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8. Identità e Guerra
8.1. Parlare di identità oggi è per molti versi scontato
e quasi banale. Ma è anche ripercorrere drammi infiniti che non
sembrano arrestarsi mai. Bisognerebbe allora addentrarci sulla buona
identità e sulla cattiva identità. Appare più
facile, forse, parlare della cattiva identità visti i risultati:
dalla ex-Jugoslavia, all’Europa caucasica, all’Asia,
all’Africa, dove le etnie, il tribalismo, le patrie confliggono
in nome, per l’appunto, di una esasperata esaltazione della
propria specificità.
8.2. Ma per noi, per noi almeno, uomini e donne dell’Europa
centrale, per noi che viviamo in piena coscienza l’urto della
globalizzazione e del forte richiamo ad una presunta universalizzazione
dei valori (e quindi ad una omologazione identitaria fondata su un
meticciato culturale ritenuto inevitabile), non possiamo fare a meno di
ribadire che senza una forte affermazione della propria
identità, come fenomeno dialogico e perciò espansivo e
comprensivo ad un tempo, non è praticabile un progetto comune
tra le genti europee.
Noi siamo contro il cattivo meticciato culturale e la
universalizzazione, presunta, dei valori: qui siamo sul piano
dell’ideologismo e dell’evasione. Amare la propria terra e
le proprie radici, ancorarsi alle proprie tradizioni, all’amore
per la propria gente, non è solo un antidoto alla pressante
invasione omologatrice dei media, ma una riscoperta autentica dei
valori dell’uomo, solo semplicemente questo.
8.3. Ritorniamo alla domanda postaci in precedenza a conforto di una
memoria vera, autentica. Cosa sentivano e cosa pensavano gli uomini in
guerra sui nostri monti?
Laceri, stanchi, presi un poco anche dall’amor patrio
desideravano ritornare rapidamente alla loro terra natia, alla loro
matria, alla loro Heimat. Lì avevano le loro mogli, le
loro fidanzate, i loro figli, i loro amici; lì conciliavano il
loro bisogno di vivere in armonia con l’ambiente
d’origine. La terra natia, la matria viene prima della patria .
La madre precede il padre e dà al figlio la sua impronta, la sua
protezione. Nella terra natia si vive con naturalezza la propria vita
comunitaria e ci si sente cittadini davvero: perché si conosce e
si è conosciuti, perché si sa che si può aiutare
l’altro e si viene aiutati. La patria viene dopo. E battersi e
addirittura morire per la patria non è cosa naturale davvero.
La propaganda di guerra, ben sappiamo, dipinge il nemico in termini
diabolici al fine di suscitare in chi combatte sentimenti di
ostilità, e di odio. Molte volte anche la causa giusta, la
“guerra giusta”, viene sacrificata sull’altare del
pregiudizio etnico. Nella terra natia prevale la morale , cioè
la volontà liberamente espressa di vivere e collaborare con gli
altri; nella patria prevale sovente l’etica, cioè un
comportamento determinato da norme astratte ed eteronome.
Chi combatteva, trovava nel desiderio talora irrefrenabile di
“ritornare a casa”, la vera motivazione per
“restare ancora al fronte”. E chi mai potrebbe dire il
contrario?
Pensiamo a quanto espresso da E. Reitz nel ciclo filmico Heimat e la
figura di Paul Simon, protagonista della parte iniziale del racconto di
Reitz, quando il nostro giovane soldato tedesco rientra nel suo
villaggio dopo quattro anni di guerra e “gode in silenzio”
dei genitori, dei parenti e degli amici. Pensiamo a S. Kubrick ed al
drammatico episodio raccontato in Orizzonti di gloria , quando il
giovane soldato francese destinato - ingiustamente - al plotone di
esecuzione parla con uno scarafaggio e dice: «Pensa… hai
maggiori probabilità di me di vedere mia madre!». Insomma
la memoria della guerra non può prescindere, mi ripeto, dal vero
volto, dai veri sentimenti di chi ha vissuto il dramma. Il resto sa,
talora, di evasione e di giustificazionismo storico.
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