io suppongo, che dopo il lungo strombazzare della stampa rivoluzionaria molti ritengono, che a Roma vi fossero vaste organizzazioni, imponenti Comitati, a di cui Capo fosse Francesco II. Quale inganno!

A Roma non vi è che fantasmagoria; giuochi da prestigiatori per taluni, onde scroccar denaro a' sciocchi; per altri meritare il titolo di martire per farlo valere all'uopo.

A I sanfedisti son mendaci. Essi per trarre nella rete gl'ignoranti, si danno a credere intimi del Re; che tutto ciò che essi inventano, siano ordini del Re. E cosi ognun crede fermamente, che il Re fosse connivente nei miserabili loro intrighi.

V'ha tra questi spudorati, chi per far credere sia in continuo contatto col Re, spesso entra nel Palazzo Farnese; e dopo di essersi trattenuto per poco sotto quel porticato, ne risorte, vantando con chiunque s'imbatte di venirne dal Re, da cui ha ricevuto il tale o tal altro incarico!

Lo dico, perché Francesco II sa pur troppo, chi siano gli attori di questa commedia; e Io dico ai miei concittadini, onde respingano le indegne insinuazioni di quei tristi, che tendono a toglier loro la libertà individuale.

Mi credo nel dovere di dichiararlo: Francesco II è estraneo a' maneggi politici de' sanfedisti.

Io, che sono stato testimone oculare, posso dire, che al Palazzo Farnese erano altamente deplorati questi inutili sforzi. rii uomini, che hanno un nome si discreditato presso il popolo napolitano: che pregiudicavano anziché giovare la causa che suppongono di sostenere con mezzi che in sé stessi sono degni di odio.

E Dio sa, quanti disonesti han congiurato esclusivamente contro la borsa di Francesco II, che ha più volte riparato ai loro conati, che ne compromettevano gli autori senza scopo alcuno: dando così alla rivoluzione un'arma per attribuire a quel Sovrano Esule le imprese di pochi, che han compromesso tanti innocenti.

In compruova di tutto ciò, basterebbe dare uno sguardo agli scritti sottratti al Barone Cosenza, testé pubblicati dal giornalismo, da' quali altro non si rileva, che immaginari piani, ridicole organizzazioni, sognati successi, scambievole critica fra i componenti quella congiura, ed in ultimo la confessione dell'odio dei puri verso il Marchese Ulloa e quanti dividono le sue idee politiche. Dov'é la connivenza del Re?

Ciò che affligge il mio animo, è il vedere implicato in quella processura un Duca di Civitella!

Io non intendo di censurare l'opera del Tribunale; non posso tacermi però, che il Magistrato sia stato tratto in inganno, ritenendolo complice di quella cospirazione, sol perché nelle carte sorprese al Barone Cosenza si rinveniva una lettera del Duca di Civitella a quegli diretta (1) e alla quale si è voluto ilare sinistra interpretazione.

(1) In sul principio del 1863 alcuni ex Uffiziali del disciolto Esercito Borbonico facean giungere al Re in Roma una loro istanza, colla quale

Lo dichiaro, affinché la pubblica opinione non giudichi altrimenti. È ben provato, che il Duca di Civitella non siasi mai insozzato col porsi a contatto con gente disprezzata da ogni onesto; e eh et sia stato invece tenuto da quegli uomini in conto di rivoluzionario, di Massone, e di Murattista. E so di certo, che tra le carte del Cosenza, eravene alcuna, donde risulta la vigilanza, cui i sanfedisti avean sottoposto il Marchese Ulloa, il Duca di Civitella ed altri, fatti segno alla loro persecuzione, nello scopo di allontanarli dal Re.

Ritorniamo al merito della cospirazione in parola. Lo stesso Barone Cosenza che io ritengo onesto, ma degno di rimprovero, confessa ora, che le relazioni con alcune bande, giusta la menzione che se ne fa nel suo processo, non esistevano: ed egli ed i Comitati erano ingannati da agenti venali, che carpivano danaro, per viaggi che non facevano; per versar somme che poi non versavano, per fare acquisto di armi che non acquistavano ecc.

Chiaro adunque appare, che quando i sanfedisti di Roma e loro corrispondenti facevano i loro piani di Rivolta, contavano su elementi che già sapevano di mancare a quanto promettevano.

Programmi, congiure, organizzazioni non sono mai esistite che sulla carta, o nella fervida immaginazione, come gli ottantamila uomini di Bishop, ed i sessantamila fucili del Faicco.

Gli uomini si compendiavano negli speculatori- i fucili, l'una diecina per caccia, e che ad imitazione dei pani e dei pesci si doveano moltiplicare!

Oh! Se l'Italia non avesse altro a temere, che le cospirazioni dei sanfedisti... può dirsi fatta!

Il partito sanfedista adunque, come io diceva, non sente che sete di oro; a misura che questo vien meno, esso si dissolve, per poi ricomporsi quando si spera novellamente nel lucro.

Vi ha chi fornitasi la valigia vuota, si è ritirato dal campo, ed ha preso il largo per tirare innanzi l'esilio col denaro

esponendogli lo stato miserevole in cui trovavansi, chiedevano di essere autorizzati dall'Esule Sovrano a potersi mobilizzare come Guardie Nazionali. L'autorizzazione fu dal Re accordata, ed il Duca di Civitella ricevette ordine di passarla al Barone Cosenza, il quale com'era stato Uffiziale graduato, poteva comunicarla agl'interessati.

i dei poveri gonzi. Chi rimpatria e Unisce per vendersi vergognosamente come spia!

E tutto questo io vedo ripetersi sventuratamente ogni dì: per cui mi convingo sempreppiù, che il partito sanfedista non che un'accozzaglia di speculatori riparati in Roma, per far mercato. Finito il denaro, finisce la fedeltà, che ostentano.

CAPO IX.

L'ex Ministro Salvatore Murena.

Chi non conosce questa vipera?

La sua Amministrazione, all'epoca del suo Ministero è troppo nota a' miei concittadini; molti tra essi furon vittime dell'abuso e della prepotenza di questo mostro; vive son le ferite da lui cagionate a tanti impiegati, che furon condannati a servire il Governo o senza un soldo o con meschino stipendio. Da ciò la mancanza a' propri doveri, indelicatezze e infedeltà al Governo. -Chi non sa come quest'uomo, credendo d'ingraziarsi col Sovrano, tolse a numerosi orfani e vedove, e ad altri ridusse le tenui pensioni che godevano? Questo atto solo basterebbe per dipingere l'animo di questo iniquo.

Quest'uomo è nato pel male; fiero nei suoi propositi di vendetta, colpisce tanto più sicuramente, quanto più cerca di nascondersi.

Per chi ha letto l'Ebreo Errante di Eugenio Sue, al solo primo incontrarsi con Murena, è spontaneo il dire-ecco il famoso Rodin!!!

Ipocrita sino all'esagerazione, per quanto scellerato nell'unima, questo demone in sembianza umana, fa inservire la Religione ai suoi pravi disegni.

Piccolo di statura, mingherlino, con la faccia del colore della mela cotogna, lo vedi camminare per le vie di Roma, calzando un pajo di scarpe rotte, col cappello unto e fatto rosso dal tempo, con un abito sdrucito e logoro, sì che ti pare ch'egli senta freddo in Agosto: tutto curvo e rannicchiato, col collo torto, con lo sguardo dimesso, portando sempre un Rosario in tasca... -questa effemeride umana, questa

Egli ha l'arte diabolica d'ispirare il sentimento della pietà ed il giudizio della virtù.

Chi lo vede a prima vista così camuffato esclama - Ecco un Ministro virtuoso di Ferdinando II ridotto a mendicare il pane; ecco una vittima dei rivoluzionarii

Or non è molto che a Palazzo il negromante ha finito di far breccia, lo so bene; perché poco mancò, che col celebre suo foglio, il Progresso Sociale, avesse reso un pessimo servizio a Francesco II. Ma al Vaticano è più accessibile, ed à ottenuto dalla troppo abusata pietà di Pio IX, sul suo peculio particolare, una pingue sovvenzione mensile.

A questo Murena, come dissi, si accostano tutti coloro che sono naturalmente malcontenti della politica liberale di Francesco II, e sono precisamente quelli che credono ancora al feudalismo; quelli che sospirano i beati tempi della prepotenza e dell'abuso.

Tante volte io ho pensato, che costoro sarebbero stati degli eroi, se avessero potuto avere i grandi poteri della Legge Pica; se poterono rendersi cosi odiosi a furia di pungere e di torture il popolo con le loro ributtanti maniere.

Murena in cuor suo odia Francesco II; Io disprezzò apertamente, quando regnava Ferdinando II sino a meritare una volta le aspre rampogne del Re, allora Principe Ereditario; e quantunque, dopo la morte di Ferdinando II, caduto in disgrazia, ebbe l'arte diabolica d'insinuarsi nell'animo di Francesco II, pure non si darà pace della sua caduta proposta al medesimo da Filangieri, come condizione assoluta della sua entrata al Ministero!

Quando io giunsi a Roma. Il Murena credette di trovare in, me il suo uomo, e non tralasciò di gittare le sue reti per avermi, quel che è peggio, in qualità di spia di Francesco II!!

Quest'uomo, la cui malignità misurai d'un tratto, mi fe ribrezzo, e non solamente mi niegai alle sue offerte, ma volli i pagarlo della stessa moneta.

Mi decisi ad invigilarlo, perché lo ritenni un traditore del Re.

Questo Murena, lo dico francamente ai Napoletani, e lo scrivo perché Francesco II lo tenga bene a mente, è qualche cosa che riunisce il vile, l'ipocrita, l'assassino del Re e del popolo.

Non si creda, che io scriva a questo modo per ricambiargli il male che mi ha fatto: se non dimorasse in Roma, lo avrei preso a calci a quest'ora dovunque lo avessi incontrato, tanto è il concetto che ho di quest'uomo: ma io credo di rendere un servizio al mio paese col presentargli quest'uomo nel suo nudo e vero aspetto, affinché se ne tenga nota in ogni tempo.

CAPO X.

Il Duca di Popoli

Son dolente di dover riandare la vita di questo soggetto; ma la necessità di giustificare la esposizione di cose incredibili me lo impone.

Io non intendo accusare, molto meno di oltraggiare; e se descrivo questo cenno biografico, lo fo per dimostrare come la cattiveria è nella natura dell'uomo sviluppatasi maggiormente in circostanze anormali.

Il Duca di Popoli adunque è uomo, che (salvo la nobiltà della sua casata) è una nullità superlativa in politica. Godeva al Palazzo di quella considerazione che merita ogni gentiluomo, che si rende devoto alla sventura di un Sovrano; e se il Duca di Popoli ha fatto furore sotto le spoglie di un programma politico, deve questa vanagloria all'imprudenza dei rivoluzionari; perché in fatto egli al Palazzo ritenuto uomo di niun valore politico.

L'illustre Duca nel 1848 per farsi merito nulla avea saputo far di meglio, che spianare, facendosi l'eco dei più vili poliziotti, e fino facendola personalmente da birro. Per lunga pezza continuò in tal professione, passando la sua vita nel Club Militare, riferendo poscia su i discorsi decomponenti di quello.

Tutto ciò è tanto cognito nella Città, che il ricordarlo non è una novità, non è viltà; giova altresì a stabilire dei precedenti che spiegano tutta la condotta successiva del Duca di Popoli.

Egli in sul principio di Agosto 1861 fu espulso da , e si trasferì a Parigi, e di là, dopo poco, recossi a Roma.

Quivi giunto credendosi già Ministro di Polizia, e volendo restar solo accanto al Re ambizioso com'é di onori, ed aspirante a tutto, istituì il più crudele spionaggio su tutti, e. massime su quelli che più avvicinavano il Real Esule. Eran suoi strumenti degli ex poliziotti Napoletani cacciati in bando dalla pubblica indignazione, ed altri che si eran rifuggiati in Roma non perché compromessi politici, o per devozione al Sovrano; ma che, per aver preferito di restar vittime della vigliaccheria, si eran sottratti ad una pugna doverosa ed onorevole, solo contenti di abbandonarsi alla deboscia ed alimentar la vita pitoccando dalla pietà de' Romani e dei, facoltosi aristocratici Napoletani.

A questa turba di famelici intriganti ed ignorantissimi si univa una geldra di preti e di frati, e di antichi gendarmi Pontifici capitanati da un famoso Maggiore Mascalco!

Dir le cose fatte da questi poltroni; i vanti e le maledizioni a questi e a quegli, non risparmiando il Papa, tornerebbe spiacevole.

Al loro dire, in ogni Esule, in ogni Romano, vedevasi un traditore del Re; un cospiratore; un'agente rivoluzionario; un ladro, un furfante.

Il Commendatore Ruiz, perla di gentiluomini, e notabilità di onore, fu dal Popoli impudentemente dipinto come un demagogo, che recavasi di continuo al Palazzo Piombino (1); che si corrispondeva co' rivoluzionari in Torino; che infine tradiva i segreti del Re nelle mani de' suoi nemici.

Il Duca di Gallo, il Duca di Civitella, il Duca della Regina, il Principe di Ruffano ed il figlio eran dapprima Massoni, poi li disse Murattini, e parlò di pranzi, di brindisi e di riunioni a suo dire rivoluzionari, e di tutti i movimenti di questi onesti Gentiluomini, fatti segno alla sua poliziesca persecuzione.

Dopo la morte del Principe di Ruffano, e l'allontanamento del figlio da Roma, l'ira del Popoli scagliavasi tutta sul Duca di Maddaloni, e sul Duca di Gallo; il primo distinto pel suo ingegno, il secondo leale e franco suddito del Re. Il Duca di Maddaloni, i di cui talenti erano ammirati dal Re,

(1) Credasi che nel Palazzo del Principe di Piombino compromesso in politica, vi convengono i rivoluzionari Romani per cospirare!

non era altro pel Popoli, che un rivoluzionario in maschera di pentito, e consigliava il Re a tenersene riguardato. Il Duca di Gallo, in pria lo disse compromesso nella processura Fausti-Venanzi perché in essa faceasi menzione di un tal Gallo; e mentre assicurava il Re, esser questi l'identica persona del Duca di Gallo, ebbe poi a convincersi, che un tal nome riferivasi ad un'ex Ufficiale della sciolta Armata Napoletana, compromesso in quella processura.

In pria per mantenere la diffidenza nel Re verso di costoro l'onorevole Duca di Popoli faceva rapporti per convalidare i sospetti, ma stretto poi: dovea confessare che nulla vi era di positivo! Faceva nascere i sospetti, prendeva incarico di scoprire; metteva esca al fuoco per balordaggine ed interesse, e poi dovea pur confessare di essersi ingannato! E cosi non distruggeva la diffidenza fatta sorgere; e tutti, se non eran ritenuti dal Re come traditori, erano al certo guardati e tenuti in conto di uomini meno fedeli di quello che erano!!!

Questo fu il lavoro fatto dal Duca di Popoli ne' primi mesi dal suo arrivo in Roma; donde aumentata la scissura tra l'emigrazione Napoletana.

Ma questo gioco era già finito quando io giunsi in Roma, avendo il Duca di Popoli, forse, raggiunto lo scopo, di goder cioè egli solo della Grazia Sovrana. E tutti que' suoi satelliti s'eran da lui allontanati.

Io, per mia sventura, fui messo in relazione del Duca di Popoli, ed ignaro di questi suoi precedenti e del suo vero carattere, impresi a rendere dei servizi alla Causa del Re.

CAPO XI.

La vigilanza e la Cospirazione Borbonico Antilegittimista.

È noto come la permanenza di Re Francesco II in Roma sia di grave peso ai rivoluzionari, i quali credono fermamente che da ciò derivassero i mali, che pesano sulle nostre province. Dir le insidie, e le macchinazioni continue della rivoluzione, che si tendono contro quel Sovrano, onde rimuoverlo dalla Città Santa, sarebbe penoso lavoro.

Dirò solo, che quando io giunsi in Roma istruivasi una grave processata intitolata: Pausti-Venanzi, e dalla quale risultavano mille attentati ed oltraggi, giusta il disegno dei rivoluzionari, alle Reali Persone del Re, e della Regina Maria Sofia; particolarmente contro quest'ultima, nello scopo di impegnarla ad allontanarsi da Roma, locché avrebbe portato per conseguenza anche la partenza del Re!

Che indi un succedersi di emissari e di non pochi altri intrighi insidiavano la sicurezza della Reale Famiglia.

Scrupoloso esecutore de' superiori ordini seppi spiegare tutta la possibile attività, disponendo la più rigorosa vigilanza con tro chiunque cercasse di ledere il Re ne' suoi dritti, nella Sua Sacra Persona. E dirò in seguito, come avessi corrisposto a tale geloso mandato.

Il Duca di Popoli inrariravami di sorvegliare a preferenza il Murena, che veniva designato Capo di un Complotto Borbonico-antilegittimista!!!Scrivo queste terribili parole col più pronunziato sangue freddo, avendo la pruova di ciò che dico, e questa pruova sta a cognizione degli stessi Napoletani sin da quando Ferdinando II era agonizzante.

Ricordo, che nell'Aprile 1859 mentre questo Sovrano si avvicinava alla morte, un partito, non si sa se spinto dalla rivoluzione, la quale cominciava a mandare qualche guizzo, o da altre private aspirazioni, cercò d'impedire la successione legittima di Francesco II al Trono.

Un ordine del Principe Ereditario, che già avea assunto le cure dello Stato, prescrisse lo arresto di Nicola Merenda, da tradursi nel Castello di Palermo.

Il Ministero di allora si pose sulle tracce di questo intrigo per mandarlo a vuoto: si eseguirono alcuni arresti, e si compilò un voluminoso processo.

Fu spedito il Generale E... a Foggia, ove stavano i capi delle fila del complotto, e riesci nella sua missione; ma al suo ritorno in Napoli le carte scomparvero dalla Segreteria particolare del Re: e si disse che ciò fosse stato fatto per volontà dello stesso Francesco li, il quale con un atto di Sua somma clemenza perdonò tutti i colpevoli non appena ascese al Trono.

Nel 1863 questa farsa si volea ripetere a Roma da que' tali: e primo allora n'era il Murena.

La vigilanza cui lo sottoposi fu severa, ed io riuscì a scovrire i suoi agenti in Napoli, in persona di un ex Intendente if M e di un già Sottointendente S Questo iniquo lavoro andò per la seconda volta a vuoto!

Dirò fra poco come questo rettile, Murena, cercò vendicarsi di me, e come nelle sue spire avvoltolando il Duca di Popoli (mentre questi dapprima gli era avverso), m'inimicò ' non solo col medesimo, ma se ne servì d'un arma, per uccidermi nella reputazione, nella vita civile, e distruggermi radicalmente.

CAPO XII.

I Giovanna de Verris, o la Cugina del Duca di Popoli.

Oramai è noto che il Duca di Popoli è dominato da una donna, chiamata Giovanna de Verris; lo dico, perché non è un mistero, sia a Roma, sia a Napoli: e perciò non rivelo cose nuove e non accuso chicchessia.

Quello che è specialissimo per me rapporto a costei, è che quando io fui messo in relazione col Duca di Popoli, fui lieto di trovare nel medesimo un fedele servitore del Re Francesco II; e benché io dissimulassi con lui il vero concetto, che di lui si fa (e non potrebbe essere diversamente) al Palazzo Farnese; pure lo amava sinceramente, vedendolo nella classe degli emigrati, che erano in odio al Murena, ed alla setta dei poliziotti, che formano la sua armata.

Quando conobbi il Popoli, costui mi presentò alla de Verris, che mi fe credere una sua Cugina, ed io ci caddi di peso, sino al punto da reputare mio dovere di prestarmi ai suoi comandi.

Debbo dirlo? Io divenni il confidente del Duca di Popoli, il quale per me non avea più segreti; e se mi dispiaceva qualche cosa in lui, era il vedere come egli con tanta leggerezza metteva la sua Cugina a parte di segreti, che è sempre imprudente affidare a donne in generale.

Nei primi giorni dell'Aprile 1863 la voluta Cugina del Duca f si recò in Napoli.

A dì 24 detto Aprile (ricordo le date) il Duca m'incaricò di un passaporto per una tale L.... S... che dovea recarsi a Napoli.

Nella sera del 30 Aprile la sedicente Cugina del Duca torna improvvisamente a Roma: io mi vidi sollecitamente chiamato a casa del Popoli, ove trovai la Cugina che fremeva, il Duca che era diventato ebete, la servitù impaurita.

La Cugina, come mi vide, volea che l'avessi accompagnata

immediatamente in Polizia per denunziare... la S... che (a suo dire) le avea fatta una denunzia a Napoli, in seguito della quale ella avea sofferta una perquisizione domiciliare.

Restringo questo disonorevole episodio a brevi parole; per non insozzare la mia penna; nella intelligenza, che laddove si cercasse di mettere in dubbio queste mie assertive, a costo di farmi promotore di scandalose rivelazioni esporrò altri particolari sul proposito.

La Luisa S... era una amanza del Duca, che nell'assenza della de Verris da Roma erasi quivi recata a supplirne il posto; e la Cugina, non era, che Giovanna de Verris, domestica del Duca, divenuta la di lui dominatrice.

Esse competevansi fra loro il possesso dell'onorevolissimo signor Duca, e quindi fra queste due rivali, erasi destato il demone della gelosia.

Non dirò con quanta delicatezza condussi questo affare, che il Duca mi avea caldamente raccomandato ad evitare scandalose pubblicità, che si sarebbero sicuramente diffuse fino al Vaticano ed al Palazzo Farnese.

La Luisa S... partì per opera mia.

Ed allora fu che conosciuta la vera condizione della de Verris, la trattai d'allora per quel ch'essa valea nella casa del Duca.

E si crederebbe?

Da ciò ebbero origine tutte le mie sciagure.

Questa donnaccia, che esercita un fascino sull'animo debole del Duca, fu la gran leva che capitò nelle mani... di Murena, che non mi lasciava di piede il mio Rodin.

La de Verris, disprezzata da me, corrivo di averla trattata come una gran donna, diventò la mia inesorabile nemica, si associò al Murena, mi fe inimico il Duca, e si prepararono le armi per distruggermi.

Sembra un romanzo ciò che scrivo; ma sono sventuratamente fatti verissimi, pur troppo noti a Roma intiera, ed a tutta l'emigrazione Napolitana.

CAPO XIlI.

I traditori, e le mie querele.

I lettori rammentano in un precedente articolo il nome di Achille Montanini; il birro che io beneficai tanto sino a farlo rimanere a tutto peso mio? Ebbene odano quest'altro vitupero. Poco dopo il mio arrivo a Roma mi si presenta un individuo che mi porge una commendatizia di un suo figlio prete, tal Francesco Saverio Conte, rimasto in Napoli, e che io avea conosciuto nella qualità d'impiegato del Monte della Misericordia, allorché tolsi in fitto una casa di proprietà di quel Pio Luogo, e di che parlerò più innanzi.

Il raccomandato era un esule; uno sventurato, un mio compatriota.:.... - e gli strinsi la mano.

Costui si chiama Ambrogio Conte.

Debbo un rimprovero a me stesso, quantunque tardo, ed è che non seppi profittare d'un consiglio, che mi venne da una scena cui fui presente tra il Padre Generale dei Minimi, Padre Torquato e questo Ambrogio Conte.

Il Reverendissimo si limitò a mettergli sott'occhi una carta, alla cui vista Conte tramutò di colore, e balbutì confuse parole di denegazione, di scuse, di giustificazioni.

Io non lessi il contenuto di quel foglio.

Il Conte mi divenne sospetto. Avrei dovuto abborrirlo!

Eppure non ebbi cuore di farlo: egli era povero e non conoscea alcuno a Roma; anzi credetti sospette le prevenzioni che contro di lui mi vennero dal Montanini, che quasi era geloso dei benefici che io rendeva al Conte.

E questi due briganti doveano essere gli strumenti più attivi nelle mani di Murena e della de Verris!

Ambrogio Conte abitava in una tettoia al Palazzo N. 5 in via della Tinta, insieme ad un suo figliuolo per nome Pasquale, da poco giunto da Napoli.

Colpito da improvvisa e terribile malattia, sprovvisto di ogni mezzo, abbandonato da tutti; seppi dal Barone Dottor Manfré, che la sua vita era per finire.

Nel Febbrajo del 1863 mi reco in quel triste bugigattolo, ne rimuovo Ambrogio Conte e suo figlio, e li conduco a casa mia.

Lascio da banda lo anarrare quel che mi costò quest'uomo nel tempo della sua malattia, perché perderei di molto in pubblicare un atto di carità a cui riscontro dovrò porre una corrispondenza d'infamia: io salvai dal sepolcro Ambrogio Conte, e lo tenni a mia casa insieme al suo figliuolo ove, invece di vivermi grati, e memori de' benefici prodigatigli premeditavano il più nero tradimento da consumarsi a mio danno. La de Verris, che conosceva Achille Montanini, conobbe del pari i Conte padre e figlio a casa mia.

Poc'anzi ho accennato all'incidente della sera del 30 Aprile 1863; è mestieri notare, che in quella occasione fuvvi tra me ed il Duca di Popoli una corrispondenza in iscritto; onde trattare, alla insaputa della de Verris, la partenza di Luisa S... per cosi evitare scandalose pubblicità, che la voluta

Cugina minacciava. Questo fatto, passato tra me ed il Duca nella massima segretezza, non era stato da chicchessia penetrato.

Un giorno, su i primi di Agosto 1863, essendomi recato, come al solito, dal Duca, m'imbattetti nella de Verris, che in vedendomi proruppe, con mia sorpresa, in ingiurie e contumelie; e conchiuse la sua chiassata minacciando di denunziarmi alla stampa pubblica.

Stupefatto e confuso dalle villanie della de Verris, non compresi donde derivassero tali sue minacce.

Vidi il Duca, con cui feci le mie doglianze, protestando di non più porre piede nella sua casa, onde non espormi ad ulteriori insulti.

Egli mi scongiurò a non abbandonarlo nell'interesse del Re, ed io d'allora gli feci pervenire le mie relazioni politiche per mezzo di lettere. Poi il vedeva spesso incontrandolo per istrada, ed egli non cessava di farmi mille esibizioni, mostrandosi mortificato per le inscienze commessemi dalla de Verris.

Poco dopo l'insulto fattomi da costei, Montanini avvisavami di aver trovato più volte aperto il suo scrigno; ed esortavami ad usar cautela, conoscendo, che io conservavo delle carte. - Io temo, dicevami, che costoro ci spiassero, alludendo ai Conte. Essi ogni sera recansi da Governa e da Murena!

Al solo sentir pronunziare il nome del Rodili, accorro al mio scrigno, e, pare impossibile, le lettere del Duca di Popoli risguardanti la S... la minuta di una lunga relazione da me fatta allo stesso Duca, sulla Cospirazione Borbonico antilegittimista, e molte altre carte contenenti notizie interessanti il Governo Pontificio... non erano più al loro posto... erano state involate!!

Pochi dì appresso, io mi sentiva denunziato alla rivoluzione merce i Giornali il Nomade ed il Diritto!!!Mi sovvenni delle minacce della de Verris fattemi nella casa del suo Duca. Erano i primi passi di sua vendetta!!!

Fu allora che tolsi il Duca di Popoli di mezzo a' miei affari politici, perché fui invaso giustamente dalla sfiducia; tantoppiù che sapevo, come ho accennato in altro articolo, che ci di tutto metteva a parte la de Verris.

E comunque il Montanini mi avesse avvertito, che sovente trovava schiuso il suo scrigno, pure essendomi assicurato che., tanto lui che i Conte erano nella più intima relazione colla de Verris, non poteva giudicare chi di essi tre era il traditore, la mia spia.

La prevenzione fattamisi dal Montanini intorno all'apertura del suo scrigno, non poteva essere stata fatta ad arte, onde allontanar così ogni mio sospetto da lui, ed escluderlo dalla complicità del misfatto?

Avrei dovuto cacciare tutti e tre dalla mia casa; ma in... . ' vece mi contenni prudentemente, dappoiché essendomi accertato mercé de' segni appostivi, che il mio comod veniva in tutt'i dì aperto e rovistato, miravo a sorprendere in flagrante il vero autore di tanta infamia.

Tolte quindi dal comod le carte politiche, vi lasciai pochi scritti di niun conto, e ciò per invitare il malfattore a continuare le sue ricerche; mentre io avrei tentato di farlo cogliere in flagrante dalla Giustizia.

Quali pratiche io avessi fatte per evitare un Giudizio, e dar termine a questo fatto in via economica di polizia, i lettori lo rileveranno dal Processo e dalla Ufficiale Difesa, che riproduco a pag. 53 e 94.

Ma alla sottrazione delle carte sopraggiunto un furto di denaro, mi decisi ad avanzar due querele, alla Direzione Generale di Polizia per la sottrazione delle carte l'una, al Tribunal Criminale pel furto del denaro l'altra.

Se nonché, mancando io di testimoni per un delitto che erasi consumato nelle pareti domestiche, conchiudeva tali mie querele pregando le rispettive Autorità di disporre che venisse istruito analogo processo sul conto degli accusati; ed in mancanza di testimoni all'uopo prometteva di far cogliere i rei in flagranti dagli Agenti dello stesso Tribunale!

CAPO XIV.

L'aggressione e l'arresto.

Su' primordi del 1863, recavasi in Roma un tale Alfonso Gatti, che adduceva d'esser fuggito di per sottraici allo impegno militare, essendo requisito di Leva.

Costui non appena giunto in Roma faceva capo da me; ed io avendolo conosciuto nella qualità di Alunno presso la Questura di mi prestai per quanto era in me ad agevolarlo.

Ma avendo dipoi saputo, che ei continuava a percepire il suo soldo dalla Questura stessa, lo ebbi in sospetto a segno di evitarlo, come feci. E più nol vidi.

In sul finire di Settembre 1863, fui prevenuto da persona familiare della casa del Duca di Popoli, che Giovanna de Verris tentava d'insidiarmi. E per quanto io avessi potuto insistere presso colui, perché me ne svelasse l'arcano, egli non volle altro dirmi, che mi fossi guardato di coloro che con me convivevano!

Incapace di simulazione, mi si leggeva sul viso l'interno cordoglio.

Io era divenuto in casa mesto e tacito, vedendomi fra gente trista ed ingrata cui aveva prodigato tanti benefici, e dalla quale non poteva disgiungermi prima che non avesse luogo la sorpresa in flagrante di chi fra quella spiava i miei segreti.

Non mancai di fare analoghe pratiche acciò si fosse dato sfogo a tali miei reclami e con sollecitudine, onde sottrarmi cosi ad una compromittente situazione; ma inutilmente.

Stavan cosi le cose, quando Alfonso Gatti col pretesto di averne da me un favore, che io pur gli ottenni, mi riavvicinò. E quasi ogni dì io mel vedeva attorno.

Compresi donde tale sua assiduità presso di me, e me ne tenni riguardato.

Seppi dipoi che costui, conquistato dal partito sanfedista, avea ricevuto mandato di sorvegliarmi; ciò ch'ei eseguì con diligente operosità.

Ma io non era l'uomo da farmi cogliere alla sprovvista dagli Agenti d'un Murena! Quindi invece di allontanare da me il Gatti, seguì i suoi passi, e cosi ebbi a vederlo in continuo coniatici co' Conte e col Montanini.

La mattina del 29 Settembre 1863, mentre io era unito al Gatti per istrada, m'imbattetti in Ambrogio Conte, il quale vedendomi si atteggiò minaccioso verso di me.

Mi contenni, perché convenivami di usar prudenza!

Il di appresso (30 Settembre) tutto ad un tratto mi vidi aggredito nella mia camera da Ambrogio Conte, quegli che poco stante aveva scampato il pericolo della vita mercé le cure che gli apprestai, il quale armato, di un grosso bastone lui, e di un coltello il figlio, inveivano crudelmente contro di me!

Di tal che fu davvero prodigio, se dopo lunga lotta da me sostenuta cogli aggressori, ne rimasi illeso.

Il Giuda Montanini? Era spettatore indifferente!!

Al sopraggiungere di persone estranee, i Conte si davano alla fuga.

Immediatamente mi recai alla Direzione Generale di Polizia, e fatto quivi la deposizione di quanto mi era accaduto, i Conte furono all'istante arrestati. Ma dopo alquanti giorni furono messi in libertà; nonostante pendesse sul loro conto querela per furto: prima deferenza!

Io mutai domicilio; Montanini si rimase co' Conte!!!

CAPO XV.

Il Tradimento.

Dopo qualche tempo, dacché io aveva inoltrato le querele pe' furti consumati a danno mio, venivami riferito, che Murena associatosi al Duca di Popoli intrigava per salvare gli accusati.

Che Murena intrigasse in tale rincontro, a che dubitarne? Era naturale: se gli accusati soccumbevano, non avrebbero avuto fermezza nel segreto; l'arcano sarebbe rimasto scoperto!

Ma che il Duca di Popoli si fosse associato ad un uomo, che poco innanzi avea fatto invigilare, reputandolo nemico della Causa Legittima, per me non era facile il crederlo.

Se nonché risvegliandosi nella mia mente la debolezza del Duca, stimai utile di non disprezzare le notizie riferitemi.

Io non avea messo più piede nella casa del Popoli dopo le impertinenze fattemi dalla de Verris. Andai in cerca però del medesimo, onde chiedergli spiegazioni su quanto era venuto a mia conoscenza. Ma il Duca mi scomparve del tutto, locché avvalorò le fattemi prevenzioni, ed i miei sospetti.

Pensai allora di rivolgermi al Duca di Civitella, che quegli con frequenza visitava; e narratogli quanto avveniva, lo pregai di tenerne parola col Popoli, facendogli pur osservare che laddove avesse egli tendenze per difendere i miei avversari, mi obbligava a spingere giudiziariamente le mie ragioni, e lino a dimostrare il perché il Duca di Popoli si facesse testimone a discarico de' Conte.

Decorsi alquanti giorni, il prelodato signor Duca di Civitella dirigevami una sua lettera (1) colla quale mi dinotava,

(1) «Roma li 10 Novembre 1863.

Gentilissimo Signor Mira

Sabbato scorso mi riuscì vedere il Duca ed esporgli il vostro dispiacere pe' fatti avvenuti e la necessiti in cui eravate di spingere le vostre ragioni giudiziariamente e fino agli estremi, ove non si trovasse modo di risarcire il vostro onore offeso, e far tacere così le calunnie che ad arte si spargono, non potendo voi tranquillamente rassegnarvi ad accettare la falsa posizione che vi si vorrebbe fare; e conchiusi ripetendo le vostre stesse parole dopo di aver rinunciato pel servizio del Re, ad un passato prospero, frutto delle mie fatiche; dopo accettato un presente amaro e stentato per mantenermi ligio ai miei principi, non posso pazientemente vedere compromesso il mio avvenire per la gelosia e le malvagge pratiche de' miei nemici. Parvenu il Duca penetrato delle vostre parole, ma d'altra parte non volendo col suo nome appoggiare una delle due parti, prima che la innocenza o la colpa non sieno legalmente costatate, vi lascia, per che ciò avvenga, piena libertà di agire e nel modo che più crederete utile ai vostri interessi; soddisfattissimo se il risultato sarà tale da non smentire la fiducia che in voi a riposto pel passato.

Adempito così ai vostri desideri, non mi resta che dirmi con stima

Vostro Obbl. ed Aff. Amico Firmato- Prc. Di Civitella.

che avendo interpellato il Duca di Popoli sull'attitudine che gli si addebitava d'aver presa in favore de' miei avversari, egli rispondeva: Non voler appoggiare una delle due parti, pria che la innocenza la colpa non sieno legalmente costatate. E perché ciò avvenisse, mi lasciava piena libertà di agire, e nel modo che io credessi più utile a' miei interessi.

Questa lettera come ognun altro documento, fu esibita originalmente in difesa, allorché si discusse la Causa, come elemento a costatare la contradizione in cui era caduto il Duca di Popoli.

Egli, come ognun vede, fin dal principio della vertenza, immaginando avess'io invocato la sua protezione, rispondeva al Duca di Civitella: di non voler appoggiare una delle due parti pria che la innocenza o la colpa non fossero legalmente costatate. Ed è però chiaro ch'ei veniva in tal modo ad assicurare, che fino a quel momento non avea appoggiata veruna delle due parti; cioè né la mia, né quella de' Conte. - Ciò valse perché io non insisti a spingere il giudizio. Così non avessi creduto alle assicurazioni del Duca di Popoli; avrei risparmiato molti dolori che mi vennero posteriormente. Eppure io il ritenevo per un vero gentiluomo, ed incapace di mentire.

Ma indi a poco io veniva di nuovo assicurato ch'egli, il Duca di Popoli, agiva subdolamente e con energia in favore de' Conte; e che inoltre tentava di farmi cadere in disgrazia del Re.

Erano troppo noti al Sovrano i miei principi politici, come i miei meriti, ed i sacrifizi cui mi era rassegnato, per non dubitare dell'accordatami Sua benevolenza. -E quindi ritenni per falsa tale notizia.

Non così pel pendente giudizio, pel quale io veniva sempreppiù accertato che il Duca di Popoli, spinto dalle suggestioni della sua Giovanna de Verris, sarebbesi spiegato a patrocinare la causa dei due ladri delle sue lettere, che io custodivo, risguardanti la Luisa S...

Quindi per maggiormente dimostrare, che io volea evitare scandali, ed il male altrui, diressi al Duca di Civitella una mia lettera (1), con cui gli ripeteva le mie fondate ragioni,

(1) «Roma li 10 Novembre 1863.

Signor Duca

Nel rendere a Lei le più distinte azioni di grazie per la bontà

per credere che il Duca di Popoli, già avea appoggiata una delie due parti; e che facoltandomi ad agire nel modo che più avuta di parteciparmi, colla sua pregevole lettera di jeri, la risposta datale dall'Eccellentissimo Duca di Popoli in seguito a quanto degnavasi significargli a mio riguardo, debbo mio malgrado sottoporle alcune osservazioni sulla cennata risposta, nella lusinga che Lei vorrà continuare ad essere l'interprete della mia delicatezza appo il prelodato signor Duca.

Lei nel dire colla suddetta sua di aver ripetuti i miei divisameli al Duca, di voler cioè spingere fino agli estremi il procedimento giuridico a carico dei miei avversari, ove non si volesse trovar modo da risarcire il mio onore offeso, e far tacere cosi le calunnie che ad arte f si spargono, mi dice pure che le parve essere il sullodato Duca penetrato delle mie parole; ma che d'altra parte, non volendo col suo nome appoggiare una delle due parti prima che la innocenza o la colpa, non siano legalmente costatate, mi lascia perché ciò avvenga, piena libertà di agire, e nel modo che più crederò utile ai miei interessi; soddisfattissimo se il risultato sarà tale da non ismentire la fiducia, che in me ha riposta pel passato.

Primieramente mi occorre osservarle, che non per ottenere appoggio o per giustificarmi, io mi rivolsi per mezzo di Lei al signor Duca di Popoli; ma solo per fargli col vivo della mia voce ricordo di vari aneddoti a lui ed a me cogniti, e dei quali son chiamato a farne uso nello interesse dei miei diritti inconsideratamente conculcati da chi, ignaro di fatti noti solo ai colpevoli, a me ed al Tribunale competente, volle costituirsi Giudice e difensore degli accusati, la di cui condotta ed antecedenti ignora, al pari della causa che ha impreso a proteggere.

Forte ne' miei diritti, nella mia coscienza ed onestà, di cui panni aver dato sufficienti prove, non poteva io nella vertenza che ne occupa chiedere protezione, ovvero di essere ammesso a giustificarmi su colpe che non ho, e di cui mi sono invece querelato a carico d'altri; ma per quella sola educazione, che mi ha costituito nella società uomo di onore, io non voleva spingermi a ricorrere a tutti quei mezzi che sono in mio potere senza prima ben ponderarli, com'è mio uso, e fermare la intelligenza di chi poteva provare dispiacevole sensazione per una smentita, che io avrei potuto dare alle mal calcolate assertiive fatte giocare a mio danno.

Il lodato signor Duca, nel dire di non volere appoggiare una delle i due parli, prima che la innocenza o la colpa non sieno legalmente costatate, ha obbliato di averne (in qui appoggiata una in discredito mio; ed allora non fece conto della legalità; ma debbo dirlo, si lasciò abbindolare dai miei nemici, e bastò il solo sprone di qualche

cieca passione, per cui su questa terra, spesso vien manomesso religione, coscienza ed onestà a danno dell'innocenza!

E come potrà negarmi ciò il signor Duca di Popoli, se i stessi suoi nuovi protetti ne menano pubblico e continuo vanto, citandone tutt'i particolari; il che da luogo a tanti comenti in pregiudizio della dignità di si distinto signore?

Inoltre dice che, mi lascia nella mia piena libertà di agire, e nel modo che più crederò utile ai miei interessi. A questo proposito signor Duca non posso dichiararle alcun che, imponendomi la educazione di serbare inviolabile il segreto su fatti passati tra me e l'Eccellentissimo Duca di Popoli, e dei quali per quella stessa libertà di agire accordatami io potrei far uso, onde far utile a' miei interessi; ma ciò non vien fatto da chi serba indelebile memoria di una benevolenza accordatagli per qualche tempo dal suddetto signor Duca, e che la iniqua forza della gelosia e della vendetta è riuscita ad involargli.

Soddisfattissimo, conchiude il Duca di Popoli, se il risultato sarà tale da non ismentire la fiducia che in me ha riposta pel passato.

Ebbene, se ha premura di non ismentire tale fiducia, perché cerca di precludermi la via che mena al conseguimento di questo scopo?

Gli esempi d'intrighi a danno del Nostro Adorato Sovrano, e di chiunque ne propugna la Causa, son tali e tanti che tuttodì ne mantiene occupati, che ciascuno deve tenersi desto e non lasciarsi sorprendere dai raggiri di una classe di emissari, la quale qui resta dicendosi Borbonica!

Ed il signor Duca di Popoli, che conosce la mia posizione politica, non doveva tanto facilmente lasciarsi trasportare ed inveire contro colui che va superbo di essere unico nella Storia dei nostri giorni per servizi resi ad una Causa (alla quale lo stesso signor Duca aspira). fino ad esporre la sua vita. Ciò significa, o aver dimenticato quanto ho fatto pel bene del Re; perlocchè io solo ne risento i danni nella dura posizione in cui mi tiene uno straziante esilio, frutto della mia fedeltà al Legittimo Sovrano; oppure non capire le conseguenze di alcuni passi inconsiderati.

Egli a perorata la causa di gente a lui ignota, e di oscura origine politica, che non ha dato altra prova oltre quella del tradimento e della più sozza venalità.

Mi ricordo di essere stato in cima alla più interessante delle Amministrazioni del nostro disgraziato paese, venduto per opera della maggior parte di quelli che qui son venuti a riparare; e posso far impallidore tutt'i sedicenti martiri della rivoluzione Napolitana.

Dalla risposta che mi ebbi dal Duca di Civitella (1) rilevai che le notizie datemi intorno al procedere del Duca di Popoli, fossero opera di un intrigo tendente a spargere la diffidenza fra noi due nello scopo di ottenerne la disunione. E che anzi, essendo i Conte incogniti al Duca di Popoli, ove questi fosse chiamato a testimoniare, non avrebbe potuto, che farmi favorevoli uffici.

Spero non mi volessero obbligare a cavar fuori, prima del tempo, le loro biografie, dalle quali si apprende la loro vita politica e morale, e per taluni i veri motivi pe' quali elessero il loro domicilio in Roma!

Laonde volendo ancora estendere le premure di evitare possibili dispiacenze al ripetuto signor Duca di Popoli, provoco con premura un abboccamento col medesimo affìn di chiarire oralmente la vera posizione di questo malaugurato affare.

Son sicuro di ottenere un tal favore mediante la di Lei valevole mediazione.

Profitto di questa occasione per protestarmi co' sensi della più alta stima e considerazione.

Di Lei Dev. Obbl. ed Aff. Servidore

CAV. LUIGI MIRA.

(1) «Roma li 1 Marzo 1863.

Gentilissimo Signor Mira

Rispondo alla vostra pervenutami jeri. Chi vi fa supporre che il Duca agisca contro di voi v'inganna, e cerca per disonesti fini spargere la diffidenza e la disunione. Son già più mesi, vi scrissi ciò che il Duca avevami detto, ed ho piena fiducia nelle sue parole, sì perché è un vero gentiluomo, ed ove fosse chiamato a testimoniare non potrebbe che ripetere certamente gli elogi lusinghieri che non ha mai cessato di fare sul vostro conto, sì perché i Conte sono a lui incogniti. La sua lealtà deve farvi certo che non s'indurrà mai a spiegar protezione per altri con intenzione di nuocere a voi.

Mi dispiace, ve lo confesso, che siete così facile a prestar credito alle voci di piazza, specialmente non potendo voi ignorare le basse mene di certa gente il di cui scopo è allontanare gli uomini onesti per restar soli padroni del campo, e così intrigare senza tema che le loro vili pratiche venissero svelate.

State con animo tranquillo. Ogni sospetto è un' ingiuria che fate a al vostro Protettore, ed in pari tempo una ingratitudine verso chi vi ha date non equivoche prove della sua benevolenza. Credetemi intanto con stima

Obbl. ed Aff.

Firmato - Duca Di Civitella.

Dietro tale franca assicurazione, io abbandonai intieramente il procedimento giudiziario contro gli accusati. E ciò per un riguardo, che io stimava doversi al Duca di Popoli; dappoiché nel cammino della processura, non avrei potuto evitare di citare quelle sue lettere fattemi involare dagli ingrati Conte, le quali denotavano un fatto poco onorevole: quello della sua illecita relazione colla Luisa S... nonché la condizione vera di Giovanna de Verris, che con lui tuttavia conviveva!

CAPO XVI.

Gli emissarii della rivoluzione.

Volgea al termine l'anno 1863, nel di cui corso aveano avuto luogo Sant'incidenti; quando venivami riferita la esistenza in Roma di alcuni emissari della rivoluzione, incaricati d'involare le carte politiche del Re Francesco II; ritenendosi per fermo, che fra quelle potessero rinvenirsi documenti da constatare la connivenza del Re ne' moti reazionari avvenuti nel Suo perduto Reame.

Indi a poco mi si rapportava, che un tal Cesare Filibeck, già emigrato Romano, trovavasi in Roma con mandato della stessa rivoluzione di tendere insidie alla Real Famiglia, e di organizzare una sommossa nella Città.

Trasmisi questa notizia alle Autorità competenti; e dalle posteriori investigazioni riassunsi che macchinavasi per far scoppiare una mina sotto il PalazzoIl dì 9 Gennajo mi affrettai a dirigere a chi di diritto, analogo Rapporto (1).

Vi fu nel Palazzo chi derise questa mia prevenzione,

(1) «S'invigili sul terrazzetto o piccolo giardino messo a diritta entrando nel secondo cortile del Real Palazzo, per dove si tenterebbe di fare scoppiare uno mina.

Mentre sono intento a far procedere allo arresto di quegli, che ba, manifestato simile infame attentalo, prego perché siano fatte delle pratiche onde sventare qualche possibile preparativo diggià fatto per menare ad effetto tale opera».

Firmato - Cav. Mira.

dicendola mia spiritosa invenzione per poi sollecitarne compensi. Ed il Duca di Popoli, che penetrò questo avviso, da me dato, sparse voce, che io per comprovare la sottrazione delle mie carte, avessi inventato la esistenza in Roma di quegli emissarii.

Fin dal principio io avea compreso che le carte mi si erano involate esclusivamente per far vendetta di me; e lungi dallo avvertire l'Autorità politica di approfondire sulla mia querela, dopo queste notizie sopraggiunte intorno ai tentativi che si faceano per involare carte al Re, mi era taciuto invece. E dispregiando le derisioni e la critica dei stolti, perdurai come per lo innanzi, ad invigilare sugl'interessi politici del Sovrano.

Né i posteriori fatti avvenuti valsero a rimuovermi dalla opinione, che io mi avea formato sullo scopo della sottrazione delle mie carte. Valsero si a confermare quanto fossero esatte le notizie da me rapportate intorno alla esistenza in Roma degli emissari intenti a rubar carte politiche; valsero ad umiliare i maldicenti che con parole di scherno aveono accolto quei rapporti nello scopo di denigrarmi, e smentire l'asserta sottrazione delle mie carte. Valsero infine a dimostrare scmpreppiù come il partito sanfedista niuna occasione lasciasse intentata per discreditare il Marchese Pietro Ulloa.

Non si creda che io narri i seguenti fatti per crearmi merito; lo fo per dimostrare di quali turpi mezzi giovavasi quel partito, per raggiungere lo scopo cui mirava; quello cioè di infamare l'illustre Diplomatico.

Poco dopo d'aver rassegnato que' miei rapporti, e precisamente nel Febbrajo del 1864, Nicola Merenda che trovavasi in Roma, veniva derubato di alcune carte, ch'ei diceva politiche.

Alla dimane i sanfedisti si davano gran moto per tutta Roma, diffondendo la voce che quel furto erasi commesso per opera mia ad insinuazione del Marchese Ulloa!

Merenda se ne querelò indicando alla Giustizia come sospetti alcuni individui che frequentavano la casa del Ministro Ulloa; e primo tra questi un infelice, che vivea coll'obolo della carità del Marchese Ulloa.

Questo sventurato era Gabriele Palomba, ex ispettore della Polizia Napolitana, cui forse Iddio avea serbato in Roma la pena dovuta ai suoi passati delitti.

L'Autorità Giudiziaria, non avendo pruove a carico degli accusati dal Merenda, non avea creduto di procedere a carico di essi. Merenda insisteva ostinatamente perché si fossero imprigionati; ma non essendosi visto soddisfatto in questo suo desiderio, un giorno fingendo di essere stato violentemente aggredito dal Palomba, riusci nel suo intento di vederlo arrestato.

L'opera del Murena non mancò in questo fatto per aggravare la posizione del prigioniero Palomba, il quale fu cosi ridotto ne' criminali di Roma. Speravasi ch'ei, mediante pressione dichiarasse gli autori del furto commesso al Merenda, che il partito sanfedista affaticavasi per far credere sieno stati spinti dal Marchese Ulloa.

E poiché le Leggi Romane accordano 1'impunità a quei prevenuti politici che confessano le proprie colpe ed i loro complici; non si tralasciò di fare lusinghiere offerte al Palomba... perché si dichiarasse impunito, e ripetesse le false accuse fatte dal Merenda; cioè che il furto commesso a costui fosse stato eseguito d'ordine del Marchese Ulloa, e che gli esecutori fossero appunto quelli diggià indicati alla Giustizia come sospetti.

L'impunità! Questa malcalcolata concessione, che quanto nociva sia alla società, ed alla Giustizia stessa che l'accorda, non è a dire, veniva offerta ad un miserabile, e quel che è più, ad un ex ispettore di quella tale polizia che ad eccezione di pochi onesti, vendevasi al maggiore offerente.

La estrema miseria del Palomba, ed i suoi riprovevoli antecedenti davano a sperare ai sanfedisti di riuscire nei loro disegni mediante promesse di libertà e di denaro che gli si facevano.

Ma mentre il Merenda elaboravasi a fornir la Giustizia di lumi e notizie, che venivan foggiate dal Murena per implicare il Marchese Ulloa in un processo; mentre si era intenti a sedurre il Palomba perché si rendesse impunitario; al Supremo Tribunale di Roma, che trovavasi istruendo una Processura politica, fu rivelato da un Impunito tutta la organizzazione di alcuni delitti diggià perpetrati, e di altri che compier si doveano in Roma.

Riporterei in queste pagine la intiera Processura, per dimostrare in qual modo io abbia invigilato sugli interessi politici del Re; come siensi fuorviati tutt'i piani che si organizzavano dalla rivoluzione

contro di Lui all'epoca del mio esilio, e come siensi sventate le mene dell'abbietta schiera de' sanfedisti, che crasi giovata di tale incidente, per farne oggetto di discredito contro il Marchese Ulloa.

Ma riserbo più accurato e minuto dettaglio ad altro lavoro, in cui narrerò per intiera la mia vita politica, e gl'intrighi tutti orditisi da' sanfedisti contro il partito Costituzionale appoggiato dallo stesso Re Francesco II.

Restringo per ora questo voluminoso Processo a brevi cenni; alla parte che si riferisce alle notizie da me date col rapporto de' 9 Gennajo 1864, ed al furto delle carte del Merenda, onde il Duca di Popoli, e chiunque altri avesse criticate quelle mie nozioni, e Murena che è avvezzo a fabbricar falsi processi, imparino a non esser calunniatori. La verità o presto o tardi trionfa!

Ecco adunque ciò che risulta dal Processo in parola, istruito dal Supremo Tribunale della Sagra Consulta di Roma.

«A circa le ore 9 e mezzo p. m. del giorno 9 Febbrajo 1864, ultimo giorno del Carnevale, venne invasa da sei individui la casa abitata dal Commendatore Nicola Merenda che trovasi a Roma in Via dei Serviti n.° 15, e quivi venne derubato, come esso dice, di tutti gli ordini e decorazioni che possedeva, di una credenziale di scudi 300, e di tre boni della Banca Romana, due di scudi 50 l'uno, ed il terzo di scudi 20, di un revolver e di molte carte e corrispondenze ch'egli teneva.

«Dappoiché il medesimo era uno degli emigrati da Napoli, era designato come uno di quelli che stesse alla testa della reazione.

A circa l'Ave Maria del giorno 11 Aprile 1864, sei individui tutti armati penetrarono nell'abitato del Barone Achille Cosenza posto in Roma in Via Felice n.° 119, e quivi rompendo cassetti ai comod e valige appartenenti allo stesso Cosenza, presero ed asportarono seco loro tutte le carte che ivi rinvennero, e come esso dice anche pochi denari in oro, che vi riteneva.

Posteriormente a tale furto, il Barone Cosenza esibiva alla Giustizia una lettera ricevuta per la Posta, con la quale gli s'intimava la partenza da Roma, con minacce, in caso contrario, della vita, dal che chiaro apparisce che il titolo del furto fu per spirito di parte.

Nel giorno 12 Aprile 1864 ricorrendo l'anniversario del faustissimo ritorno nei suoi Stati della Santità di Nostro Signore Papa Pio IX, unanime e spontaneo sentimento di vero affetto spinse i Romani a dimostrare la loro esultanza con una generale illuminazione decorata in mille modi studiati e diversi. Immensa era la calca del popolo accorso a prender parte alla festa che riuscì brillantissima.

Non poteva peraltro la medesima riguardarsi che con livore dai nemici del Governo, i quali perciò vollero procurare che venisse turbato l'ordine pubblico. Quindi mentre eran tutti intenti a godere la magnifica illuminaria e gli armoniosi concerti delle bande, per la via della Palombella quasi a contatto della Piazza della Minerva, s'intese all'improvviso una detonazione che venne immediatamente attribuita all'effetto della rabbia settaria: ed accorsa la Gendarmeria Pontificia e l'altra della Imperiale Truppa Francese che vigilavano pel mantenimento del buon ordine, si conobbe che era stata esplosa una bomba così detta all'Orsini, la quale aveva prodotto quattro ferimenti, dei quali uno in persona di tal Filippo Palma, romano, che fu trovato più malconcio sul luogo dell'avvenimento.

Intanto la Direzione Generale di Polizia era stata precedentemente informata dello arrivo in Roma di alcuni emissari. con ordine diretto a sollevare le masse.

Altre riservatissime notizie erano pur giunte alla stessa Direzione Generale che il mandato fosse diretto anche contro la vita del Sovrano Pontefice, mediante scaglio di bombe all'Orsini. Si stava però sulle tracce di un individuo, che si assicurava qui venuto dalle Provincie Meridionali addetto al partito rivoluzionario, e non estraneo ai delitti che per ispirito di parte avvenivano in Roma, e si riuscì infatti di ridurlo in potere della Giustizia la sera stessa del 12 detto Aprile.

Costui è Cesare Filibeck romano, di anni 32, emigrato, ed individuo molto pernicioso. Nella personal perquisizione eseguitagli si rinvennero delle carte non poco compromettenti, dalle quali chiaro appariva essere uno degli emissari cercati, non che uno degli autori della violenta sottrazione delle carte avvenuta al Commendatore Nicola Merenda, ed al Barone Achille Cosenza, subito che avea segnato sul suo taccuino il domicilio di quest'ultimo,

ed osservata superficialmente la lettera minatoria scritta al Cosenza con altra rinvenuta al Filibeck si vedevano nel carattere eguali».

Dal complesso della Processura risulta che l'inquisito Cesare Filibeck si rese Impenitario, e tutto fu dal medesimo rivelato alla Giustizia!

Ecco un brano della sua lunga rivelazione: «Doveansi involare le carte al Re di Napoli, e rapirlo; e per riuscirvi si era stabilito: DI FARE SCOPPIARE UNA MINA SOTTO IL PALAZZO FARNESE, onde poi profittando dello sgomento che avrebbe cagionato lo scoppio, col mezzo del C... L... ci saremmo introdotti nelle camere del Re ed avremmo prese le carte.............

Questo inaspettato sviluppo di una Processura menata innanzi con la maggior segretezza, pose termine allo intrigo fino allora ordito da Murena e Merenda contro uomini onorati.

Egli il Merenda fu immediatamente bandito di Roma; e messo in libertà Gabriele Palomba, che da tre mesi gemeva in oscuro carcere.

CAPO XVIII.

Il Giudizio e la recrimina.

Nulla, come dissi, tralasciavasi dalla spregevole accozzaglia dei sanfedisti, per calunniare il Marchese Ulloa, e chiunque ne dividea le idee. Ed a questo fine agivasi alacremente; mentre un intrigo scovrivasi, presto un altro ne esordiva.

La partenza da Roma di un Diplomatico Spagnuolo (di cui terrò parola in un lavoro a parte), aveva svelata altra cabala macchinata da quei tristi contro l'Ulloa ed il Commendatore Ruiz, Segretario Particolare di Re Francesco. Basti per ora il notare, che a Capo di quest'altro concerto eravi il Duca di Popoli.

Ma è oramai tempo di occupare queste pagine col descrivere la persecuzione, cui fui fatto segno per opera di quei malvagi.

Se nonché, come or ora i lettori vedranno, Mira fu perseguitato, e dirò, per raggio riflesso. I colpi erano sempre diretti al Marchese Ulloa, di cui diceasi esserne strumento.

Perseguitavasi il Marchese Ulloa, perché comprendevasi bene, che infino a che la sua politica era adottata, ogni influenza dell'antica camarilla sul Re Francesco diveniva impossibile. E quindi senza riguadagnare tale influenza, era assolutamente impossibile riprendere le perdute Cariche, riacquistare i perduti onori.

Dunque proponimento di quel partito era di perdere il Marchese Ulloa, e ripeto, quanti ne dividevano le idee.

Ecco adunque perché io fui perseguitato, e come ebbi a lottare con uomini, cui altr'arma non restava più lecita, che la calunnia. - Ecco come un fatto puramente privato, quale era quello delle pendenti mie querele, passava sul vasto terreno di gravi quistioni politiche per opera di que' spergiuri e falsari.

Come dissi, io non avea tenuto più dietro alle mie querele, dopo le lettere del Duca di Civitella; né il Tribunale mi avea più interloquito.

Quando la sera del 17 di Agosto 1864 io era informato da un mio amico, che Montanini con grande attività mostravasi affaccendato per le vie di Roma; intromettevasi in tutt'i trovi della bassa onde raccozzarne buon numero, ed impegnavali a recarsi alla dimane presso il Tribunale Criminale di Roma per sentir Condannare Mira (così esprimevasi il birro!); soggiungendo colla sfrontatezza che gli è propria - abbiamo fatto tutto: tutto è concertato; i Conte non appena avranno avuto la copia della Sentenza saranno presentati al Re dal Duca di Popoli, e Mira sarà certo destituito, e quindi gli saranno tolte le Decorazioni; indi Procederanno alla recrimina considerato come calunniatore.Alla dimane infatti, una calca di vagabondi a Capo dei quali stava il Montanini, recavasi al Tribunal Criminale per assistere al giudizio che pronunziar doveasi. Ma furon tutti respinti, dappoiché assicuravasi che la Causa discuter si dovesse a porte chiuse!Più tardi, in conferma di quanto avea predetto il Montanini, seppi, che non fuvvi discussione affatto; il processo non fu punto svolto...

In fatti appena levatosi il Difensore de' Conte, per perorare la Causa, un Giudice, il sig. Mazza, ebbe il rado pudore di risparmiargli la parola dicendo - Signor Gui, è inutile che lei si sciupi in parole superflue;noi siamo tanto stufi di sentir par Che urli, che schiamazzi seguirono allo sviluppo di tal vergognoso intrigo, organizzatosi con tanti astuti piani preconcetti, non è facile esprimere.

Il mio nome era in bocca di tutti; ovunque si parlava di me; per taluni era stato dichiarato dal Tribunale traditore del Re, per altri un ladro; per quegli un birra in maschera di gentiluomo; per questi un miserabile; e mille altre ingiurie e contumelie ebbi ad udire sul mio conto.

Da quel giorno fui fatto segno a' più provocanti insulti; deriso dal più abbietto degli emigrati. Quelli che fino allora erano stati umili, perché sapevano essere io il controllo delle loro indelicatezze, baldanzosi sursero, e con arrischiata impudenza insultavanmi.

La vittoria riportata dai miei avversari li avea resi tanto audaci e provocanti, che io d'allora mi vidi da essi vilipeso; guardato con sogghigno e financo minacciato per le pubbliche vie.

Il noto Pasquale Fava e lo scroccone Achille Lotoro rincalorivano sempreppiù a fomentare insidie contro di me.

L'odio di questi due indegni reclamava vendetta!

Intanto i Conte erano spinti a recriminare contro di me, sollecitando instancabilmente il Giudizio per farmi dichiarare calunniatore.Ed in fatti il Giudice processante, tal della Bitta, che con tanta passione aveva istruito il fraudolento processo dei Conte, senza tener presente i vari Articoli delle Leggi del suo paese, accoglieva la recrimina, e spediva precipitosamente contro di me mandato di arresto; locché saputosi in tempo da persona a me devota, potei esserne avvertito e tenermi riguardato.

CAPO XIX.

Il Processo.

In Roma io contavo molti amici, i quali erano spettatori delle continue bricconate che mi venivano commesse; mi tenni però celato presso uno di essi, che con fraterno amore ebbe cura di me.

Frattanto riesciva ad ottenermi copia del processo dei Conte che erasi istruito alla mia insaputa; donde io vidi fabbricata la mia rovina dal Duca di Popoli, e dal vindice Murena.

La gloria però dello spergiuro e del tradimento si apparteneva al Popoli, come più appresso si vedrà.

Il Duca di Civitella si era completamente illuso sulle qualità che simulava il Duca di Popoli. Esso non ammetteva tanta slealtà, ed avea rimproverato me che ne avea dubitato. I fatti han dovuto dimostrargli chi era nel vero!

Le lettere del signor Duca di Civitella qui riportate dimostrano in quale inganno egli vivea sul conto del Duca di Popoli, credendolo un onesto gentiluomo.

Dal processo risultava come il Duca di Popoli fosse quegli, che avea influenzato Monsignor Matteucci, Direttore di Polizia Pontificia, perché si ponessero in libertà i Conte, qualificandoli come due soggetti di lodevole condotta!

Mentre nel contempo assicurava il Duca di Civitella che non avrebbe appoggiata una delle due parti se prima la innocenza o la colpa non sieno state legalmente costatate. E poi, che i Conte gli erano affatto ignoti!!

Ecco il Processo in riassunto.

«Nel Settembre dell'anno 1863 il Cavalier Luigi Mira, di Ufficiale di Carico dei Reali Ministeri di Sua Maestà Siciliana esponeva a Monsignor Presidente del Tribunal Criminale essersi avvisto, che nella sua assenza venivagli aperto il suo comod con chiave adulterina, rovistate le carte che, vi riteneva, ed involate alcune di esse.

«Che non seppe su di chi fondare i sospetti abitando nella sua casa la propria padrona Maddalena Rasinelli, Achille

«Che infine si avvide di un furto di un Dono da scudi 20, e di un napoleone d'oro. Del qual furto una sol prova può addurre per poggiare i sospetti su i Conte, ed è la seguente: l'aver lasciato Domenica 13 del mese suddetto i Conte in casa soli; dopo di aver apposto al comod i consueti segni, che più non ritrovò quando ritornato dopo poco, non poté aprire con la comunella la porta dulia casa, essendosi posto al di dentro il catenaccio, e solo entrò dopo lungo picchiare avendo aperto Ambrogio-Continuando disse, che egli si contenne perché aspirava alla sorpresa in flagrante da parte dell'Autorità, facile ad ottenersi mentre l'apertura del comod continuava. E concluse dicendo-Adunque (sic) il Mira supplica V. E. Reverendissima onde si degni disporre, che venga istruito analogo processo sul conto degli accusati, ed in mancanza di testimoni all'uopo promette far cogliere in flagranza i rei dagli Agenti dello stesso Tribunale.

«Chiamato ratificò l'istanza; ed invitato a indurre testimoni sulla preesistenza e deficienza del denaro nominò il signor Giuseppe Piva, impiegato nella Direzione Generale delle Dogane, ed Antonia Baroncelli.

«Descrisse poi altri fatti, ed ingiurie, insulti ed offese reali e verbali sofferte dai Conte, conchiudendo, che le ricerche di costoro nel suo comod non siano state dirette specialmente a rubar denaro, ma per rinvenire carte relative alla sua posizione politica, come avea esposto con altra querela alla Direzione Generale di Polizia (fog. 6).

«Arrestati, per ordine della Direzione Generale di Polizia, Ambrogio e Pasquale Conte, furon passati al Tribunal Criminale da cui si abilitavano alle difese a pié libero.

«Ambrogio dipinse Mira per un impiegatacelo miserabilissimo, che pe' suoi principi rivoluzionari fu promosso a maggior grado e soldo dal Governo attuale di Disse che egli lo conobbe per mezzo di un suo figlio Sacerdote rimasto in che a lui lo raccomandava. Attribuì al Mira un odio a suo danno, sostenendo essere il furto assolutamente sognato, e del quale avrebbe parlato con la suddetta padrona di casa e con Montanini prima di cambiar domicilio e non dopo.

«Soggiunse che il Mira vivea col mensile sussidio di scudi dieci; e conchiuse inducendo, come testimoni della verità di quanto avea detto, il Commendatore Salvatore Murena, Achille Montanini, e Maddalena Rasinelli (fog. 21 e seg.).

«Il figlio Pasquale Conte fu quasi consono al padre.

«Richiamato allora il Cavalier Mira ed interpellato sulla somma posseduta nel comod disse: mai posseder meno di cento ducati, ed il Bono da scudi 20 rubatogli averlo avuto dal signor Piva in cambio di napoleoni d'oro, che gli fece ne' primi di Settembre. Che nel giorno 13 di questo mese il suo denaro era intatto, e solo la mattina del 16 rimarcò la lamentata mancanza.

«Disse (ad analoghe interpellanze) che accortosi dell'apertura del comod e della mancanza delle carte, tolse le altre più gelose, rimanendovene poche di niun conto, nella speranza di fare una sorpresa in flagrante, per la quale col mezzo del Piva fece pratiche onde ottenere dalla Polizia di far nascondere persona nella sua camera, che nella sua assenza avesse sorpreso chi aprivagli il comod.«Disse infine che egli riceve spesso danaro dalla sua famiglia, nonché generi commestibili, il tutto all'indirizzo del Piva, per non far giocare il suo nome molto compromesso presso il Governo Italiano.

«Ripeté che tacque del furto, perché mirava a far cogliere in flagrante i ladri (fog. 31).

«Achille Montanini depose cosi: Premetto che Mira figlio di un basso Agente di Polizia ottenne sotto Francesco II di essere impiegato nel Ministero di Polizia in qualità di Usciere con ducati tre al mese. Venuto il Governo rivoluzionario, ne ottenne protezione, e fu mantenuto non solo nell'impiego, ma promosso ad Uffìziale con 45 ducati al mese. Intanto comprato il Mira dal Conte dei Camaldoli Capo d'un Comitato Borbonico, si fece a comunicare tutte le notizie relative alle provincie, e a darne comunicazione al Conte perché riceveva 35 ducati alla settimana. Finché scoverto dal Governo, dové fuggire in Roma.

«Disse che Mira venne da con una decina di napoleoni d'oro; che egli una volta lo portò a baciarle mani al Re! Che Mira non parlò punto di furto, né dei denaro che ricevea da - Disse - che io sappia, Mira non ha avuto mai rimessive da

solamente nell'inverno passato gli pervenne una cesta di frutta, che si trovarono tutte guaste, e quindi quattro o cinque mesi indietro una cassetta con dei dolci. Tali robe vennero per la Ferrovia, e giunte in Dogana pensò Piva a farle avere a Mira, senza che nemmeno fossero toccate.

«Disse che Mira era cosi povero, che tante volte avea dovuto prestargli ora i quattro ora i cinque paoli, e che quindi era falso il furto di cui si era querelato.

«Conchiuse dicendo, che Piva essendo intimo del Mira non avrebbe potuto fargli, che una favorevole testimonianza (fog. 39 e seg.).

«Maddalena Rasinelli (già cantante) presso cui abitano tuttavia i Conte, dipinse Mira a colori nerissimi, e disse che si disgustò co' Conte, perché non gli voleva restituire sette scudi che gli avevano imprestato! (Nuova causa di egreferenza, sconosciuta agli stessi Conte pseudo-creditori!)

«Disse, che rise di cuore quando seppe aver Mira querelato

«Conte per furto, mentre era un disperato che non pagava mai; tanto che Montanini più mesi pagava per esso la pigione (1). Fece poi il panegirico dei Conte e di Montanini (fog. 65 e seg.).

«Alfonso Gatti impiegato della Questura di fuggito in Roma perché requisito di Leva, disse che: egli dovendo far venire degli abiti di casa, ne pregò Mira che glieli fece venire alla direzione di Piva. Era con lui in unione a San Luigi de' Francesi, quando Conte Ambrogio provocò pel primo Mira. Disse che Mira gli aveva fatto dei sfoghi sulle cattive azioni commessegli dai Conte, e che dopo separato dai medesimi gli parlò del furto (fog. 78).

«Antonia Baroncelli lodò la condotta morale del Mira e parlò delle di lui con questioni sui furti fattigli molto tempo

(1) Ed in ciò la Rasinelli non mentiva del tutto. Il Montanini, non perché compromesso politico ricoverò in Roma, e co' miei mezzi. Egli come ho già detto, rimase a tutto peso mio appunto perché indigente.

Divenne per mera pietà il mio governante, il mio faccendiere; ond'è che io per le sue mani pagavo e la pigione di casa e quant'occorreva giornalmente per me e per lui. Fu quest'altra prodigalità un'arma nelle di lui mani~per farmi dire miserabile dalla Rasinelli quantunque costei fosse stata di continuo testimone delle frequenti spedizioni che mi venivano dalla mia famiglia.

n prima della querela. Disse che Mira diceva aver rimesse dalla famiglia, ma che essa ignorava quanto e come (foglio 80).

Giuseppe Piva, impiegato nella Direzione Generale delle Dogane Pontificie, dopo di aver parlato della conoscenza fatta del Mira allorché recossi in Roma, disse che nell'Agosto 1863 questi gli si lagnò, che qualcuno gli esplorava le carte nel comod sospettando dei Conte. Che aveva posto dei contrasegni, dietro i quali si era assicurato su di ciò, e quant'altro disse Mira giudiziariamente. Aggiunse che Mira lo pregò di fargli venire in casa un Agente di Polizia per tentare una sorpresa; che esso ne parlò con tale Adriani Agente di Polizia; ma questi non volle accedervi stante la condizione che Mira imponevagli, di rilasciar cioè, colui o coloro che potevano esser sorpresi in flagrante. Che di poi si era rivolto alla Direzione Generale di Polizia, dalla quale mentre attendevansi le opportune disposizioni, nacque la rissa per cui Mira lasciò la casa, e la sorpresa non poté effettuarsi.

Disse saper che Mira riceve spesso dalla famiglia danaro insieme a dolci, frutti e vestiario; ciò che tutto perviene alla direzione di esso deponente. Che tali spedizioni sono avvenute tra le 14o 15 volte; che sei o sette mesi fa ricevette un Bono da scudi 60 da esigersi qui in Roma, altra volta 30 o 40 scudi in napoleoni d'oro; verso il Settembre 30 scudi in napoleoni d'oro, circa il successivo Ottobre altro Bono di circa scudi 130.

Parlò dei sfoghi fattigli da Mira 12 o lo giorni prima di separarsi dai Conte sul verificato furto del napoleone d'oro e del Bono da 20 scudi (fog. 85 e seg.).

Il Commendatore Salvatore Murena, Ministro del Re di Napoli. Fa il panegirico dei Conte. Di Mira dice aver saputo dal già Direttore di Polizia di Napoli Commendatore Mazza, nonché dal Prefetto di Polizia Commendatore Governa, e da altri dell'emigrazione che, Mira dalla bassa condizione d'Usciere con ducati 3 fu dai rivoluzionari elevato al rango di Uffìziale con 80 ducati al mese. Che più tardi si mise in relazione col Conte dei Camaldoli, al quale se rese qualche lieve servizio in favore della Causa Legittima, ne ricevette 33 ducati alla settimana, finché scoverto dal Governo rivoluzionario fu obbligato a fuggire da Napoli.

Disse che Mira non aveva di che vivere in Roma senza un soccorso di dieci scudi al mese che gli dava il Duca di Popoli; quale soccorso dopo la querela contro i Conte gli ha negato.

Disse che i Conte sono emigrati per la loro devozione alla Causa Legittima, e per aver cooperato alla reazione sostenuta da Cipriano La Gala (fog. 101) (1). Che dessi sono due doviziosi emigrati che vivono a spesa della loro proprietà. Conchiuse così: dalle cose narrate io debbo manifestare alla Giustizia come dal primo momento in cui mi fu notificata la querela fatta dal Mira, Non so Perché ebbi un intimo convincimento che questo fosse l'effetto di una vendetta esercitata da lui contro i signori Conte (fog. 96 e scg.).

Carlo Tocco, Duca di Popoli (fog. 107 e 108 a terg.). Lodò i Conte, depose in proposito Che Carcerati i Medesimi Volle Interpellarne il Maggiore Eligi della Gendarmeria Pontificia, ed anche Monsignor Matteucci Direttore Generale di Polizia Per Raccomandarli; che da quest'ultimo ebbe conferma che i Conte, dietro accusa del Mira, erano stati arrestati, e che la Causa andava a passarsi al Tribunal Criminale. Eligi poi gli significò che Mira era stato da lui a dolersi del furto (2).

Disse che Mira era cosi bisognoso, che ei dovette fargli un assegno di scudi dieci mensili per vivere, quali poi gli ha negato quando seppe l'accusa fatta ai Conte. Disse non esser vero, che tale assegno gli si corrispondeva per spese occorrenti al servizio del Re, Essendo Il Mira Estraneo Agli Interessi Politici Del Re. Soggiunse, che Mira vide appena due volte il Re per suo mezzo, una volta Per Chiedere Soccorsi, e l'altra per ringraziarlo di un Brevetto di

(1) Di qui a poco si vedrà come a questa menzogna rispondesse la Difesa Officiale del Governo Pontificio.

(2) Richiamo alla memoria de' lettori le lettere del Duca di Civitella; colla prima delle quali mi diceva che interpellato 'onorevolissimo Duca di Popoli sul fatto de' Conte e' tra le altre cose rispose che non avrebbe appoggiata una delle due parti prima che la innocenza o la colpa non tieno legalmente costatate. E colla seconda di esse lettere: che i Conte erano affatto ignoti al Duca di Popoli; e che laddove fosse questi chiamato a testimoniare non avrebbe potuto che ripetere certamente gli elogi lusinghieri che non avea mai cessato di fare sul mio conto.........Quanta lealtà!

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«Nomina. Una terza volta vi andò per presentare certo libro che esso ignora, se il Re ricevesse, sapendo solo che lo licenziò dopo pochi minuti.

«Finì per dire che egli ritenne la querela fatta dal Mira per una indegnità. «Il Conte Giulio Ricciardi dei Camaldoli. Disse che nel Settembre 1861 gli fu proposto il Mira come utile alla Causa del Re. Che questi da Usciere era stato promosso dalla rivoluzione a grado maggiore. Che esso pagava 35 ducati alla settimana pei servizi che Mira prestava, la quale somma era divisa in tre persone. Scoperto fuggì in Roma; che quivi per sentir dire da altri della emigrazione si ebbe dal Duca di Popoli un sussidio di scudi 10 mensili. Conchiuse, aver saputo, che Mira si doleva dello stato bisognoso in cui trovavasi, dicendo esser così per cagione del Ricciardi, mentre si era volontariamente offerto a servire il Re Legittimo; che ignora se Mira avesse ajuti dalla sua famiglia, e fini lodando i Conte (fog. 110).

Il Maggiore Eligi della Gendarmeria Pontificia dichiarò di aver conosciuto Mira e Piva mandatigli da Monsignor Sagretti, Presidente della Sagra Consulta, per interessarlo alla sicurezza della vita del 1ti: di Napoli. Eligi seguì i consigli del Mira, e riuscì felicemente nell'operazione e n'ebbe per suo mezzo ringraziamenti ed onorificenze dal Re. Disse essergli stato suggerito dal Duca di Popoli di servirsi del Mira per cose simili, reputandolo un soggetto capace. Soggiunse, ignorare i mezzi del Mira. Interrogato se per tali «servizi gli corrispondeva alcun sussidio rispose: nulla ha mai chiesto, e nulla gli ho mai dato, prestandosi gratuitamente per principio di attaccamento verso il proprio Re ed il Sovrano Pontefice. Conchiuse parlando delle con questioni sul furto (fog. 113).

Narra il testimone Achille Montanini, che due o tre giorni dopo la seguita carcerazione de' Conte, essendosi recato a visitare il Duca di Popoli, lo trovò dolente dell'accaduto, ed inquieto per la persona del Mira che aveva provocato siffatta carcerazione, e parlandone col Duca gli disse, che egli sulle prime aveva creduto che Mira si fosse valso della conoscenza del Maggiore Eligi, che Mira avvicinava ed avendone interpellato esso Duca l'Eligi aveva saputo che in effetto Mira si era a lui diretto (fog. 53 a 57).

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Riporta altresì il Montanini che il Piva avendo relazioni amorose con certa Teresa Lucarelli avvenne, che in una sua casa mobiliata che dava in fitto capitò un tal Giuseppe Rodolfo Piantadosi, ex Guardia del Genio Militare, il quale si rese amica la Lucarelli. Che Piva venutone in cognizione, e non volendo comparire alle Autorità Pontificie, si diresse all'amico Mira perché avesse trovato modo presso la Corte di Napoli per far espellere da Roma il Piantadosi. Mira promise di tutto fare per l'amico: fu arrestato Piantadosi e tenuto in prigione per una quindicina di giorni, e ne usci colla data promessa di sposare la Lucarelli (fog. 61 e62) (i}.

Giuseppe Rodolfo Piantadosi, inteso con semplice ammonizione conferma pienamente la surriferita storia (fog. 117 a 121) (2).

Il Piva, interpellato in proposito, ammise che il Piantadosi avea abitato una sua casa ad uso di locanda condotta per suo conto da Teresa Lucarelli, maritatasi quindi col suddetto Piantadosi; che accortosi della tresca di questo colla Lucarelli mando via dalla casa l'unii e l'altra (fog. 94). Osservarono gl'imputati che il Mira vive miscrabilissiinamente in Roma col sussidio dei dieci scudi che gli passa il Duca di Popoli, e che forse non gli passerà più dopo si nero tradimento commesso a danno di persone oneste, attaccate al legittimo Sovrano siccome potrebbero far fede il lodato signor Duca, il Ministro (sic) signor Commendatore Murena ed altri alti personaggi dell'emigrazione.

Osservarono finalmente gl'imputati che quante volte fosse in realtà mancato al Mira del denaro, se pure ne avesse posseduto, ne avrebbe parlato prima o colla padrona di casa o col Montanini (fog. 10 e 121-21 e seg. - 124 e seg.)

(1) II Montanini prevedendo la testimonianza di Piva in mio favore, come quegli die sapeva dei mezzi che mi venivano dalla mia famiglia, volle dare a credere che il Piva avrebbe testimoniato falsamente per contracambiarmi il favore resogli facendo arrestare il Piantadosi. Ed il Tribunale ritenne questa asserzione mentre era suo dovere d'interpellare la Direzione di Polizia sulla origine, e sull'autore dell'arresto di quegli.

(2) Costui era un miserabile che vivea pitoccando; non fu difficile il conquistarlo mercé 50 scudi che la de Verris gli fe passare per le mani di Montanini. E così il Piantadosi confermò quanto quel birro avea asserito

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«Le anzidetto deduzioni degli accusati ricevono piena verifìcuzione dalle testimonianze di Achille Montanini (fog. 39 ter. e seg. - 55 e seg.), di Maddalena Rasinclli (fog. 64 e seg.), di Alfonso Gatti (fog. 72 e seg.), di S. E. il signor Commendatore Salvatore Murena (fog. 96 e seg.), di S. E. il signor Don Carlo Tocco Duca di Popoli (fog. 106 e seg.), dui signor Conte Giulio Ricciardi (fog. 110), rilevandosi da alcuno di essi la incapacità a delinquere degli accusati; da talun altro la loro onoratezza e i mezzi proprl a vivere senza aver bisogno dell'altrui soccorso; da taluno l'incapacità in Mira di possedere danaro, anzi la necessità in lui di campare col sussidio mensile di dieci scudi passatogli dal signor Duca di Popoli, e le niune con questioni da esso emesse sul sofferto furto prima che si separasse dai Conte.

«A fronte delle suddette attestazioni il Mira nel suo esame (richiesto del perché, trovate amosse te carte nan facesse attenzione al suo denaro che pur valeva qualche cosa). Rispose che egli era persuaso che si ponessero le mani nel suo comod piuttosto per esplorare le carte, che per prendere il danaro, ond'egli curava più quelle che questo».

CAPO XX.

I falsi testimoni, e le Leggi Romane.

La reità è implicita alla innocenza: se innocente l'accusato, reo di calunnia il querelante! - Quindi è che quello stesso processo istruitosi a carico dell'accusato si rivolge contro il querelante. -Ciò prescrivono le Leggi Romane, ed è quanto voleasi adattare a me.

Ma ognun direbbe: perché mai tra tanti emigrati Napolitani che conta Roma, avvenne che Murena, Popoli e Ricciardi..,. testimoniarono nel processo a carico dei Conte?-Perché mai questi ed altri testimoni, colle loro deposizioni rimontarono a fatti estranei alla Causa dei Conte?-A che citare in quel processo i servizi da Mira resi al Re; a che dire se li avea prestati gratuitamente ovvero pagato?

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Ma se i lettori richiamano alla loro memoria quanto ho accennato precedentemente, e fissano la loro attenzione su quanto vado ad esporre, ben presto si convinceranno donde que' testimoni e quelle testimonianze!!

Comunque la lettura dell'iniquo processo mi avesse rivelato l'intrigo ordito dai miei nemici, io non era giunto a comprenderne le conseguenze. Ma tosto ebbi a penetrare il tutto.

Durante la mia latitanza seppi da un alto personaggio appartenente al Governo Pontificio, che Murena avea tanto interceduto presso le Autorità politiche fino a che eragli riuscito a fare eliminare la querela per la sottrazione delle mie carte!

Riescito in ciò, il mio Kodin avea fatto stabilire il procedimento giudiziario sull'altra querela pel furto del denaro, e mercé i suoi intrighi avea fatto dichiarare innocenti gl'inquisiti. Onde poi avvalendosi delle prescrizioni delle Leggi Romane-la innocenza è implicita alla reità, io fossi stato dichiarato calunniatore!Dichiarato io tale da un pubblico Tribunale, il Murena sarebbe rimasto vendicato, ed avrebbe ben potuto dire un giorno, che l'antileginimista cospirazione fu una calunnia addebitatagli da Mira! - Coloro che per Io passato avean frodato il denaro del Re, avrebbero stabilito fin d'allora, e quel che è più in un processo, che io ne avessi ricevuto buona parte!!- Giovanna de Verris si sarebbe del pari che il Murena vendicata pel fatto della Luisa S...!!! -Ed infine quel fango de' sanfedisti, sempre intento a discreditare il Marchese Ulloa, gli avrebbe gridato il mora, mora, perché Mira che si credeva essere suo strumento era stato dichiarato calunniatore!!!!

Epperò che il Murena costituivasi, con sfrontatezza degna di lui, in qualità di testimone, e dicendosi MINISTRO del Re asseriva innanzi all'Autorità Giudiziaria le più che false accuse a mio carico; e per convalidarle, diceva di averle apprese dal Commendatore Mazza, stato mio Superiore immediato!

Il Duca di Popoli, trascinato da Giovanna de Verris, nelle di cui mani eran cadute le lettere descriventi il fatto della

Luisa S, dimentico della leale amicizia da me usatagli in quella difficile e delicata occasione, seguiva le voglie di una impudica donna e rendeasi spergiuro per distruggermi.

Egli dovea ben comprendere, che persone raccomandategli

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da una donna di mala vita, non potevano che essere delle più abbiette; ma la cieca passione per quella; la sua scempiaggine e mala coscienza gli fecero dimenticare ogni principio di onestà e di gratitudine, gli fecero lodare l'iniquità e conculcare la giustizia. E se io non avessi avuto sufficienti pruove e titoli per ismentire quelle infami testimonianze, sarei stato senza dubbio inviato a' ferri per opera malcalcolata del Duca di Popoli. Dappoiché egli solo poteva dire di me, de' miei servizi resi alla Causa del Re, e mi tradiva invece iniquamente, falsando la mia posizione.

Né ei potrà dire in sua giustificazione che mie mancanze, posteriori ai fatti pei quali avea empito Roma di sue lodi verso di me, gli avessero fatto cangiar opinione a mio riguardo. Nulla era accaduto fra noi due; nulla io avea fatto che avesse potuto indignarlo. Ma ammesso, che ciò fosse, avrebbe avuto con ciò il diritto di allontanarmi da sé; il dovere, occorrendo, di svelare le mie colpe, e non mai, per vendicarsi, giurare il falso, asserendo essere io bisognoso a tal segno da vivere con dieci scudi (che attribuiva alla sua borsa), e che io era estraneo agl'interessi politici del Re, ed altre menzogne simili; mentre conosceva la mia vera posizione, e non ignorava i miei servizi, con quanti sacrifici fatti, per corrispondere con modestia e dignità ad incarichi a lui troppo noti, nello interesse esclusivo del Re.

Egli turpemente mentendo, volle asserire con giuramento che io mi fossi affatto estraneo agl'interessi del Re, e ciò per qualificarmi un impostore.

E qui non credo superfluo il dire che, per soddisfare a' comandi dell'onorevolissimo Duca istituì la vigilanza sul Murena. Avess'egli ricevuto mandato per ingiungermi di fare tale investigazioni, o lo facesse di sua spontanea volontà, io lo ignoro, né dovea saperlo; restavami la sola esecuzione, ed esegui.

Il Duca di Popoli non ignorava, che se io a ciò mi prestavo, non era per far cosa grata a lui; ma bensì per sorvegliare i nemici del Re, e nello esclusivo interesse del Re e della Sua Causa. Seguendo dappresso una cospirazione, e della più indegna; era a considerarmi»! ben altro che estraneo agl'interessi politici del Re!

Incaricandomi il Popoli di rintracciar persone (e le rintracciai più volte!) che si diceva venute in Roma per attentare alla vita del Re -

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non mi si affidava forse un geloso incarico di esclusivo interesse del Re?

Non era forse nell'interesse del Re la parte che io avea sostenuta in Napoli e che sosteneva tuttora in Roma? E tutto questo non era a conoscenza dell'Illustrissimo Duca per le di cui mani eran passati i relativi rapporti?

Mi sarei io data tanta pena, se si fosse trattato di appagare la curiosità del Popoli che riportavami parole di gratitudine, di ringraziamenti, incoraggiandomi allo zelo pel Real servizio?

Cosi, dichiarandomi estraneo agl'interessi politici del Re depose con giuramento il falso per rendersi gradito ad una infame donna, ed ai suoi nuovi amici, che per lo innanzi avea fatti sorvegliare! Quanto decoro, e quanta prudenza!

Né limitavasi a ciò, ma spingevasi fino a lodare i Conte nel momento stesso che diceva non conoscerli. Infatti, ignoti erano a lui; dappoiché se l'onorevole Duca di Popoli avesse conosciuto a quale sfera di uomini dessi si appartengono, forse si sarebbe limitato solo a denigrare me, non avendo impegno a lodar quelli.

Comunque lo stesso Murena avesse rivelato nella sua testimonianza l'essere più vero de' Conte, credendo di fargli una lodevole raccomandazione, col dirli: COOPERATORI DELLA REAZIONE SOSTENUTA DAL FAMIGERATO LA GALA, riporto qui valevoli documenti da me esibiti in difesa, e coi quali si fa la biografia di Ambrogio Conte da alti personaggi che ne conoscono per lungo e per filo la sua storia. VS Ambrogio Conte, maestro di scuola della gente popolare e della piazza del Mercato di Napoli, innanzi al 1848 viveva pitocco ed infelice. Di nessuna intelligenza, riduceva la istruzione a que' fanciulli, figli di fruttajuoli, pizzicagnoli, beccai e pescivendoli nel leggere l'Abbici, nello scrivere su i segni tracciati dall'amatita, nel conoscere i numeri sino a dieci.

«Di volto deforme, smunto, segalino, piccola testa; dagli occhi traluce la malignità del suo animo; sozzo nel vestire, sospettoso nell'incesso; ingordo di oro, metteva le mani in qualunque faccenda anche la più illecita, purché ne avesse usufruito profitto di pochi ducati. Di principi sovversivi a solo scopo di cambiare la sua vita, e vile condizione sociale, e tentare di ergersi in mezzo allo scompiglio degli ordini governativi.

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Odiava la Casa Borbone, e vagheggiava l'ora in cui con ardenza poteva spingersele contro, per vedere appagate le sue brame di sordida ambizione. Congiurò nel 1847, ma come prezzolato manubrio delle conventicole rivoluzionarie, e come manutengolo dei camorristi. Dopo la Costituzione data nel 1848 divenne Capitano della Guardia Nazionale del Quartiere Mercato dove fu Maggiore Comandante R... S..., il quale idiota com'era e debole, ma disonesti principi, fu cosi abbindolato dalle furberie di Ambrogio Conte, che costui subentrato nelle attribuzioni del Comando in Capo del Battaglione, fece di questo il più turpe mercimonio; dappoiché se ne servì per ispaventare i poveri balordi negozianti del Mercato, di S. Eligio e de' Materassari, i quali erano definiti da Conte anticostituzionali, e quindi segnati alla persecuzione dei facinorosi di piazza. Fu allora ch'egli cumulò molto danaro e ripulì il suo abito sudicio e rappezzato; e di ciò ne fanno fede ed ampia testimonianza i signori G R e L.... B -

«Per parecchi mesi ribaldeggiò in siffatta guisa, cioè fino al 15 Maggio 1848 giorno in cui si distinse sulle barricate, nutrendo con accanimento le fucilerie contro le Reali solfe datesene, sperando di abbattere la Dinastia de' Borboni. Indi salvatasi la vita per miracolo, dalle barricate passò di nuovo alla vita di pedagogo; e considerando la compromissione alla quale era esposto, dopo pochi giorni dal suindicato 15 Maggio, gettossi nella più fiera reazione denunziando nomi, intaccando reputazioni e diffamando uomini innocenti.

«Il mezzo di cui usò per divenire spia fu Io stesso R... S..., il quale, confidente del Principe di Salerno, a lui Io presentava. Ingraziatosi, per ordine del Principe, colla Polizia, cominciò a rendere servizi alla medesima. Divenne l'intimo agente del famigerato Campagna. Estorse al Principe di Salerno forti somme per sognate spese fatte in vantaggio della Causa dell'ordine. Rispose con ingratitudine ai benefici e alle deferenze, di cui il S... aveva largheggiato verso di lui.

«Fu creato finalmente Invigilatore della pubblica illuminazione con 15 ducati al mese in compenso di quanto aveva operato. Ma non ancora la sua ingordigia era satolla. S'introdusse in casa Murena per mezzo di un suo figlio pittore.

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In tal modo poté egli persuadere il Murena di organizzare una squadriglia di 30 uomini che servir dovea ad impedire i contrabbandi e ad essere di controllo a Doganieri. Così ebbe opportunità di darsi in preda ad un apcrto ladroneccio; poiché non solo la squadriglia non fu mai composta di 30 uomini, a cui davansi grana 25 per ciascuno al giorno; talché questa paga giornaliera pe' mancanti entrava nella sua scarsella, ma quando il contrabbando non fu mai tanto in vigore quanto in quell'epoca. La sapienza finanziaria del Murena a questo proposito fu più infelice di quella di un fanciullo dodicenne! Per giunta poi si davano a cotesto Caposquadra ducati 40 mensili oltre il primo stipendio per l'illuminazione.

«Venne da ultimo il Settembre del 1860, andò Conte fuggiasco non per le opinioni politiche, ma perché volevano ucciderlo queglino a' quali egli aveva estorto denaro, ed aveva usate sevizie poliziesche all'ombra della protezione del Campagna.

Elassi alcuni mesi ricomparve infìngendosi Borbonico, e con questa veste e dichiarando avere alte missioni, estorqueva danaro a dritta e a manca; ma conosciuto come impostore, e non potendo più beffare i creduli; vedendosi con pochi soldi in tasca, il dì 10 Giugno del 1862 recossi in Roma, con regolare passaporto, per speculare, sperando successi migliori a' suoi tenebrosi intrighi.

«Si aggiunga che Ambrogio Conte ha un figlio per nome Luigi, fatto Giudice dal Governo Italiano per distinti servizi resi, e che tuttavia rende, massime contro il brigantaggio e i manutengoli del medesimo».

Da altro documento, rilasciatomi da un'Autorità Ecclesiastica, desumesi che Ambrogio Conte condusse in sua casa N... il famigerato Cipriano La Gala, allorché questi fu ferito in un attacco avuto colle soldatesche Italiane, e se ne stava nel suo paese natio. Che dopo due giorni, non vedendo comparire tal P... che aveva assunto l'impegno di portar appo lui il La Gala, Conte se ne sbarazzò per tema di compromettersi affidandolo ad altro suo amico. Che dopo due mesi, guaritosi Cipriano, Ambrogio Conte ne riscosse 60 piastre per le spese giornaliere che disse aver sostenute. La Gala poi fecegli dono di un' orologio con corrispondente catena d'oro e di una verga di oro del valore di 300 ducati,

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avendo Conte assunto l'incarico di presentare al Re il suo ritratto che fece estrargli da un suo Oglio (1). Conchiude questo documento, affermando essere lo Ambrogio Conte uomo bifronte, ladro per eccellenza, e capace di tutto; il 15 Maggio 1848 si battette sulle barricate colle Regie Truppe.

Questi due documenti pervennero di Napoli, in seguito di richieste fatte da Roma da alti personaggi; e come ho detto, furono da me esibiti in difesa della mia Causa. - Ecco chi sono quelli che il signor Duca di Popoli lodò giurando 1

In un precedente articolo dissi della mia relazione col Conte dei Camaldoli, e de' servizi che gli resi; ed accennai alla inimicizia da lui spiegatamisi.

Ora dal processo i lettori han rilevato la testimonianza da costui fatta a mio carico: ed ecco in qual modo esprimevami la sua gratitudine pel servizio che io gli resi facendolo fuggire in Roma due anni prima!

Egli si rese spergiuro per giustificare i frodatori del denaro del Re!

Per Montanini? Lascio a' lettori l'analisi della sua iniqua testimonianza.

Ma la lista dei miei avversari non si riassume ne' soli, che ebbero parte nel processo; ve n'ha di quelli rimasti all'ombra, forse per rendere più sicura la loro azione. Fra questi fuvvi un altro uomo, non meno ipocrita del Murena; questi è il cognito e discreditato Mancinelli. Le parole pronunziate dal Ricciardi lo furono a sua istigazione, perché bisognava mostrare che la Cassa del Comitato, da lui vuotata, era stata da lui distribuita.

E qui non credo superfluo il tratteggiar di volo la condotta politica e morale di questo mostro per quanto è a me nota, mercé documenti messi a mia conoscenza da persone autorevoli; la quale riducesi al breve periodo di cinque anni, ovvero dal primo esordire della rivoluzione fin oggi; mentre per l'epoca precedente mi taccio sulla condotta del medesimo, essendo pur troppo nota al mio paese, che è pure il suo!

(1) Difatti Ambrogio Conte appena giunto in Roma ardiva di presentare al Re il ritratto del La Gala, ma fu con indignazione respinto l'uno e l'altro! come attestano documenti, che sono in mio potere, e che al bisogno esibirò.

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Questo Mancinelli adunque, intruso nel Comitato Camaldoli ne divenne il Cassiere!

In sull'Agosto del 1861 abbandonava il Comitato, portando seco tutto il denaro esistente nella Cassa, e che ascendeva a varie migliaja: e di lì a poco trasferivasi in Roma, ove saputosi la frode da lui commessa, venivagli ingiunto di uscire dallo Stato Pontificio.

Ma la potente influenza del Murena valse a far contramandare tale disposizione; ed il Mancinelli poté così rimanere in Roma, farsi credere emigrato per la Causa Legittima (secondo Murena) e gavazzare del denaro rubato a quella Causa di cui si era finto sostenitore.

Il Conte dei Camaldoli non conosceva il Murena, e fu egli il Mancinelli che li mise in relazione, ed imbeccò al Conte la testimonianza ch'ei fece a carico mio. la quale dovea riuscire utile a Murena e a Mancinelli.

Come questo rettile abbia eseguita la missione affidatagli dal Murena, ed in qual modo avesse corrisposto agl'impulsi del suo animo infame, i lettori lo vedranno appresso.

CAPO XXI.

La latitanza.

Dir fin dove giunse la persecuzione fattami dagli Agenti del Tribunale, a' quali si associò il Montanini stesso, dir fin dove, si estesero le loro ricerche per arrestarmi, torna faticoso.

Ed io come tre anni prima, fui obbligato a sottrarmi colla fuga a tale persecuzione e ricerche! Se nonché, tre anni prima era stato perseguitato quale partigiano della Dinastia Borbonica, come si espresse l'Autorità Giudiziaria di Napoli nell'Atto di Accusa pronunziato contro di me(1); in Roma,(1) SENTENZA DELLA SEZIONE DI ACCUSA

Luigi Mira

Assente, e prevenuto dalla veemenza dello stesso indizio che milita per Sorgente. Il suo nome e insozzato fra le carte trovate a Troise. Una perizia giuridica no dichiarerebbe alcune, con non lieve probabilità, di carattere del Mira; contro del quale starebbe la precedente sua

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ove scontavo l'esilio per tale colpa, era perseguitato per opera di un partito ignominioso, che mi atea dipinto invece zelante impiegato del Governo di Vittorio Emanuele; traditore della Dinastia Borbonica, come risulta dalle testimonianze di Murena, Ricciardi e Montanini.

Ma forte del mio diritto e della mia coscienza chiesi di difendermi, credendo esser facil cosa di riconvincere il Tribunale e smentire i testimoni mercé documenti di cui mi era possessore.

Mi affrettai quindi a far giungere la seguente istanza al Ministro di Grazia e Giustizia Modfeanor Pila.

«Eccellenza Reverendissima

«Il Cavalier Luigi Mira, Ufficiale di Carico dei Reali Ministeri di Stato di Sua Maestà Siciliana espone all'E. V. Re., verendissima quanto segue.

«Riparato in Roma per cause politiche, si vide astretto in Settembre del 1863 a produrre due querele alla Direzione Generale di Polizia ed al Tribunal Criminale contro Ambrogio e Pasquale Conte di Napoli, che con lui convivevano. L'una riguardava furto commesso in suo danno; l'altra aggressione, ingiurie e manomissione di carte interessanti la Causa del suo Legittimo Sovrano e quella del Governo Pontificio.

«Fin dal primo momento ei dichiarava, che non potendo fornir pruove intorno al furto, offriva di far cogliere in flagrante i rei della Giustizia. L'aggressione essendo avvenuta posteriormente egli fu costretto mercé l'ajuto dei Gendarmi Pontificl a cangiar domicilio. Così la sorpresa in flagranza non potette esser praticata.

«Scorso è un anno, in cui il querelante non tenne più dietro alle sue querele,

diffamazione politici, e la nota di caldo partigiano Dinastia Borbonica. Nella sua qualità d'impiegato presso il Ministero di Polizia, avrebbe dato gravemente a sospettare che tradisse i gelosi segreti del Governo in mano dei reazionart, coi quali era in frequente contatto, e ne menava vanto. - Appoggerebbero questo elemento le testimonianze di Velardi e Sansone, e quella più grave di Parascandolo, più autentica poi quella che risulta da una delle lettere assicurate sulla persona di Troise.

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né ebbe più sentore del cammino della processura. Intanto ad un tratto ci viene accertato che il Tribunale ha pronunziato l'innocenza degli imputati, fornendo così loro il diritto di poterlo incriminare per calunnia!

«Non si ebbe presente la querela per l'involamento delle carte, per l'aggressione e per le ingiurie, non si citò il querelante, onde interpellarlo sulle pruove ulteriori del furto, e si dichiarò l'innocenza, non su pruove positive, ma sulle negative. Imperocché si è fatto valere presso il Tribunale che il querelante aver non potesse la somma di scudi ventiquattro che diceva essergli involata. Quasicché questa fosse somma favolosa da non possedersi da un gentiluomo, stato in alto Ufficio, venuto co' propri mezzi in Roma, e co' propri mezzi fino allora sostentatosi. Quasicché non trattandosi di oggetti tassativamente indicati, i testimoni avessero potuto dichiarare quali somme ei poteva possedere. I testimoni si facevano giudici della sua economia domestica ed il Magistrato prestava loro fede fino a dichiarare l'innocenza degli imputati.

«Inutile il dire all'E. V. Reverendissima come queste testimonianze sieno il frutto delle passioni politiche onde sventuratamente gli esuli Napoletani sono animati!

«Pieno di fiducia dunque nella giustizia di V. E. Reverendissima il Cavalier Mira si fa a chiedere che si riassumano le posizioni, si uniscano a quella del furto le querele per lo involamento delle carte politiche, per l'aggressione ed ingiurie, onde la Giustizia venga di tutti i fatti chiarita, ed un querelante, dopo essere stato rubato, aggredito ed ingiuriato, soltanto perché non poteva fornir pruove per un reato che avveniva fra le pareti domestiche, non venisse offeso anche sull'onore, e sottoposto a Giudizio per calunnia.

«Frattanto essendosi spedito mandato di arresto contro l'esponente, supplica l'E. V. Reverendissima di ritirarlo, onde possa a pié libero far valere le sue ragioni e conseguire la giustizia.

«Sicuro di ottenere dall'E. V. Reverendissima una tal grazia le si protesta.

«Di V. E. Reverendissima

Umil. Dev. ed Obb.

Firmato - Cav. Luigi Mira

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Intanto il zelante Duca di Popoli. abbindolato dal Montanini e dalla de Verris, credette, che io in seguito dell'ordine di arresto speditomisi avessi lasciato Roma, e quindi si dava tutta la premura di assicurarne il Re, per dimostrargli, che io era tanto reo per quanto, senza difendermi avea emigrato da Roma! Vile e intrigante! Poteva io partir di Roma lasciando quivi il mio nome? Eppure la strana assertiva fu creduta!

Ciò non basta: il Duca di Popoli avuta nelle sue mani la copia della Sentenza del Tribunale, a favore de' Conte si sollecitava di presentarla al Re, provocandone la mia destituzione, ed il ritiro delle Onorificenze a me accordate.

Indi conduceva i Conte dal Re, appoggiando le calunnie che quelli ebbero l'audacia di pronunziare in pubblica udienza contro di me e del Ministro Ulloa; e poi si arrogava l'incarico di trasmettere egli stesso, al detto Ministro, la supplica che i Conte aveano umiliata al Re, nella quale questi due agenti di Murena e di Giovanna de Verris aveano avuto l'impudenza di usar la frase IL NOTO RIVOLUZIONARIO Luigi Mira, e provocavano in compenso dell'accusa da essi sofferta, ciò che il Duca di Popoli nonostante le più solerte fatiche durate presso il Re non avea potuto ottenere, cioè la mia destituzione, ed il ritiro de' miei Brevetti.

Le inscienze usate dai Conte in pubblica udienza, parlando ad un Sovrano, contro un Suo Ministro, e di un Suo suddito, che pure avea dato pruove tali da non meritare l'epiteto di noto rivoluzionario da gente la più abbietta della terra, furon tollerate; ma produssero gran sensazione sugli astanti! E la supplica rimettevasi al Ministro Ulloa, per mezzo del prepotente Duca di Popoli; forse per imporne al Ministro?!...

Ma quest' ultimo, che conosceva essere io tuttavia in Roma ed era in via di cominciare un secondo Giudizio, decretava su quella supplica: nulla potersi risolvere se non espletato il secondo Giudizio. Dacché chiaro si scorge, che se io fossi stato dichiarato calunniatore, sarei stato destituito ed avrei dovuto deporre ogni onorificenza!

Finalmente il signor Duca di Popoli, con degradante attività, assumeva l'incarico di far leggere a tutti e per tutta Roma, la premeditata Sentenza in favore dei Conte. Era tutto ciò amore di giustizia o odio contro di me?

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Debbo ancora intrattenere i lettori su questo articolo, avvegnaché io non manchi di citare talune ingiurie, che si vollero

Fuvvi, chi dimentico del mio procedere, in quel mentre osava di dire che io avea voluto darmi troppa importanza! E citava il fatto della mina pel quale avea inoltrato rapporto il 9 Gennajo 1864, e di che ho parlato in un precedente articolo!

L'essermi taciuto dopo le voci sparse allora dal Duca di Popoli, e da talun altro personaggio del Palazzo avea fatta ritenere per una mia invenzione quel rapporto.

Il Marchese Ulloa me ne fece de' richiami rimproverandomi per non aver io date ulteriori notizie sull'oggetto. Ed io chiamato in tal modo a giustificare la condotta da me tenuta in quella occasione, stimai opportuno di dirigergli la seguente lettera.

«Eccellenza

«Le accludo copia del rapporto che in data de' 9 Gennaio ultimo feci, umiliare a Sua Maestà il Re (N. S.. pel quale si chiesero a me ulteriori dilucidazioni, che io mi negai a porgere perché fuvvi persona altolocata, che confondendo in un fascio onesti e tristi, credé spiegare quel mio rapporto dicendolo spiritosa invenzione per poi sollecitarne ricompense; mentre non poteva ignorare che io non mi era mai indirizzato a Sua Maestà per ottener ricompense.

«Quel breve rapporto si faceva dopo un discorso sorpreso in un pubblico locale di persone più che sospette: chi n'ebbe cognizione credé suo dovere comunicarlo ad un'Autorità e questa a me, onde ne facessi consapevole persona autorevole in Palazzo

«Io dunque non era libero di tacermi e di assumere la responsabilità di avvenimenti se non certi, molto probabili; almeno così dovea giudicarli io dopo due precedenti notizie.

«Il Marchese G qualche giorno prima avea scritto che: si stesse in guardia essendo giunto a sua cognizione che si attentava alla sicurezza del Sovrano; e tale era la certezza dello scribente, del pericolo che qui si correva, che soggiungeva: se una fortunata occasione non si fosse presentata per

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«Nello stesso tempo l'Ambasciadore di..... ripeteva in casa della Principessa S..., mi si assicura si voglia tentare qualche cosa contro il S. Padre ed il Re di ma non ci presto fede: il Comitato ed i cospiratori Romani son dei miserabili.

«Quanto fosse esatta la notizia venuta di e quanto inesatto il giudizio dell'Ambasciadore, vien dimostrato dalla Causa che domani va a discutersi presso il Tribunale della Sagra Consulta.

«Qui accluso V. E. troverà copia degli Atti Processuali da' quali scorgerà di leggieri i gravi fatti che tendevano alla pace del Nostro Signore per opera di Cesare Filibeck ed altri.

«I due contemporanei avvisi giustificano la credenza, che mi ebbi nella partecipazione fattami.

«Ma ove anche tante ragioni non fossero concorse a convincermi del pericolo, e tutto fossesi limitato, poteva io coscienziosamente tacermi acciò non si facessero investigazioni che potendo tornare utili al Nostro Augusto Sovrano, non nuocevano ad alcuno? Molti criminosi attentati in via di compiersi non vengono sventati da anticipate prevenzioni, che spingendo a praticar cautele impediscono l'azione dei colpevoli?

«Del resto se anche quest'atto di devozione si è voluto volgere a mio demerito, in avvenire saprò tacermi, ammenoché non avessi pruove materiali, ciò che equivale a tacermi sempre.

«L'agente vigilante che conosce il personale, da una parola, da un gesto trae probabili induzioni, che poi con accurate indagini cerca o veder convalidate o svanite; ma pretendere la certezza materiale, in affari di simil natura, in paese straniero, senz'autorità e senza mezzi, e spesso avversato dallo stesso partito Realista, che piglia sotto la sua protezione i più luridi individui per poi convincersi, ma sempre troppo tardi, del loro essere, è materialmente impossibile.

«Ed a tal proposito ricorderò del Prete Speltra qui inviato dalla setta rivoluzionaria, sul di lui conto esitai lunga pezza a far rapporto, sapendolo legato in amicizia con persona di fiducia della Maestà Sua.

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Eppure mi risolsi di farlo il di 24 di Luglio ultimo (1); rapporto di cui non si tenne probabilmente conto, dappoiché lo Speltra nonostante la prevenzione da me fatta fu ricevuto dal Re; in seguito di che la notte del 10 Agosto venne arrestato dalla Gendarmeria Pontificia, giusta l'altro mio rapporto del dì 11 detto mese (2). Pel medesimo intanto sta procedendo lo stesso Tribunale della Sagra Consulta.

«Giustificato così il mio procedere intorno al suddetto mio rapporto sulla tentata mina, non mi resta che riprotestare all'E. V. l'alta stima e considerazione colle quali passo a ripetermi.

«Di V. E. -Roma li 29 Settembre 1864.

Umil. Dev. Obb.

Firmato- Cav. Luigi Mira.

(1) Roma 24 Luglio 1865. Trovasi in Roma il Prete Camillo Speltra, di Allignano del Cardinale, troppo noto pe' suoi antecedenti politici ed avverso al Nostro Augusto Signore.

Egli riceve pingue stipendio per essere qui mantenuto onde fare propaganda rivoluzionaria.

S'infinge Borbonico; è munito di commendatizie per diversi Cardinali e Prelati, e forse pel Segretario di Stato Cardinale Antonelli.,

Se non gli è ancora riuscito di vedere Sua Maestà non indugerà molto a vederlo per proporgli piani onde così aver nelle mani documenti ecc.

Si stia attenti, mentre io ne farò seguire le peste ed invigilare l'attitudine.

Firmato -Cav. Mira.

(1) Roma 11 Agosto 1865.

Il Prete Camillo Speltra, di Mugnano del Cardinale, di coi formò oggetto il foglio dei 24 dello scorso Luglio, è stato assicurato in carcere.

Essendosi proceduto a domiciliare perquisizione presso di lui, si è rinvenuto lungo carteggio stimato criminosissimo; un Bollo con Stemma Reale, ed un Cappello Vescovile.

Alcune altre carte riusciva allo Speltra di proiettare nel cesso, nel momento della perquisizione, ma furono riprese, e si è intenti a scovrirne il contenuto essendo scritte con inchiostro simpatico.

L'Autorità Giudiziaria procede a carico del prevenuto.

Firmato - Cav. Mira.

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Infine non si lasciava occasione alcuna per denigrarmi, dipingendomi un impostore, un bugiardo che creava pericoli e timori per farmi merito. I fatti poi han dovuto mostrare che tutto era forza d'intrigo per ingannare il Sovrano, il quale mostrandosi poco grato, disgustava gli onesti e li faceva cosi allontanare!

Il Duca di Popoli era giunto a sedurre tutti i gonzi pari suoi, contro di me; spiritose invenzioni si chiamavano i più rilevanti servizi che da me si rendevano; io, non essere altro che un Agente della rivoluzione, andato in Roma per cospirare contro il Re ed il Papa.

CAPO XXII.

L'interrogatorio.

Sempre attraversato dal permanente intrigo dei malvagi, si esitò per vari giorni ad accordarmi l'implorata difesa.

Quanto tutto era stato facile ai miei nemici di ottenere, altrettanto a me tutto riusciva impossibile!

Si esitava ad accordarmi ciò che non poteamisi negare: la difesa! Eppure i Conte accusati di furto, erano stati ammessi a difendersi a pié libero in opposizione alle stesse Leggi Romane!

Finalmente dopo 23 giorni di latitanza, mi si accordava la chiesta difesa, ed io il dì 23 Settembre 1863 mi costituivo per subire analogo interrogatorio.

Un fatto doloroso, e che mi rattristò non poco, precedette il mio costituto; dacché sempreppiù ebbi a convincermi che l'intrigo avea preso vaste proporzioni.

Un distinto Prelato Romano, per atto di cortesia credette di presentarmi a Monsignor Carletti, Presidente del Tribunal Criminale. Questi però lungi dal serbare quel contegno proprio della sua Carica, fece sfoggio dei suoi triviali modi nel ricevermi, caricandomi di villanie le più smodate, mi disse, che pe' Conte avean testimoniato CAPI DI CORTE E MINISTRI in di loro favore: che perciò la mia querela era a considerarsi una calunnia: che personaggi distintissimi erano stati da lui in Nome del Re a raccomandare i Conte.

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Passai quindi innanzi al. Giudice incaricato del nuovo processo, per subire il debito interrogatorio; ed ecco in qual modo io mi contenni.

Quali che fossero le interrogazioni fattemi dal Giudice sull'origine del mio esilio; sul mio modo di vivere in Roma e sulla mia latitanza in seguito del mandato di arresto speditomisi, è superfluo il ripeterlo. Util cosa sì ripetere la deposizione da me fatta sull'asserta calunnia; di cui veniva iniquamente incolpato, e sulle false dichiarazioni dei testimoni a mio carico.

Feci adunque precedere tale mio interrogatorio dalla seguente protesta.

«Pregovi signor Giudice di non rivolgermi domande vaghe che autorizzino vaghe risposte, ma bensì precise e concrete. Qui trattasi di onore, ed io non permetterò che si tacciala benché minima parte delle dichiarazioni dei testimoni, che io fin da questo momento dico spergiure. E non tralascio di protestare che agirò contro chiunque abbia osato di attentare alla mia reputazione. Eccomi quindi a dar sfogo alla Giustizia sulle accuse di cui vengo gravato...

La non provata colpabilità de' Conte non implica la colpabilità del Cavalier Mira. Cosa ha fatto giudicar calunniosa la mia querela? Una prevenzione morale, un fatto materiale. La prevenzione morale cioè: aver io servito con zelo il Governo Italiano, fino al punto di meritarne promozioni; lo aver ricevuto denaro dal partito Legittimista, per qualche LIEVE servizio reso (così nel Processo). Tutto ciò devesi distruggere con la testimonianza dello stesso onorevolissimo Duca di Popoli, che può asserire, e lo deve, i servizi da me resi al Re in Napoli, e poi in Roma; ed allora emerge chiara la verità, che lo zelo mostrato nel servire il Governo Italiano non fosse che una necessità per ispirare fiducia, e continuare a servire il mio Sovrano al quale aveva dato giuramento di fedeltà. E ciò che obbliga il Duca di Popoli a testimoniare in mio favore, sono le prove di gratitudine del Re da lui promosse a mio vantaggio, e da lui stesso sollecitate con alacrità presso il mio Ministro, il Marchese Ulloa; poco proclive in allora ad accordarmi ciò che dal Re si disponeva in beneficio mio.

Il Duca di Popoli mentendo la verità, ha asserito, con giuramento, financo, che io era estraneo agl'interessi politici del Re. Mi è dato provare, mercé documenti irrefragabili, il contrario!

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E dell'aver io ricevuto danaro dal partito Legittimista a che sciuparmi in parole superflue, quando son possessore di documenti tali da smentire sì iniqua accusa, che ben intendo a quale oggetto, e per insinuazione di chi ne vengo gravato? Io non feci mercato dei servigi che poteva rendere ad un Sovrano colpito dalla sventura, ma invece gli sacrificai una brillante posizione sociale che mi aveva procacciato coi miei onorati sudori, mi esiliai abbandonando famiglia e patria; e nello stesso esilio que' mezzi che servir doveano alla mia sussistenza, li dedicai alla difesa della Legittima Causa.

Resta dunque il fatto materiale, cioè che non potendo io possedere il denaro, che diceva trafugatomi, l'accusa di furto diviene calunniosa. Accettare ciò, come prova, è in verità poco prudente, poiché non trattandosi di migliaia, l'asserzione è della più arrischiata. Né vale il dire: viveva di soccorsi mensili di Dieci scudi, dappoiché lo stesso Duca di Popoli che me li ha passati da parte del RE per pochi mesi (1), purtroppo conosceva le enormi spese a cui ero soggetto pel Beai Servizio. Si volle eliminare fino la possibilità di possedere la meschina somma di 24 scudi rubatami; ma a ciò è facile rispondere fornendo la Giustizia di prove autentiche di denaro rimessomi da Napoli ripetutamele dalla mia famiglia, che in varie epoche mi permetteva di avere in mio potere somme molto maggiori a quella derubatami. Suppongo che le Tratte pagate da Negozianti accreditati in Roma, come Marignoli e C., nonché i successori Torlonia, e le lettere timbrate dalla Posta debbono ispirar più fiducia sul denaro che mi potessi avere, della testimonianza di un estraneo, che non poteva sapere quali si fossero le mie circostanze; e fossero pure miserissime, 24 scudi è tal somma da non costituire agiatezza, e da possedersi in un momento, dato anche che mi vivessi di elemosina, e tale non era il mio caso. Ma tale si è voluto far supporre per avvalorare la strana asserzione. Lo dissi: i testimoni si fecero giudici della mia economia domestica, ed il Magistrato prestava loro fede fino a dichiarare l'innocenza degli imputati non su prove positive ma sulle negative!I testimoni sia per ignoranza, o perché interessati a nuocermi, han celato tutto ciò che poteva essermi favorevole;

(1)

Intorno a ciò mi riporto alla Ufficiale Difesa.

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la Giustizia, nello interesse dell'onore barbaramente conculcato, deve approfondire con accurato esame, perché riluci la verità.

Si è attaccata la mia fede politica; si sono celati i miei servizi resi ad una giusta Causa, qual é quella del mio Re. Or non è a nuovi testimoni che io mi appello per far rilucere la verità, locché mi sarebbe pur facile, ma al medesimo testimonio a carico, al Duca di Popoli. Che gli si domandi, se io fin dal Settembre del 1860 inviavo da Napoli al Re, con rischio della mia vita, i rapporti che giungevano dalle Autorità subalterne del Regno al Ministero, e che esso riceveva, e ne dava conoscenza ad altri amici, che al bisogno chiamerò in testimoni. Si chiegga se è lui che a promosso avanzamenti ed onorificenze dal Re, che fece anche sollecitare dagli Onorevoli Signori Duchi di Gallo e di Civitella.

Potrei qui citare tutt'i servizi resi al Re e particolarmente in Roma, in seguito di Superiori Ordini comuncatimi dal Duca di Popoli, ma il compito è grave e delicato; mi limiterò solo a deporre, a suo tempo, sul banco de' Giudici tutti quei documenti che sono in mio potere, e che comprovano i miei servizi, come la conoscenza che ne aveva il Duca di Popoli.

Gli si domandi ora qual tradimento o slealtà abbiano mutato l'affetto e la stima in odio e persecuzione? Perché si à assunta la protezione di sconosciuti (come asserì coll'Eccellentissimo Duca della Regina, e con altri personaggi) a danno mio? Di me che avea sperimentato fedele ed onesto? Si denuncino tali fatti o mancanze, e si vedrà chiaro dalla Autorità, che toltone l'intrigo ordito per perdermi, e la poca esperienza dell'istrumento di cui sonosi serviti per raggiungere lo scopo, 'null'altro resta.

Se Murena mi avesse giudicato male, sapendo che aveva o servito il Governo Italiano, senza conoscere il perché servivo, quali i servizi che rendevo, quali i sacrifizii e i pericoli a cui mi esposi glielo avrei concesso; ma egli asseriva con giuramento che i carichi appostimi li avea appresi dallo Onorevole Commendatore Mazza ex Direttore del Ministero di Polizia, stato mio superiore immediato.

La onestà di sì onorato gentiluomo, eccezione di quel fango che governava il Regno del mio Sovrano, non faceami punto dubitare

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ch'ei fosse talmente dimentico del mio essere da nascondere involontariamente il vero.

Non pertanto ho voluto farlo interrogare sull'oggetto da onorevoli personaggi ai quali non solo ha assicurato di non aver mai detto ciò che il testimone Murena 'giurando depose, ma che è pronto, anzi prega di essere legalmente interrogato sul mio conto.

Ed intanto il Signor Giudice inquirente prestava fede ai detti del Murena, nulla curando di sottoporre, com'era suo dovere, a debito costituto il Commendatore Mazza.

Nulla io dico degli altri testimoni pe' quali mi riserbo di riconvincere il Tribunale con documenti della loro mala a fede; mi riporto alla sola testimonianza del Duca di Popoli, ove mi si prometta di non lasciargli campo libero a tacersi; che ove poi asserisse il falso, non mi mancheranno testimoni per riconvincerlo, a meno che trattandosi del povero e del ricco non mi si usasse violenza e soprusi, ciò che in verità neppur temo dalla equità del Tribunale di Pio IX.

Il Duca di Popoli è stato spinto a deporre contro di me dalla sua Giovanna de Verris, che con lui convive; quella stessa che fecemi involare le lettere del Duca, come si vedrà dalla storia dei fatti che esibirò più tardi.

Vengo ora al merito della querela pel furto del danaro, giudicata calunniosa in forza delle false deposizioni dei testimoni.

Io non feci alcuna deposizione, designando unicamente i Conte quali autori del furto; ma nominai i vari individui, che aveano accesso nella mia casa bensì, e più specialmente i Conte. Emerge chiaro come non fossi sicuro degli autori del furto, commesso a mio danno, poiché nella querela offri di far cogliere in flagranti i rei.

La mia coabitazione co' Conte è chiara prova che non avessi contro di essi tristi prevenzioni, ma non poteva però eliminare da loro i miei sospetti dopo che nel dì 13 Settembre del passato anno, essendomi assentato dalla casa dopo aver messo i soliti segni al comod, al ritorno che feci, non potetti entrare ad onta avessi la chiave della porta d'ingresso, essendosi questa fermata al di dentro: ciò che fecemi credere essere quello il momento in cui eseguivasi la solita indegna operazione. Entrai dopo aver lungamente picchiato la detta porta, che mi fu aperta da Ambrogio Conte,

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e rivoltomi al comod ne erano scomparsi i segni pochi istanti prima messivi; in quel momento non vi era altri in casa che i due ripetuti Conte!

L'arresto di essi non fu da me provocato; chiesi con altra querela alla Direzione Generale di Polizia il regolare procedimento giudiziario a loro carico, in seguito della sottrazione dei miei scritti politici, e all'aggressione ed ingiurie di che si fecero colpevoli la mattina del 30 Settembre detto anno 63.

La causa di querelarmi non fu affatto impulsiva, la evitai anzi, sempre lusingandomi, che la sola curiosità spingesse gli autori ad aprirmi il comod; ma quando mi avvidi della mancanza delle lettere del Duca di Popoli risguardanti il fatto del 30 Aprile 63, e di altre carte politiche, tra le quali un'importante rapporto su di una certa cospiri razione a di cui Capo stava il Murena, e per la quale io aveva ricevuto incarico dallo stesso Duca di Popoli di far sorvegliare; quando mi accorsi della mancanza del denaro, allora mi mossi ad avanzar querela per quest'ultimo delitto al Tribunal Criminale, mentre, come ho detto, per l'involamento delle carte ne mossi querela alla Direzione Generale di Polizia.

E mi occorre far osservare un'altra particolarità, la quale conferma sempreppiù, che non ebbi mai in animo di far male ad alcuno.

Quando mi avvidi, e mi assicurai, che il mio comod veniva aperto, chiesi al mio amico Piva persona, che occultandosi nella mia camera, potesse nella mia assenza sorprendere chi aprisse il mio scrigno; col patto però che, non volendo far danno a nessuno, mi avrebbe soddisfatto la sorpresa degli autori in flagrante, che al mio immediato sopraggiungere dovessero essere lasciati in libertà. Piva si rivolse a tale Adriani, Agente di Polizia; ma questi rifiutossi adducendo, non poter rilasciare i delinquenti laddove li avesse colti in flagranza.

Comunque il signor Piva, testimone a mio discarico, abbia dichiarate queste particolarità nell'interrogatorio subito, il Giudice Processante signor della Bitta non si diede neppur la pena di esaminar l'Agente Adriani, come non esaminò il Commendatore Mazza!

Della impossibilità di poter io possedere denaro ne ho già parlato, ed esibirò, come ho detto, documenti che provano il contrario.

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Solo voglio aggiungere la seguente ridessione morale, onde sempreppiù provare la evidenza del mendacio asserito. - Scorso è un anno dacché io diedi le mie querele; scorso è un anno dacché il Duca di Popoli non ha più fornito i dicci scudi mensili (i quali come ho già detto a' dispendi di Posta e di altro, pel servizio del Re, e non al mio mantenimento servivano); ed intanto Mira vive in Roma, vive decentemente, e sottostà tuttavia a' dispendi che gli cagiona il Real Servizio!

Questi fatti che Sua Eccellenza il Ministro Presidente di Sua Maestà il Re, mio Augusto Signore, e l'Onorevole Signor Duca di Civitella possono attestare, debbono far conci chiudere che io aveva mezzi miei propri per vivere, e poteva avere la sparuta somma di 24 scudi. E fosse pure, che io vivessi colla vistosa somma di dieci scudi, che il Duca di Popoli non ha arrossito di attribuire alla sua borsa tanta prodigalità, mentre mi si corrispondevano dal Re, come posso provare; fosse pure che io non riceveva ajuti dalla mia famiglia, chi è che può asserire che io non avessi recato meco denaro da Napoli quando fuggì, e che non volessi riserbarne parte per qualche caso improvviso di malattia o di altro che mi avvenisse in Roma? La più volgare prudenza avrebbe ciò consigliato anche al più misero; e la somma di 24 scudi non aveva bisogno né di lungo tempo, né di grande opulenza per tenersi in serbo. Ma sono obbligato dalla stessa riflessione morale, a ripetere che: i testimoni si fecero giudici della mia economia domestica, ed il Magistrato prestava loro fede fino a dichiarare l'innocenza degl'imputati, non su prove positive, ma sulle negative.Io Io non voglio rilevar fatti del Tribunale, ma mi si presenta un raziocinio assai semplice: il Tribunale non poteva, per disposizione di Legge, mandare in libertà due imprigionati per imputazione di furto. O dunque li liberò perché vide la mia querela non li indicava come colpevoli, ed allora come ne nasceva la imputazione di calunnia contro di me? O la calunnia era certa, e come si mettevano in libertà con difesa a pié libero due imputati di furto? Questa precipitazione del Tribunale diveniva anche più evidente, quando non partecipava alla Direzione Generale di Polizia, siccome era suo debito, la liberazione dei due imputati, pei quali ben conosceva che eravi altra querela per la sottrazione de' scritti politici!

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Il signor Murena conchiude il suo esame così esprimendosi: Dalle cose narrate io debbo manifestare alla Giustizia come dal primo momento, m cui mi fu notificata la querela fatta da Mira, Non so Perché ebbi un convincimento intimo che questa fosse l'effetto di una vendetta esercitata da lui contro i signori Conte.Donde questo convincimento del Murena è ben facile il comprenderlo, laddove si ponga mano alla querela esistente presso la Direzione Generale di Polizia per lo involamento dei miei scritti politici!

Si è voluto financo asserire che sul mio conto corre sinistra fama presso la Emigrazione Napolitana: certo che non solo Popoli, Murena, Ricciardi e Montanini costituiscono la Emigrazione Napolitana; ed io ho sufficiente pruove e documenti per dimostrare la mia onestà e retto modo di vivere, come la politica e la morale de' predetti individui. E acciò sappiasi, in fatto di attaccamento al mio Legittimo Sovrano non la cedo ad alcuno di tutti quelli che compongono tale Emigrazione; i fatti avvalorano i miei detti. Ma è guerra di partito! E se Murena ha avuto il convincimento di essere la mia querela effetto di una vendetta, io pure son convinto che le dichiarazioni di lui, che si è costituito in qualità di Ministro innanzi all'Autorità Giudiziaria, e del signor Popoli che si è spacciato qual Capo della Real Corte di Napoli, per dare imponenza a' loro detti, sieno dettate da odio e da vendetta; il primo perché di avverso partito politico, ed il secondo per impulsi della sua

Gl'informi sul mio conto doveano raccogliersi dal vero Ministro di Sua Maestà Siciliana, qual egli è il Marchese D. Pietro Ulloa, e dalla Legazione di Napoli presso la Santa Sede, Autorità entrambe riconosciute dal Governo Pontificio, e le sole che io riconosca a me superiori dopo il Re. E non accettare deposizioni passionate, che senza chiarire i fatti attaccarono la mia fede politica e la mia onestà; delle quali cose è dato solo alle cennate Autorità, da cui dipendo, di risponderne.

Parmi troppo avventato il basare la reità o l'innocenza sul convincimento di un testimone!

Lo stesso Duca di Popoli che ha deposto contro di me, senza nulla precisare, di nuovo interrogato, potrebbe divenire testimone a discarico.

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Depongo i documenti che provano aver io altri cespiti per provvedere alla mia sussistenza, oltre i dieci scudi di cui si mena tanto scalpore; e che se li ebbi per pochi mesi, li respinsi è già qualche tempo, come possono provare gli Eccellentissimi Ducili della Regina e di Civitella; mentre poi ho continuato il servizio pel mio Sovrano, caricandone del tutto le spese su di me.

Fo presente una serie di fogli di lumi, i quali rivelano tutt'i fatti che han preceduto e seguito la contestura del processo che ne occupa, e che io prego sieno letti in ogni loro singola parte.

In ultimo esibisco copie identiche di tutt'i Decreti e Diplomi che riguardano la mia condotta politica, ed i meriti verso il Re mio Signore; ciò che si è travolto ben altrimenti da' miei detrattori; locché dimostra sempreppiù che è guerra di partito, diretta a nuocermi in faccia al Sovrano ed alla Società.Conchiudo questa mia deposizione eleggendo per mio Avvocato la Ufficiale Difesa».

Firmato - Cav. Luigi Mira.

CAPO XXIII.

I falsi Messi del Re.

Dopo il mio Costituto del 23 Settembre 1864 eran già trascorsi cinque mesi, ed io non aveva più sentore del cammino della processura, nonostante le mie continue pratiche perché si pronunziasse il Giudizio.

Io avea eletto la Procura Ufficiale in mia difesa; ma questa non poteami difendere, se pria il Tribunale non le rinviasse gli Atti processuali. Le mie pratiche per ciò ottenere erano vive ed incessanti.

Instancabili erano intanto i miei avversari nel tentar d'influenzare le Autorità Giudiziarie, ed or questo, or quel personaggio che poteva essere a me nocivo, e per essi proficuo.

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Agente principale del Murena e del Popoli era il Mancinelli. Costui odiato in pria pe' suoi disonesti precedenti, e divenuto poscia il confidente e lo strumento attivissimo del partito avverso, con un audacia che non è a dire, ardiva presentarsi or al tale, or al tal altro Giudice; ed improntando il Nome Del Re, raccomandava i Conte, ed avvalorava tutto ciò che i testimoni aveano assunto a mio carico nel primo processo. Potrei ripetere sillaba a sillaba tutte le parole pronunziate, in Nome Del Re, da costui nel fine di farsi credere un Agente del Re, e dal medesimo inviato a raccomandare i Conte ai Magistrati che li aveano dichiarati innocenti, onde si fossero tenuti fermi nel giudizio avvenire.

È di questo rettile vergognoso di cui si avvalse il Nobile Duca di Popoli. Mentr'ei per secondare la de Verris impiegava volontà e denaro, il Mancinelli creava intrighi e li attuava appoggiando entrambi le loro menzogne, fino a darsi per inviati di Palazzo ed interpreti della volontà dei Re.

Questo diabolico lavoro menato innanzi dal Popoli e dal Mancinelli, che con attività rappresentavano la falsa parte di Messi del Re, avea paralizzato il Tribunale; epperò si cercava di sopire la Causa.

Finalmente vista ogni via chiusa dall'intrigo sempre crescente per impedire la decisione della mia Causa, il dì 24 Gennajo 1865, avanzai istanza al Tribunale; ond'é che gli faceva noto che la. influenza dei miei nemici era giunta a mandare in obblìo il mio Processo; e perciò ne domandavo il sollecito disbrigo.

Alla dimane io mi aveva dal Tribunale la intima (colla data degli 11 Dicembre 1864! giusta il documento che ne conservo!) di costituirmi l'indomani, 26, perché discutevasi la mia Causa. Contemporaneamente ricevei avviso di presto condurmi dal Difensore assegnatomi dalla Ufficiai Procura.

Portatomi sollecitamente da quest'ultimo, lo trovai sgomentato, e pel nero Processo fabbricato contro di me, e pel tempo materiale che gli si era tolto per preparar la difesa. Allora compresi che ad arte mi si era intimata la Causa quando non restavami tempo a poter preparare l'analoga Difesa!

Ma non era ciò solo, che sgomentava il Difensore; era la trista prevenzione in cui erano i Giudici verso di me. Sicché egli si accingeva a rinunciare alla difesa della mia Causa.

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Rassicurato però dalla serie di valevoli documenti, che gli esibì, poté convincersi esser facil cosa lo abbattere l'infame edificio della calunnia innalzato da' miei nemici, e così decidevasi a difendermi. Dimandava però ed ottenne dal Tribunale, che la Causa fosse differita ad altro giorno, onde poter preparare l'analoga difesa in iscritto.

CAPO XXIV.

L'incompetenza del Tribuna! Criminale, e i miei documenti.

Il primo incompleto Giudizio (come chiaro apparisce dal processo) compilato con inaudita malvagità dal troppo cognito Giudice istruttore signor Della Bitta, dava luogo ad una seconda processura da me provocata.

Come testé i lettori hanno osservato, fui interrogato; e gli clementi di mia giustifica f'uron ritenuti talmente sovrabbondanti da non lasciar dubbio alcuno, fra i molti da me consultati, sull'esito di questo nuovo Giudizio; ma perché tal fosse il risultato, bisognava imbattersi in Giudici non prevenuti, per aver libero campo a difendersi.

Se non che per una delle tante difettuosità della Procedura Romana, il mio Giudizio esser dovea il demanio di quei stessi Giudici, che avevano giudicato dapprima.

Fin dal principio io mi era qualificato: Ufficiale di Carico dei Reali Ministeri di Sua Maestà Siciliana; epperò nonché chiedere la IMMUNITÀ come appartenente a dun Ministero estero di un Sovrano tuttavia riconosciuto dal Governo Pontificio, provocai per mezzo del mio Difensore, dal Ministro di Grazia e Giustizia la incompetenza del Tribunale Criminale, ed in sua vece altro, che giudicasse di me; e ciò non solo per avere Magistrati nuovi, ma ancora per evitare scandali nella difesa.

Quindi il 30 di Gennajo 1864, giorno fin dove era stato fissato il differimento, il mio Difensore dichiarava la incompetenza del Tribunal Criminale non senza sorpresa e rammarico di que' Giudici!

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Frattanto il mio Avvocato dava principio alla Difesa in iscritto; per la qual cosa occorrevagli tener presenti i miei Decreti e Diplomi per ragionare sulla mia condotta politica particolarmente, che era stata turpemente denigrata dai miei nemici.

Non essendo prudente esibire originalmente tali documenti, feci estrarne copie identiche, e le recai alla Cancelleria della Legazione Siciliana presso la Santa Sede per farne legalizzare la firma del Ministro Presidente.

Dissi delle pratiche vergognose fatte dal Duca di Popoli per farmi togliere i Brevetti; e qui giova rammentarlo ai lettori onde fissino la loro attenzione su quanto segue.

Ritornato alla Cancelleria per riprendermi le copie di quei documenti legalizzati, mi furon... NEGATE, adducendosi vari pretesti: si eran ritenute, perché credutele originali (1)!

Questo incredibile fatto mi dimostrò, che i miei nemici eran riusciti a far loro complice persona alto-piazzata, la quale, ove non avesse voluto giovarmi, non avrebbe dovuto farsi mai strumento della vendetta di uno spudorato partito; ben comprendendo che togliendomi quei documenti, mi toglieva ogni difesa, m'inviava a' ferri, mi privava della vita civile.

Nello stesso tempo il Ministro di Grazia e Giustizia di Roma, influenzato dal Mancinelli, che in Nome del Re non lasciava di attraversare i miei passi, negava al mio Difensore la provocata incompetenza del Tribunal Criminale. Ed io vidi che sottostar dovea allo arbitrio di Giudici che pubblicamente spacciavano la mia condanna.

Da ciò mi avvidi, e con dolore mi convinsi, che Roma più che il Tabernacolo della vera giustizia, è fogna di vizi, che spesso si nascondono sotto l'ipocrita maschera di virtù e di carità cristiana.

Fui fatto certo che I'Augusto Capo del Cattolicismo tratto sempre in inganno, come avviene di tutt'i Sovrani per opera di quelle camarille che circondano i Troni, credendo di affidare la cosa pubblica a tipi di onoratezza e di moralità, la affida a Funzionari ed Agenti dei più tristi e corrotti.

(1) Laddove questa mia assertiva provocasse dubbi, o si cercasse di smentita, sarò obbligato, mio malgrado a dare più precise nozioni; e nominerò le persone che possono farne testimonianza.

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Non intendo con ciò asserire che vi fosse scarsezza di buoni; concederò anche che siano in gran maggioranza, che ve ne siano moltissimi fra i pubblici Funzionari; ma i buoni, sia un'esagerata modestia, sia sconforto nel veder costantemente progredire il male, sia tema d'insozzarsi al contatto dei tristi, se ne restano dolenti, ma passivi spettatori di tanta enormezza, e di tanta corruzione, senza neanche tentare di poni riparo e diminuirne la portata.

Attraversato sempre da questo fiero intrigo, che ogni di prendeva vaste proporzioni, stimai util cosa rivolgermi a persona autorevole nel Beai Palazzo cui eran già note le mene dei miei avversari, e le traversie che tuttodì mi venian fatte. E narratigli i miei casi, gli feci sentire, che ove non mi si lasciasse campo libero alla difesa, trattandosi d'onore personale, avrei abbandonata la Causa, e mi sarei appellato all'opinione pubblica, innanzi alla quale soltanto il diritto e la giustizia finiscono sempre per trionfare!

Mi fu ingiunto di dirigere al Re una istanza provocante, come Ufficiale dei Suoi Ministeri, la ripetuta incompetenza del Tribunal Criminale. Ed io gliela diressi ne' seguenti termini.

«SACRA REAL MAESTÀ

«Alla Maestà Vostra è certamente noto l'iniquo giudizio intentato e spinto contro il Cavalier Luigi Mira, Uffìziale di Carico delle Vostre Reali Segreterie. Egli aveva indicato come possibilmente rei il padre e figlio Conte di un furto di scudi 24 e della sottrazione di carte politiche. I Conte vennero assoluti, e con quant'aperta violazione delle Leggi Pontificie, non è da dire. Eglino non paghi dell'assoluzione, han voluto spingere un Giudizio per calunnia, facendosi strumento di potenti vendette!

Se alla Maestà Vostra si potesse rivelar a parte a parte la trama della Processura, l'animo giusto e religioso della Maestà Vostra ne sarebbe inorridito. Le basterà soltanto sapere, che alti personaggi dell'Emigrazione Napolitana, non han ripugnato dallo scendere a far da testimoni falsando il vero, onde denigrare e perdere il Mira, avvalendosi talvolta anche del Nome della Maestà Vostra; han messo financo in dubbio la sua fede politica di che non poteva essere Giudice competente che la sola Maestà Vostra, a cui eran cogniti i piccoli servigi resi dal Mira.

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«Tali indegne pratiche avendo preoccupato l'animo dei Giudici, l'Ufficiale Difesa eletta dal Mira ha creduto espediente declinare la competenza del Tribunal Criminale, per In qualità di Iniziale di Carico dei Ministeri Nnpolitani che ha il Mira.

Ora tal eccezione, non tende ad evitare il Giudizio, ma ad ottenere più alto Magistrato, il quale giudicando in segreto e senza influenze, può, senza ledere la dignità dell'Emigrazione Napolitana, permettere al Difensore avvalersi di più copiosi mezzi di difesa.

A tale oggetto il Mira supplica la Maestà Vostra in qualità di suddito e di Uffizi a le pubblico di esser sostenuto e protetto in questo privilegio riconosciuto dal Governo Pontificio alla Maestà Vostra come Sovrano nella pienezza dei Suoi diritti. Chiede egli dunque di essere in ciò protetto non più di altri, ma come ogni altro Vostro impiegato, senza che ciò implichi in realtà protezione o alterazione nel Giudizio. Chiede giustizia e non clemenza; e Vostra Maestà saprà accordargliela quando considererà, che egli solo, esule e senza mezzi deve lottare contro la vendetta, l'influenza del nome e la fortuna dei suoi nemici.

Roma li 2 Fehbrajo 1863.

Umil. Dev. e Fed. Suddito

Firmato - Cavalier Luigi Mira.

Si crederebbe?-Il dì appresso, 3 Fcbbrajo, mi si comunicava dalla Cancelleria della Legazione Siciliana la seguente disposizione - Non sono questi momenti di agitare quistioni internazionali.Che dovea pensare, che dir dovea dopo queste inaspettate traversie? Dovea fermamente credere, che ad ogni costo si volea perdermi.

Ben a ragione i miei nemici andavano pubblicamente dicendo, che non sarebbero rimasti soddisfatti che quando mi avessero visto nei ferri.Pure mi affidai interamente alla Ufficiale Difesa, la quale basavasi su documenti irrefragabili, che contestavano il mio essere.

Ma mentre il mio Avvocato avea scritto la Difesa, venivagli proibito in prima di darla alle stampe e poscia del tutto vietata; e perché in essa venivan rintuzzate le false assertive dei testimoni,

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e perché saputosi, che i documenti originali erano in mio potere, e non già come si era creduto, mi fossero stati tolti, allorché li recai alla Cancelleria della Legazione Siciliana!

Dietro quest'altra pruova d'infamia mi convinsi, che i miei nemici eran riusciti a pervertir tutti; fui fatto sicuro che la giustizia era per venir in persona mia oppressa e conculcata.

Urtato dalla impazienza, mi decisi a rinunciare alla Difesa Ufficiale e di affidare la Causa ad un Avvocato particolare. Ma saputasi tale mia risoluzione, fu concessa la difesa all'Avvocato di Ufficio, però resa a metà per covrire le false deposizioni dei testimoni che in essa venivan rilevate.

Non però mi si faceva sperare un felice esito; mi si accordava la difesa, e dovea difendermi non con le armi proprie; vedeva chiaro l'intrigo, e dovea tacermi; si erano asserite falsità, ed io non dovea scovrire l'inganno, sol perché le falsità erano state asserite da Murena che si era spacciato Ministro; da Popoli che si era dato a credere Capo di Corte!

Pure a tutto rinunciai, purché si tenessero presenti dai Giudici i documenti Ufficiali.

Ma con ciò nulla aveva a sperare; lo stesso Monsignor Annibaldi Capo della Difesa Ufficiale, lustro del Foro Romano, e pregevole per quanto giusto, nel mentre mi esprimeva la sua angustia in vedermi vittima di un intrigo di partito, mi dichiarava esser difficile il vincere la Causa, dovendosi lottare contro quattro baluardi, quali erano i Giudici, che per umani riguardi non avrebbero al certo confessato l'errore commesso, di aver cioè assoluti due imputati di furto senza prove positive.Che altro mi restava a fare perché ottenessi giustizia? A chi rivolgermi per ottenerla, quando chi meno il dovea avea contribuito a farla conculcare?

Uomini onesti non avevano omesso di tentare dei mezzi, perché la cosa fosse finita senza il disonore altrui, senza pubblicità; ma tutto invano. Gì'instancabili Mancinelli e Popoli avevano resa quasi loro dimora le abitazioni de' Giudici, tanta era l'assistenza, che gli facevano; osando sempre di far vive istanze nel Nome del Re onde non si ammettessero in difesa i miei documenti Ufficiali.

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Mancavano cinque giorni per discutersi la mia Causa, ed il Mancinelli impudentemente qualificandosi ancora inviato di portavasi da Monsignor Sagretti, Presidente della Sagra Consulta, per fargli la solita raccomandazione, e questi rispondevagli, che laddove una tal Causa fosse giunta al suo Tribunale, egli avrebbe finanzialo a tale giudicalo, essendovi in campo tante passioni di partito!Non contento di ciò, adoperavasi l'onorevole Duca di Popoli presso la Presidenza di Polizia del Rione Colonna, ove io teneva domicilio, e guadagnato coll'oro uno di que' birri, io era assoggettato a mille molestie. La porta della mia casa, come quella di un malfattore, veniva sottoposta al picchio continuo di birri e gendarmi.

Il Marchese Ulloa, la di cui previdenza, figlia di quella esperienza e sublime ingegno che lo rendono quell'uomo di Stato ch'egli è, ben vedeva ove spingevami questo vasto intrigo. Epperò se fino allora non avea presa alcuna parte in una lotta che da me solo, fidente in Dio e nella giustizia del Tribunale di Roma, si era sostenuta contro uno stuolo d'intriganti, in vedendola venir in persona mia oppressa, davasi la cura, più nell'interesse della Causa del Re che della mia, di scrivere all'Eminentissimo Segretario di Stato., Cardinale Antonelli, pregandolo di provvedere in modo da evitare scandali; dappoiché trattavasi di metter Mira nella condizione di abbandonar Roma, ciò che verificandosi avrebbe arrecato nocumento alla Causa Legittima.

Per ben due volte il Ministro dirigeva al detto Cardinale sue lettere in simili termini concepite, senza che ne avesse ottenuto risposta alcuna: l'intrigo avea tratto in inganno anche il distinto Diplomatico!

CAPO XXV.

Le carte politiche e la mia Casa.

Dietro questo cumulo d'intrighi, d'infamie e persecuzioni, io mi convinsi che Roma non più era per me; ma dove andare? Le mie circostanze non permettevano un secondo esilio. Aveva una famiglia, che non valeva più tener lontana, ed accrescerle i sacrifici; per chi poi? Per un partito che avea lavorato onde fossi dannato ai ferri?

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Perché Murena, Popoli, Ricciardi e tutta la setta sanfedista ridessero alle mie spalle? Un altro esilio dunque, come la permanenza in Roma, erano per me affatto impossibili.

solo restavami, la mia patria: ma ad onta fossi amnistiato dal Re Vittorio Emmanuele (1) non credetti prudente azzardarmi a ritornarvi, senza positive assicurazioni da parte delle Autorità politiche. Epperò, che avendole fatte interrogare sull'oggetto, mi si rispondeva: permettermisi il rimpatrio a condizione di restituire ciò che non era mio... le carte che nel 1860 io avea creduto di sottrarre dal Ministero.

Convien notare, che l'Autorità politica di era stata da Roma informata con denuncia, che io mi era possessore di quelle carte.

La mia casa, sita alla Strada Vita N. ° 75, 2° piano, veniva indicata come il luogo ove trovavasi sepolto il delicato deposito: non si era proceduto su tale denuncia, e perché non precisavasi il sito, ove le carte celavansi, e perché precedentemente io era stato assoggettato ad infruttuose perquisizioni domiciliari, in seguito di altre accuse politiche, tra le quali, quella di un tal Giuseppe Elefante, giusta la sua dichiarazione posteriormente fatta, e che trovasi in mio potere.

Troppo doloroso erami lo accettare una simile condizione; epperò, che animato dal sentimento religioso, e forte di mia coscienza, io resisteva ancora a fronte d'intrighi sempre crescenti. Quando una novella infamia più che stoltezza del Duca, di Popoli, coronava l'iniqua opera dell'avverso partito, di cui egli era divenuto il principale attore.

Dopo alquanti mesi, dacché io era giunto in Roma, espressi;i' Duri! di Popoli la mia idea di trasportare quivi le cennate carte, onde sgravarmi del dispendio di una pigione, che pagar dovea per la casa in cui trovavansi esse riposte. Ma ragioni di lodevole prudenza consigliarono di continuare a sostenere una spesa e non far novità!

I lettori ricorderanno di aver letto in un precedente articolo il nome del Sacerdote Francesco Saverio Conte, impiegato presso il Pio

(1)

Deliberanza della Corte d'Assisie. -Con liberarla del 2 Dicembre 1863 la Corte d'Assise deliberando in conformità del Pubblico Ministero ammette al godimento della Sovrana Indulgenza Luigi Mira, ed ordina di ritirarsi il mandato di cattura.

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Monte della Misericordia, che per averlo io conosciuto in occasione dell'affitto della casa suddetta, di proprietà di quel Pio luogo, mi avea diretto in Roma una commendatizia in pro di suo padre Ambrogio? Ebbene odano in qual modo questo Sacerdote si faceva complice dell'intrigo sanfedista che in Roma si scagliò contro di me.

La casa suddetta io la teneva in fitto da sei anni. In sul principio del 1865 mi s'intimava il congedo, rigore fino allora non mai usato, avverso dal tempo che in quella abitai.

Molte pratiche furon fatte da' miei presso i Governatori del Monte per ottenere il nuovo affitto; e non ostante le orali promesse di assentimento fatte da costoro, il degnissimo Sacerdote Conte dando a credergli che vi erano molte richieste per la detta casa, proponeva loro si aprisse una pubblica gara!

Il dì 12 Gennajo infatti avea luogo l'accensione della candela alla quale non più molti, come slealmente si era asserito ai Governatori; ma un sol competitore si ebbe nella gara, un tal Giovanni della Gatta. antico impiegato presso la Gran Corte dei Conti di non ha guari messo in aspettativa dal Governo Italiano.

La pigione dalla somma di ducati 72 aumentò alla cifra di ducati 115, 50 rimanendo cosi aggiudicata al della Gatta la casa, com'era da prevedersi; giacché egli è un faccendiere presso il Monte della Misericordia, e fu dall'intrigante prete indotto a togliermela, giusta le posteriori sue confessioni!

Non contento di ciò, il della Gatta, immaginando molestie da parte dei miei per avermi tolta la casa, recavasi dall'Autorità di Pubblica Sicurezza, presso della quale deponeva con una sfrontatezza a lui pari, che: per aver egli presa in fitto una casa in cui nascondevansi degli oggetti appartenenti a Luigi Mira (facendone la più accurata biografia), veniva insidiato dai suoi, e chiedeva però dall'Autorità garanzie e provvedimenti.

In seguito di che persona della mia famiglia il di 28 dello stesso mese di Gennajo veniva chiamata innanzi alla cennata Autorità ed acremente ripresa.

Ritornando a ciò che poc'anzi ho detto, il Duca di Popoli sapeva, che nella mia abitazione io conservavo le carte; e se tutti ignoravano la esistenza di tal deposito, due soli ne erano scienti: uno interessato al segreto, e che per ora non oc

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messo a parte, come di tutto, la sua... Giovanna de Verris, che più interessata a vendicare animosità particolari, che a garantir Tortore del suo vagheggino, poco curava di sacrificare una famiglia innocente, purché le carte cadessero in mano all'Autorità. Visto, che la denunzia non avea prodotto l'effetto voluto, si lavorò per togliermi la casa, onde poter casi fare ricerche direttamente, avendo molti dati di riuscirvi senza grandi difficoltà. E lo strumento di questo altro intrigo esser dovea uno che si dice... Sacerdote!!! Il quale si prestava ad una infame vendetta, nulla curandosi dell'altrui rovina!... Opera degna di un Passagliano!!

Intanto la persecuzione rendevasi sempreppiù ostinata e fiera; la mia libertà individuale veniva con mille provocazioni attentata. Allo avvicinarsi del giorno, in cui decider si dovea la mia Causa, Agenti di Polizia a Capo de' quali eravi il Maresciallo de' Gendarmi Pontifici, tal Pancaldi (famoso pe' Romani!) non saprei se con regolare mandato o spinto da private suggestioni ed insistenze, non lasciò più di vista la mia casa, la mia persona. Insidiato, deriso, oltraggiato dal lezzo senza guarentigie, e senz'appoggio; negatami ogni giustizia, io mi convinsi che il lottar co' prepotenti era per me assolutamente frustraneo, e dirò impossibile.

A fronte di un intrigo così vasto, che alla mia compromissione volea aggiungervi quella di altri: non poteva rimanere indifferente. Ed infatti; poteva io rimanere le carte nella casa, che andava fra poco ad essere occupata da Giovanni della Gatta, certamente non favorevole alla Causa Borbonica, e procurare così una sicura compromissione ad una famiglia, che ignara del compromittente deposito era subentrata nella mia abitazione a custodirla, allorché io parti per Roma?

Poteva io rimanere indifferente, vedendo trionfare l'opera iniqua, e rimanere oltraggiata l'innocenza, e represso il giusto grido di dolore?

Esauritisi quindi da me tutte le pratiche possibili, e presso il Tribunale, e presso ogni Autorità, sempre reclamando giustizia. Adempito a tutti gli obblighi inerenti al mio onore, e riuscito impossibile ogni mio tentativo per rimuovere e trasportare altrove dalla casa toltami le carte che vi si custodivano;

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incalzato sempreppiù dalla persecuzione, che da ogni

E come dissi, ridicolo e nocivo ai miei interessi sarebbe stato abbracciare un nuovo esilio per un partito che voleva a tutto costo perdermi.

.,.. Non restava adunque, che , e io non poteva rivedere che restituendo ciò che non era mio, e che era stato tanto poco apprezzato, da guardare con indifferenza che io fossi maltrattato, umiliato da un partito che per privati interessi, per private aspirazioni avea giurato ad ogni costo la mia perdizione.

Cedetti al fine alle condizioni impostemi dal Governo Italiano. Avrei potuto lasciar Roma immediatamente, e così sottrarmi a tante iniquità, che mi avvelenavano la vita, e ad un non lieve dispendio, che mi cagionava la difesa della mia Causa; ma l'onore mi comandava di restar fermo al mio posto infino alla decisione del Giudizio, che dovea aver luogo il dì 23 Marzo 1865, e vi restai.

CAPO XXVI.

La Difesa Ufficiale ed il Giudizio.

Quantunque mi fosse stato permesso di dare alle stampe la Ufficiale Difesa, come dissi, si vollero covrire le falsità asserite da' miei detrattori col sopprimere talune parti della medesima.

Ciò non toglie che io, come stabili e promisi adempio: la riproduco cioè in queste pagine per intiera; tal quale fu vergata dalla mano di chi fece valere i miei diritti e mi fe rendere giustizia.

£ poiché in essa si fa cenno di taluni punti della mia vita politica e di alcuni fatti e particolarità riferibili al processo dei Conte, che io ho dovuto omettere ne' precedenti articoli per non ripetere le stesse cose e per non inoltrarmi in un lavoro faticoso e lungo, prego il lettore di fissare la sua attenzione su questa Difesa.

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AL 2° TURNO

dell'Eccellentissimo Tribunale Criminale di Roma

L'ILLUSTRISSIMO E REVERENDISSIMO MONSIGNOR

GIUSEPPE FRANCHI

Vice-Presidente

ROMANA DI PRETESA CALUNNIA

RILIEVI A DIFESA

del Signor Cavaliere LUIGI MIRAMARZO 1865.__________ Onorevoli Signori Giudici.1.

Chiamati da chi regge tanto studiosamente la difesa pubblica a tutelare le ragioni del Cav. Luigi Mira, accusato di calunnia dai suoi concittadini Ambrogio e Pasquale Conte di , fummo quasi in procinto di declinare rispettosamente fiducioso incarico; tanto ci parve insostenibile la causa di quest'uomo, che dipinto a colori nerissimi da tutto il processo, dimostrato di depravata morale e di condotta peggio che equivoca, convinto dall'unisone asserto di più testimoni non solo incapace di possedere un peculio per magro che fosse, ma vergente in tale spaventevole inopia da esser quasi costretto a vivere con l'elemosina; avea poi avuto la rara impudenza di querelarsi di un furto di ventiquattro scudi, addebitandone autori gli odierni recriminanti: che voi o Signori avevate su tali elementi di fatto rimandati pienamente assoluti come innocenti, proclamando constare la non esistenza in genere del crimine che gli era stato addossato. -

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2. Ed in vero, noi dicevamo a noi stessi, come potrebbe sperare onesta difesa di persuadere ella mai che Mira non calunniasse, quando chiamava i Conte colpevoli del lamentato furto e gli girava sul capo un odioso processo, se, oltre all'essere egli tal uomo, i di cui antecedenti nella vita sociale autorizzano a ritenerlo capace di qualunque scelleratezza; è poi positivamente accertato da personaggi anche distinti, che non ha mai posseduto neppur la millesima parte di quanto pretese far credere gli fosse rubato; prova l'essere stato costretto nei giorni stessi in cui finse il furto a suo danno, di mendicare umilmente l'obolo dell'emigrazione dai Magnati del suo Paese, col quale poteva appena sopperire alle più strette ed urgenti necessità della vita?

3. Ma essendo m tale frattempo venuto il Mira da noi, ed alle non dissimulate nostre apprensioni avendo dato risposte così rassicuranti da eliminare qualunque dubbio sulla di lui buona fede nello avere sospettato nei Conte gli autori del lamentato furto; non solo rinunciammo risolutamente all'idea di disertare la difesa, ma ci ponemmo colla maggior fiducia all'opera del discolparlo, nella certezza di redimere questa vittima dei più fortunosi eventi, dalla non meritata pena che sovrasta i calunniatori, non che dal vitupero che la più cruda e sfidata IRA DIPARTE, aveva voluto addensare sul suo capo, qualificandolo insieme un abbietto impostore, ed un vii traditore del paese e del Re!

4.

Voi lo vedete però Onorevoli Giudici, male avrebbe potuto in noi effettuarsi questa improvvisa rivoluzione di idee, malgrado la più sicura coscienza del buon diritto dell'imputato, se non ci avesse sorretta eziandio nel novello divisamente la confidenza di una grande docilità, di una religiosa anzi scrupolosa fermezza nell'amministrarsi da Voi imparzialmente la punitiva giustizia. Dappoiché qual mai lusinga potevamo noi avere di sostenere la ragione anche la più basala e irrecusabile, d'innanzi a Magistrati che non ci avessero offerto sicurtà della più gran rettitudine, allor ché questi già preoccupati da una prevenzione sinistra, compromessi in certa tal guisa da una propria sentenza, doveano nulladimeno che disconoscere molti supposti fin qui ritenuti, e negar fede a quelli stessi cui avevan pure poc'anzi accordata la più sicura valutazione? Ma rassicurati appunto dalla felice esperienza che ci ammaestra, di perorare al cospetto di un Tribunale

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al lontano periglio di commettere un ingiustizia, per non rinunciare ad un opinione preconcetta; noi abbiamo potuto ben dire a noi stessi: mano alle controprove, si ponga sott'occhi ai Giudici la storia documentata della condotta, dei casi, e dell'esser più vero del giudicabile, e i Giudici non indietreggeranno al certo per umani riguardi: ma emanazione come Essi sono della giustizia di Dio, che invocano nei loro giudizi, renderanno novello e più splendido omaggio alla santimonia del vero! Eccoci adunque o Signori a compiere così geloso officio, nell'esaurimento del quale, mentre ci studieremo di ottemperare ai molti riguardi che c'impone una serie d'eventi, di calamità, e di nobili infortuni, pei quali dovremo trascorrere di mezzo; procureremo per quanto il comporti l'angustia del tempo e la brevità che ci siamo imposti, di raccomandarci pur sempre alla scorta di documenti preziosi fino 'ad ora da Voi sconosciuti onninamente.

5. Luigi Mira di sebbene giovane ancora di età, per non avere trascorso il trentesimo anno, si trova aver sostenuto una parte bene importante nell'amministrazione civile del Regno. Dipinto dai suoi detrattori, e in special modo dal Montanini, dal Commendatore Murena e dal Conte dei Carnatdoli pel figliuolo di un basso impiegato di polizia, che ottenne di essere impiegato sotto il Regno di Francesco II, nel Ministero di Polizia, quale Usciere, con pochi ducati di soldo; e che venuto il Governo rivoluzionario, per la protezione del Segretario Spaventa fu promosso ad ufficiale nel Ministero con 80 ducati al mese (fog. 39 e seg., fog. 97 e seg., fog. 110 e seg.). Ecco invece di quali natali egli sia, ed ecco quale camera percorse secondo le dichiarazioni del primo segretario di Stato attuale del Re, e Presidente del Suo Consiglio dei Ministri- «Il Cavaliere Luigi Mira uffiziale dei Reali Ministeri, è figlio di Giuseppe Ufficiale graduato del gabinetto segreto del già fu Marchese Del Carretto. Egli, il Luigi, imprese la sua carriera nel Ministero di polizia nel 1850, e per probità, ingegno e morale politica gli furono affidati i più gelosi segreti di quella Segreteria di Stato, ed allo scoppiare della rivoluzione teneva le funzioni di Uffìziale di carico (Somm. N. 1).

6. Educato dal padre ai più fermi principi di fedeltà e divozione verso la Dinastia Reale e specialmente a riconoscere nel Re la provvidenza della propria famiglia, legato sempre

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7. Era questo un delitto? Era un infamia? Certo noi converremmo lo fosse in buona morale, quando egli, come indegnamente insinuava il Conte Ricciardi-Camaldoli (Proces. fog. 1li) avesse percetto per tale servizio 35 ducati alla settimana da un Comitato Borbonico. Dappoiché chiaro sarebbe che nuovo Giuda, egli a vii prezzo avrebbe tradito il nuovo padrone, da cui comunque era pagato, e mantenuto in onorevole grado, non giovando le sorti del Re decaduto che per insanguarsi del suo tesoro o del danaro de' suoi partigiani. ' Ma si potrà dire altrettanto, una volta che è dato desumere da classiche testimonianze, che egli a ciò si prestava non per bramosia di lucri e per vile avarizia, ma per puro spirit5o di parte, per devozione profonda al suo antico Sovrano, per la pielà e l'ira insieme che in lui eccitava il più grande infortunio che mai colpisse cosi rapidamente una Reale Prosapia? In buona fede non sapremmo asserirlo! Era una guerra guerreggiata, di cui Mira sosteneva la parte più debole e oppressa. Lo strattagemma che egli era tenuto di usare per giovare alle sorti del campo, lo inchiodava al posto in cui apparentemente serviva i nuovi rettori. Se veniva scoperto, come fellone sarebbe stato giustamente punito del capo,

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ed ecco l'ammenda cui si esponeva, come ad un giuoco d'azzardo. Ma nell'intimo della coscienza, innanzi a Dio ed alla morale, noi non crediamo peccasse; perocché le sue intenzioni erano al fondo oneste, quanto lo è il farsi campione di chi si ritiene il Legittimo Principe, spodestato ingiustamente del Regno. Che d'altronde fossero i suoi servigi spogli affatto d'ogni idea di mercato, che egli ponesse a zara un impiego di 45 ducati, la libertà personale, la patria, la sua famiglia, e molto probabilmente la vita per sola convinzione di principi, e per prodigiosa riconoscenza al Re; voi lo toccherete ora con mano, o Signori, inorridendo alla vostra volta dopo di noi, della sleale impudenza di chi, presone Dio a testimonio, giurò che Mira facesse del suo zelo per la Causa Borbonica, un traffico indegno, una speculazione la più vergognosa!

8. Era il Mira pertanto mai sempre in a continuarvi la perigliosa serie dei suoi servigi all'Esule Dinastia, allorquando ai 16 Aprile 1861 il Re Francesco II fatto conscio della sua costante abnegazione, per dargli una prova di Sua Sovrana benevolenza, gli conferiva, la Croce di Cavaliere di. seconda classe del R. Ordine di Francesco I, e non una borsa come altri turpemente mentendo volle far credere. Voi troverete nel numero 3 del Sommario il Brevetto, che constata simigliante Sovrana Munificenza, qual'é bene sapere che fu provocata da una rispettosa proposta fatta al Re dal Signor Duca di Popoli, che senza conoscere personalmente Mira, avendo però prove non dubbie de' suoi eminenti servizi, si tenne

in obbligo di farli rimunerare in tal guisa dal proprio Sovrano, e volle compiere benanche un atto grazioso con Mira trasmettendogli esso medesimo il Reale Brevetto portato a notizia del Mira dal Cav. Gran Croce Pietro Ulloa Presidente del Consiglio dei Ministri, e vi dimanderete ben presto nella vostra sapienza, se abbisognavano croci ed onori per un mercenario che vendesse sé stesso a contanti!9. Ma ciò non prova abbastanza. Difatti in tempi di politiche vicissitudini non suole per troppo guardarsi tanto per lo sottile da chi è specialmente interessato a farsi o mantenersi parteggiatori, al modo più o meno largo, più o meno degno di rimunerarli. Vi è però proprio come mostrare alla evidenza, che Mira serviva una Causa, e non esercitava un abbominevole industria. Ed il mezzo con cui appunto si riesce trionfantemente a questa dimostrazione,

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fu ottenuto dal Mira, della Causa Legittima, costava 33 ducati alla settimana... protestò che non avrebbe ulteriormente più proseguito nel proprio compito, non solo fin tanto che non si fosse smentito un così sanguinoso mendacio, che disonestando innanzi all'intiero partito tutta l'opera sua, lo faceva discendere dal piedistallo della cospirazione sostenuta pel Re al fango del tradimento; ma fino a tanto che la stessa MAESTÀ di Francesco II a mezzo de' suoi Reali Ministeri non avesse con un atto officiale riconosciuto l'assoluto e nobile disinteresse, col quale avea egli sempre prestato tanti pericolosi servigi.

10. Alla quale protesta ponendo l'eloquente suggello del fatto, mentre da quel giorno non diede più segno di vita in favore dei legittimisti, rispose il 18 Aprile 1862 il Ministero e Real Segreteria di Stato della Presidenza, dirigendogli da Roma in il seguente Dispaccio officiale. «Sua Maestà il Re (D. G.) ha comandato che sia a Lei espressa la sua Sovrana soddisfazione, pei segnalati servigi che Con Tasto Disinteresse (sic!) e Pericoli sta rendendo.... La Maestà Sua conta sul di Lei zelo ed operosità, e non mancherà a suo Tempo di prendere in considerazione i suoi servigi alla Legittima Causa» (Somm. N. 4). Si dava allora di nuovo il Mira, e forse con maggiore alacrità che non pel passato, ad adoprarsi pel Re. Il quale l'il Maggio, faceva esprimergli di nuovo dal suo primo Ministro la Sua Sovrana soddisfazione pei servigi finora resi con solerzia e buon volere (Somm. N. 5). Dal che è necessario desumere che il prevenuto fosse all'altezza della sua missione senza deturparsi giammai colle degradanti esigenze che taluno malignamente gli appose: mentre al contrario riuscirebbe impossibile a spiegare giammai come si potessero prodigare tanti favori ed encomi Sovrani ad un uomo così poco pregevole, come quello che avrebbe mercanteggiato l'opera sua ponendola a prezzo!

11. Questa è istoria, Signori Giudici, né può valere a smentirla un referens sine relato, quale è il signor Commendatore Murena, che pone in bocca all'ex Direttore generale di Polizia di (Proc. fog. 96) cose che questi interrogato da onorevoli personaggi, affermò,

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come potreste provare (avendo preterito di farlo chi lo doveva per officio!) (l)di non aver mai detto, né le passionate parole di un ex feroce, come lo si chiamava in gergo volgare, quale egli è il Montanini, né finalmente le assertive del Duca Tocco di Popoli, che assecondando piuttosto le ire di una donna venale, di quello che le ispirazioni del proprio cuore nobile e generoso, lanciò la sua pietra sul capo del Mira, col designarlo bisognoso e affatto straniero agi' interessi politici del proprio Re.

12. Vi è però ancora qualche altra pagina da segnalare alla vostra attenzione per edificarvi, o Signori, sulla fede di coloro, chiunque essi sieno, che posero il Mira in un quadro sì abbietto e degradante; e per convincervi, se pur n'é d'uopo, una volta di più, che voi avete a che fare non già con un uomo bassamente venale; ma con un giovane di onore e valoroso il di cui unico torto, se vi è torto nelle sue azioni, potrà consistere nello avere scelto dei mezzi impropri per servire, però sempre zelantemente, anzi con passione di figlio più che di suddito, al proprio Signore.

Al quale faceva sagrifizio della giovane Sposa, che non poté seguirlo in terra d'esilio, di una splendida posizione sociale, delle delizie del suo paese natio, non che degli agi e della sicurtà della vita, senza chiedergli mai un quale che siasi guiderdone o compenso!

Dobbiamo pregarvi a seguirci nel breve riassunto storico dei fatti, che posero appunto in così perigliose ed ardue riprove la fedeltà senza pari del giudicabile.

13.

In fatti convien sapere che, fosse caso, indiscrezione, o delazione maligna di alcuno dei partigiani, gente invidiosa che a malincuore vedeva nel Mira centralizzarsi e far capo la parte più eletta dei fautori dell'antico Regime, la Questura di scuoprì al fine il pericoloso lavoro, cui esso intendeva così alacremente, profittando delle notizie officiali che attingeva dall'esercizio del proprio impiego. Onde ecco un bel giorno assediarsi la sua casa dai famigli della Sicurezza Pubblica, ceco rovistarsi le sue robbe, e ricercarsi di lui in ogni angolo della Città; talché fu veramente prodigio se dopo essersi celato per qualche tempo agli stessi suoi fidi, poté alfine avventurarsi una notte al mare sopra un fragile legno a remi, e costeggiando le spiagge guadagnare i nostri confini; portando seco quella perla preziosa di Achille Montanini, (1)

Allude al Giudice signor d. 'Ha Bitta che istruì il Processo.

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che rimasto privo de' mezzi di' sussistenza ed esposto alle ire del nuovo sistema e de' partiti avversi, lo scongiurava di qui condurlo a salvamento, per poi dargliene in premio un accusa di tradimento, e di mala fede, e per fino di calunnia!14. Venuto in Roma pertanto fece egli capo alla R. Presidenza dei Ministeri e narrati i suoi casi, le scampate traversie, e il volontario esilio, si mise anima e corpo, come suoi dirsi, alla disposizione del proprio Monarca. Né fece verbo dei danni patiti, del pingue onorario e più della bella carriera perduta, finalmente delle ingentissime spese sostenute pel rischioso viaggio e del dispendio cui lo sobbarcava la lontananza dai propri lari domestici, per ottenere compensi o per lo meno sussidi della Reale Munificenza. Ma pel contrario con una generosità degna di altri tempi, e che pur gode l'animo di segnalare in mezzo a tante vigliaccherie, si rimase egli in Roma a tutto carico della propria famiglia, e sol pago di vivere in quella stessa Città in cui riceveva ospitalità rispettosa quel Principe per cui erasi nobilmente immolato. Tanto che commosso l'Augusto Esule a tanta sua abnegazione, volle Egli stesso in qualche modo ricompensarla ordinando ai 22 Aprile 1865 al suo primo Ministro di Stato di assicurarlo con un apposito dispaccio (quale ebbe il Mira dalle mani del signor Duca di Popoli) che avendo (sic) sottoposto a Sua Maestà il Re (D. G.) l'esposizione minuta dei servigi da lui prestati e dei pericoli corsi prima che fosse stato costretto a venirsene in esilio, la M. S. avea comandato che fossero presi in degna considerazione i suoi servigi come i suoi pericoli, e le Attuali Sue Sofferenze e che la Restaurazione avvenuta, egli avesse la proprietà del posto in cui si trovava in atto, allorché venne costretto ad elegger con la fuga l'esilio (Somm. N. 6). Che anzi come non pago di avere con delle sole lusinghiere parole, e col conforto di liete speranze avvenire, rimunerato una fedeltà senza pari, ed un disinteresse così segnalato, e ben conoscendo che pel Mira non era cosa più grata che un distintivo d'onore, dopo pochi altri giorni innocuo attestato della Sua Sovrana Considerazione per le pregevoli sue qualità lo stesso Re si degnava commutargli la Croce di Cavaliere di 2^ Classe del R. Ordine di Francesco I di cui era stato insignito, in quella di 1" classe dello stesso R. Ordine (Somm. N. 7) facendogli ancor sempre tenere il Brevetto col mezzo del signor Duca di Popoli.

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15. Ecco tutti i vantaggi che s'ebbe Mira pel suo intrepido zelo e per la parte che prese attivissima in favore della Restaurazione tanto da lui vagheggiata. Dei Diplomi onorevoli che testimoniano il suo disinteressamento, e la sua fede; delle Croci che lo distinguono tra molti (forse non tutti venuti in esilio per volontaria elezione) che si dan vanto di vittime della rivoluzione, e di generosi campioni del Re!

16. Se non che qui rimanendo non era egli l'Uomo da star l'i ' sene colle mani alla cintola. E di natura solerte e industrio

sa, sempre più incatenato dalla comune sventura alle sorti del proprio Sovrano, si diede egli a tutt'uomo ad attivare corrispondenze per mantener viva la fede negli uomini del suo partito, e per eccitarla eziandio negli avversi, sia usufruì, t

lando lo spirito di autonomia, che è pur così vivo in quella regione, che presentando ai suoi Concittadini il ritorno del Re Francesco come il principio di un era nuova, che senza togliere ai Napoletani i benefici di un moderato regime, li avrebbe esonerati dagli aggravi di tante imposte, e specialmente dal troppo gravoso tributo di sangue, che oggi pagano all'Armata.

17. Ma in ciò fare sosteneva egli un dispendio superiore di troppo alle proprie forze, costretto come era a sostentarsi del suo in questa nostra Città, in cui non si vive certo al più grasso mercato. Pel che non isdegné dopo un anno all'incirca di accettare un tenue assegnamento di 10 scudi mensili , che gli fu offerto dal signor Duca di Popoli, da parte del Re;

onde, giova bene avvisarlo, poter in parte sopperire alle ingenti spese che incontrava ogni giorno; per la corrispondenza epistolare (che è pur costosissima) che avea attivato (1), della quale (senza svelare dei gelosi segreti che racchiude e che si raccomandano da loro stessi alla mia ed alla vostra delicatezza) potrete o Signori quando il vogliate aver saggio, permettendo che l'accusato la deponga in originale coi relativi timbri sopra del vostro tavolo!

18. Frattanto il Re se non poteva umiliare la nobile alterezza del Mira offrendogli dell'oro in premio

(1) Dopo le ingiuriose insinuazioni del Popoli su questo assegno travisato in sussidio, il Mira lo ha rifiutato costantemente, come potrebbe provare S. E. il Duca della Regina e S. E. il Duca di Civitella, al quale S. M. avea ordinato di passargli qual solito indennizzo in luogo di Popoli.

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19. Questa è la biografia, questi sono i precedenti morali e politici dell'imputato, che se noi abbiamo tratteggiato di volo, non mancammo però di accreditare con riscontri di fatto innegabili. Ed è questo quadro retrospettivo del giudicabile quello che a nostro avviso deve bastare a provare ineluttabilmente contro ogni critica ed ogni insinuazione maligna. 1. Che egli non fu il suddito infido, che per elevarsi a più sublime grado sociale, spergiurò al Re decaduto, ritornando più tardi a vendergli a peso d'oro i suoi calcolati servigi! 2. Che egli non nacque della fogna-schifosa della birraglia, né mai sostenne umilianti posizioni sociali; ma pel contrario deve la vita ad uno dei primari impiegati dell'antico Governo Reale, e percorse egli stesso una superba carriera, trovandosi a soli 26 anni, quando fu rovesciato il Trono Borbonico, già Uffiziale di Ministero, esercente provvisionalmente il posto di Ufficiale di Carico! 3. Che se venuto a salvamento nel nostro Paese, dopo essersi fieramente compromesso col nuovo Regime, continuò a prestarsi per la ragione del proprio Re, ciò fece giammai per avidità di guadagno, o basse mire di privata speculazione; ma per solo e caldissimo amore di Causa, per puro attaccamento al Monarca che lo avea degnato della sua piena fiducia, fino a permettere che dirigesse e regolasse egli solo l'Archivio Segreto del Ministero (che quindi salvò con rischio indicibile dalle mani dei rivoltosi!) (1) e che non cessava tuttavia dall'onorario, sia col testimoniargli in tanti splendidi modi la sua Sovrana riconoscenza, sia coll'insignirlo dei suoi Ordini Cavallereschi! 4. Alla perfine, che coloro, chiunque essi sieno, e da qualunque splendido nome o luminoso titolo ornati, che così fieramente lo denigrarono, qualificandolo un uomo volgare sorto dal nulla, anzi da origine cotanto vile che solo mercé il tradimento poté permettergli di pervenire ad elevati posti officiali, un paltoniere per giunta che per vivere in Roma dovea andar pitoccando la beneficenza dei signori della Corte; sono altrettanti testimoni iniquamente spergiuri. I quali sorprendendo e abusando la buona fede del Tribunale, necessitato altronde in fatto di un forestiero a credere a chiusi occhi

(1) Questo, come altri fatti di simil foggia non possiamo documentarli. Starà al Tribunale, ove lo creda necessario al merito della Causa, di verificarlo a suo tempo, chiedendone conferma dal Reale Ministero di a mezzo delle solite trafile Ministeriali.

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alle notizie dategli da persone del suo stesso Paese, cosi distinte per rango, per nobiltà e per antica ingerenza nell'amministrazione governativa del Regno, non arrossirono a costo di una opposizione flagrante, anzi veramente oltraggiosa alla dignità del proprio Sovrano, di denigrare in sì fiero modo un suo Ufficiale cosi benemerito per disfogare delle passioni di parte, o come bene si esprime il Presidente dei Ministri, per Pratiche E Mene Di Partito di mentire vilmente innanzi a Dio, ed alla giustizia pubblica attentando alla vita civile di un loro stesso concittadino!

20. Con simiglianti prolegomeni di fatto crediamo e a buon diritto avere in gran parte difeso la Causa. Imperocché se era facile il credere senza altre prove più certe, che un birro in maschera di Cavaliere, un miserabile pitocco rovesciato nell'avito suo fango dal letto di rose in cui lo avea posto la fellonia, un impostore per dir tutto con poco, che non avea altro di buono che l'ardimento e l'impudenza, avesse potuto sognare un furto alla punitiva giustizia, e calunniarne autori due galantuomini: non sarà al certo altrettanto logico a ritenere capace di tanta enormità un giovine d'onore, di cui si conosce per filo e per segno l'origine e si hanno notizie tanto rassicuranti sulla di lui condotta morale civile e politica, quanto palmari del suo nobile disinteresse!

21. Pur tuttavia non ci arresteremo per certo a queste osservazioni puramente congetturali per scuotere ottimi Giudici, le vostre coscienze, e rassicurarle sul conto dell'imputato, ma con dati non meno certi e positivi di fatto, di quelli che avemmo sin qui l'onore di motivare. Vi mostreremo eziandio più esplicitamente che Mira non suppose quel furto, per cui furono giudicati gli odierni attori Pasquale ed Ambrogio Conte con dichiarazione della loro innocenza; ma che il denunciò ritenendo pur troppo si fosse avverato nella maggior buona fede e che quindi egli giammai potrebbe esser tenuto colpevole di una volontaria calunnia! Dappoiché secondo tutti i principi di sana giurisprudenza e lo stesso tenore letterale della nostra legge di rito, non convenga sotto il pretesto di reato arrecarsi jattura a chi ebbe ad esporre una formale querela quand'anche abortita in un decreto assolutorio, se non allora soltanto che resti senza dubbio provato, con apertissimi indizi di dolo CHE SCIENTEMENTE E DI MALA FEDE

- 107 - divenne22. Ma per progredire con ordine nella esposizione di queste nuove ragioni, ci conviene riandare per poco o Signori sulla causa che dié luogo alla vostra re-giudicata, la quale motiva attualmente una recriminazione contro il cliente.

23. A Voi adunque è già noto, come dopo qualche mese di permanenza in Roma, non potendo più il Mira tenere stanza nella casa del sig. Giuseppe Piva, che avea locato l'appartamento ad una famiglia straniera, scelse a dimora una modesta camera di un casamento in Via delle Quattro Fontane N. 53. Dove non già rinvenne albergati, come s'insinuò bugiardamente, ma condusse seco egli stesso (oltre al Montanini) Ambrogio e Pasquale Conte, traendoli da una cameretta, coperta appena da miserabile tettoja in Via della Tinta N. 5 in cui Ambrogio gemeva da lungo tempo infermo, e privo di ogni umano soccorso. Un poco simpatia di principi (almeno per la fede che mostravano i Conte all'apparenza) ed il desiderio di trovarsi al fianco di propri compaesani, coi quali sogliono aversi comuni le usanze, i costumi e lo stesso dialetto, fu questo assieme che spinse il Mira ad unirsi coi Conte. Ai quali mise siffatta stima e fraterna benevolenza, che essendosi poco stante aggravato il malore del vecchio Ambrogio fino a minacciare i suoi giorni, egli oltre al soccorrerlo di medicamenti, che a proprie spese fece per lui venire appositamente da (Somm. N. 10) si rimaneva poi giorno e notte vicino al suo letto ad assisterlo con tanta cura ed amorevolezza, quale non avea forse per lui lo stesso suo figlio!,

24. Ma questa unione amichevole, che faceva dei quattro ospiti della signora Maddalena Rasinelli come una sola famiglia dovea ben presto esser turbata dal demone della sfiducia e del sospetto, che invase e terribilmente il Mira; allorquando dai giornali di vide resi di ragion pubblica i suoi casi più intimi, e certi incidenti della sua vita politica che, oltre a talun personaggio la di cui sublime lealtà rimuoveva da lui per fino l'apprensione lontana di una incivile indiscretezza, non potevano essere noti che a lui solo (1), od a quello che avesse sorpreso i suoi segreti, ponendo slealmente

(1) Potremo mettere in vista del Tribunale talun numero di queste effemeridi per constatare il fatto.

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la mano tra le cure che tanto gelosamente serbava in un mobile della sua stanza!

Il dubbio è più spaventoso più brutto talvolta della stessa realtà, perché ci condanna a quella specie di scetticismo che ci fa perdere la bussola di tutte le antiche convinzioni, e ci fa vedere in ogni uomo un nemico e un furfante.

Da questo penoso sentimento agitato cominciò il Mira adunque a porre nelle fessure del tiratojo del comod, in cui teneva la sua corrispondenza epistolare, e gli altri scritti di maggior interesserei segni quasi invisibili a chi non li avesse pur divinati. E con crescente allarme e rammarico li vide bene spesso mancanti al suo tornarsene in casa. Con il che se non poté ancora individuare gli autori di un abuso cosi enorme ed abominevole, fu reso certo però che veniva iniquamente spiato!

25. Divenne allora il Mira (e chi non lo sarebbe addivenuto?) tacito, cupo e riservato con gli altri di Casa. Intanto i sospetti non iscemavano ed anzi una domenica (il 13 di Settembre 1868) sempre inteso come era a discuoprire chi fosse che si permetteva di por mano nelle sue carte, posti i soliti segnali, uscì di casa lasciandovi affatto soli Ambrogio e Pasquale Conte. Di lì a poco d'ora, tornò improvvisamente sui propri passi; ma posta la comunella alla serratura della porta, rinvenne questa fermata al di dentro con catenaccio, tanto che gli ci volle del bello e del buono per ottenervi dopo lunghe picchiate l'ingresso. Entrò al fine nella sua camera ed osservato accuratamente il comod, più non vi rinvenne veruno dei segni appostivi pochi momenti innanzi! Che dovea pensare, che credere, su chi dovea fondare i suoi sospetti?

…..................................................................................................

Pure non volle precipitare un giudizio assoluto, e non fu che due giorni più tardi, in cui rovistando con febbrile impazienza le carte, per vedere se tra loro fosse mancato qualche geloso frammento, trovasse mancante una sommetta di 24 scudi formata da un Bona di Banca da 20 scudi romani, e da un napoleone d'oro: pure lungi dell'esporre una querela formale di furto e di manomissione di documenti contro Ambrogio e Pasquale Conte, si contenne in tal modo. Diede avviso alla Direzione Generale di Polizia dei suoi fondati sospetti a carico dei due coinquilini, come quelli che potessero essere stati gli autori della divulgazione (previa abusiva

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26. Ognun vede pertanto a colpo d'occhio, che egli non ebbe né poté avere pel capo di girare sui Conte un odiosa calunnia, affermandoli indubbiamente autori del furto; una volta che subordinò la sua querela ad una condizione essenziale, che motivò egli stesso alla punitiva giustizia, quella cioè della di loro sorpresa in flagrante.27. Anzi noi crediamo oltre a ragione che né i Conte avrebbero «offerto la umiliazione del carcere preventivo, né Mira avrebbe a comparire alla sua volta incamuffato del manto dello impostore sulla lurida scranna dei rei, se la ragione inquirente (1) avesse saputo concepire lo spirito della querela, altronde abbastanza chiaramente spiegato dalla sua lettera. Dappoiché una volta che Mira era il primo a dirsi mancante di prova alcuna positiva di fatto per credere, ed accusare i Conte quali autori del furto di cui li sospettava unicamente colpevoli; ed una volta che a quest'uopo implorava dal Tribunale gli agenti della forza pubblica, per tentare una loro sorpresa flagrante, la quale verificandosi doveva segnalare la loro reità in modo non dubbio; mancando, o ritorcendosi invece su tutte altre persone (come poteva forse accadere pur troppo!) dovea disperdere ogni vaga dubbiezza, smentire ogni indizio fallace, e far brillare di limpida luce la loro onestà ed innocenza, non era dato d'incominciare addirittura dall'ablativo, col ritenere cioè prigioni i due Conte e procedere senza altra verificazione contro essi, all'odiosissimo effetto di contestargli un reato di furto.

(1) Intendo parlare del signor della Bitta che istruì il Processo.

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Ma si dovea invece od invitare il Mira a somministrare più esatti indizi, anzi prove più certe che non le semplici sue congetture, quando non avesse voluto rinunciare senz'altro alla esposta Condizionata querela; ovvero dovea secondarsi la brama del querelante tentandosi la sorpresa dei suoi ladri, sicuri di potere in tal modo ben presto o accertare od escludere un delitto tanto allarmante!

28. Come infatti si potrebbe far mai rimprovero al Mira, non diremo di una calunnia, ma di una sconsideratezza, di una avventata querela, di un temerario giudizio; se egli si limitò ad esternare dei sospetti, che sebbene a suo avviso erano molto fondati, non potevano mai però esser capaci di provare né avanti alla legge, né innanzi alla stessa sua peculiare convinzione la colpabilità dei Conte, quale egli aspirava fosse accertata o smentita dal fatto, chiedendo all'uopo un istruzione criminale, che in mancanza di prova qualunque dovesse gittare le sue basi sopra una sorpresa in flagrante, supposta facile ad ottenere per la continuata apertura del tiratojo che racchiudeva il suo danaro e i suoi scritti?

29. Sì, con quale diritto, con qual ragione, dir mendace calunniatore quest'uomo, che non affermò, ma suppose un reato a carico altrui; quest'uomo, che dubitò sì fattamente d'ingannare la propria coscienza e la giustizia pubblica affidandosi a delle illazioni affatto congetturali, che dimandò premurosamente egli stesso di essere illuminato, ed a tal fine somministrò ai Ministri del Tribunale un mezzo di raffronto, che sventando le sue suspicioni, poteva niente altro che giustificare in un attimo gli stessi incolpati della supposta lor delinquenza!

30. Io credo che il Tribunale, qualunque sia stato l'esito di una tal procedura, non potrà certo veder mai apertissimi indizi di dolo, scienza di mentire alla verità, mala fede nel supporre il delitto e i delinquenti da chi la PROVOCAVA SUB CONDITIONE che fosse preceduta da una sorpresa flagrante! Il calunniatore inventa una favola, la dipinge con tetri colori, la raccomanda all'altrui credulità con testimonianze iniquamente espiscate o falsamente supposte, e con alti dati all'apparanza influenti ad accreditare la propria impostura; quindi la ritorce sul capo della designata sua vittima, e col suo mezzo tenta sagrificarla sull'ara dell'odio e della vendetta. Onde calunniatori son detti quelli che vessano con fraudolenti

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maneggi e con malevoli inganni «calwnniatorres appellati sunt qui per fraudem et frustrationem alios vexarent litibus». Legge 233 pr. ff. de verb. signif. Ma giammai potrebbero dirsi tali coloro, che non giungono a provare in giudizio quello che espongono «non utique qui non probat quod intendit, calumniari videtur». Legge l § 3 ff. ad Senatus Consultum, Turpil. Poiché quando eglino ebbero giuste ragioni di venire in giudizio a querelarsi, sia pur l'accusato riconosciuto incolpevole, sarà però sempre a dirsi scevera onninamente di dolo, e perciò non appuntabile, il loro errore. «Non si reus absolutus est, ex eo solo etiam accusator, qui potest justam habuisse veniendi ad crimen rationem, calumniator credendus est». L. 3. Cod. De Calumniat. Mentre se un galantuomo, che non diremo supponesse semplicemente, come avvenne del Mira, ma che nella più ferma certezza muovesse accusa contro taluno di averlo scoperto autore di un ingiuria o di un danno, fosse poi esposto al pericolo di surrogare sulla banca il designato reo, tutte le volte che non giungesse a provare il suo assunto, sia per le fallibilità degli umani giudizi, fondati infine quasi esclusivamente sulle nude asserzioni di testimoni, di cui Dio solo scruta il cuore e legge le tenebrose coscienze, sia per mancanza o difetto di tutti quei mezzi di verificazione che si esigono, e a buon dritto, per canonizzare la colpabilità di un imputato; allora non vi sarebbero più querele criminali, o ve ne sarebbero di così rare nel mondo, da potersi con uno o due Giudici amministrare la punitiva giustizia di un Regno. Ma senza insistere su questa polemica, che la vostra dottrina e prudenza rende assolutamente oziosa e superflua, noi ci affrettiamo con molto più utile della difesa di stabilire viemmeglio che non soltanto il Mira non accusò né si fe' a improvvisare un delitto dei rei, calunniando i signori Conte con dolo, mala fede ed inganno; ma fu invece egli realmente così sicuro in mente sua, della loro scelleratezza, da aver dato saggio di una moderazione esemplare, limitandosi ad indiziarli alla giustizia penale perché li sorprendesse in flagrante.

E perciò appunto che col periglioso apparato, che quasi spada di Damocle stasse sospesa sul capo di ogni accusatore o querelante a minacciargli, per la non buona riuscita della sua imputazione, la pena dell'infamia civile e. dei ferri non desistessero gli uomini onesti ed i prudenti cittadini dal denunciare quei reati, di cui si credessero

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in buona fede le vittime; a stabilito la legge de’ principi normali multu rassicuranti, e noi discorreremo a vantaggio di questa Causa. Vuole adunque prima di ogni altro la legge, che la querela che vuoi

soggettarsi a recriminazioni, presenti dei caratteri materiali e da lei determinati, quali unicamente possono darle valore giuridico e che devono servire a suo tempo oome sostrato generico al processo della calunnia; quindi non presenti taluni positivi elementi di moralità da cui possa senza dubbio desumersi il mal animo ed il dolo di chi venno a girarla a danno d'altri.

E per dire dei caratteri materiali della querela, pretende la legge che sia quest'atto pur troppo serio positivo e preciso ovvero come si esprime ella stessa formale, dappoiché non permette neppure che si presenti qualunque ella siasi l'imputazione, se non appunto dietro una simile formalità come si ha dall'art. 145, ivi: ogni persona che ha sofferta ingiurii), offesa o danno potrà darne parte al Tribunale per mezzo di formale querela. La qual dizione non avrebbe certo usato la legge, ove avesse voluto dare efficacia legale a qualunque denuncia, fosse pure vaga, incerta e non positiva, mentre le sarebbe bastato il dire, che ogni persona che avesse sofferto ingiuria o danno ne potesse dar parte al Tribunale per mezzo di querele.

Che anzi riuscirebbe pur troppo ozioso l'epiteto congiuntivo di formale di cui fece uso col precitato articolo. Ma nelle leggi non si possono presumere parole inutili, mentre per lo contrario - Omne verbum sic accipi debrt, ut slet cum aliquo effectu operativo. Dunque quando disse querela formale volle intendere un atto positivo ed affermato con la maggior sicurezza. Tanto più che non potrebbe mai credersi, che in quel epiteto volesse spiegare il concetto di una querela determinata a carico dell'uno piuttosto che dell'altro imputato. Giacché si ha dall'articolo 151 dello stesso titolo 5, che quando la legge ha voluto distinguere la querela personale da quella contro incerti colpevoli, ha esplicitamente usato le parole specifica e generica: ivi la querela può essere generica o specifica come la denuncia. Ma se il rito non autorizza neppure il processo senza una querela formale, è la ragione del contrario che forza a credere non poter esso mai tollerare una recriminazione contro una querela che non sia appunto formale e precisa; poiché se questa querela così incerta, dubbiosa e fluttuante non potrebbe neppure

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per l'art. 145 dar luogo ad un inquisizione giudiziale, mancherebbe per conseguenza legittima di uno degli estremi vitali del fatto che consiste appunto nel danno attuale o in potenza.In questo senso di fatti consuona anche la giurisprudenza straniera, trovandosi riprodotta da' signori Chevau e D'Ibebù nella nota a § 3112 della loro opera varie Decisioni ed arresti de' Tribunali di Francia, tra quali uno specialmente del 14 Febbrajo 1839, e l'altro del 17 Giugno 1845 con cui si precisa, che onde recriminare per calunnia «il faut une imputation positive; l'annunciation d'un simple supcon ne suffit pas!»Venendo poi all'essenza morale o concetto internazionale della querela che è ben quello di cui la legge più a ragione si preoccupa; può francamente asserirsi che una denuncia per essere possibile di recriminazione deve avere mai sempre questi due estremi essenziali. La falsità del fatto imputato; la mala fede del denunciante. Così letteralmente la Legge all'art. 552 dov'é detto «l'azione per recriminazione o per calunnia ha luogo tanto contro di chi a esposto un delitto falso, senza incolparne direttamente alcuno, per cui però qualche persona in conseguenza dell'esposto, sia stata assoggettata ad inquisizione; quanto contro chi ha rappresentato un delitto vero o insussistente, con incolparne falsamente alcuno». Questo torna pure a ripetersi nell'art. 128, ove parlandosi dell'ordinatoria e del fine cui devono mirare i processi per titolo di calunnia, si avverte che devono sempre essere diretti a provare che scientemente e di mala fede sia stato supposto un delitto, o un delinquente. E di nuovo nel successivo art. 259 per procedere (cosi) in questa inquisizione all'arresto, oltre la sentenza assolutoria debbono concorrere Indizi Di Dolo risultanti dal processo già compilato o sopravvenuto dopo.Quindi non sarà chi non vegga, che dove il fatto imputato si riconosca vero e leale, e quantunque pur falso e insussistente, denunciato però in buona fede e nella convinzione morale che fosse vero e possibile; va senz'altro, ipso jure, a mancare la base fondamentale dell'azione di calunnia; e la inesatta querela si risolve in un solo errore di giudizio, non solamente imputabile, come d'ogni altra di quelle abberrazioni così proprie dell'uomo, anzi affatto inseparabili dalla sua naturale fattibilità.

Dicono a questo proposito i dotti commentatori del Codice

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Il Codice di Giustiniano riproduce questa eccezione di difesa in termini non meno espliciti. Non si reus absolutus est, ex eo solo, etiam accusator, qui potest justum habuisse venienti ad crimen rationem, calumniator credendus est. Tutti gli autori hanno ammesso questo principio; tutti dichiarano l'accusatore giustificato, dal momento in cui ha potuto credere fondata la suaquerela eum habuit justam litigandi causano!» (COVARRUVIAS Pract. quaest. capitol XXVII, 3. Farinadus quaest. 16, n. 13, I. Clarus quaest. 62).

Ma si potrebbe dire giammai, che il Mira nella coscienza di calunniare un delitto insistente, e dei rei immaginari, querelasse i signori Conte? Certo che al solo pensare all'invocazione che egli replicatamente faceva di una sorpresa dei continuatori d'un furto di carte e denaro, che riteneva si commettesse a suo danno: jé mestieri miscredere al supposto di una falsa e dolosa imputazione, ed anzi conviene riconoscere tutta la buona fede del Mira, nel denunciare un reato che credeva tuta conscientia esistente. Dappoiché mal potrebbe con

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infondata, anzi falsa assolutamente di pianta; con l'appello fatto al potere giudiziario, di verificare egli stesso la sussistenza, ed accettarne i soggetti; cogliendoli addirittura in flagrante reato.

Ma prescindendo pure da questo criterio logico-legale cosi convinto: vi sono o Signori eziandio degli elementi positivi di fatto, da cui è dato desumere che Mira, justam habuit veniendi ad crimen rationem, e che perciò tutt'altro che stabilirsi la sua volontà di denunciare un falso delitto, e di far pesare un'accusa bugiarda sopra due conosciuti innocenti, egli ebbe una causa assolutamente legittima di divenire in giudizio, ed intentare la sua azione su i Conte (subordinandola però ad una preventiva loro sorpresa in flagrante perché credeva fondatissimo il dubbio di avere dei ladri al suo fianco!

31. Ed in vero chi potrà immaginare per diffidente che sia, che negli stessi giorni o in quelli prossimi agli eventi in quistione, Mira potesse prevedere questa serie di fatti; che cioè il Processante sopra un semplice suo allarme, ed una richiesta di sorveglianza e sorpresa dei sospettati rei, istruisse a dirittura a rompicollo, contro loro un incarto; che il Tribunale colpito dai risultati di questa procedura in modo tale, da rimanere senza ombra di esitazione assicurato dell'inesistenza generica del lamentato delitto, ne assolvesse i due prevenuti quali innocenti; infine che costoro presa la spada per l'elsa, reagissero a danno suo chiamandolo reo di calunnia! Quindi non sarà certamente chi creda aver Mira potuto sin da quel tempo procurarsi degli scritti confidenziali da per parte dei propri amici e congiunti, coi quali fingendosi delle risposte agli sfoghi che avrebbe egli fatto con loro dello iniquo attentato, non che del furto che supponeva di aver sofferto, potere un giorno provare la sua credulità e la sua buona fede, e siffattamente schermirsi contro i recriminatoci ed il fisco.

32. Ciò posto noi preghiamo gli ottimi Giudici a voler leggere dei brani di alcune lettere giunte da (coi timbri postali) al Mira in epoche posteriori di poco a quel fatto, lettere fortunatamente sfuggite alla sorte di moltissime altre che furon da esso date alle fiamme, per motivi di lodevole prudenza, coi quali frammenti è mestieri di toccare con mano che il giudicabile poté essersi stranamente ingannato,

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poté avere anzi proprio sognato ad occhi aperti, ma non avere mai davvero mentito scientemente e con dolo ad altrui danno.

«13 Settembre 1863- Con gran rammarico, ho rilevato dalla tua dell'undici diretta a Mariuccia, quanto ti è accaduto. Non ci è da fare! T'insegnerai a non fare del bene-Tuo affezionatissimo amico - Pasquale. (Som. N. 11).

«14 Settembre 1863 - Gran sorpresa, non meraviglia però ci arrecò il fatto che ci annunziavi nella tua ultima. per lo attentato infame che ti si commetteva da quei tali conviventi con te, e da te beneficati. Fino a tanto che il fodero del tavolino si trovasse schiuso, e si fosse letto quanto vi era di scrittasi potrebbe attribuire a curiosità, e ciò ammesso, essendosi divulgato il contenuto di essi, si potrebbe dire, è avvenuto per effetto di sboccataggine, forse guidato tu da eccesso di bonomia: ma trattasi di aver fatto uso di chiavi adulterine, ciò che constata il loro disegno preconcetto, che rafforza la loro ribalderia poggiata sopra dei piani benissimo studiati, sopra un fermo proponimento di svelarne i segreti. Ciò posto, tanto tu che noi dobbiamo regalargli il titolo di bricconi, tanto al Padre quanto al fratello del Prete... Ad ogni modo scappa dalla vecchia abitazione.... tuo parente Bar.... (Somm. N. 12).

«25 Settembre 1863-Prudenza coi tuoi nemici che involavano le tue lettere.... tuo parente Teod. (Som. N. 13).

«li Il Ottobre 1863- Con sommo dispiacere ho rilevato dalle tue, una con la data del 6, l'altra dei 9 corrente ('assassinio commessoti da quei svergognati: solo ti avverto ad essere accorto per la vita, giacché sarebbero capaci anche farti qualche agguato (sic).... tuo affezionatissimo parente - Pasquale. (Somm. N. 14).

«10 Novembre 1863 - Nel tuo esposto da redigere e consegnare al signor Giacomo comprendivi, che forse la indole dei due accusati non sarebbe stata quella di poter agire per propria inclinazione alla mancanza commessa, ma che l'autore principale dovea assolutamente essere il Bernardo (pseudonimo di Montanini!) che colle sue suggestioni si rese capace di corromperli, e ne varrebbe di esempio la sua grande attività nella difesa di quei due, perché la coscienza gli deve sicuramente mordere, come seduttore ed autore della commessa mancanza.... tuo parente Tommaso. (Somm. N. 15).

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«12 Dicembre 1863 - Ma gran rimorsi debbono però avere quelli signori nel loro interno., esaminando la loro coscienza, che senza ragioni e senza antecedenti ti hanno fatto un azione la più birba della terra. Ma lasciali perdere, che per te infine la perdita è stata di Pochi Ducati, per essi perderanno tutto, se sono in seguito riflettute le loro azioni passate e presenti tua affezionatissima cognata Anna. (Somm. N. 10).

33. Veramente noi non crediamo possibile ostinarsi ancora a fronte di prove cosi vittoriose e credere il Mira un gabbamondo, un falsario, un detrattore fraudolento? Ed in fatti perché mai avrebbe dovuto egli mentire ai suoi stessi cognati, agli amici più fidi un fatto insussistente? Con quale scopo, per quale strana ragione lo avrebbe ad essi circostanziato e ripetuto con tanta asseveranza, ad essi lontani da Roma, interdetti dal far uso delle sue lettere, per non esporsi ai sospetti della polizia, e per l'esilio dei Conte e la loro attuale impossibilità di ripatriare, fatti incapaci di recargli la benché menoma molestia?

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Ma si potrà forse dire dalla rappresentanza fiscale e da chi va attorno (1) mentendo a perdizione del giudicabile, un augusto mandato, che noi in seguito di conferenze con ragguardevoli soggetti non ci peritiamo sonoramente smentire; come poteva giammai essere il Mira convinto di aver patito quel furto, checché ne asserisse all'autorità giudiziaria, e ne scrivesse ai congiunti; se in primo luogo non ne fece mai verbo con la padrona di casa, col Montanini, col Gatti, insomma con tutti quelli che gli erano sempre vicini, e con i quali tanto naturalmente avrebbe dovuto esternare le sue dispiacenze; secondariamente poi lo è molto più sostanziale e riflessibile, non poteva, volendo, avere perduto denaro, mentre era così rovinato in finanza, cosi povero e bisognoso, che viveva stentatamente, si può dire limosinando dalla pietà dei realisti? Non vedete che il Duca Tocco di Popoli ritenne la di lui accusa per un Indegnità (fol. 106), e la Rasinelli ci rise di cuore, mentre era un disperato che non avea un bajocco? (Fol. 69).

(1) Allude al Mancinelli ed al Duca di Popoli i quali s'insinuavano presso i Giudici dicendosi inviali del Re Francesco II.

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35. Ci adopreremo pertanto a rintuzzare eziandio questi contrari argomenti, che sebbene alla prima possono sembrare seriissimi, pure si riducono in fondo ad altrettante fisime assurde, posti che siano freddamente a riscontro della storia reale dei fatti!

36. Per farsi un criterio esatto della incredibilità del furto, realmente sofferto dal Mira, sulla mancanza delle sue con quistioni immediate con Montanini e con la Maddalena Rasinelli, che era la comune albergatrice d'esso e dei Conte, non che col Gatti bisogna o Signori postergarsi due considerazioni che sono d'altronde del maggior momento. Quella della sfiducia, se non debba anzi dirsi della egreferenza che si era concepita dal Mira contro l'antico feroce, Montanini, pel volta faccia che gli avea improvvisamente fatto, ponendosi corpo ed anima dalla parte dei Conte; dopo che ad esso solo doveva la sorte di esser potuto giungere in Roma a salvamento; l'altra del partito a cui si era appreso giudizialmente di chiedere cioè al Tribunale una sorpresa flagrante dei ritenuti colpevoli. In fatti chi potrebbe dar peso al silenzio, che egli mantenne con Montanini sulla scoperta del furto; quando pensasse che Montanini era come il satellite e il braccio destro dei Conte, di quelli stessi che egli pensava lo derubassero? Chi vorrebbe pretendere, a costo di negargli fiducia, che almeno avesse fatta parola del caso con la vecchia Rasinelli; se costei oltre all'essere nella più grande amicizia coi Conte (che sono ancora in questo momento i suoi inquilini di casa) non avrebbe potuto, volendo come avviene delle femine, mantenere due minuti il segreto... e cosi vuoi per deferenza, che per improntitudine avrebbe mandato all'aria tutto il piano da lui architettato, che era quello come sappiamo, della sorpresa dei mariuoli nell'atto di aprire il tiratojo e metter le mani nelle sue proprietà? Finalmente qual meraviglia, che ne tacesse, almeno sino ad un certo tempo, col Gatti, se costui conosciuto dal Mira appena di vista in , dove era negli ultimi tempi impiegato alla Questura ricevendovi modesto stipendio, che si potrebbe provare aver percetto sotto il mantello di un permesso indeterminato anche dopo essersi qui recato, a fare il zelante borbonico; costui dicevamo si può dire, che stava tutto giorno al Caffè del Veneziano, con. Montanini i Conte e loro simili, e ben s'intendeva, che erasi assunto il nobile incarico di scrutare nei pensieri del Mira e

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e sotto la maschera dell'amicizia la più divota, di sorprenderne i segreti intendimenti?

37. A nostro avviso queste con quistioni tanto desiderate dal Fisco per credere alla realtà del furto, od almeno alla buona fede di Mira nel ritenerlo avverato; avrebbero provalo piuttosto la sua stoltezza, la sua più crassa imbecillità. Mentre non vi sarebbe voluto che un insensato di nuovo conio per dare l'allarme, e mettere in guardia i ladri, che sperava far sorprendere nel furto!

38. D'altronde mancò egli forse con chi non temeva indettato coi Conte, di aprire l'animo suo, e di palesare l'evento? Ma non ne fece proposito con Antonia Baroncelli. (Proc. foglio 80). Non ne parlò molte volte con il signor Giuseppe Pira impiegato nella Direzione Generale delle Dogane, fino a pregarlo di potergli far venire in casa un agente di polizia per tentare una sorpresa; alla quale premura si corrispondeva dal Piva facendo capo alla Guardia Adriani che però non si permise di accedervi senza permesso dell'assessore Generale di Polizia? (Fol. 85). Non se ne querelò contemporaneamente con l'Eligi, maggiore della Gendarmeria? (Proc. fog. 113).

39. Ora perché questi sfoghi, queste dichiarazioni emesse con persone estranee ed indifferenti, dovrebbero mettersi in non cale, e valutarsi per nulla; per l'unica ragione che non vennero rinnovate con la padrona di casa e con il birro Montanini, l'uno e l'altro tutta cosa di Conte? Noi non la sapremmo indovinare da senno. Forse perché il signor Piva essendo troppo amico del Mira, vorrà credersi, che si sarebbe indotto a giovarlo in una giudiziale induzione, anche a costo di tradire la verità? Ma non solo il Piva è un galantuomo che non deve così di leggieri ritenersi capace di simili infamie; ma egli dava non volendo, un mezzo potissimo di verificazione a sostegno del proprio asserto, cioè il fatto di aver premurato l'Agente Adriani per la sorpresa dei Conte in flagrante. Onde di chi la colpa, se non restò ben presto verificata l'ingenuità dei suoi detti, se non del Ministero inquirente, che non curava affatto di sentir costui negli esami, escludendolo sopra la circostanza per la quale il Piva lo avea indotto? Ad ogni modo non fu solo col Piva, che si esternasse il cliente; ma con la Baroncelli, con il Maggiore Eligi, e quel che più monta (senza dire neppure dei suoi congiunti od amici di

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con il degnissimo Capo del Tribunale,

40. Per lo che noi crediamo, che non solo non possa dirsi a ragione che dié a divedere egli stesso il brutto giuoco della impostura, col tacere che fece Ad Ognuno (prendendo Montanini e la Rasinelli per l'intiera popolazione di Roma, anzi per tutto quanto il genere umano!) di quel preteso furto, che poi mise in campo improvvisamente denunciandolo ictu fulminis alla giustizia penale; ma chc debba al contrario ammettersi che avendo egli manifestato agli amici, ai parenti, ad officiali superiori dell'arma politica e perfino al Tribunale Criminale i suoi fondati sospetti, e avendo cercato di far praticare una sorpresa dei ladri, prima con mezzi particolari, poi coll'intervento dell'Autorità pubblica; dié egli una prova manifestissima, e irrecusabile, se non della realtà della cosa, almeno della sua buona fede nel ritenerla assolutamente vera e fondata. Ma or eccoci a confutare il secondo obbietto fiscale, tanto più poderoso e importante, quello del difetto assoluto di numerario nell'imputato, che si volle far credere vittima di un furto di 24 scudi romani!

41. Questa dimostrazione, che risulterà fra pochi momenti, assai più chiara ed efficace delle altre sin ora esposte, merita di esser preceduta da qualche notizia peregrina di fatto che al modo stesso del sole, che non soltanto spande la luce sui corpi di tutto il creato, ma dissipa pure le nebbie, dovrà eliminare dagli animi vostri quella prevenzione contraria che pur troppo e giustamente vi deve essere allignata a riguardo del giudicabile.

42. Noi alludiamo alla esposizione dei segreti motivi e delle più vere cause, per le quali il Commendatore Murena, il Duca Tocco di Popoli e il Conte Giulio Ricciardi dei Camaldoli gareggiarono più o meno nel dipingere il Mira per un fellone ed un essere abbietto sin dalla navetta, e finalmente per un misero paltoniere, incapace di possedere anche un centesimo; Ambrogio e Pasquale Conte al contrario per due gioje di galantuomini, ed insieme doviziosi emigrati, che vivono a spesa della lor proprietà!43. Il compito è grave, è spinoso, è tale insomma che ci lega ad un tempo le mani, e ci spunta la penna. Ma pur l'esauriremo per non tradire il nostro officio, contando nella squisita intelligenza dei Giudici, cui per dirla con un adagio

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Toscano, per insinuare un concetto, se una parola è poca, due san forse anche troppo!44. Per cominciare dal Duca di Popoli, il quale travisando poco lealmente lo assegno fatto al Mira di scudi 10 mensili, a titolo d'indennità di spese, che sosteneva per la Causa Regia in un sussidio largitogli per provvedere alle proprie urgenze economiche accreditò indirettamente la sua pretesa miseria; e come non pago, volle pure mostrarlo affatto estraneo a qualunque servigio del Re, di Cui mille volte lo encomiò delicatissimo e disinteressatissimo servitore, specialmente parlandone al Duca Di Gallo ed al Duca Di Civitei. la, che possono farne fede... e che a peggio compromettere con una spiccata antitesi morale la condizione del Mira, volle tessere un passionato elogio dei Suoi avversari, i quali null'altro che gli erano affatto sconosciuti, come asserì con altro distinto personaggio dell'Aristocrazia Napolitana, ci limiteremo a dire, che sebbene uomo di molte doti e per i di cui magnanimi lombi scende il sangue di eccelsa prosapia, pure sente egli pure e forse un poco più vivamente di talun altro figlio d'Adamo, le passioncelle e le debolezze degli uomini. Onde fattosi predominare da certa femina scaltra, cui pareva d'aver trovato in tanta di Lui dovizia e pieghevolezza, la sua California; sotto la pressione morale di costei (infestissima altronde al Mira, che riteneva il pungolo del Duca per indurire a torsela d'intorno) dimenticava la quasi paterna benevolenza, la stima e la fiducia che Mira avea saputo inspirargli, e per usare una parola di moda sebbene un po' barbara, veniva a disconfessarla!... Né son queste fiabe o romanzi, ma è pura storia o Signori, che Voi potete a vostra edificazione riandare sui documenti, portanti la data certa, e scritti quando e da chi non avrebbe neppure sognato dovessero comparire sul banco dei Giudici, che portiamo in Sommario ai Num. 10, 12 e 13, dai quali si desumono i periodi seguenti.

«14 Settembre 1863-Della signora D. Marianna (pseudonimo di Giovanna de Verris) non parlarne affatto più, lasciala al diavolo, e cerca di togliere occasioni di parlarne - tuo parente Bar....

«25 Settembre 1863 - Caro Luigi. Rispondo alla tua ultima e con dolore per l'animosità nata fra te e la bella. Ciò mi tiene agitato, considerando che dessa per quanto pare, è la dominatrice

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del Duca: e calcolando lache) Per me ti consiglio a non parlarne più, usando non dico disprezzo, ma una certa indifferenza. Tu ti trovi in terra straniera, solo e senza i tuoi; più devi calcolare che la inimicizia di quell'uomo, forse ti potrebbe fare anche un male positivo, per insinuazioni in contrario che potrebbero farsi a tuo danno presso il Re tuo parente Teod...

«12 Dicembre 1863-Carissimo Luigi.... Per il Duca di Popoli sarà il pubblico che lo giudicherà per quello che é, quando sentirà che esso si rivolta contro di te solo per cedere alle insinuazioni di una baldracca ecc. ecc. ecc.Et de hoc satis!45. Veniamo al Montanini, al Murena e al Ricciardi. Abbiamo altrove accennato o Signori, qual fosse la parte che spiegava Mira in favore del partito del Re. Agevolarne i prestiti, tenere alto il concetto della sua politica amministrazione... smentire le apprensioni di un'acerba reazione, infervorare da ultimo le sopite e non spente aspirazioni autonomiche, ecco quello cui egli zelantemente intendeva e non altro! Or voi volete comprendere a colpo d'occhio, come questa sua missione dovesse riuscir simpatica ai Ricciardi, ai Montanini, e al Murena? Riandate al processo, aprite le pagine che racchiudono la deposizione giudiziale dell'ultimo di questa Triade cotanto ostile all'accusato, e vedrete che questi, per tessere il più lusinghiero elogio, per fare la palinodia dei Conte, non seppero trovar modo più acconcio che dirli (proc. fog. 101) emigrati per la loro devozione al legittimo Sovrano e per aver Cooperato Alla Reazione sostenuta da Cipriano La Gala; quel La Gala o Signori che un giudizio di fama europea convinse per fino antropofago!!46. Crediamo aver detto abbastanza, tanto più che a questi nostri raffronti critico-storici pongono, come si direbbe, il suggello, le autorevoli parole del 1° Ministro del Re che leggonsi Bel Sommario N. 1 (ivi)... il giudizio contro Mira fu provocato per pratiche e mene dipartito! Onde rassicurati sulla prevenzione che questi onorevoli vi aveano ingenerato nell'animo contro il nostro cliente, scendiamo tranquilla

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47. Si chiamò allora il Piva, e questi con un minuzioso dettaglio verificò che Mira avea spesso dalla famiglia danaro insieme a dolci, frutta e vestiario in cesti o cassette, che pervenivano in Dogana alla sua direzione col mezzo della ferrovia. Aggiunse queste spedizioni saranno avvenute tra le dicci o le quindici volte, che sei o sette mesi innanzi ricevette un Bono da ducati 60 da esigersi qui in Roma, altra volta ducati 50, 40 scudi in napoleoni d'argento, verso il Settembre 30 scudi in napoleoni d'oro, circa il successivo Novembre 150 scudi parimenti in napoieoni d'oro e sul fine di Febbrajo 3 napoleoni d'oro. E per ultimo ammise aver egli stesso dato un Bono da scudi 20 al Mira in cambio di napoleoni da 20 franchi. (Processo fog. 85).

48. Parrebbe adunque che l'odierno inquisito fosse pienamente m probatis. Ma niente affatto. Anzi si disse sonoramente smentito. E perché mai? Per la buona ragione o Signori, che interpellato il perpetuo ed imparziale Montanini (ex feroce di che nullameno si millantò nell'esame di aver egli stesso portato Mira una volta a baciare la mano del Re!... Proc. fog. 45 aut alibi) per sentire da lui se sussistevano in fatto queste ingenti rimesse di fondi dai parenti di a favore del Mira; costui con la solita spudoratezza da birra demonetato, rispose- «che Mira non avea mai,

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che egli sapesse, avuto danari da Napoli dal cognato a spese del quale visse la moglie; che solamente sapeva che il cognato e la sorella gli mandarono Una Volt A urli inverno passato una cesta di frulta che si trovarono Tette Guaste (valeva la pena di spedirle colla ferrovia pagandovi quel piccolo scotto pel porto!!!!) e quindi quattro o cinque mesi indietro una Cassetta con dei Dolci e robe di vestiario appartenente ai Conte ed anche al Mira SENZA VI FOSSE L'OMBRA DEL DANARO; lo che poteva asserire per essere stato aperto alla sua presenza il cesto, la cassetta dei dolci ed altro (fog. 38 e 59).

49. Ora prescindendo dal criticare la troppa sfiducia usata col Piva, il quale è un onesto uomo, un impiegato distinto, insomma qualche cosa di meglio di un basso Agente di Polizia, che per giunta il legittimo Monarca destituiva d'officio con R. Decreto del 26 Luglio 1860... Come mai chiediam noi, sulla fede di un birro così interessato alla sorte dei Conte, da formare con essi una sola famiglia, che ha giurato la perdizione del cliente; si poteva, od almeno a fatti noti si potrebbe miscredere anche oggi ulteriormente il Mira, che sostiene all'unisone col Piva, testimonio più onesto ed egualmente giuralo, di aver ricevuto diverse somme in mezzo a spedizioni diverse di generi commestibili e di vestiario fattegli colla strada ferrata!

Ma sia pure che vogliano mettersi tutti in un fascio, uomini di civil condizione e di riputazione stabilita, con esseri abbietti che lo stesso mestiere pone all'ultimo grado della scala sociale; e che perciò non si abbia a pressare alcun credito così al testimone che niega le spedizioni di danaro fatte al Mira dai suoi parenti, come a quello che le riduce ad una o due ceste di frutta fracidc; non dovrà almeno vedersi se i fatti, che sono pur sempre i testimoni più eloquenti del vero, provino o escludano le assertive del Mira?

50. Comunque a noi preme di far toccare con mano agH onorevoli Giudici, che il feroce ossia Montanini spudoratamente mentì per la gola, affermando l'arrivo delle due uniche e miserabili ceste di frutta fracida alla direzione del Mira, mentre abbiamo l'onore di poter documentare molte e consecutive trasmissioni di oggetti diversi a lui fatte, valendosi del presta-nome del signor Piva per maggior sicurezza. Spedizioni che mentre convincono del pensiero costante

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della famiglia verso di osso imputato, e dei mezzi di cui disponeva,

51. È dunque positivo, forse ancor più della infedeltà del Montanini e dei suoi giuramenti, che non furono già due soltanto le ceste venute da al Mira in tutto quel tempo in cui convisse coi Conte, ma (senza pregiudizio di qualche altra di cui non gli è stato possibile ritrovare i riscontri) furono d'esse tra le M o 15, come potrà rilevarsi dalle bollette officiali a stampa della strada ferrata e della dogana, che noi daremo col Numero 16, del nostro Sommario.

52. Che poi siffatte ceste, cassette ed involti contenessero spesse volte danaro in piccoli pacchi sugellati, che si ponevano tramezzo alle frutta e a' dolci, può dedursi o Signori da alcune lettere che produrremo egualmente in Sommario al N. 17. Quali sebbene non tutte abbiano i bolli postali per essere appunto venute dentro alle casse; pure si potrà ben di leggieri riconoscerle autentiche, confrontandole coi caratteri certi di chi le scrisse, che si desumono dalle altre da noi motivate nel Somm. Ai N. 10 e seg. e che portano tutte il timbro di partenze ed arrivo, e molte ancora il franco bollo delle poste di Ma dopo ciò noi ci permetteremo un riflesso, anzi un quesito: sarebbe infatti, o Signori, logicamente attendibile il dubbio che si promuove dai nemici del Mira sulla realtà di questi soccorsi datigli dalla famiglia, se il Ministro del Re colle sue dichiarazioni officiali, e il Duca di Civitella che anche fa parte della Corte, asseriscono entrambi che Mira agiva affatto disinteressatamente e senza compenso alcuno per la legittima Causa di Francesco II; e quello ancora che è più riflessibile, se è una evidenza palmare che i dieci scudi per qualche mese passatigli dal Duca di Popoli, gli bastavano appena per rinfrancarsi delle spese di posta che dovea sostenere, per corrispondere con quelli che favorivano il partito realista?

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Come non credere in realtà che quest'uomo dovesse necessariamente avere da qualcuno e da qualche parte i mezzi, che gli erano necessari alla vita non solo, ma anche ad una esibizione conveniente? Ma in qual maniera si sarebbe egli alimentato, avrebbe pagato la casa, provveduto al vestire, sopperito alle altre bisogna reclamate dalla sua condizione, e dalle sue relazioni sociali, specialmente da che ricusò quell'assegno mensile che gli veniva pagato per mezzo del Duca di Popoli (come potrebbero provare i Signori Duchi di Civitella e della Regina) se non aveva appunto qualche ajuto, e non tanto magro dalla famiglia? Vorremo supporre che campasse di onori, di titoli, e di promesse avvenire? ovvero che andasse rapinando sulle pubbliche vie per provvedere alla sua sussistenza?Signori, è questa una questione di senso comune, che noi non crediamo meriti l'onor della discussione innanzi al vostro illuminato consesso.

D'altronde possiamo francamente accertare, che non una soltanto, ma molte volte ha il Mira ricevuto delle tratte per considerevoli somme sui nostri banchieri, tra cui Marignoli e C. non che i successori Torlonia. Dalla qual cosa, che voi potreste subito verificare, volendo, anche indipendentemente dalle lettere d'avviso che vi esibiamo (Somm. N. 18), si desume indubbiamente che la di lui famiglia, come lo è in oggi, era pur anche in grado di soccorrerlo allora, e di sostenere il non piccolo peso del suo lontano mantenimento.

54. Dopo ciò decidete voi stessi, se Mira che pure non era un balordo tale, da non tenersi una scorta per qualunque vicenda, tanto facile a prevedersi nella sua condizione anormale e in simili tempi....; Mira che era pur troppo della più severa economia: egli infine che avea una sposa e parenti così affettuosi, che senza badare ai risparmi, lo regalavano di tutte le più squisite primizie (Somm. N. 17), fosse o no in grado di possedere un centinajo di piastre???

55. Qui però calza un osservazione che non potrà non pesare certamente nella bilancia della giustizia, tanto da far propendere la convinzione morale del Tribunale in favore della tesi che noi sosteniamo. Quale sarebbe egli mai stato in fatti, noi dimandiamo, il movente nel Mira, quale l'impulso che da amicissimo e passionato come era dei Conte, in modo tale da non risparmiarsi di assistere

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il vecchio con una amorevolezza fraterna nella sua lunga e pericolosa malattia, lo avrebbe spinto in un solo momento a lanciare contro esso e suo figlio una querela bugiarda, che vai quanto

56. Concludiamo. Noi non abbiamo l'audacia di metter pecca alla vostra sentenza sui Conte. Allo stato degli atti, che è quanto dire con quella sorta di panegirico del Mira che vi aveano fatto i testimoni giurati; non solo dovea ripugnare alla nostra logica ed alla stessa vostra morale crederlo derubato dai Conte, ma sarebbe stato proprio un assurdo il ritenere che avesse patito effettivamente quel furto!57. Oggi però la scena è intieramente mutata. Voi vedete nel Mira un galantuomo non un furfante, trovaste in lui un partigiano fidato del Re non un fellone colpevole di due successivi tradimenti, avete la prova della reale apprensione da cui fu preso tanto per la lettura dei suoi propri scritti, che pel furto di una parte del suo particolare peculio; vi è noto come egli non accusasse i Conte in modo formale alla punitiva giustizia, ma soltanto si ponesse in serio sospetto della perpetrazione del furto, provocando a carico loro una Sorpresa Flagrante: in fine vi è resa evidente con l'ira di parte, -

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che mosse alcuni dei testimoni a denigrarlo tanto malignamente da non arrestarsi a dipingerlo un vero pitocco che vivea D'elemosina...., la capacità che egli avea di possedereancora reo di calunnia?!?58. Bisognerebbe conoscervi meno per sospettarlo. Ondi: noi affidiamo senz'altro alla vostra religiosa giustizia questo disgraziatissimo giovane che in tanta perversità di destino, lontano dai suoi, in terra d'esilio, non solo manca di ogni consiglio e di ogni valido appoggio, ma tutto invece abbandona spietatamente, fuori che il nostro Ministero pietoso; e siam certi che voi lo salverete ai pericoli di un iniquo ragiro, lo rivendicherete alla vita civile, ed alla sua onoratezza pronunciando della sua buona fede e dell'assoluto difetto di dolo nell'azione intentata condizionatamente a carico dei Conte!Laonde ecc.

Il Difensore d'officio

Carlo Avvocato Palomba

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SOMMARIO

N. 1.

Il Presidente dei Ministri certifica le qualità,

ed il DISINTERESSE dei servizi resi dal Mira.

Ministero e Reale Segreteria di Stato

della Presidenza.

Certifico io qui sottoscritto, a richiesta dell'interessato, come il Cavaliere Luigi Mira, Uffìziale dei Reali Ministeri è figlio di Giuseppe, Uffìziale graduato del Gabinetto Segreto del già fu Ministro del Carretto.

Egli, il Luigi, imprese la sua carriera nel Ministero di Polizia nel 1850, e per probità, ingegno e morale politica gli fu affidato l'Archivio dell'Alta Polizia; ed allo scoppiar della rivoluzione teneva le funzioni di Uffiziale di Carico.

Quest'ultimo Uffizio, come la Croce di Cavaliere di 1 Classe dell'Ordine di Francesco I, gli è stato da Sua Maestà il Re nostro Augusto Signore conferito qui in Roma in compenso dei servizi prestati, e dei pericoli corsi, avendo dovuto lasciar fuggendo per isfuggire le ire del Governo

Durante il tempo che trovasi in Roma, non ha ricevuto alcun sussidio, ed à proseguito a rendere gratuitamente i suoi servizi. Per la qual cosa gli si è rilasciato promessa per ricompense avvenire.

Ciò si certifica sopratutto perché valga questo certificato in giudizio suscitato contro di lui per pratiche e mene di partito.

In attestato di che ecc.

Roma 22 Gennajo 1865.

Il Presidente dei Ministri

Firmato - Cav. G. Croce Pietro C. Ulloa

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Il Commissario Straordinario del Real Ministero di Polizia, certifica che il Mira fu incaricato dell'Archivio Segreto, in riguardo della sua intelligenza, onoratezza ed operosità!

Copia.

Noi Cavalier Giuseppe Maddaloni, Giudice di Gran Corte Civile, Commissario di Polizia di 1 Classe attaccato alla Reale Segreteria di Stato della Polizia Generale del Regno delle Due Sicilie.

Certifichiamo, come il Cavaliere Luigi Mira, Uffizi a le nella Real Segreteria di Stato della Polizia Generale, trovavasi addetto all'Archivio del Gabinetto dell'Alta Polizia.

E comunque un tale incarico fosse al di sopra del suo grado, pure per essere di somma gelosia, gli venne particolarmente affidato, essendo a' Superiori nota l'intelligenza, l'onoratezza e l'operosità di Lui. Egli godca perciò della stima del Direttore, e senza i sopravvenuti rivolgimenti politici, sarebbe salito ben presto a maggior grado.

In attestato di che ecc.

Marsiglia 14 Ottobre 1864.

Firmato - Giuseppe Maddaloni

Visto e verificato per la firma del Cavaliere Giudice Giuseppe Maddaloni e per le cose esposte.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri.

Firmato - Cav. G. Croce Pietro C. Ulloa

L'originale della presente trovasi presso questa Segreteria.

N 3.

Brevetto di Cavaliere di Francesco I di 2 Classe.

Ministero e Reale Segreteria di Stato

della Presidenza.

Roma 16 Aprile 1861.

Signore

Sua Maestà il Re Nostro Augusto Signore, volendo darle un attestato della Sua Sovrana benevolenza pe' servizi da Lei

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resi, e per le pregevoli sue qualità, si è benignata conferirle la Croce di Cavaliere di 2 Classe del Real Ordine di Francesco I.

Ed io con viva soddisfazione e piacere mi affretto a parteciparle questo tratto di Sovrana Munificenza.

Il Presidente IV. dei Ministri, Ministro di Grazia e Giustizia.

Firmato - Cav. G. Croce Pietro C. Ulloa

Al Signore

Signor Cavaliere Luigi Mira

Napoli

N. 4.

Il Presidente dei Ministri encomia in Nome Sovrano i segnalati servizi ed il nobile disinteresse del Mira, e lo eccita a perseverare nel medesimo zelo per la Causa Reale.

Ministero e Reale Segreteria di Stato

della Presidenza.

Roma 18 Aprile 1862.

Signore

Sua Maestà il Re (D. G.) ha comandato che sia a Lei espressa la Sua Sovrana soddisfazione pei segnalati servizi che con tanto disinteresse e pericoli sta rendendo, e più ancora pei, rapporti originali che qui manda.

La M. S. conta sul di Lei zelo ed operosità, e non mancherà a suo tempo, di prendere in considerazione i suoi servizi alla Legittima Causa resi.

Ed io nel Real Nome e con particolar piacere le comunico tali Sovrani Ordini per sua intelligenza.

Il Presidente dei Ministri, Ministro di Grazia e Giustizia. Firmato- Cav. G. Croce Pietro C. Ulloa

Al Signore

Signor Cavaliere Luigi Mira

Napoli

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N. 5.

Altro Dispaccio Ministeriale con cui si afferma la

soddisfazione del Re per gli operosi servigi del Mira.

Ministero e Reale Segreteria di Stato

della Presidenza.

Roma Il Maggio 1862.

Signore

Sua Maestà il Re (S. N.) si è degnata ordinare, che fosse a Lei manifestata la Sua Sovrana soddisfazione pe' servizi finora resi con solerzia e buon volere. E vuole inoltre la M. S. che il presente onorevole documento dovesse servirle non soltanto per propria soddisfazione, ma perché possa un di esser tenuta presente e presa in piena considerazione.

E sia certa che dal mio canto non mancherò in qualsiasi occasione di far noto a S. M. i suoi servizi e con quanta solerzia, operosità e pericoli li ha sempre resi.

Il Presidente dei Ministri, Ministro di Grazia e Giustizia.

Firmato - Cav. G. Croce Pietro C. Ulloa

Al Signore

Signor Cavaliere Luigi Mira

Napoli

N. 6.

S. M. lo fa assicurare della proprietà del posto

perduto con l'esilio.

Ministero e Reale Segreteria di Stato

della Presidenza.

Roma 22 Aprile 1863.

Signore

Avendo sottoposto a S. M. il Re (D. G.) l'esposizione minuta dei servizi da Lei prestati, e dei pericoli corsi pria che fosse stata costretta a venirsene in esilio, la M. S. ha coman

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considerazione i suoi servizi come i suoi pericoli e le attuali sue sofferenze, e che la restaurazione avvenuta Ella abbia la proprietà del posto che si trovava in atto, e provvisionalmente esercitando allorché venne costretta ad elegger colla fuga l'esilio. Ed io nel Real Nome lo partecipo a lei perché il presente documento le serva in avvenire per suo utile governo.

Il Presidente dei Ministri, Ministro di Grazia e Giustizia.

Firmato - Cav. G. Croce Pietro C. Ulloa

AI Signore

Signor Cavaliere D. Luigi Mira, Uffiziale di 1 Classe 1° Rango del Ministero e Real Segreteria di Stato dell'Interno.

Roma

N.7.

Brevetto che eleva il Mira a Cavaliere di 1° Classe del Real Ordine di Francesco I.

Ministero e Reale Segreteria di Stato della Presidenza.

Roma 1 Maggio 1863. Signore

Sua Maestà il Re (D. G.) Nostro Augusto Signore, in attestato della Sua Sovrana considerazione, per le pregevoli qualità che concorrono in Lei, si è degnata commutarle la Croce di Cavaliere di 2 Classe del Real Ordine di Francesco I, di cui Ella trovasi insignita, in quella di lClasse dello stesso Real Ordine.

Nel Real Nome, e con mio particolar piacere, glielo partecipo, perché possa far uso delle corrispondenti insegne.

Il Presidente de' Ministri, Ministro di Grazia e Giustizia.

Firmato - Cav. G. Croce Pietro C. Ulloa

Al Signore Signor Cavaliere Luigi Mira

Roma

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M. 8.

Brevetto di promozione ad Officiale di Carico

nei RR. Ministeri.

Ministero e Reale Segreteria di Stato

della Presidenza.

Roma 1 Agosto 1863.

Signore

Sua Maestà il Re (N. S.) avendo in considerazione i servizi da Lei prestati prima e dopo le ultime vicissitudini del Regno, le sofferenze e le privazioni dell'esilio, a cui si è volontariamente esposta, volendo darle un'attestato della Sua Sovrana benevolenza, ha comandato ch'Ella venga elevata al grado di I limale di Carico, uffizio che Ella già esercitava provvisionalmente. E vuole la M. S. ch'Ella, occupi un tal grado, sia nel Real Ministero dove prestava servizio, sia in altro, nel quale al riordinamento del Regno, potranno stimarsi utili il suo ingegno e la sua esperienza.

Ed io, nel Real Nome, partecipandole questa Sovrana determinazione, mi stimo lieto di poterle aggiungere la mie congratulazioni per tal Sovrana Munificenza.

Il Presidente dei Ministri, Ministro di Grazia e Giustizia.

Firmato - Cav. G. Croce Pietro C. Ulloa

Al Signore Signor Cavaliere Luigi Mira Uffiziale di Carico

nei Reali Ministeri

Roma

N. 9.

Il Duca di Civitella afferma le egregie qualità del Mira, e seco lui Mons. De Cesare, con documento non richiamato in difesa.

Richiesto dal Cav. Luigi Mira io qui sottoscritto in fede del vero, attesto come in molte occasioni ho sperimentata l'onestà e la probità del suo carattere non che il suo costante disinteresse ed intelligente attività sempre che l'opera sua poteva riuscir utile alla causa del suo legittimo Sovrano.

Roma li 22 Gennajo 1865.

Firmato - Duca di Civitella

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Richiesto per la verità, a difesa dell'innocenza dichiaro di conoscere il giovane Cav. Luigi Mira, di sin dal 1850, quando, ritrovandomi rivestito della qualifica di Segretario Generale e Procuratore ad Lites della Benedettina Congregazione di Montevergine, era obbligato di recarmi spesso in poli per affari giudiziari ed amministrativi della stessa Congregazione. Fu da quell'epoca che io lo conobbi impiegato nel Ministero della Polizia Generale, amato da' suoi Superiori, attento, onesto; né costa a me che il suo procedere abbia dato menoma occasione a reclamo; anzi io l'ho pregiato sempre per quel raro pudore che riluce in tutte le sue azioni.

Dopo le triste vicende politiche che pesano su quell'infelice Reame, egli riparò in Roma, e la sua condotta in questa alma Città, per quanto a me costa, ha confermato la mia opinione, ritrovandolo sempre morigerato, rispettoso verso gli Ecclesiastici, educato e gentile con tutti.

Confesso pertanto e dichiaro, che l'animo mio si affligge al riflesso della gravissima accusa che lo ha colpito, e prego Iddio che il tempo, la sapienza e l'avvedutezza de' Giudici, chiamati a decidere sul conto di lui, vorranno restituirlo alla Società, purgato da quella accusa, che io credo calunniosa, perché è principio logico, che l'uomo non diviene pessimo in un istante.

Roma 26 Gennajo 1865.

Guglielmo De-Cesare

Abate Generale ed Ordinario di Montevergine

N. 10

Si prova che Mira provvide Ambrogio Conte per fino dei medicinali che fece venire da durante la sua malattia.Fuori Timbrata - A Monsieur de Mirmillon en Rome (1).Dentro 9 Febbrajo 1863.

Caro Luigi

Ti prevengo che col treno della ferrovia di domani l'altro ti spediremo, al solito indirizzo, un cesto contenente dei dolci

(1)

Motivi prudenziali, che si comprendono assai facilmente da chi pensa alla condizione del Mira innanzi all'attuale Governo di

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ed altro; e sappi che tale. spedizione ti si fa per inviarti la medicina da te richiestami pel tuo Amico. Dessa è distinta in due vasetti diversi portanti la scritta di Brigonia l'unii, e di Belladonna l'altra. Della prima gliene farai prendere in un dito d'acqua dieci globetti sciolti alla mattina, e della seconda la stessa quantità e nello stesso modo alla sera.

Spero gli sarà efficace ed opportuna a guarirlo dal malore di cui è stato colpito per soddisfazione nostra e pel bene della sua famiglia.

Noi stiamo tutti bene grazie a Dio, e speriamo di sentire lo stesso di te.

Finisco abbracciandoti caramente e mi dico.

Tuo Affezionatissimo

Teod.

Fuori Timbrata- A. S. E. Il Signor Luigi Franco in Roma.Dentro -Carissimo Luigi

Dò riscontro alla tua del 2 stante, perdona se con ritardo. Sento con soddisfazione che stai bene, solo m' addolora la tua posizione, circondato da nemici e solo. Mi rimproverasti perché insinuava a Mariuccia che ti raggiungesse, in questa circostanza quanto sarebbero stato buono? Certo che avendo avuto con te la stessa, non ti saresti unito con questi tre svergognati. Ben ti stà la nefanda azione commessa da questo birro infelice di Montanini. Perché quando partisti, di qua, volevamo farti portare Pasqualino, e tu invece volesti portarti il medesimo, avendo compassione della sua posizione, privo di mezzi, il quale non ha lasciato perché compromesso, e per serbare un sano principio; ma questi prezzolato tanto lui che quel vecchio ass... di Ambrogio Conte, servono chi li paga; sono davvero stranizzata considerando la loro ingratitudine verso di te, mentre al primo gli hai dato la sussistenza ed a questo vecchio gli hai dato la vita.Ha egli dimenticato QUANTA MEDICINA ti abbiamo MANDATO PER LUI, di nascosto della sua famiglia, onde non dargli dispiacere; quanto sarebbe stato meglio, se lo avessi

consigliavano i suoi congiunti od amici a dirigergli sempre le lettere sotto nomi fittizi, come pure a spedirgli danaro ed effetti con menzioni diverse.

- 137 -

lasciato perire in quel soppegno da dove lo traesti!!!!.... Ma gran rimorsi debbono però questi signori avere nel loro interno, esaminando la loro coscienza, che senza ragioni e senza antecedenti ti hanno fatta un'azione la più birba della terra. Ma lasciali perdere, che per te infine, la perdita è STATA DI POCHI DUCATI, per essi perderanno tutto, se sono in seguito riflettute le loro azioni passate, e presenti

Per il Duca di Popoli sarà il pubblico che lo giudicherà per quello che è quando sentirà, che esso si rivolta contro di te solo per cedere alle insinuazioni di una baldracca ecc. ecc.

Tua affezionatissima cognata

Anna

12 Dicembre 1863.

N. 11

Lettera col pseudonimo di Pasquale scritta al Mira da poli il 13 Settembre 1863 con cui si accenna agli sfoghi del Mira sulle pretese indiscrezioni dei suoi compigionanti.

Fuori Timbrata- Al Sig. Il Sig. D. Luigi Forte- Roma.Dentro - Carissimo Amico

Con gran rammarico ho rilevato dalla tua degli 11, diretta a Mariuccia, quanto ti è accaduto; non ci è da fare! Ti insegnerai a non far mai più del bene.

Ti fu detto una volta di lacerare le nostre lettere: mi meraviglio come non l'hai posto in pratica. Ma tanto cerca quanto più presto è possibile, di profittare dell'amico che si è offerto di alloggiarti...........................

Finisco abbracciandoti caramente, e mi dico

Tuo affezionatissimo

Pasquale

N. 12.

Altra lettera di col pseudonimo Bar... in data 14 Settembre sullo stesso oggetto, di cui nel preced. n°12.Dentro Timbrata - Caro Luigi

Gran sorpresa non meraviglia però, ci arrecò il fatto che ci annunziavi nella tua ultima per lo attentato infame che ti

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commetteva da quei tali conviventi con te, e da te beneficati.

Fino a tanto che il fodero del tavolino si trovasse schiuso, e si fosse letto quanto vi è di scritti, si potrebbe attribuire a curiosità, e ciò ammesso, essendosi divulgato il contenuto da essi, si potrebbe dire: è avvenuto per effetto di sboccataggine, forse guidato tu da eccesso di bonomia. Ma trattasi di aver fatto uso di chiavi adulterine, ciò che constata il loro disegno preconcetto, che rafforza la loro ribalderia, poggiata sopra dei piani benissimo studiati, sopra un fermo proponimento di svelarne i segreti. Ciò posto tanto tu che noi, dobbiamo regalargli il titolo di bricconi, tanto al padre, quanto al fratello del prete. Per Bernardo poi (pseudonimo convenzionale del feroce Achille Montanini), io son per dirti che non me ne sorprende considerando soltanto, che egli è uno di quei tali senza pudore e senza amor proprio, tanto si distinsero nel tempo dell'esercizio delle loro funzioni; ed io son convinto che d'essi, non saranno mai compunti e ravveduti, perché quelle loro virtù individuali gli sono innate.

Ti basti però la pubblicità ed il rimprovero fattogli, usando però politica e silenzio, rimettendone la soddisfazione a tempo e luogo, massimamente per Bernardo, di cui ne ho inteso qualche cosa da un comune amico, che me lo ha sempre dipinto uomo di fede dubbia, e da non fidarsene. Sono venali, fetentissimi, e lo sappiamo. Ad ogni modo scappa dalla vecchia abitazione, e prescegli piuttosto di ritirarti presso di quel tuo amico che ti vuole in sua casa. Non fidare però di chicchessia in articolo deposito di carte, ed abbi il sistema di temere di tutti, dubitare anche di tuo padre, stimando tutti nemici della pace e del bene altrui.

Evita assassini. Della sig. D. Marianna non parlarne affatto più, lasciala al diavolo, e cerca di togliere occasioni di parlarne, per non ritornare a quegli stessi antecedenti. 14 Settembre 1863.

Tuo affezionatissimo parente

Bar ….......

- 139 -

N. 13.

Lettera del 25 Settembre 1863 sullo stesso argomento

di cui nei due num. preced.

Fuori Timbrata- A S. E. Il Sig. D. Luigi Forte- Roma.Dentro - Caro Luigi

.............................................................................................. Rispondo.

......................................................................................................................... Prudenza coi tuoi nemici che involarono le tue lettere; riserbando però di fare la loro vendetta a tempo ed a luogo, senza omissione.

Ti abbraccio e sono

26 Settembre 1863.

Affezionatissimo parente

Teodoro

N. 14.

Altra lettera di dell'11 Ottobre sul fatto

del supposto furto. Fuori - Signor Luigi Forte

RomaDentro - Carissimo Amico

Con sommo dispiacere ho rilevato dalle due tue una con la data dei 6, e l'altra dei 9 corrente, l'assassinio commessoti da quei svergognati; solo ti avverto di essere accorto per la vita giacché questi sarebbero capaci anche farti qualche agguato.................

Tuo affezionatissimo amico

Pasquale

Ottobre 1863.

- 140 -

N. 15

Altra lettera del 10 Novembre sul fatto ritenuto dal Mira,

con cui si mostra indirettamente la parte sospetta del

Montanini a favore dei Conte. Fuori Timbrata-A S. E. Il Sig. D. Luigi Forte-Roma.Dentro - Caro Luigi

Nel tuo opuscolo da redigere e consegnare al signor Giacomo, cerca di comprendervi, che forse la indole dei due accusati, non sarebbe stata quella da poter agire per propria inclinazione alla mancanza commessa: ma che l'autore principale dovea assolutamente essere il Bernardo, che con le sue suggestioni rese capaci di corromperli, e ne varrebbe d'esempio, la sua grande attività nella difesa di quei due, perché la coscienza gli deve assolutamente mordere, come seduttore ed autore della commessa mancanza.

Tuo affezionatissimo parente

Tommaso

10 Novembre 1863.

N. 16.

Bollette della Ferrovia e della Dogana sulle molte spedizioni che la famiglia del Mira gli facea continuamente da di oggetti diversi ed alla direzione del sig. Piva nel tempo in cui esso convisse coi Conte. A. - Dazio d'introduzione Dogana di terra - N. 20. Lib. 6, port. 575 dich.

A dì 11 Febbrajo 1863 ore 2 pom.

Ha pagato Sante Leva (deve dir Piva) la somma di......... sulle seguenti merci introdotte dall'Estero.

Direzione lib. 37 una cassa dolci abaj. 8 la lib. 2 96

Esentato dal Dazio con dispaccio 11l corrente

N. 68656.

- 141 -

Lib. 75, una cassetta agrumi a baj. 1|2 »» 15

Tassa Bollo »» 6

»» 21

G. Baldassarri

G. Santarelli

F. LorenziniB. - La stessa intestazione - 29 Marzo 1863. »» 20

Giuseppe Piva una focaccia del peso 4 »» 1

Il rimanente pomidoro e frutta fresche

»» 21

Baldassarri

Benucci

SantarelliC. - Ferrovie Romane Regia G. di Salamanca.Stazione spedizione Coprano - Destinataria Roma.

Omissis ecc.

Fattura di trasporto - grande velocità

N. di sped. 41.

data 13 Aprile 1863.

speditore Baffi

destinatario D. Luigi Piva

Roma

dettaglio speseTasse - 55 Kilog. »» 92

II Capo staz. partenza

Bonucci

- Soldato -D. - Strade Ferrate - Servizio Mercigrande velocitàOmissis ecc.

Ricev. dal Sig. Baffi, spediva

al Sig. D. Luigi Piva

Roma 4 colli ignoto contenuto peso 55 Kilogrammi »» 92

Ceprano 23 Aprile

Per il Ricevitore

R. Castelli

- 142 - E - Stampa Doganale come alla lettera A.Omissis ecc.

15 Aprile 1863 - Piva - Due cassette libbre 73, e 25 -

Cestino 10-Canestra 62-contenenti effetti di proprio equipaggio usati, biancheria, e simili, 62 lorde di canestra

portogalli »» 12

6. Scattola paste dolci »» 48Totale »» 60

Baldassarri

Lorenzini

SantarelliF. - Strade Ferrate Romane - Servizio Merci - grande velocità.

Stazione di Napoli

Omiss. ecc. -Ricev. dal sig. Marsilia al sig. Regolat. Doganale a Ceprano - Una sportena Kil. 4, pagato Lira 1, 30.

16 Aprile 1863.

Il Ricevitore

PiglioG. - Stampe Doganali - Modula come sopraOmissis ecc.

9 Giugno 1863 - Piva

Lib; 9 involto confetti-150 Barilotto vino comune il tutto consegnato libero con Rese. N. 73245 al pag. consumo pel vino ecc. ecc.

Raldassarri

JacobbiH. - Strade ferrate - Modula come alla lettera F.Omissis ecc.

Marsilia a Piva in Roma. Una scattola effetti d'uso Kil. 3.

16 Luglio 1863.

Il Ricevitore Imperato

- Lo stesso Modulo Omissis ecc.

Marsilia Gius. Piva Roma

Paniero frutta - Kil. 5.

7 Giugno 1863.

Il Ricevitore Imperato

- 143 -

K - id. id. Omissis ecc.

Marsilia a Gius. Piva in Roma

Scatola con involto sopra-Biancheria e Dolci - Paniero frutti - Rii. 17.

9 Agosto 1863.

Il Ricevitore

ImperatoL. - Stampa Doganale come alla lettera A.Omissis ecc.

Piva - lib. 20 un ligazzo - vest. usato

BaldassarriM. - Strade ferrate Romane - Stazione di Roma.

19 Agosto 1863.

Omissis ecc.

I Sigg. Min. della Dog. di Terra potranno liberamente far sdaziare al Sig. Giuseppe Piva i colli seguenti giunti colla Ferrovia da Napoli.

1. Barile Aceto

1. Cassa Frutta fresche Il Capo AgenziaN. - Strade Ferrate - Solita Modula

Omissis ecc.

Savastano a Piva in Roma

Sporta commestibili con scattola cappello legato sopra - Kil. 39.

23 Ottobre 1863. Il Ricevitore

Imperato

O. - Bolletta Dog. come al Mod. A.Omissis ecc.

Gius. Piva - 24 Ottobre 1863.

Cesta libbre 50 pasta minestra 25 Mele fresche.

Cappelliera - tutto esente da dazio con Reg. 78819. SantarelliP. - Strade ferrate ut supra

Omissis ecc.

Savastano a Gius. Piva in Roma.

Scatola Tarallini Kil. 2.

28 Ottobre 1863.

Il Ricevitore

Imperato

- 144 - Q. - ut supra - Omissis eec.

Pasquale De Finis a Gius. Piva - Roma.

Cassetta Frutti - Kil. 11.

1 Novembre 1863.

Il Ricevitore

ImperatoR. - Solita Mod. Strade ferrate.

Omissis ecc.

Pasquale De Finis a Giuseppe Piva Roma. Scattola Dolci

Sportina effetti d'uso Kil. 24. 21 Ottobre 1863.

Il Ricevitore

ImperatoS. - Solita mod.

Omissis ecc.

Pasquale De Finis a Giuseppe Piva Roma. Sporta commestibili Kil. 28. 23 Decembre 1863.

Il Ricevitore

ImperatoT. - Solita mod.

Pasquale De Finis a Giuseppe Piva Roma.

Scattola Frutti e Dolci Kil. 8. 30

Deccmbre 1863.

Il Ricevitore Imperato

N 17.

Lettere comprovanti le molteplici rimesse di fondi fatte al Mira da Napoli, anche dentro alle Casse speditegli con il mezzo della Ferrovia.Fuori-Al Sig. D. Giuseppe Piva pel Cav. Mira-Roma.

20 Marzo 1863.

Caro Luigi

Riceverai una scottola di dolci dove troverai due. 47 composti in 10 napoleoni d'oro, co' quali avrai la bontà acquistarmi una bottoniera di malaghita per gilet, e un concerto bisognevole per la mia fidanzata...

Tuo affezionatissime cognato F.

18 Marzo 1863.

- 145 -

Omissis ecc. - Luigi mio caro

Ti rimetto un paniero con quattro asparici e carcioffi, che dirai al Sig. Duca (Popoli) si faccia per me una cassuola; una bottiglia di pomidoro, ed un vasetto di conserva fatta con le mie proprie mani. I dolci che mi hai chiesto li avrai nell'entrante settimana con le pipe di Montanini, ed i frutti. Unito al paniero ricevi un cassettino con quattro confetti che ti manda Enrichetta - sotto ai confetti, vi sono due carte - una con N. 7 napoleoni, che te li rimette Pasquale; gli acquisterai una bottoniera di malagiata ed un bracciale per la sua Virginia di tuo gusto. In un altra carta altri OTTO NAPOLEONI che sono miei PER TE- non privarti di niente, e dimmi tutto quello che desideri - non mi fare il tuo solito che non mi dici niente, e debbo mandarti tutto da per me..….................

Tua affezionatissima

M.

13 Marzo 1864.Dentro-... Il danaro lo avrai al più presto possibile- Sono in attenzione che questa sera avrò altra tua con la spedizione, alla quale non risponderò domani, ma quando ti manderò il danaro.…..................Tua affezionatissima

M.

Napoli 3 Aprile 1863.

Caro Luigi

Ti rimetto per la ferrovia e direttamente al solito tuo amico un canestro che contiene una pizza dolce, e dei dolci di riposto, e questa volta l'oggetto principale di tale spedizione si è appunto quello di profittare del mezzo, e spedirti contemporaneamente una somma di ducati trenta, che ti spedisce Mariuccia, desiderando che gli acquisti degli oggetti donneschi di pietre fine legate in oro; ciò che essa desidera che da te si conservino fino al tuo ritorno, che m'auguro sia quanto prima.

Affezionatissimo cognato

Vincenzo

26 Maggio 1863.

- 146 -

Carissimo Luigi

….................................Ci fai sentire che sei afflitto In per la malattia

del padre del Prete. Noi siamo dispiacenti al pari di te, ma sii certo che si rimetterà con la medicina omiopatica che ti abbiamo mandato; qualunque cosa ci occorre scrivici che ti manderemo - sta tranquillo, speriamo che subito si voglia rimettere, e per l'assistenza che tu gli arrechi, e per la medicina opportuna. Hai fatto bene di farlo visitare dal Dottore di tua fiducia (Hfanfrè!} e sappi che Dio saprà ricambiarti la tua gratitudine. Zia Baronessa desidera una corona di coralli rossi ed una spilla di tuo gusto, e ricevi dalla stessa due. 10 con tanti saluti. Io ti rimetto ducati 36 per la goliera che ti scrissi con l'altra mia - Mi comprerai anche una spilla di malaghita, che corrisponda agli orecchini che ho. Detta moneta la rinverrai nel cesto dei frutti - quivi vi è una pizza di fragole fatta con le mie mani. Spero ti sarà gradita. Nella cassetta che vi è detta pizza vi è la monetaTua affezionatissima cognata

Enrichetta

12 Agosto 1863.

Caro Luigi

.... Ti rimetto un cassettino che contiene dei dolci, cioé un chateaù dolce che è stato a me regalato. Più dei confettini fini che riempiscono il rimanente del cassettino. Accetta di buon grado, stimando l'offerta, come effetto di sentita affezione. Riceverai inoltre ia somma di due. 30 a parte di Mariuccia la quale desidera che ne faccia l'uso come segue. Essa desidera che le compri una goliera, una spilla, e corrispondenti orecchini di malaghita, da formare un intiero indirizzo...

Tuo parente

Vincenzo

11 Settembre 1803.

Carissimo Luigi

…...............Calcolando il sistema della cucina di costà, ed il tuo desiderio per le cose di rito del paese nostro, ti rimetto rotola 20 di pasta lunga in differenti sorti; dei pomidoro buoni per fartene il corrispondente brodo, ed oltre poi, dei peperoni grandi e poche altre cosette. Tutto è riposto in

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…..................Tuo cognato

VincenzoFuori per la posta col Timbro.

Di (Porto) 14 Ottobre 1863.

A S. E. il Sig. D. Luigi Forte. RomaDentro - Luigi mio caro

Giusto come mi chiedi, che il denaro non vuoi te lo rimetta più per le spedizioni, ma bensì con cambiali, tutti si rifiutano di spedire cambiali in Roma col tuo proprio nome TANTO COMPROMESSO presso il Governo; tu ci inculchi di non mandartelo diversamente, e noi stiamo in grande agitazione per questo fatto. Un altro tentativo si sta praticando per parte del cognato, che è amico d'una casa di commercio, la quale tiene corrispondenza costà, e ne ignoro l'esito. Se pur questo manca, non potrò che seguitare il sistema Onora tenuto, e dicano quello che vogliano, codesti straccioni, non ti curar di loro. Mettono in forse che tu ricevi di qui danaro? È bello pur questo!! Ed il Signor Giacomo per far

fronte ai quali siamo obbligati a farti giungere al di là di ciò che potrebbe bastare al tuo mantenimento, non potrà forse dire che nulla ti dà?.........................................................................................................

Tua affezionatissima

Maria

Fuori al Sig. Luigi Forte.

Roma

Per la FerroviaTimbro postale succursaleDentro - 21 Ottobre 1863.

Caro Luigi

Tutto è risoluto. Domani sarà comprato il cappello per te, i maccheroni, e tutt'altro dimandato, che sicuramente ti si

- 148 -

Tuo parente Bar...

N. 18.

Avvisi di Tratte accettate a favore del Mira, e pervenutegli da, con varie lettere dei suoi, allusive a simili rimesse di fondi.

Per la Posta col timbro.

Fuori - Al Signor Luigi Forte.

RomaDentro - Caro Luigi

Ti rimetto la cambiale in vista della quale riscuoterai la somma di Lire 805 pari a due. 189, 41. La cambiale naturalmente è a scudi calcolando che tal'é la moneta plateare di costà.... Il Banchiere residente in Roma, corrispondente alla Casa Sorvillo, è Marignoli e Tomassini. Te la compiego nella presente.

Oggi 24 Ottobre 1863.

Tuo parente

Vincenzo

Per la posta con enveloppe timbrata.

Fuori - Al Signor Luigi Dolce.

RomaDentro - 16 Marzo 1864.

Caro Luigi

Non prima d'oggi mi è riuscito di spedirti la solita cambiale e che troverai qui acclusa. Essa è della valuta di ducati 30 che riscuoterai costà alla Casa Marignoli e Tomassini. Cerca intanto d'accusarmene subito ricezione onde tranquillizarmi d'animo.......................

Bada che la cambiale porta la data pari a quella della presente.......

Tuo parente

Giacinto

- 149 -

Per la Posta timbrata.Fuori - Al Signor Luigi Torna.

RomaDentro - Li 22 Agosto 1864.

Caro Luigi

Questa mattina è riuscito di finalizzare la faccenda del denaro da spedire al tuo amico, quindi alla presente acclusa ti rimetto una cambiale in scudi settantanove e rot. equivalenti a ducati 100 ed egli la riscuoterà liberà essendo in testa sua........................................

Tuo parente

Tommaso

Per la Posta timbrata.

Fuori - Al Signor Luigi Neroni.

RomaDentro - Li 23 Gennajo 1865.

Luigi mio caro

Questa mattina ti abbiamo spedito un paniero, voglio augurarmi che l'hai ricevuto. Nel paniero vi erano lettere di ognuno di noi....... Qui acclusa ti rimetto la cambiale di ducati 100....................................

Tua affezionatissima

M.

Caro Luigi

Stamane ti abbiamo fatta la nostra delicata spedizione, e pel solito mezzo, e questa appunto è stata fatta esclusivamente per ispedirti....... Oggi ti scrivo novellamente, onde inviarti nella presente compiegata la cambiale in testa tua di ducati 100 equivalenti ad 85 scudi Romani, e che riscuoterai in vista di quella, dalla solita Casa Bancaria Marignoli e Tomassini Negozianti costì. Mi auguro che l'uso di tale somma voglia farci rallegrare di un suo buon effetto, sicuri che il Padre Eterno permetterà che la verità trionfi, con premio certo alla virtù....

Tuo parente

Tommaso

2. Cambiale. -N. et F. Sorvillo-24 Ottobre 1863. - B. P. F. 151, 50 Romani - A quattro giorni data-pagate per questa seconda di cambio (la 1. non essendo) all'ordine del Signor Luigi Mira - Scudi 151 e bajocchi 30 romani - Valuta ricevuta contante e ponete in conto secondo o senza l'avviso di

F. Sorvillo

- 150 -

Alli Signori

Marignoli et Tomassini

Roma

Formula ut supra - 16 Marzo 1864 - Per scudi 24 romani.

F. Sorvillo

Formula ut supra - 22 Agosto 1864 - Per scudi

79 e bajocchi 73 romani.

F. Sorvillo

Formula ut supra-Novembre 1864-Per scudi 80 romani.

F. Sorvillo

Alli Signori

Spada e Flamini et C.

Roma

Formula ut supra - 23 Gennajo 1865 - Per scudi 80 romani.

F. Sorvillo

Alli Signori

Marignoli e Tomassini

Roma

Formula ut supra-20 Febbrajo 1865 - Per scudi 80 romani.

F. Sorvillo

Il di 19 Marzo fu distribuita tale stampa resa a metà, come dissi. Dcssa fu pure inviata al Santo Padre ed al Segretario di Stato con analoghe lettere di accompagno (1); alle Autorità

(1) «Beatissimo Padre

«Il Cavaliere Luigi Mira Uffiziule di Carico de' Reali Ministeri di Stato di Sua MaestÀ Siciliana, trovandosi colpito da una denigrante imputazione innanzi a'Tribunali Criminali di Vostra SantitÀ, ha implorato dalla Ufficiale Difesa che venissero poste in luce le sue ragioni, e fosse contemporaneamente smenti to mediante documenti irrefragabili tutto ciò che si volle falsamente deporre a suo carico per comprometterlo non solo innanzi alla Giustizia punitiva, ma anche presso Il opinione pubblica.

«Avendo ottenuto dalla detta Difesa Ufficiale quella solenne riparazione, si fa ardito umiliare una copia della propria Difesa e Sommario ai piedi di Vostra SantitÀ, supplicandola a volersi degnare graziosamente di portarvi sopra la Sua Augusta attenzione. Noma li 19 Marzo 1805.

Umil. Osseq. Dev. Servo e Figlio

Cav. Luigi Mira

- 151 -

politiche e giudiziarie di Roma ed a tutta la Napolitana.

Dopo tale distribuzione il mio Difensore rivide i Giudici che decider doveano la mia Causa.

Il Giudice Mazza, quegli che nel Giudizio dei Conte con tanta passione avea impedito la parola al loro Avvocato (il signor Gui) fecegli sentire, che avrebbe mandato in sua vece il Sostituto ad assistere al Giudizio. Altri Giudici mostraronsi persuasi sì della mia innocenza; ma dicevano: «come si fa a distruggere la prima Sentenza assolutoria? Se in« nocente Mira, rei i Conte! La innocenza è implicita alla reità. Noi non possiamo dire: oggi è bianco ciò che jeri dicemmo nero!»

Dunque io dovea esser condannato per mettere in salvo il decoro de' Giudici, fino a patirne delle conseguenze per nascondere il loro commesso errore?

Dovea essere dichiarato calunniatore ed inviato a' ferri io, per non far dichiarare ladri quelli che mi avean rubato: dovea perdere la vita civile io, per non dichiarare falsi testimoni coloro che si eran resi spergiuri?!

La mia innocenza, che veniva confessata da' stessi Giudici, dovea rimaner repressa ed oltraggiata perché si arrossiva di

«Eminenza Reverendissima

«Il Cav. Luigi Mira Uffiziale di Carico de' Reali Ministeri di Sua Maestà Siciliana, trovandosi colpito da un'odiosa recriminazione per supposta calunnia, e nello stesso tempo venendo fieramente attaccato da malevoli detrattori nell'onore e nella fedeltà al proprio Sovrano, ha per mezzo della Difesa Ufficiale voluto rendere di pubblica ragione, per edificazione del Tribunale e del paese, la sua condotta privata ed i servizi resi alla Causa del proprio Amatissimo Re.

«Si permette quindi di rassegnare all'Eminenza Vostra Reverendissima una copia di simile allegazione e Sommario, e la supplica a volervi portare sopra la propria attenzione; onde se mai fossero giunte sino a Vostra Eminenza Reverendissima le insinuazioni dei suoi nemici politici, possa l'Eminenza Vostra Reverendissima farsi un adeguato criterio dei fatti, e vedere nel suo senno da qual parte stia la verità e la giustizia.

«Roma li 19 Marzo 1865.

Umil. Dev. ed. Obb. Servo Cav.

Luigi Mira

- 152 -

confessare l'errore commesso nell'assolvere due ladri non su prove positive, ma sulle negative; perché si era prestato cieca fede alle falsità asserite dai testimoni?

Eccitato sempreppiù da questa stranissima disposizione dei Giudici io mi determinai a partir da Roma nella certezza di soccombere.

Ma la sera antecedente al Giudizio, e sul tardi, quando non ero più in tempo di sciogliermi dagli impegni che si eran presi per farmi rimpatriare, io fui fatto certo della vittoria, che avrei riportato alla dimane, essendosi cambiati i Giudici che decider doveano di me.

Debbo forse questo istantaneo cambiamento alla Sovrana Clemenza del Sommo Pontefice cui avea fatto giungere la mia lettera? Lo ignoro.

Questo improvviso cambiamento valse ad indurmi a costituirmi in Giudizio, che il di 23 di Marzo ebbe luogo.

La Causa si discusse a porte chiuse, perché oltre i documenti pubblicati nella Difesa, se ne dovettero esibire molti altri eminentemente politici.

La discussione fu viva! L'Avvocato della parte avversa ebbe l'impudenza di tentare, che sorgessero dubbi sulla identità della persona, dicendo: il Mira premiato, ed al quale si appartengono i documenti esibiti in difesa, non è lo stesso Mira ora in Giudizio!-Ciò che produsse sdegno alla Ufficiale Difesa rappresentata dall'onorevole Monsignor Annibaldi, il quale non poté più contenersi verso tanta audacia, e la respinse ammonendo il Gul acremente. E conchiuse la sua eloquente difesa dicendo - né credevo che le passioni di partito traviassero fino a questo punto. La vostra stessa meschina opposizione mi persuade sempreppiù della innocenza dell'incolpato, e dell'errore commesso dai Giudici assolvendo della gentedispregevole.Fui però liberamente dimesso!

- 153 -

CAPO XXVII.

Il mio ritorno ed i miei calunniatori.

Dopo pronunciata la mia sentenza assolutoria, io sentiva il suolo di Roma scottarmi sotto i piedi: il solo pensiero d'incontrarmi in coloro, che mi avevano calunniato, e mi avevano esposto al pericolo di lunga ed infamante prigionia, mi faceva rifluire il sangue alla testa, mi faceva fremere di sdegno: io mi sentiva capace di commettere un delitto.

La mia dimora in Roma era divenuta compromettente colla presenza de' miei avversari.

Bisognava porre una valanga di ghiaccio su tutti gli affetti, e salvarsi dalla potentissima falange di nemici, che non mi avrebbero dato né tregua, né pace.

Così nel di seguente il Giudizio, fremente com'era di lasciare Roma e vendicare colla stampa gli oltraggi fattimi, non chiesi neppur udienza dal Re Francesco per renderlo consapevole dell'esito dell'iniquo Giudizio intentatomi, e dei mio fermo proponimento di abbandonar Roma, e mi permisi di scrivergli la seguente lettera, che gli fu fedelmente consegnata.

SAGRA REAL MAESTÀ

«Signore

«Su quella terra ove fui ridotto ad abbracciar l'esilio per Vostra MaestÀ, io mi son visto perseguitato da uomini, che godono la fiducia della MaestÀ Vostra, fino al punto di attentare alla mia libertà individuale. Essi spudoratamente si rendean spergiuri falsando il vero per troncarmi nella vita civile, e trame partito ne' loro tenebrosi disegni.

«Questa lotta che, solo e attraversato da tutti ho sostenuto contro un numeroso stuolo d'intriganti, è durata un periodo di ben diciotto mesi, ma finì per ottenermi quella giustizia che si fece di tutto dai prepotenti miei nemici per conculcare. Sì, il mio onore ha riportato quel trionfo innanzi al quale dovranno prostrarsi cotesti tristi.

- 154 - «Ma ciò non basta, o Sire, per dare soddisfazione agli oltraggi fattimi da tutti, niuno escluso; dappoiché si volle incfine in dubbio la mia fede politica, e si trovò annuenza non ostante le non poche prove di fedeltà da me date fino ad esporre la mia vita, sacrificare i miei interessi e ridurmi in esilio.

«Tanta fedeltà non dovea mai bastare a smentirla un Duca di Popoli interessato a nuocermi perché spinto da immorali passioni. No, non poteva esser messa in forse dal suo consorte Murena interessato, a lui del pari, a nuocermi per spirito di parte; no io dico: i giuramenti di questa gente esecrata e spergiura; di questi uomini che sotto il manto della ipocrisia nascondono la infamia e il tradimento; di questi esseri spregevoli e maledetti da nove milioni di cittadini; di questi uomini............. che vi fecero detronizzare, e che standovi d'attorno rendono impossibile la Vostra Restaurazione, non doveano valere a mettere in dubbio la mia riputazione.

«E Voi, o Sire, con dolore ve'l dico: tardi vi accorgerete che essi come lo furon per lo passato, lo sono e lo saranno, i Vostri nemici. -Ma ciò non è tutto. Il Tribunale di Roma se non poté fare ammeno di rendermi la dovuta giustizia, volle però salvare in parte cotesti empi, ond'é che renderà a metà la Difesa Ufficiale che l'Avvocato assegnatomi dal Governo avea redatta, nella quale si facea cenno di alcune particolarità e di taluni nomi, i quali sarebbero stati smascherati quali felloni.

«Ridonato alla vita civile con Sentenza dello stesso Tribunale che m'intentava il Giudizio, voglio vendicarmi facendo chiare al Mondo tutte le perfidie, gl'intrighi e le infamie dei miei detrattori. -Io debbo far aggiungere alla Sentenza del Tribunale di Roma quella della opinione pubblica: l'infamia a chi spetta. E se forse nel fare la esposizione dei fatti io dovessi porre in chiaro cose che avrebbero dovute rimanere sepolte nell'animo mio, incolpatene non me, ma gl'iniqui che mi vi hanno spinto. -Parto da Roma per non più imbattcrmi in assassini simili; voglio sottrarmi all'iniquità di cotesti malvagi, cui farò provare le conseguenze del mio sdegno.

«Di Vostra MaestÀ. Umil. Dev. e Fed. Suddito

«Roma li 24 Marzo 1865. Cavalier Luigi Mira

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Indi lasciai Roma, perché in essa io vedeva lo spettro orribile dei miei calunniatori; vedeva il ricettacolo dei tristi; vedeva il Re, quel Re pel quale aveva tutto sagrificato, circondarsi di uomini che per privati interessi lo ingannavano.

Eppure ciò che più mi spinse a lasciar Roma, fu la slealtà usatamisi col ritenere le copie de' miei Brevetti, dacché chiaro appariva che voleasi perdermi.

Io non voleva l'altrui male, ed anche meno una pubblicità: che comprendevo bene quanto torto avrebbe fatto alla Causa del Re che era pur la mia.

Alti personaggi possono esser testimoni che, purché coi documenti alla mano si fosse riconosciuta la lealtà della mia condotta politica, tanto denigrata dai miei nemici, io mi era rassegnato, che si dicesse: ie false testimonianze non essere altro, che la ignoranza di alcuni segreti, che io gelosamente custodiva. Ma parve che anche ciò fosse troppo; era positivamente la mia perdita che erasi giurata; e la mia perdita diveniva sempreppiù certa, quando i miei nemici erano riusciti a far loro complici uomini, che poco memori de' miei sacrifici, si piegavano alle loro perfide insinuazioni.

Appena giunto in , disotterrai dal mio giardino le carte che fin dal 1860 vi teneva celate, e le restituì al Governo di Vittorio Emanuele.

Fu allora che tutta la stampa Napolitana si diede a narrare che io era fuggito di Roma portando meco carte di alta importanza tolte al Real Palazzo e si facea assegnamento gravissimo sul mistero di quelle, che io avea dissepolte e restituite.

Il Duca di Casacalenda, fra gli altri, non volle risparmiare me in una sua lettera politica, ove sta un brano nel quale è detto così:-Si sono elevati individui dello stampo dei Mira e perseguitati gli onesti!...In altro lavoro parlerò più diffusamente di questo signor Duca; per ora lo prego di dare uno sguardo a queste mie memorie donde rileverà in qual modo Mira fu elevato!

Richiamo poi allo sguardo dell'onorevole Duca di Casacalenda il Giornale- Popolo d'Italia del 4 Settembre 1865 (1)-

(1)

….................Pare che il Borbone sia deciso di non perdonare al Popoli la gran colpa ch'egli ha d'aver concertato col Casacalenda la nota lettera daquest'ultimo diretta al vecchio Ulloa, e poi

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nel quale fu riportata una corrispondenza di Roma che lo riguarda, e donde rileverà chi sono gli ONESTI per seguitati in Roma!Ritorniamo alla analisi della critica dei giornali sul mio ritorno, dalla quale mi sono per poco allontanato.

Assicuravasi adunque, come ho detto, che io avessi portato meco da Roma carte di alta importanza tolte al Real Palazzo

In tempi come questi, non c'é peggio che produrre una novità di suo conio per accreditarla; ed infatti io mi vidi designato quasi il protagonista d'una scelleraggine.

Contenni i primi moti dell'animo sdegnato, tanto più per quanto innocente; e rassegnandomi al destino che sembrava percuotermi così duramente, mi appigliai alla pubblicità della stampa con molta moderazione (1), lasciando al tempo ed ai fatti la misura del disinganno.

Il pubblico aspettava ogni giorno dalla stampa la pubblicazione dei promessi documenti: ma i giorni passarono e molti; la pubblicazione non venne, ed il pubblico si strinse nelle spalle come il giuocatore al lotto, il quale non trova nel suo biglietto di gioco i numeri usciti dall'urna da lui tanto deprecata.

L'opinione del paese cominciò a piegare più favorevolmente per me, e la taccia di traditore da' più intelligenti e meno ingrati fu ritirata.

Ma ciò non mi soddisfa abbastanza: dichiaro solennemente al cospetto dei miei concittadini, che io non portai via da Roma carte di sorta alcuna che appartenessero al Real Palazzo Non avrei fatto ciò che non poche volte seppi prevenire, ovvero impedire che altri facesse!! Io avea adempito alla mia parola: aveva restituito le carte

pubblicata sul Diavoletto di Trieste - A proposito di Casacalenda: qui si sono presentate due cambiali scadute in testa sua per 1500 scudi, una per 700, ed altre piccole; oltre ciò sono venute a galla, in questo trambusto, molte truffe sporche da lui commesse.

Ecco chi sono i Costituzionali per progetto; ecco chi sono quelli che si fan chiamare Duchi, Principi, Conti, ecc. ecc. che qui riparano dicendosi fedelissimi alla Legittimità e vittime della ferocia del Governo Italiano!(1)

Giornale - L'Avvenire del 14 Aprile 1865.

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promesse, e se da questo fatto non era, né poteva risultarne l'aspettato trionfo, non poteva, né si può darmene colpa, come di effetto mancato.

Egli è vero che l'Autorità, credendo di trovare in me una persona quasi autorevolmente informata dei fatti del Real Palazzo non mancò di sottopormi a reiterati interrogatori, Ma io sempre fermo ne' miei principi, a costo di ricompromettere la mia libertà individuale, non paventai di sfuggire le poco lecite pretese, rispondendo francamente: che io non sarei giammai divenuto il gendarme dei miei concittadini. Ed al probabile evento di una violenza, protestai: che avrei preferito un passaporto per l'estero, anziché macchiare la mia coscienza ed il mio onore.

Mi limitai però alla pura e semplice storia della mia sventura sopraggiuntami per effetto dei tristi ed inconsiderati maneggi del Duca di Popoli, e della persecuzione di Murena, che io qui dichiaro unica e sola cagione dei dissapori, della scissura, e fomite di ben altre sventure a danno della grazione Napolitana, e della stessa Casa dei Borsoni.

Alla insolente stampa di faceva eco la canaglia dei miei detrattori rimasti in Roma. Di tradimento anch'essa osava di accusarmi per aver reso le carte, di cui ero possessore.

Traditore?! - II Governo Italiano avea saputo, per la infame denuncia venuta di Roma, la esistenza di quelle carte di cui erami appropriato!-La casa ove custodivansi, mi fu tolta ad insinuazioni venute di Roma!

Traditore? - Traditore chi tenne mano a questo intrigo, chi ne manifestò il segreto.

Traditore? - Fui astretto dalla forza dello intrigo di un empio partito a subire le impostemi condizioni per ottenere il rimpatrio, cioè restituire quelle carte, che nascoste salvarono dalle prime ire della rivoluzione molti individui.

Ma la condotta tenuta meco in Roma mi dimostrò di essermi ingannato; e non valeva la pena per cose, che teneansi in niun conto, e che non interessavano alcuno, prolungare il mio esilio fra gente, che in compenso del mio ben fatto, cercava ad ogni costo la mia rovina.

Infine non ho fatto che restituire ciò che mi avea appropriato, spinto da un sentimento di pietà, e che non essendo

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né affidato in deposito, restituendolo non ho tradito alcuno.

Con qual dritto chiamarmi traditore, quando quelle carte non mi furono per disposizione altrui affidate, e che per la semplice custodia di esse soffri per lo spazio di cinque anni il dispendio di una pigione che erogar dovea esclusivamente per la casa in cui tenevansi celate e che ora mi è stata tolta?

Con quale coraggio adunque chiamarmi traditore, quando si fece di tutto perché si sorprendessero quelle carte?-Ed in fatti sarebbero state senza dubbio sorprese, se Giovanni della Gatta avesse posto piede nella mia casa pria che io le avessi tolte e consegnate!

Si dà impropriamente il carattere di traditore. Audaci!- Traditore è colui che abbandona una Causa (che dovrebbe considerare sua propria e difenderla con ogni sforzo e sacrifizio) per odio; per reo Umore o per vile interesse. Ciò che non fu per me, bastando a convalidarlo la mia condotta serbata nel breve periodo della mia vita politica, che è abbastanza nota!

Ma la perversità dei miei nemici nel calunniare è solo superata dalla loro scempiaggine. Essi per attenuare la sconfitta spettatagli pel mio trionfo riportato nella Causa intentatami, osarono di dire che io avea tradito. Ardiron di parlare di tradimento, essi che venderebbero le mille volte la loro anima nera per vile interesse! Essi che f'unni i primi ad abbandonare il Re nell'ora suprema dei suoi pericoli, rifuggiandosi in Roma, ed altrove!

lo non tradì, no, ma restai fermo al mio posto in quelle ore estreme, ed esposi la mia vita per apprestare morale soccorso al tradito Sovrano. Non così, per que' vili, che furon cacciati in bando dalla paura di esser messi alla gogna quali uomini condannati dalla pubblica esecrazione - Traditore è colui che abbandona una Causa per reo timore!io mi ridussi in esilio dopo di avere esposto a mille pericoli la mia esistenza, lasciando in una famiglia, dalla quale fino allora non mi era un sol momento disgiunto; ed in ultimo una posizione sociale senza dubbio lusinghiera.

E se son ritornato in non ho fatto, come farebbero i sanfedisti di Roma, purché si accordasse loro la grazia del rimpatrio, ed un tantinello di potere; giacché essi son nati per vendersi senza curar pudore.

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Murena ardisce chiamarmi traditore; Murena! Lo scrittore dell'estinto Giornale cui ebbe l'audacia di dare il nome di Progresso Sociale, che nel Numero del 22 Febbrajo 1865 attaccando l'intrepido Conciliatore di (che per altro seppe dargli una solenne lezione), scrisse tra le altre corbellerie: se il Governo presente ci trovasse piemontisti, se ne farebbe lieto, e ci offrirebbe le migliori cariche-Quale offerta!

10 non mi offri, né mi vendetti; se son ritornato in non sono però ritornato in Carica, in quella Carica che perdei per difendere una nobile sventura!

Ho tradito!-Calunniatori! Se io son venuto in Napoli, non ho fatto come già fecero taluni! Non ho rivelato segreti e nomi a me confidati, né ho consegnato carte a me affidate, dicché le stesse Autorità Italiane non han potuto fare ammeno di rispettare tanta modestia, per me doverosa peraltro.

Ho rivelato solo le infamie di quei perfidi che mi costrinsero ad abbandonar Roma, dopo tre anni di penoso esilio, e tante perdite sofferte.

Dopo la mia partenza da Roma, la baldanza di quei tristi, rimasta repressa ed umiliata dalla Decisione del Tribunale in mio favore, ridestavasi più fiera ed ostinata che prima. E non contenti di avermi regalato il titolo di traditore, osarono di asserire due altre menzogne.

La prima è più ridicola che maligna; ripetettero quel che avevano suggerito all'Avvocato Guì, che cioé, vi fossero due Mira: uno buono premiato, al quale si appartenevano i documenti esibiti in difesa, ed uno tristo perseguitato; e questi era io!

Il Duca di Popoli era quegli, che pel primo giungeva fino ad accusare pubblicamente il Marchese Ulloa di aver falsati i Brevetti scambiando volontariamente un Mira con altro Mira, cui si appartenevano que' documenti; mentre egli stesso, il Duca, li aveva sollecitati dal prelodato Ulloa ed egli stesso come altrove ho detto, li aveva passati a me. - Basta ciò a provare quanto sia grande la perversità e la mala fede delVonorevolissimo Duca di Popoli.

Vi siano pure dieci Mira; quello che fu giudicato buono, fedele e disinteressato per tre anni, e tristo per diciotto mesi, non fu che io.

L'impiegato cui fu affidato l'Archivio dell'Alta Polizia, io era; e di ciò chiamo a farne fede l'onorevole Commendatore

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Il Mira, che immolò le mille volte la sua vita per propugnare un alto principio, fui io. -Il Mira Archivario prese le carte, e rese innumeri servizi anche in esilio con doveroso zelo, e nobile disinteresse. Quello stesso Mira fu perseguitato dall'ipocrita Murena e suoi degni compagni; quello stesso Mira fu minacciato di essere inviato ai ferri; quello e non altri poteva restituire le carte.

Qual conseguenza trarre dalla esistenza di un doppio Mira? Che premiando me, si credeva premiare altri? Sciocca insinuazione!

Ma non foste voi, signor Duca di Popoli, che provocaste dal Re tutt'i Rescritti e Diplomi, che oggi formano la condanna alle vostre false testimonianze? Anzi ho a rammentarvi: voi veniste più volte in disgusto col Marchese Ulloa, che mostravasi a me poco favorevole per la concessione di tali premi; dappoiché ignorava taluni servizi da me resi, e de' quali il Re e voi eravate scienti.

E non foste voi che li faceste più volte rifare venendo in diverbio co! Marchese Ulloa intorno a' termini coi quali volevate si compissero?

Voi lo sapete signor Popoli, che il Marchese Ulloa, non faceami lodi che forzato!

E non foste voi quello stesso Duca di Popoli, che il di 30 Settembre 1864 provocaste da Re Francesco II il ritiro di que'Brevetti, e la mia destituzione, asserendo sul conto mio mille mendaci ed infamie; dietro di che andaste buccinando per tutta Roma che il Re avesse risposto: ci Siamo InganNati Tutti E Due? Mentre io continuavo a servire, ed erano a me affidati i più gelosi incarichi?

Voi sapevate, che quei documenti erano una solenne smentita alle falsità da voi asserite nel Giudizio contro di me, epperò tentaste di farmeli togliere. Sapevate, che io ammesso a difendermi, que' documenti erano le armi di mia difesa e volevate disarmarmi; ma falliste il colpo!

Mi fossero stati pure tolti quegli Uffici; non però io rimaneva destituito, né mi venivan strappate dal petto quelle Decorazioni, che mi furon date per meriti politici!

Per raggiungere questo scopo, signor Duca, v'ha d'uopo di un processo, e di una condanna! Voi tentaste l'uno, ma non otteneste

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l'altra: se io fossi stato dichiarato calunniatore, voi avreste vinta la Causa.

Comprendo bene che la società moderna è pervertita, e che coll'oro tutto si compra, massime quando non si à né si trova coscienza. E voi siete bene in questa condizione (fede ne faccia la monca processura istruita dal della Bitta, che voi corrompeste!); dappoiché per quanto siete opulento (grazie al FEUDALISMO!), altrettanto vi manca ogni principio di morale; non avete cuore che per vendicare le vostre impure passioni, che vi han bandito dalla buona società - Via, profondete un altro poco di oro, e vendicatevi!

In fine quello stesso Mira, che si premiò si perseguitò poscia per opera di questi falsari e spergiuri.

Né i premi furono accordati ai natali, all'alto o basso Funzionario, al ricco o al povero; ma a chi avea reso servizi, a chi tutto avea sacrificato alla difesa del suo Re, a chi si era esiliato per Lui, a chi nello stesso esilio ne avea con suoi propri mezzi propugnato la Causa. E questo non è a mettersi in forse, che fossi io.

L'atto stesso di aver restituite le carte prova, che io era l'Archivario. io le avea salvate.

La seconda menzogna asserita é, che il mio trionfo riportato nella Causa, era dovuto a taluni Certificati di cui io avea creduto munirmi in seguito delle erronee considerazioni, che il Fisco faceva sulle deposizioni dei testimoni, fra le quali vi era la seguente: «Nonostante le dichiarazioni del Cavalier Mira fatte il dì 23 Settembre (1864), la responsabilità di lui nel crimine di calunnia, resta provata in genere ed in specie; dalle ottime qualità di Ambrogio e Pasquale Conte, commendate da tutt'i testimoni; dalla sinistra fama, che corre qui sul conto del Mira presso la Napolitana».

La immoralità dei testimoni era giunta a tal segno da dipingermi malveduto in Roma, o come si espresse il Fisco: correre sul mio conto sinistra fama presso Napolitana.Si eran ritenute per vere tali asserzioni sol perché Murena, Popoli, Ricciardi e Montanini, uomini interessati a nuocermi, le avean dichiarate! Pel Fisco la Emigrazione Napolitana componevasi da costoro!

Epperò ritenne per vere le loro indegne testimonianze, fino

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di basarvi un altro argomento per convincere i Giudici, che io avessi calunniato.

Mentre non dovea ignorare, che in Roma vi era una Legazione Regia; v'era un Ministero Napolitano, da cui dipendeva; vi era lo stesso Re. E ben dissi, che gl'informi doveansi raccogliere dalla Legazione o dal Ministero in parola. Autorità entrambe riconosciute dal Governo locale, e le sole che io riteneva a me superiori dopo il Re. E non accettare deposizioni passionate e comprate, che senza chiarire i fatti attaccarono la mia fede politica, e la mia delicatezza.

Ma essendosi ciò trasandato dall'Autorità Giudiziaria, che far dovea io dunque per ismentire la calunniosa assertiva di sinistra fama, che dicevasi correr sul mio conto presso la tana?

Ne feci appello alla equità e giustizia del mio Ministro, e di qualche altro distinto personaggio, co' quali stando in contatto, aveano potuto sperimentare l'attaccamento al mio dovere, e la delicatezza nella conservazione del mio decoro.

La Legazione delle Due Sicilie presso la S. Sede erasi mostrata noncurante verso un Regio suddito, che implorava giustizia.

Fu allora, che il Marchese Ulloa degnavasi di rilasciarmi il Certificato che si legge al N. 1 del Sommario, che in sostanza non era che il corollario di tutt'i Brevetti che possedevo, e che io non avrei giammai esibiti in difesa, né pubblicati, se non si fosse attaccata la mia condotta politica.

Che disse infine il Marchese Ulloa col suo Certificato? Che mio padre era stato un Ufficiale superiore del Ministero, e non un basso agente di Polizia, come asserirono nel processo il Giuda Montanini, l'ipocrita Murena ed il fatuo Giulio Ricciardi, Conte dei Camaldoli, i quali per denigrare la mia condizione oltraggiarono financo la memoria dell'autore de' miei giorni! Che io stesso percorsi la medesima carriera del padre mio, e non era stato un usciere con ducati tre al mese, nominato da Re Francesco II! - Che in compenso de' servigi da me resi al caduto Sovrano fui nominato Ufficiale di Carico, e fui insignite della Croce di Cavaliere di Francesco I- E che in ultimo durante la mia permanenza in Roma non ebbi alcun sussidio, e prosegui a render servigi alla Causa Legittima gratuitamente! Ed eran forse false tali dichiarazioni del Marchese Ulloa?

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Il signor Duca di Civitella, certamente non l'ultimo tra l'Aristocrazia che fa corona intorno all'ESULE RE, come quegli che sapeva la mia condotta politica e morale pel tratto che mi avea tenuto in esperimento; e l'illustrissimo Monsignor De Cesare, pregevole Ecclesiastico, al quale è affidata la Causa della Santa Regina Maria Cristina, conoscendomi dal non breve tempo di 15 anni, mi munirono di loro Certificati che leggonsi ai Num. 9 del Sommario.

Or i miei nemici per aizzare contro i tre descritti individui, e non confessarei propri errori, anzi iniquità, tentarono di spargere, che a que' Certificati io dovessi il riportato trionfo.

Come ho già esposto, desiderai que' Certificati, unicamente per ismentire l'infame calunnia, che i miei nemici m'impingevano, e colla quale oltraggiavano Napoletana tutta, asserendo che presso di essa correva sinistra fama sul mio conto; mentre pur vi era fra essa chi non era da confondersi co' Murena e compagni, tutta gente che rinnegherebbe Dio.

Io serberò nel mio cuore indelebile gratitudine verso coloro, che ebbero la gentilezza e la coscienza di munirmi di tali Certificati, ma non posso fare ammeno di dire, che il mio trionfo è dovuto alla condotta da me serbata ed ai documenti Ufficiali che ne facea no testimonianza.

Coi Certificati o senza, io non poteva soccombere, che per effetto dell'intrigo, dal quale non i Certificati mi salvarono, ma la Divina Provvidenza, che fece rimuovere Giudici prevenuti, e chiamò in loro luogo Magistrati retti da sentimenti di coscienza e di onoratezza.

Ma anche questa invenzione, come ogni altro intrigo, era diretta a denigrare il Marchese Ulloa. Ed infatti il Duca di Popoli e consorti sparsero ad arte che io dovea la vittoria riportata agl'intrighi del Marchese Ulloa - Quanto pudore!

Il Marchese Ulloa, sia per la trista condizione fattagli, sia per tutt'altra ragione, nulla fece in mio favore oltre della lettera diretta al Cardinale Antonelli; lettera che non ebbe alcun risultato. Anzi debbo dire, che mentre il signor Duca di Popoli spiegava la più grande attività servendosi anche del nome di alto personaggio, dandosi la importanza di uomo intimo del Re e portatore dei Suoi ordini, Mira non trovò vero ajuto in niuno de' suoi concittadini. Fino la libertà

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che gli permise di agire ed attivare la sua difesa, fu opera di un cortese ed illustre Monsignore Romano.

Insomma, non si è mai tralasciato mezzo per discreditare l'onorato Ministro.

Io potrei fare impallidire quei tristi, se comprendessi in queste pagine gl'intrighi, e le calunnie che instancabilmente da essi si ordirono, e pertinacemente si ordiscono tuttavia contro l'illustre uomo di Stato e suoi amici; ma ciò non toglie che un giorno il farò, e tra non molto.

La partenza da Roma di Bermudez de Castro, Ministro di Spagna presso Francesco II:- Il furto delle carte a Nicola Merenda; - Il Processo criminale intentato contro Mira; - La lettera del Duca di Casacalenda; - La partenza da Roma del Generale Girolamo Ulloa; - Il libello (i misteri di Roma) non ha guari sorpreso presso un Pietro Olivieri detto Duca di Acquaviva, scrittosi per cura del Duca di Popoli, contro il Marchese Ulloa ed il Governo Pontificio........ tal é il Programma di altro lavoro, che mi son proposto di dare alle stampe; dappoiché lutti questi fatti non sono che altrettanti intrighi orditisi dal Duca di Popoli e da altri suoi degni consorti contro il Marchese Ulloa.

La maschera è caduta: l'Opuscolo dell'Olivieri ha dato un'altra sconfitta al Duca di Popoli, che è rimasto umiliato; ma pronto a crear nuove calunnie contro l'innocenza.

Sono in mio potere documenti innanzi ai quali dovran prostrarsi il Duca di Popoli ed i suoi complici, i di cui nomi per ora taccio. Essi son ben rei per meritare dagli uomini la maggiore condanna; quella della pubblica indignazione!

Oggi piucchémai si ricorre alla stampa per diffamare l'onorato Ulloa; e si sanno i strumenti di cui servesi la setta sanfedista, per diffondere opuscoli, e lettere e corrispondenze sui giornali esteri dipingendo in foschi colori il vecchio Ministro per oscurarne la opinione, già resa colossale al cospetto del paese ed all'estero.

Il denaro (più che i CENTO SCUDI dati dal Duca di Popoli a Pietro Olivieri nei momento della sua partenza da Roma per otturargli la bocca!!!) si spende a larga mano per menare a termine l'infame lavoro diretto a perdere il Marchese Ulloa.

Ne giunge a proposito una Corrispondenza da Roma riportata dal Giornale il Conciliatore del 29 Dicembre 1865 della quale riproduco i seguenti brani.

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«Al Palazzo si vivrebbe vita perfettamente tranquilla, e quale Francesco li agogna di vivere a smentita delle tante calunnie, che la rivoluzione ha fabbricate contro di lui; se in qualcuno napolitana non si agitasse quel funesto demone della più stolta discordia.

Vi giuro, che muove a sdegno il vedere come pochi personaggi dell'alta con queste ire non si accorgono del danno morale, che apportano al giovane ed esule Sovrano, intorno al quale essi dovrebbero invece spandere la pace ed il rispetto.

A Roma, mio caro, e voi ne siete una vittima predestinata, esistono alcuni, che si credono di essere tornati al 1851, e non arrivano a persuadersi, che sono morti e sepolti da gran tempo: e che se anche nei fati d'Italia Dio avesse scritto un avvenire dal presente diverso, essi non risorgerebbero dalle loro tombe, spettri e vampiri di coteste contrade, ove affronterebbero indarno l'odio implacabile d'un popolo, che se è malcontento dello sgoverno presente della Consorteria, sente guizzarsi i nervi al solo nome di quella Canterina che oggi ha perduta la fiducia Sovrana.

Tra Francesco II e costoro v'é un abisso: v'é un progresso che l'Europa saluta sino tra i Cosacchi e tra i Croati: e costoro sognano, delirano, si pronunziano, cospirano, agiscono contro quelli, che ricordano al Palazzo questo progresso, e lo richiamano ad un passato pur troppo pieno di dolorose memorie, circondate dal tradimento come dalla stoltezza, dalla provocazione come dall'orgoglio, dall'ignoranza come dalla presunzione.

Voi narraste una volta, che il Marchese Ulloa avea presentate le sue demissioni per rispondere così alle provocazioni di questi uomini letali, che han giurato di perderlo.

Ebbene, quelle dimissioni furono ritirate dietro una onorevole riparazione datagli.

Ma questa riparazione appunto è diventata un umiliazione a vendicare; e contro di Ulloa, i cui principi costituzionali sono all'altezza della più disinteressata fedeltà verso il caduto Sovrano, che in questo vecchio e saggio uomo ha tenuto un leale consigliere... - contro di Ulloa si spiega una guerra costante.

Il piano è fatto e già in via di esecuzione - Un ex ministro

è la testa dirigente; e costui, che quando era Ministro era coi suoi colleghi in Camerilla

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lo spietato nemico della stampa, oggi ricorre alla stampa e la fa strumento di diffamazione contro Ulloa.

Laonde sorgono opuscoli, e lettere e corrispondenze ed insinuazioni su giornali esteri per dipingere Ulloa con i più tetri colori, e fabbricargli una pubblica opinione nemica nel paese ed all'estero. Il danaro in questo si spende a larga mano, imperocché la viltà deve comprarsi a prezzo d'oro.

Avverrebbe di certo, che Ulloa, stretto da nemici, i quali in Roma non hanno nulla a temere, si dimetterebbe diffinittivamente.

Ed allora? - Allora Ulloa sarebbe costretto a difendersi dagli assalitori, i quali non si avvedono, che oggi, credendo di battere la sella, flagellano il cavallo!

E sarebbe meno il male morale, che deverrebbe dal ritiro e dalla difesa di Ulloa, quanto il porre l'esule Sovrano nella necessità di affidarsi ad uomini nuovi.

Ma è a sperare, che Francesco II, nel suo onorato esilio, riverito da tutta Europa, fidente nei Decreti della Provvidenza, vorrà ricordarsi di uomini e di sistemi che gli furono fatali.

Voglia egli nella scuola terribile del passato trovare larga fonte di scienza e di esperienza: allontanare da sé, come ha fatto sinora, pochi uomini, esosi per le popolazioni delle Provincia meridionali, come per la Diplomazia».

Iddio illumini Francesco II, e non faccia avverare le previsioni del Corrispondente del Conciliatore!!!....................L'infame schiera dei sanfedisti è giunta pure all'audacia di spargere per Roma, che il signor Duca di Civitella e l'illustrissimo Monsignor De Cesare, abusando del Nome di Re Francesco aveano sollecitato i Giudici in mio favore; e ciò per infamare sì distinte ed onorevoli persone, e mostrare la mia vittoria essere conseguenza d'intrigo, ordito da essi e dal Marchese Ulloa; vili! Misuran tutti col loro iniquo procedere, ed attribuiscono a gente onorevole ciò che essi hanno invero praticato.

E mentre questa canaglia affatigavasi a calunniare gli onesti in Roma, l'antica birraglia di Napoli gli facea eco calunniando me.

Dessa in pria pronosticava arresti, perquisizioni ed altre infamie per opera mia; indi abbandonava! ad una malcalcolata critica sul mio ritorno.

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E chi abbindolato dalla sfrenata stampa rivoluzionaria ripeteva, aver io involato le carte al Re, e consegnatele al Governo Italiano; chi, sorretto dallo spirito di parte, scagliava tutto il suo livore contro di me dicendo: aver io tradita la Causa Legittima, e che mi ero venduto al Governo Italiano; chi infine non ammettendo ragioni, condannava il mio ritorno!

Nissuno fuvvi che avesse pur avuto il buon senso morale da dire «chi sa quali ragioni lo ànno spinto fuori di Roma, dopo tanti servizi resi e tanti sacrifici fatti!»

Ma........... Dolce è veder dal lido.........!!!

Il disprezzo ed il dignitoso silenzio sono la più conveniente risposta che l'uomo onesto deve ai suoi calunniatori; ma in tempi di grandi rivolture politiche non è sempre un sistema che giova. Il tacere diventa o s'interpreta per tacita confessione del proprio torto.

E comunque i fatti abbiano dato una solenne smentita ai falsi concetti di quest'antica birraglia, pure non saprei contenermi dal dire, che dessa è invasa dalla stessa febbre dei sanfedisti di Roma, quella di calunniare.

Questa classe maledetta di uomini che dimentichi del loro passato, e che forse aspirano di ritornare anche essi al già abbattuto potere della camorra, osaron dirmi traditore!

Se volessi, potrei fare un volume delle empietà di cotesti cammorristi in maschera di pubblici Funzionari, da far fremere d'orrore l'Europa.

Cotesti uomini non comprendono, che il loro pessimo esercizio della Carica affidatagli fu l'origine della caduta del Trono!

Il Governo di Vittorio Emanuele ha commesso un grande errore per non averli conservati ne' loro posti; non comprese che dessi a quest'ora sarebbero tutti unitarii!

Eppure molti fra loro servirono l'attuale Governo fino al 10 Aprile 1861; e se non fossero stati allontanati da Spaventa, servirebbero ancora!

Io servi del pari, locché mi fruttò tante sventure. E mentre essi fruiscono, quasi tutti, di una pensione del Governo di Vittorio Emanuele, io son qui privo del mio impiego e di tutto, financo di una pensione che godeva, frutto degli onorati sudori di mio padre.

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E questi uomini osaron chiamarmi traditore! Dessi, che non seppero fare altro durante il tempo del loro esercizio, che transigere per moneta reati di ogni sorta. E non era forse un contratto che faceano coi rei, coll'obbligo inerente di abilitarli nei misfatti. Non era questo un tradimento?

Non è superfluo il riandare per poco il loro passato ed il mio. E dirò senza reticenze che, quando nell'epoca loro malaugurata si lasciavan da essi organizzare certi Comitati, dai quali ne riscuotevano dai grossi stipendi, mentre eran pagati da quel Governo, cui aveano giurato fedeltà, io era al mio posto gravato di un Carico fatigoso per quanto importante e delicato, ed in pari tempo attrassato nella Carriera.

Quando tra essi fuvvi chi scese a patto co' detenuti politici, e a prezzo d'oro spesso li faceva financo sortire, in ogni giorno, dalle prigioni, io era al mio posto possessore e custode dei più alti e gelosi segreti dello Stato; mentre se avessi voluto cedere alle offerte lusinghiere, che più volte mi furono fatte, a quest'ora la mia condizione finanziaria sarebbe tutt'altra, e sarei reputato uomo più onesto di quel che sento nella mia coscienza di essere, come tutto giorno avviene in persona di molti disonesti!

Nella loro classe molti erano i buoni, noi nego, ma tristi i più; immorali o ladri, i quali vivevano estorquendo danaro dalla pubblica industria; e dirò francamente, dalla prostituzione! La camorra in maschera di Polizia era da' stessi rappresentata.

Finalmente fa pure mestieri di notare, che quando questi galantuomini si andarono a rintanare per schivare il giusto furore popolare, che nel 1860 scagliavasi contro di essi, io attraversavo colla fronte alta le vie di Napoli, ed era al mio posto rispettato da tutti, e combatteva in favore di quel Sovrano che era stato detronizzato per le loro iniquità.

Il loro degno Duce, Pasquale Governa, disse a Murena aver io servito con zelo il Governo Italiano e contemporaneamente, per qualche lieve servizio reso al partito Legittimista ne riscossi in premio dell'oro!!!

Risponderò a Pasquale Governa, che il mio zelo in servire il nuovo Governo fu spinto dalle premure che aveva di essere utile al caduto Sovrano. Non così per lui, che vinto dalla paura cedeva alle esigenze di pochi plebei, e vestito da Prefetto di Polizia, la sera del 7 giugno 1859 gridava - Viva Vittorio Emanuele!!!! -

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Mira è il traditore! Mira non curò mai la sua vita nel difendere una Vittima del più iniquo tradimento! Traditore, lo ripeto, è colui che per reo timore abbandona una Causa che dovrebbe considerare come sua propria, e difenderla con ogni sforzo e sacrifizio! Ciò che non si fece dal Commendatore, Prefetto di Polizia Pasquale Governa!! E chi tradisce per timore, ritengo, possa tradire anche per vile interesse! -Gli ambiziosi, purché sono mantenuti al potere, giurano e spergiurano come meglio loro accomoda!

Son questi i fatti che ho creduto mio dovere di dare alle stampe (nonostante le pratiche fatte dal Duca di Popoli per impedirmelo; nonostante che anche qui in Napoli non è mancato chi servendosi del Nome Augusto di Francesco II avesse cercato di abortire questa pubblicazione (1)), per smascherare alcuni uomini, che furono e saranno il tarlo di questo povero paese, al cui cospetto non saranno mai abbastanza tradotti, per la più necessaria delle sociali condanne. Dessi son quelli che torturarono questi popoli, il di cui eco ha trovato ascolto nello stesso Re Francesco II, che lo ha dichiarato al cospetto dell'Europa, e lo ha confessato nelle Sue Note Diplomatiche. Sì, questi stessi uomini son quelli che ridussero provincia la Capitale del Regno, confinando Ferdinando II perennemente a Gaeta! Son quelli che coll'abuso e colla prepotenza da essi esercitata, diedero una potente arma nelle mani dei rivoluzionarl, per attribuire ad un Re clemente il Governo tiranno; son quelli che ebbero per fidi consorti i traditori del 1860! son quelli infine che tracciarono il presente!!

Dopo tutto ciò, io vivo vita ritirata; sempre fermo nelle mie convinzioni politiche, son contento della mia povertà avendo declinato qualunque offerta d'impiego, e di ben altra lusinghiera posizione. Solo deploro l'ingiustizia degli uomini, e la follia di abbandonarsi a vicende politiche.

Mi lusingo di aver fatto del bene; lascio agl'ingrati il rimorso e la punizione che Dio dovrà mandare sul loro capo; dappoiché essi ad una vita intemerata di onore, di disinteresse, di coraggio, di onestà.....................: opposero la scelleraggine dell'obblio, della ingratitudine e della calunnia.

(1)

Occorrendo nominerò coloro che hanno agito all'uopo.

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Cosi dopo la esposizione di tali fatti, protesto, che a qualunque attacco o provocazione dei miei nemici, risponderò con la noncuranza e col disprezzo; ammenoché, ripeto, non si cercasse di far sorgere dubbi su quanto ho esposto. Sarebbe allora spingermi a rivelare maggiori particolari, che ora ho omessi per calcolo.

Mi auguro quindi che i pertìdi, ed i calunniatori taceranno, e mi lasceranno tranquillamente nella mia pace trarre una vita che è invecchiata sull'Aprile degli anni, tra le torture all'onestà, e le spine del più funesto disinganno.

[Il testo tratto da L'Indipendente è stato inserito dal webmaster di eleaml.org - non fa parte ovviamente del libro di Luigi Mira]

L'INDIPENDENTE REDATTORE CAPO ALESSANDRO DUMAS

Sabato 1 Aprile 1865 - pag. 3

CRONACA E FATTI DIVERSI

Noi non abbiamo voluto farci l'eco, né cantare osanna sul modo con cui la polizia si trova in possesso di certi documenti del palazzo Farnese. Il furto è sempre un furto, o l'abuso della confidenza, se si vuole una parola più mite: se è fatto a vostro vantaggio oggi, domani potrà aver luogo a vostro detrimento: è una via funesta dalla quale dovrebbero tenersi lontani i funzionari d'un governo forte del suo dritto e che deve sprezzare tutti gl'intrighi che si tramano in nome di Francesco II.

Il Conciliatore , - di cui siam lontani dal dividere i principi politici,- fa, a questo proposito, le riflessioni seguenti:

«Luigi Mira è il famoso alto personaggio, diletto al palazzo Farnese, che era fuggito da Roma involando importanti documenti dal l'archivio particolare di Francesco II, che perciò stava per diventare un Tiberio, un Caligola, un galantuomo qualunque di siffatta risma, come è piaciuto dire ai consortieri.

«Il signor era un miserabile impiegatuccio a ducati dieci al mese nella polizia del passato governo, promosso a ducati quarantacinque al mese sotto il nuovo governo. Sospetto di poca fedeltà nel suo geloso officio, gli fu minacciata una processura, ed egli si salvò con la fuga a Roma, dopo aver sottratto dall'archivio di polizia le carte che compromettevano gli uomini del passato governo; carte ch'egli ebbe la prudenza di nascondere in Napoli.

«Giunto in Roma, percepiva l'elemosina giornaliera di quattro paoli dal palazzo Farnese, la cui soglia non gli fu mai concesso di varcare; ma caduto anche là in sospetto por la sua poco lodevole condotta, gli fu tolta l'elemosina. Lo che avvenne or son tre mesi, sin da quando egli ritornò in Napoli, tenendosi nascosto.

«Ora il sig. Mira ha consegnato all'autorità quelle carte da lui involate, come prezzo della sua sicurezza.

«Senza valutare la moralità di questo mercato, giova constatare che le minchionerie pubblicate dai consortili intorno a tale incidente stanno in armonia della verità nella stessa proporzione che sta tra la lealtà e l'onestà ed i consortieri.

«E' sempre l'antico sistema !!!









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