Per carità, non parliamo più di revisionismo. Anzi, mettiamolo da parte questo termine, tanto è stata usato negli ultimi due secoli, in contesti diversi, dalla diatriba religiosa alla contesa diplomatica, dalla discussione politica, soprattutto in ambito marxista, al confronto storiografico, fino alla nausea nell’ ultimo decennio.
E allora perché occuparsi del convegno organizzato dall’
Associazione Historia Magistra con la Fondazione Istituto piemontese
Antonio Gramsci che si apre oggi a Torino e che per tre giorni, fino a
sabato mattina, vedrà impegnati nella sede della Fondazione
Agnelli tre generazioni di studiosi proprio sul tema «Revisioni e
revisionismi nella storia d’ Italia»?
La risposta ce la dà subito l’ ideatore dell’ incontro, Angelo
d’ Orsi, docente a Torino e noto al vasto pubblico per aver pubblicato
tre anni fa il saggio «La cultura a Torino tra le due
guerre» che animò per settimane la discussione sulle
pagine culturali.
«In realtà questo convegno - anticipa d’ Orsi - segna la
fine di una stagione ma è anche l’ occasione in cui tre
generazioni di storici, di orientamento diverso, potranno raccontare se
stessi». Raccontare se stessi. Angelo d’ Orsi sicuramente lo
farà in modo appassionato e sincero questa mattina, togliendosi,
come si dice, anche qualche sassolino dalle scarpe.
D’ Orsi, che si considera uomo di sinistra, fece tanto discutere nel
2000 perché nel suo saggio, «sulla base di documenti nuovi
e inoppugnabili», ridimensionava il contributo antifascista di
molti intellettuali torinesi: molto spesso lo studioso si era trovato
di fronte a comportamenti «afascisti» o a un fascismo
esteriore praticato opportunisticamente per motivi di carriera.
Tanto era bastato per una vera e propria scomunica: il suo maestro
Norberto Bobbio lo aveva chiamato al telefono accusandolo addirittura
di aver «infangato l’ antifascismo e la Resistenza . E dopo la
scomunica l’ ostracismo: pur essendo un esperto di Gobetti, d’ Orsi non
è stato invitato nel 2001 a nessuno dei convegni per il
centenario del fondatore della «Rivoluzione liberale».
Lo storico ha scontato un peccato di «revisionismo»? Nient’
affatto, afferma oggi d’ Orsi, «mi sono soltanto limitato a
seguire le regole della ricerca storica, che non risponde mai alla
domanda: “A chi giova?”, ma obbedisce, come diceva Croce, all’
imperativo di ricercare, testimoniare, ricostruire la
verità».
Un aggiornamento continuo, che si riassume nel titolo della relazione
di d’ Orsi, «apologia della revisione». Revisione, dunque,
in contrapposizione a revisionismo. Di questo dualismo discuteranno
storici del Risorgimento come Franco Della Peruta e Paolo Macry,
esperti dell’ Italia liberale come Francesco Traniello e Brunello
Vigezzi, studiosi del fascismo come Roberto Vivarelli, Nicola
Tranfaglia e Mimmo Franzinelli, studiosi della Resistenza, di
Salò e dell’ 8 settembre come Claudio Pavone, Luigi Ganapini ed
Elena Aga Rossi.
La tre giorni sarà chiusa da una tavola rotonda presieduta da
Giuseppe Galasso con Enzo Collotti, Ernesto Galli della Loggia, Adrian
Lyttelton, Giovanni Sabbatucci e Massimo Salvadori. Prima della
discussione Bruno Bongiovanni leggerà una relazione sulla storia
del termine revisionismo che andrebbe distribuita nelle facoltà
di storia e nelle redazioni dei giornali.
Il termine, ormai tanto usurato, nacque in Gran Bretagna nel 1860 per
indicare «l’ abitudine di quanti, in ambito anglicano e
protestante, denunciavano l’ eccessivo ritualismo liturgico
ufficiale». Saltiamo per brevità gli infiniti passaggi
dell’ aggettivo revisionista, che ai tempi del processo Dreyfus divenne
quasi sinonimo di intellettuale impegnato a difendere la causa dell’
ufficiale ingiustamente accusato di tradimento e che nella lunga
stagione dell’ ortodossia marxista leninista, venne usato come un
insulto.
Arriviamo ai nostri giorni per dire che mai uno storico del valore di
De Felice si definì revisionista. Revisionisti, in un’ accezione
lugubramente positiva, si sono autoproclamati i negazionisti dell’
Olocausto.
E revisionista è diventata, in Italia, una parola di moda negli
anni Novanta soprattutto tra certi circoli di destra alla ricerca di
nuova legittimazione culturale. Revisionisti si sono autodefiniti anche
intellettuali di valore come Ernst Nolte e Sergio Romano.
Certo, sui giornali la parola è stata usata sempre più a
sproposito e in maniera confusa, tanto che alcuni studiosi come Claudio
Pavone, Giovanni Sabbatucci, Franco Cardini, Paolo Mieli e Francesco
Perfetti hanno suggerito che ormai era il caso di abbandonare un
termine tanto usurato.
La proposta verrà ripresa durante il convegno torinese?
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