1.Definito da un lato dai suoi rapporti con il mondo della politica, dall'altro da quello con i mezzi di comunicazione di massa, l' `uso pubblico della storia' è una delle più significative coordinate al cui interno opera lo storico della contemporaneità. Anzi, i media si sono così profondamente insinuati nella comunità scientifica da costituirne le infrastrutture di base, sostituendosi in questo ai circuiti accademici e istituzionali; i luoghi di riflessione e di discussione collettiva interni alla professione (le riviste, in particolare, da sempre lo strumento adottato per lo scambio di informazioni tra storici sulle rispettive ricerche) si sono paurosamente rarefatti, condannando lo storico che desidera comunicare con i colleghi a utilizzare mezzi `esterni' come i quotidiani, la televisione, le reti telematiche.
È cambiato anche lo strumento/libro. Il successo di massa che
consacra su questo piano le opere storiche scritte da grandi studiosi,
il modo in cui in quegli spazi si costruiscono le reputazioni dei vari
autori dimostrano come oggi l'attività dello storico si
prolunghi ben oltre il confine rappresentato dalla stesura del racconto
finale della sua ricerca per confluire nelle grandi reti della
distribuzione editoriale e del mercato librario.
Diventa quindi pienamente condivisibile il rifiuto di Nicola Gallerano
a un'opposizione netta, e non mediabile, tra le pratiche professionali
della storia e il campo vastissimo del suo `uso pubblico'. Gallerano
aveva in mente essenzialmente la distinzione avanzata da Habermas che
contrapponeva agli obbiettivi etico-politici («costruire il
consenso attorno a alcuni valori decisivi per la convivenza
civile») dell'uso pubblico della storia, l' attività
scientifica, in cui lo storico «usa la terza persona, prende le
distanze dall'oggetto indagato e controlla i propri pregiudizi».
Più che ritrarsi scandalizzati dall'uso pubblico della storia,
occorre in realtà considerarlo l'ambito complessivo in cui si
svolge oggi il mestiere dello storico, definendone di volta in volta le
caratteristiche che assume nelle varie fasi. In questo senso, nei suoi
lineamenti attuali esso è riconducibile al decisivo punto di
svolta degli anni venti e trenta del Novecento, quando cominciò
a diventare diffuso e incisivo l'uso dei mezzi di comunicazione di
massa.
Si delineò allora una gigantesca arena (in cui si combatteva per
il presente nel nome del passato) nella quale confluirono i mezzi di
comunicazione di massa (giornalismo, radio, tv, cinema, teatro,
fotografia, pubblicità), le arti, la letteratura; luoghi come la
scuola, i musei storici, i monumenti, gli spazi urbani; istituzioni
formalizzate (associazioni culturali, partiti, gruppi religiosi, etnici
e culturali); le aziende e altri soggetti economico-finanziari, tutti
pronti a fornire una lettura della storia a partire dalla memoria del
gruppo rispettivo.
2.Essere scaraventato in quella grande arena ha significato molto per
lo storico: ha influito sui metodi del suo lavoro, sul modo di
avvicinarsi alle fonti, sui modelli da utilizzare nella trasmissione
del suo sapere. Ha comportato anche, è bene esserne consapevoli,
una complessiva democratizzazione della conoscenza storica. Oggi, nell'
arena dell'uso pubblico della storia può affiorare sempre un
frammento di mercato che richiede una diversa codificazione
dell'interpretazione storica, una minoranza etnica, un'appartenenza
sessuale, un segmento sociale i cui bisogni di storia andranno
soddisfatti con riferimenti specifici e irripetibili per altri
interlocutori.
Su questo versante si delinea la possibilità che, con
l'irruzione dei media, il dibattito sulla storia possa essere
scardinato dagli arcana imperii per occupare la ribalta sotto i
riflettori che illuminano ormai una molteplicità di luoghi di
elaborazione e costituzione della memoria storica e della
identità collettiva.
Pure, c'é un aspetto specifico (riferito proprio alla
congiuntura che stiamo vivendo) che rende il terreno dell'uso pubblico
della storia particolarmente funzionale allo sviluppo delle tesi
revisioniste. È questa, a mio avviso, l'ottica in cui occorre
guardare all'accoppiata revisionismo/progetti politici, e, in Italia, a
quella tra revisionismo e passaggio alla Seconda Repubblica.
Non si tratta di una sorta di `prostituzione' della storia ma di una
specifica forma di storiografia, un `discorso' che si affianca agli
altri con una capacità di penetrazione e di diffusione
inversamente proporzionale allo spessore delle ricerche storiche che lo
alimentano. Quanto è scritto negli articoli sul «Corriere
della Sera» non differisce qualitativamente da quanto gli stessi
autori scrivono nei propri saggi e nei propri libri. Perciò non
ha senso considerare le loro tesi come materiale d'accatto, prive dei
requisiti indispensabili a qualificarle come ipotesi storiografiche
compiute.
Non c'é nessuna `separatezza' tra il Galli della Loggia
articolista del «Corriere della Sera» e l'autore de La
morte della patria, membro autorevole del mondo accademico; tra
le
pagine del quotidiano e la comunità scientifica c'è un
continuo rispecchiamento e le stesse argomentazioni rimbalzano senza
soluzione di continuità dall'uno all'altra, travolgendo gli
steccati che invano Habermas si è sforzato di costruire.
Piuttosto, a marcare le caratteristiche specifiche del revisionismo
è il fatto che quel tipo di `discorso' storiografico ricerca una
propria legittimità soprattutto con la sua straordinaria
efficacia nel costruire il senso comune, nell'alimentarlo, nel
modellarlo. In questo senso il revisionismo è più
significativo per la sua capacità di funzionare –
attraverso i giornali – come `agente di storia', nel presente,
che per il contributo che porta all'incremento della conoscenza storica
del passato che racconta.
Era il progetto intellettuale dell'ultimo De Felice, il senso compiuto
del suo appello a farsi `storici della gente', a identificare i propri
nemici in un ceto intellettuale che, scriveva De Felice, «ha
coniugato l'autocommiserazione con la denigrazione di un popolo che non
conosce o al quale attribuisce i tratti più adatti a marcare la
propria differenza». I `revisionisti' tendono oggi a parlare in
nome di questo `popolo', assecondandone umori, comportamenti, pulsioni.
È un intento che affiora nei loro stessi percorsi metodologici
segnati dall'eliminazione di ogni filtro teorico, dall'assunzione
acritica dell'autorappresentazione intenzionale che segna le
testimonianze su cui lavorano, da una storia che spesso è
scritta `a livello delle fonti', come pura parafrasi dei documenti. Non
più quindi lo storico che si identifica in una `scuola', in un
partito, ma lo storico che - attraverso i giornali - si rivolge
direttamente `alla gente', senza mediazioni, in un rapporto diretto che
scavalca tutte le articolazioni e le complessità di un progetto
intellettuale.
Ed è oggi con questo storico della gente che si è
chiamati a competere nell'arena dell'uso pubblico della storia, lungo
una strada in cui si può riaffermare la propria diversità
– se non la propria superiorità intellettuale –
soltanto con il ritorno alle fonti, con l'accentuazione del ruolo
strategico delle `prove' utilizzate nel proprio discorso e ribadendo il
nocciolo razionale della narrazione storica. Anche questa è una
partita di grande impegno civile.
Come ha ricordato Kula, «Emanuel Ringelblum, nel ghetto di
Varsavia, non scrisse la storia del ghetto, ma ne conservò le
informazioni e i materiali più diversi (le ordinanze delle
autorità naziste, le lettere, le tessere alimentari, le fasce
con le stelle di David), e li seppellì in contenitori metallici
per il latte». È questo il versante lungo il quale `il
passato non deve passare'; non più la pulsione totalitaria dello
stalinismo o del fascismo ma una riscrittura del passato che disdegna
le `prove' è diventato oggi il nemico civile contro cui
combattere .
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